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domenica 26 luglio 2020

Shadows Fall - Fallout From the War

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash/Metalcore, As I Lay Dying
Definiti in passato come uno dei gruppi più promettenti della scena thrash americana, pur non proponendo nulla di originale, gli Shadows Fall da sempre riescono a confezionare album meritevoli di attenzione. Quello di oggi è in realtà una compilation del 2006, ricca di contenuti interessanti (B-sides, rarità e cover), in grado di generare nei fan un headbanging frenetico. La nomination ai Grammy del 2005, l’apparizione all’Ozz Fest e ad altri numerosi festival europei, ben 250.000 copie vendute di 'The War Within' solo in Nord America e l’aver scalato le charts americane (debutto nella US-Billboard addirittura al 20° posto), hanno poi consacrato gli Shadows Fall a band di grande caratura nel panorama metal, nonostante la giovane età, ma ai posteri l’ardua sentenza. 'Fallout From the War' è un lavoro aggressivo, capace di far del male all’ascoltatore, ricco di un’ampia varietà di stili che passano con estrema disinvoltura dal thrash anni ’80 al metalcore, sconfinando talvolta in territori hardcore, emo, death ed alternative. Non so se questo possa essere considerato l’album della svolta per il combo statunitense, però devo ammettere che non è niente male anche per chi come me, non ha mai amato l'ensemble USA. Le caratteristiche dei due precedenti lavori si ritrovano e fondono tutte insieme: il sound è come sempre carico di rabbia, con ritmiche aggressive, vocals pulite e altre incazzate, assoli piacevoli anche se non proprio eccelsi dal punto di vista tecnico-compositivo. Il platter comunque si dimostra di esser ricco di sfumature degne della vostra attenzione, questo è un album che merita sicuramente un vostro ascolto. Da segnalare infine, la strana decisione di inserire alcune cover di Only Living Witness, Leeway e Dangerous Toys in coda all’album, un paio delle quali si sono rivelate ahimé abbastanza debolucce. Comunque sia, ”Rock’n Roll or die”!!! (Francesco Scarci)

(Century Media - 2006)
Voto: 72

https://www.facebook.com/shadowsfall

lunedì 30 marzo 2020

Walls of Jericho - With Devils Amongst Us All

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Metalcore, The Black Dahlia Murder, Bleeding Trough
Sinceramente con un nome del genere mi aspettavo più una band di power o speed metal, però vedendo prima la casa discografica e mettendo poi il cd nel lettore, mi sono reso conto che fra le mani avevo l’ennesimo esempio di metalcore. Che scrivere di diverso allora per questa band di Detroit, che già non sia stato scritto per le altre centinaia o forse migliaia di band metalcore che popolano il music biz? Il quartetto statunitense ci spara sulle nostre facce il solito polpettone di furia hardcore unita ad attitudine punk per un concentrato esasperante di adrenalina pura. Undici irriverenti tracce, caratterizzate dal solito thrashy riff, esplodono nelle casse del vostro stereo, undici pugni nello stomaco in grado di mettervi presto ko. La release dei Walls of Jericho ormai datata 2006 è energia allo stato puro, che mi fa saltare come una gazzella, sbattere il muso come un topo intrappolato in gabbia, lanciarmi in un headbanging frenetico dall’inizio alla fine, per ritrovarmi madido di sudore alla fine dell’ascolto di questo 'With Devils Amongst Us All', un disco la cui non troppo piccola pecca è quella di risultare uguale ad altri mille dischi metalcore. Da segnalare infine che le vetrioliche vocals sono ad opera di una cantante donna, tale Candace Kucsulain che attacca il microfono con un'incredibile ferocia. Solo per gli amanti del genere. (Francesco Scarci)

(Roadrunners Records - 2006)
Voto: 62

https://www.facebook.com/WallsofJericho/

lunedì 28 ottobre 2019

Caliban/Heaven Shall Burn - The Split Program II

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Metalcore
Nel 2001 usciva 'The Split Program I', a mettere insieme due gruppi metal alle prime armi, Caliban e Heaven Shall Burn. Nel frattempo le due band hanno fatto uscire altri dischi, hanno suonato parecchio in giro e hanno maturato un buon successo nel panorama metal internazionale. Caliban e Heaven Shall Burn, per chi non li conoscesse, sono due valide entità del panorama death/metalcore tedesco, la cui fondazione risale alla fine degli anni ’90. La casa discografica, forte del successo del primo split, ha deciso di regalare ai loro fan un secondo split, che racchiude undici brani (sei per gli HSB e cinque per i Caliban). Che dire della proposta? Il cd parte con le tracce firmate Heaven Shall Burn, validissimi brani che proseguono là dove 'Antigone' si era fermato: techno death combinato con hardcore di scuola americana alla Hatebreed, riff devastanti lanciati su una possente base ritmica, amplificata da un’ottima produzione (effettuata presso i Rape of Harmonies Studios), un pizzico di melodia, retaggio degli insegnamenti di At The Gates e Dark Tranquillity, e il gioco è fatto. "Nyfaedd Von" è una ripresa dell’intro dell’album precedente, suonata però con violini e pianoforte; "Downfall Of Christ" e "Destroy Fascism", le ultime due songs, sono due cover rispettivamente dei Merauder e dei finlandesi Endstand. Passiamo ora ai Caliban: la band ci propone “The Revenge”, song che potrebbe tranquillamente stare sul loro cd 'The Opposite From Within', caratterizzata come sempre dal mosh cadenzato tipico dell’act tedesco, da velocità e melodia, e infine, dalle stridule vocals di Andy. I brani a seguire sono poi sostanzialmente riedizioni di vecchi brani, riveduti e modificati, ma niente di nuovo all’orizzonte. In conclusione direi buona la prima parte del cd, quello dedicato agli Heaven Shall Burn, con tanto materiale inedito e succoso, mentre scarsa è la performance dei Caliban. Ad ogni modo, lo split è consigliato agli amanti di queste due band e a chi vuole avvicinarsi, curioso di dare un ascolto alla proposta musicale dei nostri. (Francesco Scarci)

lunedì 30 settembre 2019

Winter Solstice - The Fall of Rome

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash, As I Lay Dying
Non ho mai capito la politica della Metal Blade, capace di mettere sotto contratto valide band, ma anche di prendere degli abbagli clamorosi e offrire la possibilità di sfornare album a gruppi mediocri, inflazionando da sempre un mercato musicale sempre più saturo. Polemiche a parte, veniamo ai nostri: i Winter Solstice sono un five piece americano formatosi nel 2000, influenzato da thrash e hardcore che, dopo la solita gavetta, ha dato alle stampe nel 2004 un EP intitolato 'The Pulse is Overrated', prima del gran salto appunto e l’approdo alla Metal Blade con l’uscita di questo 'The Fall of Rome', inteso come una grande metafora storica ad indicare il declino della società, cosi come lo fu per i nostri antenati romani. Potrei iniziare un lungo discorso a riguardo, ma è meglio passare alla musica e qui la nota dolente: l’ostinazione da parte delle case discografiche nello sfruttare un genere che ormai non ha più niente da dire, il death/thrash. Il quintetto americano, infatti, pesca un po’ alla cieca all’interno del calderone death metal mondiale: echi di Meshuggah, Carnal Forge, As I Lay Dying, The Haunted e via dicendo, sono udibili all’interno di questo lavoro. Lavoro che si trascina stancamente per la durata di 40 minuti, attraverso dieci pezzi tutti simili tra loro: le classiche ritmiche serrate, stop’n go, cambi di tempo, voci roche al limite della logorrea, qualche vocals pulita qua e là, insomma troppo poco per giudicare positivamente un prodotto noioso come questo. L’unico sussulto, che mi ha fatto ben sperare, è in occasione della quinta traccia, dove una chitarra acustica introduce le note della title track, ma ahimè si è trattato solamente di un episodio isolato. Special guest Tim Lambesis, vocalist proprio degli As I Lay Dying, che compare nella nona “To the Nines”. Per il resto, ahimè bocciati. (Francesco Scarci)

(Metal Blade Records - 2005)
Voto: 50

https://myspace.com/wintersolstice

martedì 17 settembre 2019

Isonomist - Pillars

#PER CHI AMA: Metalcore/Djent, Meshuggah
Degli Isonomist dal web ho cavato meno di un ragno dal buco, zero informazioni a parte il fatto che il quartetto dal Texas si etichetta come progressive band. Ecco, partirei già col dire che allargherei un po' le maglie di questo stretto vestito, visto che la traccia di apertura di 'Pillars' ci consegna piuttosto una band che viaggia nei binari del metalcore. Comunque a parte questa necessità di etichettare le cose, c'è da dire piuttosto che la band propone cinque song parecchio vertiginose per ciò che concerne tempi dispari, ritmiche sghembe, melodie poliritmiche, tutte caratteristiche che identificano il djent, o comunque suoni affini ai Meshuggah o ancora una certa vena deathcore tipicamente americana. "Loss", "By a Thread", "Beta" e via via dicendo anche le altre song, viaggiano sui binari alquanto imprevedibili di tale musica, e in cui la definizione che ritenevo alquanto stretta di progressive, si potrebbe applicare esclusivamente per una certa perizia tecnica che contraddistingue questi musicisti. Per il resto, è il classico sound a cavallo tra metalcore e deathcore, con linee di chitarra non proprio lineari, i famigerati quanto stra-abusati stop'n go, le vocals che si muovono tra pulito e growl, e poco altro da segnalare, se non una più complicata fase digestiva rispetto agli originali, in quanto qui la melodia non è proprio una delle caratteristiche della casa, visto che il sound rischia addirittura di incancrenirsi in territori più estremi, come accade nella quarta "Fading". Manca ancora una traccia a chiudere l'EP, "Confessional", e apparentemente, sembra essere anche il brano più accessibile, sebbene ascoltandolo potreste pensare che il mio sia un eufemismo. Comunque 'Pillars' è un lavoro che rimane raccomandato per soli amanti del genere, per gli altri suggerisco come sempre di volgere lo sguardo agli originali. (Francesco Scarci)

(Self - 2019)
Voto: 60

mercoledì 21 agosto 2019

When Love Finishes - Destruction Technique of an Established Order

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash/Metalcore, Soulfly, Hatebreed
Domanda: ma le band, le case discografiche o chi per loro, riascoltano ciò che hanno prodotto? Risposta: dall’ascolto di questo disco (unico della discografia della band ormai sciolta di Reggio Emilia) ho il sospetto che ciò non avvenga, perchè questo album non è stato registrato con i piedi, neppure con un aratro, forse con una zappa a giudicare dalla qualità scadente del sound. Mi auguro che si tratti ancora di una versione da remixare anche se ne dubito fortemente. E dire che la musica di questa band italiana non sarebbe neppure malaccio, con quel suo metalcore così ricco di sorprese: momenti di brutalità si alternano infatti ad attimi di insolita quiete, e poi samplers disturbanti quasi destabilizzanti, suoni tribali, piacevoli inserti melodici, vocals roche e killer solos completano il quadro di questo 'Destruction Technique of an Established Order'. I When Love Finishes si dimostrano creativi, con quel loro suonare fortemente influenzato da act quali Soulfly, Sepultura e Hatebreed e ancora Cataract e Unearth. Il problema di fondo rimane tuttavia l’indecente registrazione, i volumi po’ sballati delle vocals, il cui modo di cantare alla fine stanca. I punti di forza invece sono rappresentati dall’ispirazione di questi ragazzi capaci di tirar fuori in ogni momento una qualsiasi forma di improvvisazione: voci fuori posto, samplers industriali, ritmiche dissonanti, break imprevedibili ed una discreta preparazione tecnica. Peccato, perchè magari con un sound più pulito, questo lavoro avrebbe reso 10 volte di più. Interessante la nona traccia “Hasta Siempre Comandante “Che” Guevara” con la registrazione originale della voce del “Che”, il cantato spagnolo di Mirko Sacchetti ed un caldissimo break acustico. Io avrei tentato la strada del cantato in italiano. Solo se siete alla ricerca di qualcosa di anormale. (Francesco Scarci)

(Vacation House Recordings - 2005)
Voto: 62

https://myspace.com/whenlovefinishes

mercoledì 6 febbraio 2019

Down to the Heaven - [level-1]

#PER CHI AMA: Djent/Cyber/Deathcore, Meshuggah, Enter Shikari
Avete voglia di divertirvi, ascoltare qualcosa di moderno, carico di groove, con quel pizzico di ruffianeria che non guasta mai, senza dover rinunciare ad un bel po' di riff schiacciasassi? Beh, a prestarvi aiuto in tali richieste, ecco giungere dalla Polonia i Down to the Heaven, una band proveniente da Bielsko-Biała, che nel qui presente '[level-1]' fonde death metal, metalcore, arrangiamenti ben orchestrati, elettronica e djent, in un calderone di potenza e melodia davvero intrigante. Il tutto è testimoniato da "Catharsis" che segue a stretto giro quella che appare essere l'intro del disco, "Down to the...". Poi giù tante mazzate, con dei riffoni sparati a tutta velocità, ma con una componente melodica davvero vincente, che si muove tra influenze che chiamano in causa indistintamente Dark Tranquillity, Enter Shikari, Meshuggah, Coraxo, ...And Oceans e tanti altri, in un vibrante concentrato dinamitardo da sentire e risentire, meglio se sparato a tutto volume in automobile o comunque lasciato libero di fondervi le orecchie per il volume inaudito a cui dovrete sottoporlo. Stratosferico. Fenomenale, come la cavalcata furibonda che chiude "Unbroken", una song dal sapore esotico che da sola vale l'acquisto del cd. Per non parlare poi di quella cibernetica sensualità che contraddistingue le note iniziali di "No Vision", prima che l'arroganza elettrica prenda il sopravvento e ci delizi per quasi sei minuti di graffianti sonorità strumentali. Con "Kingdom of Delusion" fanno ritorno le vocals di Rusty in una song dai ritmi infuocati pur sempre carica di melodia, accostabile, molto più di altre tracce, ai Dark Tranquillity. Siamo quasi in chiusura, un peccato, a rapporto mancano però ancora "Tyrant's Fall", song debortante, che per quanto povera in fatto di originalità, ha comunque il merito di catalizzare l'attenzione per la pienezza delle sue ritmiche, le cyber trovate dei nostri che fanno da corredo ad una componente melodica sempre estremamente importante (qui si strizza l'occhiolino agli ultimi In Flames) e ad un finale sorprendentemente trascinante per intensità e profondità. "We Are" è una song dall'incipit rockettaro con un cantato che sembra quello del buon Chuck Billy, e un sound multiforme, psicolabile e che tocca vette brillantissime tra cyber metal, industrial e deathcore, a sancire l'eccelsa qualità dell'ennesima valida band proveniente dalla Polonia che ha davvero qualcosa da dire. (Francesco Scarci)

domenica 13 gennaio 2019

Oak Pantheon/Amiensus - Gathering II


#FOR FANS OF: Atmospheric Black/Prog/Folk/Metalcore/Post Metal
Short, sweet, and direct to the point of being curt, this fresh perforation of the heart is a worthwhile listen that shows each band involved eschewing much of the surplusage that held back the previous 'Gathering'. After half a decade and Oak Pantheon and Amiensus return for a follow-up to their first collaboration with a co-created song between an original apiece. Starting with a tune reminiscent of a cowboy clip-clopping into a town ready to gun down the gang controlling it, “A Demonstration” comes in with a combination as vividly Western as it is driven by the esoteric folkloric sound that has been driving European metal for years. Razor sharp guitars take this pace into a gallop down the deserted foresty path where Oak Pantheon is most accustomed, ensconced in the darkness of ancient growth and paying homage to the many bands before this new altar. This rambling pace makes pinches of strings and raps of snare slightly escape the flow of the song with a sort of earnest and humble folksy Celtic sound before tightening up into a tear and blast that quickly dissipates. The variety throughout this song flows majestically as the quick drastic hits fall back into the resonating reverence to conjure a series of solos that get knocked around by snare. Closing with the simple and impactful trickle of guitar notes, Oak Pantheon is a far cry from its early and more single-minded days in 'The Void' and 'From a Whisper' and now the band is showing a scope in a single song far wider than it once could explore in an album.

After Oak Pantheon's example of its increasingly inspiring course is the collaborative piece “Tanequil”, showing off a very melodic soundscape brutalized by aggressive drumming and rhythmic changes in a chorus of splendid scraping deviation, a flow that moves in a mixture of indie rock and grinds out the raging aspect of each band beautifully between dulcet verses dripping with emotion. As though tsunami waves overcome a seaside tower, these drastic deluges successfully compliment this more modern metalcore bounce and post-metal treble to create a sound that hints at the atmospheric blackened style of Oak Pantheon and the technical proclivities of Amiensus with a more streamlined flow able to gracefully combine these sounds without compromising their melancholy or fury respectively.

Amiensus' offering shows a stark change in the band's music from the first collaboration, as well as provides an astute cap to the experience. With a more emotional track, lilting in guitars and vocalization alike, as drumming continues to roar through technical tapestry alongside deathcore beatdowns, “Now Enters Dusk” shows off soloing guitars, a more straightforward blackened sound at the end joined by drawn out blasting, and a labyrinth of strings flowing in crisp harmony across the razor sharp atmosphere to round out the song. Providing compositional prowess without being too artsy for its own good as well as backing this sound with varied and moving production that captures the strengths shown throughout this track ensure that Amiensus has been on a steady path to improvement and presents it well throughout “Now Enters Dusk”. Years back, “Arise” did exactly as its title suggested, rising and rising in a relentless blinding elaboration with no payoff but pain with nerves seared by sunlight as more and more layers drive upward into the tones of tortured cats. Conversely, “Now Enters Dusk” inverts that explosion as it falls more gracefully, tumbling at times and bringing both the coldness and darkness to overcome the world as it becomes enchanted with the lengthening of shadows and waning of the sun.

Five years to the day after their first 'Gathering' Oak Pantheon and Amiensus have even tighter entwined their fates with a strong sequel, one where both bands show off some major strengths and especially show how they have come into their own over this past half decade. Where the last 'Gathering' seemed so disparate and Oak Pantheon came across looking the better, this release shows each band playing incredibly well and Amiensus coming out just a hair ahead of the other. Though this is no contest, both these bands are in the running for audience affections at any given time and their inspired collaboration in “Tanequil” shows the incredible accomplishments that can be made through this partnership as new ideas enhance the deliveries of both bands rather than highlight their differences as was too obvious five years ago. A tighter fit in the songwriting and production departments has also influenced each band's approach to 'Gathering II' making for such a cohesive combination that it seems as though written by a single band. (Five_Nails)
 
(Self - 2018)
Score: 85
 

martedì 8 gennaio 2019

As I Destruct - From Fear to Oblivion

#PER CHI AMA: Death/Metalcore, Dark Tranquillity, Hypocrisy
Debut album per gli australiani As I Destruct che dall'anno della loro fondazione, il 2014, ad oggi, non avevano ancora rilasciato materiale ufficiale. Dopo un singolo messo online nel 2017 su bandcamp, ecco finalmente il tanto agognato full length, 'From Fear to Oblivion'. Come inquadrare la proposta del quintetto di Adelaide? Come un death melodico sporcato da qualche influenza metalcore e groove metal, ma che pesca essenzialmente da un sound di matrice scandinava, penso a Hypocrisy e Dark Tranquillity in testa. Dopo il classico prologo, ecco esplodere "Shattered Hearts", la traccia che delinea fondamentalmente la proposta dell'ensemble, ed evidenzia tutti gli ingredienti tipici del genere ossia un ottimo impianto ritmico che a più riprese chiama in causa tutti i grandi gods svedesi, una buona dose di melodia mista ad un bell'apporto energizzante. Non mancano ovviamente il classico growling e un bel lavoro nel comparto solistico. Con "Black Tie Stigma", il sound si fa più cupo e minaccioso ed il rifferama ancor più serrato, con la batteria letteralmente impazzita (prova magistrale del drummer). Il disco prosegue su questa falsariga, lasciandosi alle spalle un pezzo dopo l'altro senza offrire ahimè troppo spazio alla fantasia. Qui risiede infatti la prima pecca di un album assai robusto ma fin troppo monolitico, che trova in "Question of Faith" una song più convincente delle altre, un mix tra Meshuggah e Hypocrisy, con la muscolosità dei primi a servizio della melodia dei secondi, per un risultato nientaffatto malvagio, seppur dall'esito già scontato. Ecco, la scontatezza, il secondo punto a sfavore dei nostri: ottimi musicisti sia chiaro, però mancano le idee, quelle che ti fanno strabuzzare gli occhi e dire "cazzo che bell'album!". 'From Fear to Oblivion' è un disco che alla fine vive di qualche sussulto: i vocalizzi vampireschi della guest star Mel Bulian (voce dei In the Burial) in "Asher's Lullaby", il forcing esagerato di "My Endless Love", il riffing iniziale di "Thredson" che paga un certo dazio ai Morbid Angel o la forsennata "Vultures of Virtue". Tanti piccoli segnali che ci dicono che la band ha grosse potenzialità ma che evidentemente non le sfrutta ancora appieno. (Francesco Scarci)

(Firestarter Music - 2018)
Voto: 65

https://www.facebook.com/AsIDestructBand/

martedì 18 dicembre 2018

Mate's Fate - Eve

#PER CHI AMA: Metalcore/Post-Hardcore
Non sono mai stato il fan numero uno del metalcore. Scrivo da quasi vent'anni e francamente credo di averlo visto nascere, crescere e morire, per poi vederlo nuovamente riapparire molte altre volte. Tuttavia, ogni tanto mi piace avvicinarmi a qualche realtà meritevole del panorama metalcore mondiale e vedere a che punto stanno le cose, quali progressioni sono state fatte nel corso degli anni. Quest'oggi ho pensato di dare un ascolto ai francesi Mate's Fate per capire lo status del genere. 'Eve' è il debutto sulla lunga distanza del quintetto di Lione, dopo l'EP d'esordio dello scorso anno, 'A Home for All'. Il nuovo lavoro, rilasciato in un elegante digipack, contiene 10 song, che dall'iniziale "Alone" alla conclusiva "Eve", avranno modo di dirci di che pasta sono fatta questi giovani musicisti. Dicevamo di "Alone", l'opening track del disco: è una song che miscela egregiamente il metalcore con il post-hardcore, probabile retaggio dei nostri in un tempo non troppo lontano. Cosa aspettarsi? Beh, il classico rifferama potente e melodico tipico del genere, le vocals rabbiose, graffianti, e a tratti anche pulite, del frontman Matthieu, ed un ottimo lavoro dietro alla batteria, cosi come una ricerca di parti atmosferiche volte ad ammorbidire la proposta dell'ensemble transalpino. Ci riescono infatti con il più morbido attacco di "Peace", in cui la parte da leoni sembrano farla invece voce e batteria, la prima che si muove su molteplici tonalità, la seconda decisamente fantasiosa e tecnica. Le chitarre comunque crescono col tempo, ma non rappresentano la parte preponderante del pezzo se non dopo metà brano, quando divengono finalmente il vero driver del flusso sonoro dei nostri, col vocalist qui in veste di growler incallito. "Empty" è il classico brano con drumming sincopato e ritmiche sghembe, urla sguaiate ma anche vocals ammiccanti ai vari Tesseract o Architects. Muoviamoci su "Sadness", dove troviamo il featuring di Elio dei The Amsterdam Red-Light District, altra alternative punk rock band francese, in una song sicuramente carica di groove e melodie dal forte sapore catchy, in cui è interessante ascoltare i due vocalist duettare insieme. Il disco prosegue su questi binari fino al termine, non presentando particolari sussulti o trovate che mi inducano a pensare che il metalcore stia percorrendo nuove strade sperimentali. Probabilmente, l'eccezione alla regola è offerta da "Proud", una song dal mood malinconico che ho apprezzato più delle altre, o l'eterea (nel prologo e nel suo bridge) "Different", che proprio nel suo titolo sembra nascondere quel desiderio di sentirsi diversa dalle altre canzoni sin qui ascoltate e che alla fine, la pone di diritto in cima alle mie preferenze di 'Eve'. Ultima menzione per la title track, bella oscura, sebbene un cantato quasi rappato, davvero coinvolgente e più carica emotivamente parlando. Insomma, cose buone ed altre meno, alcune trovate interessanti sono spendibili per sottolineare la bontà di questa release, considerato poi che si tratta di un debutto, non possiamo che stimolare la band lionnese non solo a proseguire su questa strada, ma a cercare qualche variazione al tema, che spingerebbe i nostri a ritagliarsi un piccolo posto nell'iper inflazionato mondo metalcore. (Francesco Scarci)

Project Helix - Robot Sapiens

#PER CHI AMA: Thrash/Metalcore/Math
Non è che ci sia troppo sul web a raccontarci di questi Project Helix, se non che si tratti di gruppo teutonico originario di Stoccarda, dedito a un thrash metalcore carico di groove e che questo EP sembra voler affrontare temi relativi alla difficoltà di vivere in un mondo moderno, dove in qualche modo si deve "funzionare come macchine" e quindi 'Robot Sapiens' è una sorta di prototipo di ciò che "il sistema" vuole che siamo. A completamento delle liriche, i nostri affrontano anche il tema della disumanità in generale. Ma iniziamo a dare una musica a queste liriche cosi tematicamente pesanti e via che si parte con i veloci riffoni di matrice thrash metal di "Demons Aren't Forever" e al vocione animalesco del frontman Tim Gallion, che inizia a ringhiare su un sound iper ritmato di scuola Gojira. Il vocalist alterna poi il suo falso growl con un cantato più pulito, orientato al versante post-hardcore che contestualmente vede anche un ammorbidimento delle chitarre e ad uno stravolgimento generale del sound. Ci ritroviamo in balia di un nervoso riffing con la seguente "Rorschach Dilemma", una traccia che sembra incanalarsi invece in schizofrenici territori math, complici tematiche verosimilmente legate ad una qualche malattia della psiche umana. Il pezzo si muove su ritmi sincopati, cambi di tempo da paura, come quelli che ritroviamo a sessanta secondi dal termine, in un finale in cui metalcore e djent (stile Tesseract) si sposano alla perfezione. La voce del frontman continua con alterne fortune nella sua battaglia tra urlato e pulito. Di altra pasta "I Don't Hear the People Sing", più diretta, una song che può considerarsi una certezza in termini thrash metalcore ma che in realtà dice poco o nulla di nuovo. Meglio allora quando i nostri si muovo su terreni più intricati, a macinare riffs pesanti e urlarci sopra, sono capaci un po' tutti. Li promuovo pertanto nella loro componente più ricercata, ma anche più ostica da digerire: "Conduct Disorder" ha un doppio strato di chitarre, uno ritmato di scuola Pantera, l'altro che srotola qualche riff più psicotico che dona inevitabilmente imprevedibilità e originalità alla proposta di questi giovani musicisti teutonici. "Echoes" è un pezzo che vede ancora ritmiche frastagliate, suoni che sembrano arrivare da mille direzioni differenti, cosi come le vocals del buon Tim che si palesano in mille modi diversi. "Control", come già dichiarato dal titolo, parte un po' più compassata per provare a sfogarsi nel corso dei suoi quattro minuti, con tutto l'armamentario palesato sin qui dai Project Helix. 'Robot Sapiens' è in definitiva un album complesso, articolato, che al primo ascolto pensavo banalissimamente inserito nel filone metalcore, ma che alla lunga, mette in scena una serie di trovate che dimostrano per lo meno una certa ricercatezza di suoni da parte della compagine germanica. Al solito, siamo lontani da un risultato che possa definirsi memorabile, serve ancora una buona dose di sudore per venir fuori dall'anonimato legato alla moltitudine di band che popolano l'underground. Ma rimboccandosi le mani e mettendocela tutta, chissà non se ne possano sentire delle belle in futuro. (Francesco Scarci)

domenica 16 dicembre 2018

The Subliminal - Relics

#PER CHI AMA: Metalcore, Gojira
Dall'Olanda con furore, mi verrebbe da dire. A crearci qualche fastidio sonoro oggi, ci pensano i The Subliminal (da non confondere con gli ecuadoreñi omonimi) e il loro EP d'esordio, 'Relics', che segue un paio di singoli rilasciati tra il 2016 e il 2017. Finalmente è arrivato il momento di dimostrare la pasta di cui sono fatti questi quattro ragazzi di Utrecht, spesso indicati come epigoni di Gojira o Lamb of God. E allora cerchiamo di dissipare un po' di nubi e dire che i cinque pezzi contenuti in questo disco, pur soffrendo di qualche influenza proveniente dalle band sopraccitate, e penso all'opening track "Lowlife", mostrano, rispetto agli originali, un sound marcatamente più cupo. Certo, molti avranno da obiettare che la proposta dell'ensemble olandese è ancora un po' acerba, ma mio nonno diceva che "nessuno nasce imparato". E allora facciamoli crescere questi quattro musicisti e noi accompagnamoli nella loro crescita personale, godendo delle melodie e del groove, che comunque permeano i loro brani. "Defiance" è più roboante dell'opener, complici le chitarrone trituraossa e il vocione in formato growl di Milan Snel, ben più efficace però - e dove peraltro lo preferisco - nel cantato pulito. I nostri martellano che è un piacere, trovano tuttavia modo di spezzare il loro incedere feroce con un bel break melodico accompagnato dalle vocals a tratti ruffiane, ma estremamente accattivanti del frontman, che vanno via via migliorando nel corso di un brano che gode di notevoli cambi di tempo. Più dritta, ma in realtà solo nella prima parte, la terza "Unforeseen Demise", visto che la band si dimostra più intrigante nella seconda metà del pezzo, laddove ad un sound in your face, privilegiano un bel po' di cambi di ritmo (qui quasi dal sapore deathcore), ma c'è ancora tempo per lavorare e smussare gli angoli. Come quelli che ritroviamo in "Sleepwalkers", un altro pugno nello stomaco, che parte direttissima per poi divenire decisamente più ritmata, manco fossero i Pantera di "Walk". E poi giù di nuovo di mazzate, per un lavoro dietro la batteria davvero notevole. Ribadisco però che l'act tulipano riesce meglio dove i tempi sono più ritmati e il suono più ricercato. In chiusura, "Final Ordeal" è un'altra cavalcata dal forte sapore thrash metal in stile Testament/Exodus, rotta da ambientazioni melodiche e da un bel chorus che funge da ciliegina sulla torta per un EP che merita un po' della vostra attenzione, non fosse altro che potreste scaricare un po' della rabbia che questi giorni di festa inevitabilmente generano. (Francesco Scarci)

giovedì 15 novembre 2018

All My Memories - Umwelt

#PER CHI AMA: Death/Hardcore, Fallujah
I Fallujah stanno facendo scuola. Con la loro tonante proposta di deathcore atmosferico hanno conquistato uno stuolo di seguaci in giro per il mondo, tra cui i qui presenti All My Memories. Si tratta di un ensemble proveniente da Parigi che con 'Umwelt' (un titolo che mi aveva indotto a pensare ad origini teutoniche per la band) tagliano il traguardo del secondo album. Un disco che conta undici tracce belle dirette e immediate e dalle durate non troppo estenuanti. Si parte infatti con i novanta secondi di "Terra Mater" che espongono immediatamente il manifesto programmatico dei cinque francesini, ossia un death/hardcore melodico. Chiaro che un minuto e mezzo sia poco per capire le intenzioni dei nostri ed eccoli lanciarsi immediatamente con la title track, un pezzo possente che mette in luce le buone intenzioni della band transalpina, tra suoni iper bombastici, possenti linee di chitarra che ogni tanto si concedono quelle bombe ritmiche che cosi tanto mi fanno sussultare e apprezzare il genere. E mentre i suoni scivolano piacevolmente tra i roboanti riff e pulsanti tocchi di basso di "Wasteland", a guidare il tutto c'è il bel vocione del frontman Loïc che si dimena tra un growl cavernoso e qualche chorus ruffiano. In men che non si dica, ci ritroviamo già alla quarta traccia, "Thanatos", song più oscura, ma che mantiene l'intelaiatura musicale sin qui goduta. Si prosegue con "Coward", e le atmosfere si fanno più malinconiche nel loro incedere, peccato solo si faccia fatica a goderne appieno, il vocalist per quanto bravo, a mio avviso canta un po' troppo per i miei gusti, avrei dato maggior spazio a quei rallentamenti apocalittici che spaccano in due il brano. Ottimo il comparto tastieristico, e quel piglio electro death all'inizio di "Burn The Heaven" (ma sarà ben più enfatizzato in "Behind The Wall", dove peraltro ci sarà il featuring di Anthony Doniak, dei Here Come The New Challenger), in una song che fondamentalmente si muove sulla falsariga di quanto fatto sin qui e che verrà fatto da qui fino alla fine. Forse in questo immobilismo (ed in un eccessivo numero di pezzi) risiede il punto debole degli All My Memories, anche se deve essere chiaro che 'Umwelt' è un buon album, con tutti i suoi pregi e sbavature. D'altro canto siamo solo al secondo lavoro per la band francese e la strada imboccata è sicuramente quella buona. (Francesco Scarci)

lunedì 21 maggio 2018

Kartikeya - Samudra

#PER CHI AMA: Djent/Deathcore/Death Progressive, Meshuggah, Melechesh
Ormai sta diventando quasi una moda, quella di unire la musica estrema, con forti riferimenti culturali e sonori, alla religione induista. Penso principalmente ai Rudra e da oggi anche ai moscoviti Kartikeya, che tornano a distanza di sei anni dal positivo 'Mahayuga', con questo nuovo 'Samudra', uscito per la Apathia Records il 27 Ashvina 5119 dell'era del Kali Yuga. L'approccio sonoro del sestetto russo mi ha evocato immediatamente quello di Ganesh Rao in quel meraviglioso video che fu "Empyrean", un bell'esempio di djent grondante tonnellate di groove. Qui a differenza del musicista americano, c'è però la presenza di vocals, in formato growl (e clean sul finire del brano) che completano alla grande la proposta dei miei nuovi idoli. L'opener, "Dharma - Into the Sacred Waves", la trovo a dir poco fantastica e rappresenta esattamente tutto quello che andavo cercando nel 2011 con l'esplosione del djent. Certo, qualcuno di voi potrebbe obiettare che siamo fuori tempo massimo, ma francamente me ne frego e mi godo tutte le innumerevoli sfumature che l'act russo riesce a inanellare nei primi sei minuti di questo lunghissimo album (oltre 70 minuti). "Tandava", la seconda song, è una bomba capace di coniugare un riffing in pieno Meshuggah style, con influenze death/metalcore, e quell'alone orientaleggiante che aleggia costante nell'aria e mi consente di essere traslato, almeno mentalmente, in qualche tempo indiano. Lo schizoide inizio di "Durga Puja" dice poi che i Kartikeya non sono affatto degli scopiazzatori delle top band del genere, ma che hanno una loro spiccata personalità e osano affiancando al djent anche suoni progressive e di scuola Melechesh. L'esito, come potrete intuire, è ancora una volta notevole e non fa altro che indurmi ad appassionarmi ulteriormente all'ensemble. C'è tecnica, un buon gusto per le melodie, una certa raffinatezza di fondo, una ricerca costante dell'effetto a sorpresa, e poi l'intrigante combinazione di suoni etnici con una bella dose di violenza; alla fine, tutti i palati ne dovrebbero uscire soddisfatti. Anche laddove è un techno death a farla da padrone ("The Horrors of Home") capace di massacrarci i timpani con un riffing serrato e iper-compresso, ecco che i nostri cedono a qualche coro un po' ruffiano per smorzare la veemenza che sembrerebbe affliggere qualche brano, ma anche ad un comparto solistico da urlo, ascoltare per credere, semplicemente da applausi. "Mask of the Blind" è aperta da splendidi arabeschi musicali prima di cedere il passo ad un riffing death iper-compatto che si lascia andare in altrettanto spettacolari break dal sapore esotico, e formidabili assoli a cura del funambolico Roman Arsafes. Davvero notevole, forse il mio pezzo preferito sebbene sia accostabile a qualcosa degli Eluveitie, ma alla fine sarà difficile scegliere tra ben 14 pezzi, vista l'elevatissima qualità compositiva. "The Golden Blades" è un altro bell'esempio di come combinare musica estrema con suoni mediorientali, che nelle parti più progressive sembrano evocare gli Orphaned Land e in quelle più etniche, gli Arallu. Quel che è certo è che qui non c'è modo di annoiarsi nemmeno un minuto, anche in quelli che sono interludi tra una song e l'altra. "We Shall Never Die" è un brano bello tirato, forse più convenzionale rispetto ai precedenti, anche se quel violino nel finale mi fa venire la pelle d'oca. "Kannada (Munjaaneddu Kumbaaranna)" sembra provenire direttamente dalla valle del Gange (visto il cantato indiano di Sai Shankar) sebbene una musicalità estrema (l'assolo è a cura di Karl Sanders dei Nile) che continua ad evocare la cultura indiana, mentre "Tunnels of Naraka" (che vede il featuring del compositore serbo David Maxim Micic) è un feroce attacco all'arma bianca che culminerà in un iper tecnico assolo conclusivo che scomoda ulteriori paragoni illustri. "The Crimson Age" riprende le sonorità djent alla Ganesh Rao, e i suoi tortuosi giri di chitarra sono miele per le mie orecchie. Si arriva nel frattempo alla lunghissimo gran finale, affidato agli oltre 13 minuti di "Dharma pt. 2 - Into The Tranquil Skies", un concentrato sopraffino di tutto quello che sono oggi i Kartikeya: una combinazione straordinaria di sonorità estreme, decisamente orecchiabili, che mostrano la perizia tecnica di questi notevoli musicisti, l'abilità nel creare criptiche atmosfere, combinare vocalizzi estremi e non, rilasciare una spessa coltre di groove, il tutto tenuto insieme dal minimo comune denominatore delle melodie orientali. Eccezionali. (Francesco Scarci)

(Apathia Records - 2017)
Voto: 85

https://kartikeya.bandcamp.com/album/samudra

venerdì 4 maggio 2018

Himsa - Summon In Thunder

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Metalcore/Death, Arch Enemy, Carnage
Era il 2007 quando uscì l'ultimo vagito degli Himsa, un vero assalto sonoro ai timpani. Forti di una super produzione ad opera di Steve Carter (per ciò che concerne la musica), Devin Townsend (per la voce) e Tue Madsen (per il mixing e la mastering), 'Summon in Thunder' rappresenta sicuramente il top della carriera per il quintetto di Seattle, anche se le critiche all'album furono piuttosto esagerate. Le undici straripanti tracce svelano il dinamico thrash/death metal, ricco di melodie ma anche di tanta furia, una miscela di vecchio speed metal unito ad un suono moderno, rabbioso e senza compromessi. Riff rocciosi (di scuola svedese) avviluppano le menti, con la batteria sempre precisa di Chad Davis che pesta che è un piacere e la voce di Johnny Pettibone a vomitare tutto il suo odio. Il platter della band statunitense non lascia tregua, è una cavalcata continua in cui trovano sfogo gli ottimi assoli delle due asce (influenzati dai solo dei fratelli Amott degli Arch Enemy). Se devo indicare un brano che mi ha colpito più degli altri, cito la quinta traccia “Skinwalkers”, che inizia con un buon arpeggio, prosegue su un mid tempo fino ad esplodere a metà circa in un attacco convulso, ma sempre ben ragionato, per poi concludersi con una raffinata scarica chitarristica. Una citazione spetta anche alla successiva “Curseworship”, per la sua capacità di non darci modo di pensare e non annoiare. Forse proprio in questo sono migliorati questi ragazzi: alla fine del cd, pur rimanendo quella sensazione di già sentito, non sono assolutamente annoiato e ne vorrei ancora. Tecnica inoppugnabile, melodie accattivanti, niente di originale sia chiaro, però l’headbanging è garantito per tutti gli amanti di questo genere di sonorità e non solo. (Francesco Scarci)

lunedì 9 aprile 2018

Misbegotten - Keeping Promises

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrashcore
Era il 2007 quando è uscita la quinta release degli austriaci Misbegotten e sinceramente era la prima volta che li sentivo nominare, segno che proprio dei fenomeni non fossero, e lo split-up dopo questo 'Keeping Promises' lo testimonia. La proposta del quintetto, in giro addirittura dal 1993 e che ha supportato band del calibro di Obituary, Pro Pain e Grip Inc., è decisamente noiosa e abulica. Non inventano nulla di nuovo con queste dieci tracce, i nostri sanno solo spararci in pieno volto, un mix di thrashcore sorretto dalle tipiche sporche chitarre hardcore e altre (e forse qui sta l'unico vero elemento interessante) che talvolta richiamano riffs di scuola Iron Maiden (nella opener è ben più palese questa influenza). Le rozze vocals di Andreas Forster, la ritmica selvaggia, i soliti breaks e qualche discreto assolo o bridge, rendono 'Keeping Promises' il tipico album che nulla ha da chiedere, se non un rapido ascolto, solo da chi mastica quotidianamente questo genere di musica. Gli altri, per carità, si tengano alla larga. (Francesco Scarci)

(Noisehead Records - 2007)
Voto: 55

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