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martedì 16 febbraio 2016

Ha Det Bra – Societea for Two

#PER CHI AMA: Punk/Noise Rock
La meritoria etichetta croata Geenger Records, attenta nel setacciare la scena rock locale e distillare gemme preziose, propone questo cioccolatino imbevuto di noise che promette di placare la voglia di tutti noi orfani inconsolabili dei Jesus Lizard. Sarebbe tuttavia ingeneroso e ingiusto derubricare gli Ha Det Bra a semplici epigoni dell’indimenticata band di David Yow, in virtú della qualità altissima e della varietà di stili che fanno di questo 'Societea for Two' un esordio col botto. Le quattordici schegge che si susseguono lungo i 44 minuti totali, scorrono a meraviglia evidenziando innumerevoli sfumature e una personalità ben definita, attraverso gorghi noise rock, forti di una sezione ritmica granitica, chitarre affilate e urticanti, voce tormentata e graffiante. A colpire sono la qualità media dei brani e la straordinaria resa sonora, potente e sporca come i dischi Touch and Go degli anni '90, tanto che, tracce come “In Lies” o “Sleeping with the Werewolf” (per citarne due tra le tante), non avrebbero affatto sfigurato se inserite in scaletta nei classici del genere di Jesus Lizard o Unsane. Varietà, si diceva poc’anzi, e allora ecco la splendida “Mustafa the Tyrant” con inedite atmosfere orientaleggianti, o “Lowthing”, piccola parentesi che si distacca dal tono malato del resto del lavoro, per immergersi in atmosfere psych che ricordano addirittura gli Screeming Trees di mezzo. Altrove, ("Under the Mould" o "Michael’s Nightmyers") a farsi protagonista è quell’indole blues, quello passato attraverso indicibili torture e sofferenze degli Oxbow, che aleggia sul disco come una presenza maligna e beffarda. Sarebbero da citare tutti i brani, e ci sarebbero da spendere tante altre parole entusiastiche, nonché paragoni e rimandi che scaturiscono continuamente dall’ascolto di questo lavoro, la sfacciataggine malevola degli Swans o la furia iconoclasta dei Birthday Party, ma ogni parola spesa qui è un secondo rubato all’unica attività che invece andrebbe fatta: ascoltare questo disco! Esordi cosí sono rari e preziosi, e credo che se la band, invece che a Zagabria, fosse nata a Chicago, ora il suo nome starebbe di fianco a quello dei nuovi eroi del noise come Pissed Jeans, Whores e Metz. Unico rammarico: aver ascoltato 'Societea for Two' solo dopo aver stilato la mia classifica di fine anno. (Mauro Catena)

(Geenger Records - 2015)
Voto: 85

martedì 9 febbraio 2016

Nepalese Temple Ball – Arbor

#PER CHI AMA: Psych/Post Hardcore, Fugazi, Neurosis
Strano disco, questo. Strana band, anche. Da un gruppo che si fa chiamare come un leggendario tipo di hashish, ti aspetteresti musica rilassata o comunque un qualcosa che ti accompagni nei tuoi “viaggi” rendendoli piú piacevoli e consapevoli. Non certo un monolite oscuro, pesante e malsano fin dall’artwork (invero molto curato) che potrebbe rischiare di farti incontrare i tuoi mostri e indurti a perdere la testa per sempre. Perchè la musica dei Nepalese Temple Ball (NTB), quartetto inglese di Bournemouth, è un gigante barbuto e feroce, coi piedi ben piantati nel noise rock di matrice AmRep e due teste, una fieramente hardcore, l’altra dallo sguardo post-metal disturbato e folle. 'Arbor' risulta quindi un’impressionante opera prima che coniuga stili e influenze in modo tutt’altro che grezzo o ingenuo ma che anzi colpisce per maturità e riesce ad infondere un costante senso di minaccia lungo tutti i suoi 63 minuti. Molto merito va ascritto al peculiare utilizzo delle voci (spesso al microfono si altrenano un cantato di stampo piú classicamente declamatorio, alla Fugazi, e uno di scuola screamo) e di un suono che sembra come ricoperto di una patina di sporcizia, il che è un complimento, se capite cosa intendo. Per la gran parte del tempo mi sono trovato a gridare al miracolo, ci sono momenti in cui i NTB sembrano il figlio segreto nato dall’unione tra Fugazi e Neurosis, definitivamente conquistato dall’incompromissoria potenza dei riff, dalle percussioni furibonde e ritualistiche, come in “A Snake for Every Year”, monumentale cavalcata che apre il disco col suo furioso crescendo, o la maestosa e ipnotica “Gas Bird”. Splendide anche l’imponente (quasi) strumentale “Desert Baron” con le sue formidabili accelerazioni, “Astral Beard”, e le raggelanti urla di “The Axeman”, percorsa da folate psych su un incedere tribale, che chiude il disco come meglio non si potrebbe. Questi sono i passaggi che preferisco, quelli in cui il progetto sembra piú a fuoco e centrato, e quelli per cui (se fossero gli unici in scaletta) questo 'Arbor' potrebbe essere un vero capolavoro, rispetto ai brani in cui la violenza scream prende il sopravvento (“Knee Deep”), o all’anomalo psych death doom di “Statues in the Garden of Death”, che – per quanto validi - vanno forse un po’ a rovinare la coesione di fondo. In definitiva 'Arbor' è un esordio davvero importante, di quelli che fanno (o dovrebbero fare) molto rumore. Segnatevi il nome dei Nepalese Temple Ball e ascoltate questo disco, ne rimarrete conquistati. (Mauro Catena)

(Third I Rex - 2015)
Voto: 80

sabato 6 febbraio 2016

Doomina - S/t

#PER CHI AMA: Post Rock
Sta davvero diventando difficile scrivere di questo tipo di dischi. Quali e quante altre parole potrei trovare per descrivere un disco di post rock strumentale, ben suonato e discretamente avvincente senza essere davvero memorabile, che non suonino già sentite un milione di volte? Forse nessuna, e la recensione potrebbe chiudersi qui, forse peró il punto non è questo. Esattamente cosí come il punto, per i Doomina, non è quello di suonare musica che sia per forza originale e mai sentita, quanto piuttosto di farlo nel miglior modo possibile, con perizia e passione, e confezionare un lavoro che sia quanto di meglio nelle loro possibilità. E questo è, difatti, l’album eponimo di questa band austriaca, sulle scene dal 2006. Il disco è disponibile in digitale o in vinile, dove di sicuro si potrà godere appieno della bella immagine di copertina e di una perfetta resa del suono caldo e avvolgente di queste 5 tracce la cui durata media, come prevedibile, si attesta sui 10 minuti. Il meglio arriva alla fine, quasi a voler premiare l’ascoltatore: i poco più di 10 minuti di “Prince of Whales”, densi di crescendo chitarristici e accelerazioni improvvise, sono quelli piú a fuoco dell’intero lavoro e quelli in cui meglio emergono le qualità della band nel costruire brani epici, potenti e, vivaddio, emozionanti. Per quanto il senso di già sentito sia sempre difficile da scacciare, qui i Doomina colgono nel segno. Non sempre si puó dire lo stesso del resto del programma in scaletta. L’opener “Keira” ha il merito di farci entrare bene nel mood del disco, con un andamento classico arpeggio-distorsione-arpeggio piú rarefatto distorsione-accelerazione che non stupisce ma piace per il gusto e la misura. Allo stesso modo anche le successive “Kepler 10b” e “Pangea” si lasciano ascoltare e apprezzare per la piacevolezza, pur senza davvero mai emozionare. Se potete immaginare il concetto di post-metal da sottofondo, questo secondo me ci si avvicinerebbe molto. “Behold... The Fjørd!”, la traccia piú lunga, cattura l’attenzione per mezzo dei suoi oltre 11 minuti di crescendo ondivaghi e poderosi, il primo dei quali culminante in una frase spiccatamente melodica che, ma forse sono le mie orecchie malandate, a me ha ricordato addirittura “Bed of Roses” dei Bon Jovi. In definitiva, un disco senz’altro ben fatto, suonato e registrato molto bene, che gioca bene le sue carte e si propone, per gli appassionati del genere, come ottima alternativa ai soliti nomi. Se amate il post rock strumentale, probabilmente lo amerete. (Mauro Catena)

(Noise Appeal - 2015)
Voto: 70

https://doomina.bandcamp.com/

giovedì 28 gennaio 2016

Io Apreo - Plateau

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna, Neurosis
Originariamente uscito nel 2013 in autoproduzione, l’etichetta russa Nios ha ristampato l’esordio dei connazionali Io Apreo, combo di Samara con all’attivo anche un paio di split e un EP, con l’aggiunta di una bonus track. 'Plateau' è quello che si può definire, senza mezzi termini, una mazzata tra capo e collo. Una quarantina di minuti di post metal, fortemente virato verso l'HC, violentissimo e feroce, urlato come si conviene, che non lascia scampo e promette di non fare prigionieri. I riferimenti principali possono essere trovati da qualche parte tra i Converge, gli Entombed, i Dillinger Escape Plan e i Neurosis, fino ai Cult of Luna. La traccia di apertura, "Aerpa", è un perfetto biglietto da visita, con i suoi sei minuti fatti di muri chitarristici impervi e vertiginosi, urla gutturali e una batteria che sembra una grandinata in pieno agosto, alternati a momenti piú calmi e riflessivi, senza però che la tensione venga mai meno. Il quartetto russo combina sapientemente la furia post-metal stemperandone i tecnicismi con l’approccio incompromissiorio dell’hardcore e buone dosi di sporcizia death, senza disdegnare di rallentare ogni tanto il ritmo per poi pestare piú forte (come in “Insand” quando ci si avvicina addirittura al doom) o viceversa rarefarsi fino a scomparire (le strumentali “Xenization” e “Zugzwang”). “Fourth” è il brano piú lungo (piú di nove minuti) e articolato, con i suoi saliscendi emotivi in cui emergono tutte le componenti del suono della band, mentre “Nios” e la conclusiva “Hamartia” alzano ancora l’asticella della violenza lasciando l’ascoltatore senza forze, esausto ma soddisfatto. Disco potentissimo, non per tutti i momenti della giornata, ma molto molto interessante. (Mauro Catena)

(Nios - 2015)
Voto: 75

mercoledì 20 gennaio 2016

Phased – Aeon

#PER CHI AMA: Psych/Doom
Contrariamente a quanto già visto per altre band in passato (penso agli Entombed, ma non solo) che, partendo da posizioni intransigenti, hanno poi evoluto il loro suono in qualche modo “ammorbidendolo” (sempre che sia questa la parola adatta), gli svizzeri Phased hanno invece compiuto il percorso inverso. Questo può dirsi vero se quest’ultimo 'Aeon' può definirsi a tutti gli effetti un disco doom, quando in passato l'ensemble di Basilea aveva offerto ottimi esempi di stoner garage incendiario. 'Aeon', che arriva sei anni dopo il precedente lavoro e due dopo una bella compilation retrospettiva, è un monolite fatto di chitarre accordate un tono sotto, tempi lenti e voci tonanti. Un affresco monocromatico di doom scurissimo ma fortemente psichedelico, che non rinuncia al groove ma che non lascia intravedere alcuno spiraglio di luce. Il trio formato dal fondatore Chris Sigdell (chitarra e voce), Marko Lehtinen (batteria) e Michael Greilinger (basso) riesce a condensare in questi sette brani tutti i miasmi malsani e sulfurei di una notte che sembra eterna. Il pachidermico incedere dell’iniziale “Seed of Misery” prosegue inarrestabile per tutti i 44 minuti del disco, senza accelerare praticamente mai e anzi rallentando fino alla perdita di coscienza nella raggelante “Into Her Gravity Well”, il suono di una sofferenza indicibile di un cuore che rallenta e in cui sembra di sentire spirare il vento gelido della fine di tutto. Come già accennato, il doom dei Phased è decisamente innervato di psichedelia, cosa che contribuisce a rendere la proposta dei tre elvetici sicuramente affascinante, fino a raggiungere l’apice, a mio parere, nella sulfurea “Eternal Sleep”. Assunto che la varietà non è la caratteristica principale di questo tipo di musica, in definitiva 'Aeon' è un album solido e denso come piombo fuso, senza veri punti deboli, che ad un ascolto attento rivela piú sfaccettature di quanto non sembri all’inizio. (Mauro Catena)

(Czar of Bullets - 2015)
Voto: 75

venerdì 4 dicembre 2015

Jungbluth - Lovecult

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore/Screamo
“This one should be clear, but can’t be said too often: we strongly disagree with any pro-views on fascism, racism, nationalism, sexism, homophobia and every other form of oppression”. A volte la musica riesce a creare forti legami empatici, a prescindere dal genere musicale, se fondata su principi che ci toccano da vicino. È quanto mi è accaduto con il terzo album degli Jungbluth, terzetto HC di Münster, che prende il nome da Karl Jungbluth, comunista e antifascista tedesco, che durante la seconda guerra mondiale ha combattuto nella resistenza contro i nazisti. 'Lovecult' è, conviene dirlo subito, un piccolo capolavoro hardcore che riesce a coniugare in modo perfetto furia strumentale, inventiva e testi incompromissori. I tre ragazzi tedeschi riescono a sprigionare una potenza devastante fatta di furiose cavalcate noise, stacchi precisi e un cantato potente e viscerale. 'Lovecult' è un album a tema che, come si evince dal titolo, parla di amore ma, come è facile intuire dalle premesse, non lo fa in modo sognante e piagnone. Niente sofferenze emo da cameretta, in queste tracce, ma una lucida analisi che intende sviscerare il concetto di amore nella società odierna, che capitalizza tutto, anche le nostre emozioni, finendo per renderle dei bisogni come altri, per i quali siamo disposti a pagare. Non è necessario pagare invece per godere di questa mezz’ora scarsa di grande hardcore punk: il disco è infatti disponibile in dowload gratuito, ma se apprezzate il contenuto, e non potrete non farlo se amate il genere, allora è disponibile il vinile, anche in una splendida edizione limitata in vinile verde. Inutile menzionare le tracce migliori: sono 10 gemme che scorrono veloci e inesorabili, e una volta arrivati in fondo non potrete fare altro che ricominciare da capo. E ancora. E ancora. “Don't respect something that has no respect - Fuck nazi sympathy!" (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 85

mercoledì 2 dicembre 2015

New Adventures in Lo-Fi – So Far

#PER CHI AMA: Indie Rock, Built to Spill
Finalmente, dopo un paio di EP di assoluto spessore, arriva anche l’esordio sulla lunga distanza per i torinesi New Adventures in Lo-Fi, grazie ad una coproduzione che ha visto impegnate ben tre etichette: Stop Records, Waves for the Masses e Cheap Talks. Il pezzo d’apertura, “Expectations”, una ballad delicata ma inquieta un po’ Smashing Pumkins un po’ primi Motorpsycho, è uno dei migliori pezzi che mi sia capitato di ascoltare quest’anno, e per quanto mi riguarda i NAILF hanno già vinto. E il resto del programma non delude, mantenendosi sempre su quel confine tra rabbia e malinconia che urla college rock in ogni nota, e cosí ci si trova a trovare qua e là echi di Built to Spill, Modest Mouse, ma anche R.E.M. (a cui il nome pare proprio un aperto omaggio), oltre alla cover di “Shoe-in” di Geoff Farina che è di per sé già un manifesto programmatico. I tre del resto, non avevano mai fatto segreto delle loro influenze, basta ascoltare i loro EP o 'All Mixed-Up', raccolta di cover e rarità disponibile in download gratuito, come tutto il catalogo, sulla loro pagina di bandcamp. Quello che conta, peró, non è tanto questa o quell’influenza, ma la qualità delle canzoni, sempre molto alta, grazie a un suono di assoluto spessore (e che dimostra una volta di piú che le chitarre le sappiamo registrare bene anche qui da noi) e, non da ultima, una pronuncia inglese totalmente credibile. Tra i vari brani, quasi tutti mediamente piú “rumorosi” dell’opener, meritano una citazione almeno, la lunga e epica “Klondike”, con il suo muro di distorsioni, e i saliscendi emozionali delle altre due ballate “Nobody’s Rest” e “WG's New Year's Resolutions, Circa 1942”. Un disco di ottime canzoni, che si staglia sullo sfondo della scena indie italiana alzandone, di fatto, il livello. (Mauro Catena)

(Stop Records - 2015)
Voto: 75

giovedì 19 novembre 2015

Below a Silent Sky - Corrosion

#PER CHI AMA: Post Metal strumentale, Long Distance Calling
Quando cerchi un posto su Google Maps, e le foto del luogo ritraggono per lo piú fabbriche e condomini, occasionalmente qualche distesa di alberi ordinati e ricoperti di neve, probabilmente quel luogo non è il posto piú divertente del mondo. Ilmenau, posizionata piú o meno nel centro esatto della Germania, e ugualmente lontana da ogni grande città, si cinfigura un po’ cosí. E se sei un ragazzo, ad Ilmenau, una delle opzioni che hai per movimentare le tue giornate, è sicuramente quella di chiuderti in una cantina, provare ad alzare il volume degli amplificatori e vedere l’effetto che fa. I Below a Silent Sky sono quattro giovanotti che pubblicano il loro esordio in totale autoproduzione, dal semplice titolo, 'Corrosion', un prodotto che si presenta bene nell’elegante digipack dall’immaginario vagamente fantasy. Il contenuto poi è un post metal strumentale che, pur non brillando per originalità, è suonato con passione e sincerità. Si sente che i quattro ci credono e in queste sei tracce c’è tanta voglia di fare per cui riesce a passare anche una discreta dose di emotività, dettata peraltro da momenti atmosferici e fughe post rock, anche se sinceramente non si puó dire che le loro evoluzioni si facciano ricordare per qualcosa di cosi particolare. Pur ristagnando all’interno di un genere ormai ben codificato e ricco di clichè, in questi brani ci sono buoni spunti (pezzi come “Sulfur”, o le due parti di “The Flood”), una discreta dose di potenza e una capacità compositiva mai banale. Se non altro si evita il rischio della noia dovuta a una certa prolissità (legata alle durate medio lunghe delle song), ma c’è ancora parecchia strada da fare, e forse è necessario fare un po’ di chiarezza su quale sia la direzione da intraprendere, e accelerare con decisione in quella direzione, qualunque essa sia. Sarà sicuramente meglio che rimanere intrappolati in un guado che non porta da nessuna parte e che inoltre è decisamente già troppo affollato. (Mauro Catena)

lunedì 16 novembre 2015

Newspaperflyhunting – Iceberg Soul

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive
Di solito, dopo aver ascoltato un disco e prima di scriverne, cerco in rete altre recensioni, un po’ per capire come il lavoro è stato accolto in giro e un po’ anche per sincerarmi di non aver preso una grossa cantonata e dare magari un ascolto piú attento. In questo caso la navigazione mi ha lasciato con piú dubbi che altro, tanto sono distanti i giudizi espressi su questo lavoro, spaziando dal sincero entusiasmo alla piú totale freddezza. Per quanto mi riguarda, la verità è da cercarsi, una volta di piú, nel mezzo. 'Iceberg Soul' è il secondo lavoro sulla lunga distanza per questo quintetto polacco dedito a quello che loro stessi definiscono un progressive-post-space rock dalle tinte dark e malinconiche, sognanti ed atmosferiche. In effetti si tratta di una proposta piuttosto peculiare e originale, rimanendo piuttosto sospesa tra rarefazioni e improvvise impennate distorsive, dilatazioni e ruggiti, non priva di suggestioni ma nemmeno di difetti. I brani, mediamente lunghi, sono caratterizzati da una struttura ondivaga, spesso giocata sull’alternanza tra voci maschili e femminili, sempre piuttosto delicate ed evocative, e dalla contrapposizione tra calma e tempesta, con le chitarre ora impegnate a ricamare arpeggi tanto quanto ad erigere muri. Ottimo il lavoro delle chitarre quando lasciate libere di improvvisare con uno stile immaginifico che richiama il Neil Young elettrico, come nella delicata “Stop Flying”, sferzata anche da un bel basso distorto. Piú che il prog propriamente detto, qui si respira spesso un’aria vicina a certo Canterbury Sound o ai King Crimson piú sognanti, con chitarre tutt’altro che gentili come protagoniste assolute, come se nei Caravan fossero innestate le sei corde dei Thin White Rope (ascoltare “Lighthouse” per credere). Altre volte, quando a cantare è la bassista Gosia Sutula, ci si avvicina ad atmosfere dream pop/shoegaze davvero intriganti (come in”Looking Through the Glass”). Si diceva dei difetti. Due in particolare, a mio avviso, che possono disturbare o meno, ma sui quali si può migliorare per il futuro: la registrazione un po’ piatta e fredda che non rende un gran servizio alla voce e non esalta le dinamiche - che pure sembrerebbero essere la componente principale del suono della band – ed una pronuncia inglese sicuramente rivedibile, da parte dei diversi vocalist che si avvicendano al microfono. A parte questo, 'Iceberg Soul' vive e si nutre delle sue contrapposizioni interne, sintomo di una dualità che rappresenta il vero punto di forza dell’album. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 70

martedì 10 novembre 2015

Giöbia – Magnifier

#PER CHI AMA: Acid Rock/Psych, Pink Floyd
I Giöbia tornano dopo l’eccellente 'Introducing Night Sound' del 2013, e lo fanno in grande stile, alzando ancora l’asticella di un suono che fa un ulteriore passo in avanti rispetto a quei modelli di psichedelia in qualche modo classica ai quali la band milanese ha sempre mostrato di ispirarsi. I Giöbia hanno ormai, a pieno titolo, assunto una statura internazionale testimoniata dall’appartenenza alla scuderia Sulatron e dall’attività live portata avanti con costanza fuori dai nostri confini. Eppure, se non odiassi il termine, potrei definire questo disco come un ottimo esempio di eccellenza italiana. Tutto qui dentro, dalla scrittura all’esecuzione, fino alla resa sonora, è di altissimo livello, dimostrando che anche in Italia si può fare del grandissimo rock e inorgogliendo tutti quelli che qui ci rimangono per scelta e lavorano con convinzione e serietà. Il rock dei Giöbia è un concentrato di psichedelia pe(n)sante, space e hard dalla densità altissima, che sposa in modo pressoché perfetto l’idea e la sua realizzazione pratica. In questo senso, quello prodotto da Stefano Bazu Basurto (voce, chitarre, ouz, bouzouki, santhur, synth), Saffo Fontana (organo, moog, voce), Paolo Dertji Basurto (basso) e Planetgong (batteria e percussioni) è un autentico gioiello. Non amo leggere recensioni track by track, per cui eviterò di scriverla, ma davvero ognuno di questi 7 brani andrebbe menzionato e commentato, dall'incedere ipnotico dell’iniziale “This World was Being Watched Closely”, allo stomp di “Devil’s Howl”, sferzato da un vento maligno di synth, dalla trascinante “The Pond”, col suo basso distorto, quella voce sinistra che fa tanto primo Roger Waters e la batteria che ti squassa il plesso solare, fino alla vertigine definitiva dei 15 minuti di “Sun Spectre”, una sorta di “One of These Days” sotto steroidi e proiettata nell'iperspazio. Per la riuscita di un disco di questo tipo, la resa sonora è parte essenziale, e il lavoro svolto da Andrea Cajelli alla Sauna di Varese è da valorizzare tanto quanto quello dei musicisti. Lasciatevi assorbire dal suono di questo disco fino a perdere ogni riferimento fisico attorno a voi e sorprendetevi a chiedervi se qualcuno vi abbia messo dell’acido nel caffè. 'Magnifier' rimanda l’immagine di una band proiettata in una dimensione davvero al di fuori dal tempo e dallo spazio. Miglior disco dell’anno? Fin’ora è tra i primissimi. (Mauro Catena)

(Sulatron Records - 2015)
Voto: 85

mercoledì 4 novembre 2015

Sergeant Thunderhoof - Ride of the Hoof

#PER CHI AMA: Stoner/Space Rock, Monster Magnet
Eccolo, finalmente. Dopo l’abbondante antipasto rappresentato nel 2014 dal super EP 'Zigurat', i Sergeant Thunderhoof danno alle stampe il loro primo album. Se 'Zigurat' li aveva posti all'attenzione per le loro non comuni capacità di scrittura in un ambito, quello stoner, che spesso è preda di una perpetua riproposizione di cliché frusti e idee di terza mano, 'Ride of the Hoof' centra in pieno l’obiettivo di confermare le qualità della band e si pone come importante pietra di paragone per la scena negli anni a venire. Rispetto all'esordio, sembra esserci qui una maggiore apertura verso una prospettiva di evoluzione, laddove invece 'Zigurat' pareva piú ancorato a riferimenti classici. Sono molto interessanti il suono delle chitarre e l’uso della voce, che riescono a coniugare alla perfezione modernità e un certo gusto classico. Quello che maggiormente colpisce, nel suono dei quattro ragazzoni del Somerset, è che sembra fatto di una materia allo stesso tempo pesante e leggerissima, in grado di penetrare fino al centro della terra così come repentinamente schizzare nello spazio a distanze siderali. E questa dualità riesce a rendere l’ascolto sempre interessante, vivo e fresco. L’album si snoda lungo sei brani mediamente lunghi, per un totale di una cinquantina di minuti davvero densi. Dall'apertura, affidata a “Time Stood Still”, si nota subito la grande abilità a livello di songwriting e una ricerca sonora in grado di coniugare sprazzi post a classicità stoner doom. Si prosegue senza cedimenti con l’incedere pachidermico di “Planet Hoof” e i riff trascinanti in stile '70s di “Reptilian Woman”, fino a “Enter the Zigurat”, song dalle forti componenti psych e la monumentale “Goat Mushroom”, 13 minuti di stordimenti doom, improvvise accelerazioni ipercinetiche e immani cavalcate stoner psichedeliche. La chiusura di 'Ride of the Hoof' è affidata a quella “Staff of Souls” che rivela un lato totalmente inedito e affascinante della band inglese, fatto di delicati arpeggi dal sapore post-rock e un cantato sognante, il tutto lasciato sospeso in un modo davvero magico. Maniera eccellente per chiudere un album carico di decibel e distorsioni che vi faranno friggere le orecchie, ma che ha anche un altro effetto collaterale: creano dipendenza. In ambito stoner, i Sergeant Thunderhoof si confermano tra le migliori uscite dell’anno. Senza dubbio. (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 80

sabato 17 ottobre 2015

Dream Circus – China White

#PER CHI AMA: Grunge, Alice in Chains, Soundgarden
Allora, confesso di trovarmi un po’ in difficoltà con questa recensione, essenzialmente per tre motivi principali. Primo: ho amato, e amo tutt'ora, l’alternative dei primi anni '90. Che lo vogliate chiamare grunge o meno, che venisse da Seattle o meno, i dischi di gente come Soundgardene e Alice in Chains (ma anche Nirvana, Pearl Jam, Screaming Trees, Mudhoney) sono stati i miei primi amori musicali, quelle sbandate da cui è difficile riprendersi. Secondo: tanto ho amato quella musica, cosí allo stesso modo ho provato sentimenti che vanno dalla noia al disgusto per tutta la pletora di band che, sull’onda dell’entusiasmo delle major, hanno cercato di cavalcare l’onda di quel successo. Penso quindi ai vari Candlebox, Creed, Staind, Bush, per tacere di Puddle of Mudd o Nickleback, davvero impresentabili. Terzo: i Dream Cricus si ispirano dichiaratamente ai primi (Alice in Chains in particolare) ma finiscono per assomigliare molto di piú ai secondi. Cercando di essere il piú possibile oggettivi, non si puó non riconoscere alla band lusitana la capacità di saper suonare con potenza e convinzione non inferiore a quella delle band sopra citate, non si possono non riconoscere il talento e le ottime qualità del vocalist James Powell, bravo a mantenere una certa personalità senza cadere nell’imitazione di questo o quel modello di riferimento. Cosí come l’esordio datato 2012, anche questo EP di sei brani, per poco piú di venti minuti di durata, conferma pregi e difetti che i Dream Circus condividono con buona parte di chi ha fatto il loro stesso percorso. Ovvero sono di sicuro bravi e capaci, i pezzi spingono molto sul pedale della potenza e dell’impatto, enfatizzando il lato metal del suono con gran dispiego di chitarroni e doppia cassa, ma non sono sempre memorabili. Un lavoro ben fatto, piacevole; e forse questo è quello che conta, anche se, in sostanza, 'China White' rimanda un’immagine bidimensionale, dove a potenza e aggressività non si aggiunge una terza dimensione, quella della profondità, che era ed è (basta ascoltare uno qualsiasi dei dischi del Jerry Cantrell solista) la vera marcia in piú di quella formidabile stagione. (Mauro Catena)

(Ethereal Sound Works - 2015)
Voto: 65

https://www.facebook.com/DreamCircus

domenica 11 ottobre 2015

Evoke Thy Lords – Boys! Raise Giant Mushrooms in Your Cellar!

#PER CHI AMA: Stoner/Sludge/Doom/Psych
Terzo lavoro per il quintetto siberiano, e successore di quel 'Drunken Tales' che nel 2013 ne aveva sancito la svolta stilistica da un death piuttosto convenzionale a uno stoner-doom dalle forti componenti psichedeliche, accentuate dalla presenza in formazione di un flauto traverso. Come si può facilmente evincere dal titolo dell’abum e dall’artwork, in questo nuovo album gli Evoke Thy Lords hanno intenzione di proseguire su quella strada, accentuando le componenti lisergiche del loro suono. Nel 2013 concludevo la mia recensione di 'Drunken Tales' mettendo in guardia su un possibile appiattimento del suono una volta esauritosi l’effetto sorpresa dovuto allo straniamento dato dall’accostamento di mondi musicali apparentemente distanti, ma il pericolo è, per il momento, scongiurato. Questo 'Boys!' (non vi dispiacerà se abbrevio il titolo chilometrico) rappresenta anzi un’ulteriore evoluzione della formula, in cui la compenetrazione tra la componente doom e quella psichedelica si fa piú profonda e meno naif. Il disco mette in fila sette lunghe tracce in cui l’equilibrio tra gli elementi è sapientemente dosato. I riffoni ultra-ribassati e rallentati, accompagnati da growl vocals gutturali, ben si incastrano con le dilatazioni space rock in cui fa capolino, qua e là, una voce femminile a fare da contraltare melodico. Secondo me, un deciso passo avanti rispetto al predecessore, che oggi appare acerbo in confronto. Qui c’è una visione piú chiara ed è aumentata anche la consapevolezza nei propri mezzi e della direzione da seguire. Brani migliori? Difficile scegliere. Direi però che “I Want to Sleep” e “Human Thoughts as a Weapon” riescono a sintetizzare alla perfezione la proposta dei russi, tra desert rock e doom metal. Ottimo lavoro, in grado di piacere tanto ai doomster piú cruenti quanto agli amanti dello space rock di matrice stoner. (Mauro Catena)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 75

sabato 10 ottobre 2015

Abraxas - Totem

#PER CHI AMA: Funk-pop/Indie
Gi Abraxas sono il frutto di una lunga avventura musicale di quattro amici d'infanzia parigini: Tino Gelli, Jonas Landman, Solal Toumayan e Leon Vidal. Il loro nome è un omaggio allo storico album di Santana e tra le loro influenze citano Pink Floyd e i King Crimson degli anni '70 ma anche Late Of The Pier e Of Montreal. Tanti e tali riferimenti producono uno stile difficilmente definibile, una sorta di mix tra pop, new wave, synth pop e funk, se non che gli Abraxas stessi si sono premurati di battezzarlo "protodancepop", il che, devo ammettere, rende bene l’idea di quello che fanno. Dopo che, nel 2011, esordivano con l’album autoprodotto 'Warthog', sorta di concept sulla vita di un facocero, esce quest’anno il loro primo EP per l’etichetta Samla Music. Totem dispiega in modo efficace, nell’arco di 5 brani peculiari, quella che è la proposta musicale del quartetto, che passa con leggerezza ed ironia su una quarantina d’anni di musica, senza soffermarsi o dilungarsi su nessun genere in particolare. I primi due brani, “Deep Down in the Middle of Shanghai” e “Guatemala”, a dispetto dei titoli che rimandano a luoghi e suggestioni esotiche, sembrano una perfetta sintesi tra il fulminante esordio dei connazionali Phoenix e l’ultimo acclamato lavoro dei Daft Punk, con le stesse atmosfere danzerecce, le chitarre funkeggianti e una certa idea di leggerezza. “Democratie” si veste invece di brume indie, mentre “Kayak” è un piccolo gioiello in grado di coniugare, all’interno di una struttura inusuale, un’invidiabile levità di tocco e certe atmosfere da tardi Pink Floyd. Gli Abraxas si muovono con personalità alla ricerca della pop song perfetta, e nel frattempo propongono un dischetto molto curato, nei suoni tanto quanto nella confezione, in grado di regalare una ventina di minuti di disimpegno per nulla vuoto e stupido. E non è affatto poco. (Mauro Catena)

(Samla Music - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/abraxasofficial

mercoledì 7 ottobre 2015

Mondo Naif - Turbolento

#PER CHI AMA: Stoner, Queens Of The Stone Age, Verdena
C’è stato un momento in cui davvero sembrava che anche in Italia il rock venisse preso sul serio non dico dal pubblico, che l’ha sempre fatto, ma dall'industria discografica. Un momento in cui c’erano un sacco di band che facevano rock in italiano e non solo risultavano credibili, ma a cui veniva data la possibilità di dare alle stampe album di livello assoluto. Oltre ai consueti nomi di rilievo quali Afterhours, Marlene Kuntz, Verdena, Massimo Volume, che si sono assicurati una lunga carriera, c’erano un sacco di altre band magari meno fortunate ma che hanno lasciato segni importanti in quei tardi anni '90, e penso ai leggendari Ritmo Tribale (in realtà dei precursori), ai vari Karma, Gea, Politburo, Hogwash, Malfunk, Fluxus, tutti responsabili, a vario titolo, di lavori che hanno segnato un epoca. Ecco, i Mondo Naif hanno tutte le carte in regola per affiancarsi, e forse ergersi al di sopra di tutti quei nomi, ai quali in qualche modo viene spontaneo assimilarli. Il loro è un rock pesante e pensante, che musicalmente pesca dallo stoner o dal grunge d’oltreoceano, declinato però in italiano come ho sentito fare poche altre volte. 'Turbolento', il loro secondo album, esce per l’ottima Dischi Bervisti (in collaborazione con GoDown Records e Dreamin Gorilla Rec) ed è prodotta da quel Tommaso Mantelli, aka Captain Mantell, già responsabile dell’ottimo Bliss, a suo tempo recensito su questi lidi. Kyuss, Monster Magnet e QOTSA tra le probabili influenze dirette della band, così come tutto il rock degli anni '70. Ma i Mondo Naif non si limitano ad un’operazione revivalistica, hanno molto da dire e lo fanno con stile e convinzione. “NonTempo” apre l’album con un tiro potente, la bella voce di Stefano ricorda a volte quella di David Moretti dei Karma anche nelle linee vocali, come avviene anche in “Niente” e nell’ottima “Scatole Magiche”, fusa in una sorta di suite con “Maelstrom”, strumentale che tiene fede al suo titolo con un gorgo chitarristico da cui è impossibile sfuggire. Da citare la presenza di alcuni ospiti che impreziosiscono il suono donandogli varietà, come il sax di Sergio Pomante (anche lui dei Captain Mantell) che dà una marcia in piú ad “Aquilone” o di Nicola Manzan (Bologna Violenta) e Alberto Piccolo, responsabile rispettivamente di archi e chitarra classica che arrivano a pacificare la cavalcata stoner della conclusiva “Belfagor”. Disco di grande rilievo, a cui forse manca una grande canzone per risultare davvero indimenticabile, ma ci sarà tempo anche per questo. Nel frattempo godiamoci questa musica turbolenta. Da avere. (Mauro Catena)

(Dischi Bervisti/GoDown Records/Dreamin Gorilla Rec - 2015)
Voto: 80

giovedì 1 ottobre 2015

Dead Shed Jokers – S/t

#PER CHI AMA: Grunge/Hard Rock, Queens of the Stone Age
Suonare come nessun altro, eppure risultare immediatamente familiari. Sarebbe probabilmente il sogno di buona parte delle band che popolano il pianeta, e ogni tanto qualcuno ci riesce. I Dead Shed Jokers sono una band strana, ci vuole tempo per metterli a fuoco, eppure non ci si riesce mai del tutto. Come osservare un dipinto in cui la prospettiva è leggermente ingannatoria, non ci si sente mai del tutto a proprio agio, solleticati da un leggero e indefinibile senso di disagio. I cinque ragazzi gallesi, al loro secondo album, propongono un hard rock che è sí debitore dei gloriosi '70s, quanto influenzato dal grunge o dai Queens Of The Stone Age. L’istrionico cantante Hywel Davies ha una voce pazzesca e uno stile a metà tra Robert Plant e Chris Cornell, ma con un’attitudine alla teatralità piú spiccata, cosa che rende davvero peculiari molti dei brani in scaletta. A sorreggere Davies ci pensano gli altri quattro (due chitarre, basso e batteria) e lo fanno come meglio non si potrebbe: riff granitici, una bella varietà ritmica e la capacità di costruire brani complessi e mai scontati, senza perdere un grammo in termini di energia. Il tutto è poi ben supportato da un suono sporco e per nulla patinato. Il mix che ne viene fuori ha un certo non so che di originale, qualcosa che non si riesce del tutto ad afferrare mentre si cerca di individuare tutti i riferimenti, che all’inizio sembravano evidenti. Dopo molto ascolti non sono ancora riuscito a capire bene di cosa si tratta, ma dev’essere nascosto nelle pieghe della voce e dalla personalità di Davies, che non si limita a cantare, peraltro benissimo, ma sembra sempre volerti raccontare una storia in modo molto serio, riuscendo quasi sempre a catturare la tua attenzione. Degli 8 brani, nessuno può essere considerato un riempitivo, e si viaggia dal rock dritto e tirato dell’opener “Dafydd’s Song” alle sfumature folk di “A Cautionary Tale”, ai riff irresistibili di “Memoirs of Mr Bryant’s” (scelta come singolo e della del quale vi invito caldamente a visionare il delirante e bellissimo video), fino al tiro pazzesco di “Rapture Riddles”, in un’incedere dance punk che non avrebbe sfigurato nel post-punk revival britannico di inizio millennio, tra Bloc Party e The Music. Si chiude poi con la ballata pianistica in stile glam “Exit Stage Left”. Disco sorprendente, che riesce a coniugare al presente il verbo del rock d’annata in un modo credibile e a suo modo originale. Forse non li troverete mai nelle liste delle next big thing di oltremanica, ma dopotutto, quante delle band citate in quelle liste vi ricordate oggi? I Dead Shed Jokers, invece, ci sono per restare. (Mauro Catena)

(Pity My Brain Records - 2015)
Voto: 75

martedì 29 settembre 2015

Manitu - Raw

#PER CHI AMA: Grunge/Hard Rock
Dal cuore della Svizzera, i Manitu sfornano il loro, se non erro, terzo album, con un titolo che è un manifesto programmatico. 'Raw', ovvero grezzo, selvaggio, poco incline alla morbidezza. Dieci brani per circa 40 minuti di rock duro, dal respiro decisamente internazionale. Quello che spicca prima di ogni altra cosa è la voce e la personalità di Manna Lia, una ragazza che ci sa fare e sa come catturare l’attenzione e tenerla desta lungo tutta la durata del disco. In realtà la cantante non è esattamente alle prime armi, avendo alle spalle diverse esperienze anche oltreoceano. La sua innegabile energia, unita ud un timbro che ricorda ora Alanis Morrisette, ora una sorta di versione femminile di Eddie Vedder, sembra contagiare i suoi compagni di avventura (David Grillon alle chitarre, Lionel Ebi al basso, Fabio Duro alla batteria) che risultano convincenti nel loro declinare un rock fortemente influenzato dagli anni '90, a metà strada tra il nu-metal, il grunge piú metallico di Soundgarden e Alice in Chains, e il rock da stadio di Foo Fighters o Skunk Anansie (paragone plausibile non solo per il fatto di avere una cantante donna). I Manitu piacciono quando spingono sul pedale dell’acceleratore, come nella trascinante opening track “What you Realize”, o in “Blind” dove fa capolino anche un’interessante vena protopunk alla Stooges, e si dimostrano capaci anche di inaspettate aperture melodiche di grande respiro e potenziale come nel chorus di “The Edge”. Ma i momenti in cui si fanno preferire, quelli in cui riescono a sfoderare una personalità piú definita, sono quelli in cui i ritmi rallentano e la componente emotiva reclama piú spazio: “24/7”, “Another Lie” o i saliscendi della conclusiva “Mary”. Nulla di nuovo sotto il sole quindi, tuttavia 'Raw' è un lavoro sincero e appassionato, che potrà sicuramente guadagnare ulteriori punti nella sua riproposizione live. (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 70

martedì 15 settembre 2015

Anabasi Road - S/t

#PER CHI AMA: Progressive/Rock Blues/70s Hard Rock
Il giorno in cui il cd degli Anabasi Road viene recapitato sulla mia scrivania, ho iniziato da poco la rilettura de 'I Guerrieri della Notte' di Sol Yurick, libro dichiaratamente ispirato all’Anabasi di Senofonte. Lo prendo per un segno del destino e inserisco immediatamente il dischetto nel lettore. Non mi è semplice esprimere quelli che sono i miei sentimenti verso quest'album e la formazione reggiana che si è scelto un nome così impegnativo. Perché se da un lato amo il progressive e il blues rock degli anni 70, dall'altro non riesco proprio a digerire le propaggini virtuosistiche da essi originatisi nel corso degli anni e sfociate in pletore di guitar hero dediti ad un prog hard rock onanista (leggasi Dream Theater e compagnia cantante) che ho sempre ritenuto sterile e per me poco interessante. E quest'album sembra essere composto in egual misura da entrambe queste componenti, in un delicato gioco di equilibri, a mio avviso non sempre riuscitissimo, con il risultato di essere a volte un po’ troppo pesante; non una sintesi quanto una somma delle parti. C’è tanta, tanta carne al fuoco qui, a partire dal fatto che gli Anabasi Road sono tutti eccellenti musicisti, nessuno escluso, ma il problema sta proprio nel fatto che sembra vogliano rimarcarlo incessantemente per tutta la durata del disco, senza un solo secondo di pausa. Così facendo, purtroppo, i brani a volte scappano un po’ di mano e sembrano diventare solo delle vetrine per le proprie qualità strumentali. Se l’iniziale “Pleasure in Me” promette molto bene con il suo hard screziato black grazie a un hammond caldissimo, già dalla successiva "Clashing Stars" le cose iniziano pian piano a sfilacciarsi fino a diventare pretenziose, con le inutili prolissità di “Say Man”, improbabile nel suo accostare blues canonico e prog neoclassico, o “I Walk Alone”, che nel finale vuole forse omaggiare i duetti voce-chitarra di Page e Plant con un risultato però parodistico. Troppo spesso chitarre e tastiere si suonano sopra, quasi senza ascoltarsi, lasciando un po’ l’amaro in bocca per quello che sarebbe potuto essere con solo un po’ piú di moderazione un ottimo lavoro, forte anche della presenza di un vocalist ispirato e potente, dal timbro profondo e personale (anche se nell'unico brano cantato in italiano, il peraltro ben riuscito “Guerra Mondiale”, ricorda il cantante dei Nomadi, quelli di oggi). Se posso riassumere la recensione in una frase, direi “Bravi, ma fermate un secondo quelle chitarre!”. Mark Hollis, geniale leader dei Talk Talk dice che non c’è bisogno di suonare due note, se puoi suonarne una sola. Ecco, senza arrivare a questi estremi, un produttore che avesse dato un freno alle debordanti sei corde degli Anabasi Road avrebbe fatto un gran servizio al disco. C’è del talento, qui dentro, e anche tanto. Bisogna solo lasciare che emerga, magari qualche volta togliendo piuttosto che aggiungendo sempre. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 65

martedì 28 luglio 2015

The Mondrian Oak - People Have Secrets

#PER CHI AMA: Heavy Garage/Post Hardcore/Stoner
Arriviamo un po’ in ritardo sull’ultimo album dei The Mondrian Oak, ma non potevamo non parlarne. Tempo di grandi novità per il trio anconetano, già titolare di un paio di interessanti lavori di post-metal strumentale. Per prima cosa, non sono più un trio, ma un quartetto, dato che ha fatto il suo ingresso in formazione anche (e qui sta la seconda, grossa novità), un cantante. Quello che è avvenuto poi, novità numero 3, è un radicale quanto inaspettato cambio di direzione musicale. Per questo 'People Have Secrets', infatti, i The Mondiran Oak lasciano da parte il loro suggestivo post strumentale per abbracciare un rock dritto e potente, conciso e tirato, che tira immediatamente in ballo nomi quali i Queens of the Sone Age di 'Rated R'. Il lavoro è confezionato in modo impeccabile, dalla registrazione al mastering, fino all’elegante artwork cartonato. Nulla da ridire quindi sul piano formale, e inoltre la periza dei musicisti non è in discussione. Francesco Giammarchi macina riff potenti e mai banali, la sezione ritmica viaggia compatta e arcigna, e Michele Magnanelli alla voce si dimostra per nulla timido, dando il meglio di sé quando può dar sfogo alle sue evidenti inclinazioni HC (in alcuni punti ricorda Dennis Lyxzén dei Refused). Apprezzabile anche la scelta di confezionare brani brevi e concisi (la durata totale non arriva alla mezz’ora), che sappiano andare subito al punto, senza perdersi in inutili lungaggini. Il punto è che, quando si sceglie di puntare forte sulla forma canzone, poi le canzoni bisogna anche saperle scrivere. E questo è il terreno sul quale i quattro devono ancora lavorare un po’. I nove brani infatti, finiscono inevitabilmente per sembrare già sentiti, e nessuno di questi pare, in fondo, essere davvero memorabile. La voce non ha molti registri a disposizione e piacciono di piú i pezzi in cui può lasciarsi andare e fare quello che sa fare meglio, come nel tiratissimo stoner garage “5” oppure nell’opener “R.O.A.K.”, che lascia intravedere soluzioni melodiche interessanti. Meno convincenti paiono invece i brani in cui il ritmo rallenta e ad emergere dovrebbe essere la qualità di scrittura, cosa per il momento lascia ancora un po’ a desiderare. 'People Have Secrets' è comunque un disco interessante, che dal punto di vista della fattura risulta decisamente al livello dei nomi blasonati a cui i nostri sembrano ispirarsi, ma un lavoro inevitabilmente di transizione verso uno stile e una formula che i quattro non mancheranno di mettere maggiormente a fuoco. Da seguire con attenzione. (Mauro Catena)

(Seahorse Recordings - 2015)
Voto: 70

domenica 12 luglio 2015

Xaxaxa – Sami Maži i Ženi

#PER CHI AMA: Alternative/Post-hardcore/Punk, Hüsker Du
Altra uscita e altro centro per la Moonlee Records, che continua imperterrita a dare spazio alle voci piú underground dell’ex Jugoslavia, senza distinzioni di sorta, alla faccia del becero nazionalismo (spesso condito da odio razziale) che siamo soliti associare a questi paesi dalla storia tormentata. È questa la volta dei macedoni Xaxaxa, band nata come costola dei Bernays Propaganda e, a quanto pare, sopravvissuta al gruppo madre, che mi risulta essersi sciolto lo scorso anno. Allo scorso anno risale anche questo 'Sami Maži i Ženi”, terzo album per il trio di Skopje, e vero e proprio disco della maturità. Questo lavoro, lo confesso, mi ha conquistato già a partire dall’artwork, che riporta una foto di gruppo di quella che, per la breve parentesi della sua esistenza, è stata la piú forte squadra di calcio che io ricordi, ovvero la Jugoslavia che conquistó la qualificazione agli europei del 1992 ai quali poi non partecipó per i motivi che sappiamo benissimo (qualche nome? Immaginatevi Savicevic, Stojikovic, Boksic, Suker, Prosinecki, Susic tutti assieme e ditemi voi se non era una cosa da perdere la testa). Con questo in testa, sono ben disposto all’ascolto di un lavoro che, rispetto agli esordi totalmente devoti all’hardcore punk dei primi Hüsker Du e dei Rites of Spring, risulta un po’ più curato, riflessivo, leggermente levigato in un suono sempre potente e aggressivo, ma meno ruvido e intransigente. Un suono che risente alresì delle influenze indie-rock e che sta a quello dei primi dischi come gli Sugar stanno agli Hüsker Du. Canzoni più melodiche e malinconiche, pur sempre in un ambito dichiaratamente punk-rock. I testi, ora arrabbiati, ora riflessivi, sono in macedone, ma questo non è un grosso ostacolo alla fruizione di un disco breve (meno di mezz’ora) e intenso, che non stanca davvero mai nel suo mettere in fila otto brani robusti e delicati allo stesso tempo. Chi ama i nomi di riferimento, non potrà rimanere indifferente di fronte a tanta sincerità. Qualche titolo su tutti: “2 Milioni Trkalački Kamenja”, “Radio Motorika", “Vlae Salep”, ma è difficile scegliere. E poi, quella foto... (Mauro Catena)

(Moonlee Records - 2014)
Voto: 70

https://xaxaxa.bandcamp.com/album/sami-ma-i-i-eni