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domenica 27 giugno 2021

Akvan - City of Blood

#PER CHI AMA: Ethnic Black
Credo sia risaputo quanto il sottoscritto sia alla costante ricerca di band provenienti dagli underground più stravaganti del mondo. Questi Akvan arrivano da Teheran (anche se il mastermind dietro a questa creatura, Dominus Vizaresa, è nato negli U.S. e poi si è trasferito in Iran) e sotto l'egida della Snow Wolf Records ma pure della nostrana Subsound Records, per ciò che concerne l'edizione in vinile, eccoli ritornare con questo nuovo 'City of Blood'. La peculiarità della one-man-band iraniana è quella di proporre un black alquanto primordiale, contaminato però da melodie etniche provenienti dalla tradizione persiana. Certo, l'opening track "Vanquish All" è prettamente un pezzo black grezzo, con tanto di produzione assai scarna, chitarre zanzarose e screaming vocals, molto '90s per intenderci nei suoi contenuti. Tuttavia, alcuni giri di chitarra o alcune melodie punteggiate peraltro da strumenti della tradizione locale, sembrano proprio condurci in quei luoghi cosi carichi di fascino e mistero. E il risultato alla fine ne beneficia alla grande, perchè non vi dirò che gli Akvan sono dei banali persecutori della tradizione black degli anni '90, ma in realtà propongono un sound carico di malinconia, cosi sognante a tratti ma comunque ben caratterizzato a livello musicale e pure a livello solistico. "Hidden Wounds" irrompe con un tremolo picking tipicamente black ma dopo due secondi si capisce che si tratta di melodie tipiche della tradizione mediorientale, che prendono le distanze da quanto proposto da altri esponenenti della scena per certi versi affini, come Melechesh o Arallu. Qui ci sento infatti un qualcosa di più integralista, più vero, con le radici ben affondate nella cultura persiana. E fa niente che poi quello che ci ritroviamo fra le mani sia black a tutti gli effetti, le atmosfere che respiro e vivo durante l'ascolto di questo pezzo, cosi come soprattutto nella seguente "In Narrow Graves", pezzo strumentale di tradizione persiana senza chitarra, basso e batteria, mi regalano qualcosa di importante e profondo. La conclusiva "Halabja" è l'ultimo vorticoso capitolo di questo EP, che delinea lo stato di grazia, l'ispirazione e l'originalità di Dominus e dei suoi Akvan. (Francesco Scarci)

(Snow Wolf Records/Subsound Records - 2021)
Voto: 74

https://akvan.bandcamp.com/album/city-of-blood-3

giovedì 24 giugno 2021

Moongates Guardian - Broken Sword

#PER CHI AMA: Epic Black
I Moongates Guardian sono un oscuro ma assai produttivo duo originario di Kaliningrad dedito ad un black dalle forti connotazioni tolkiane nei loro testi. E per questo, perchè non miscelare la fiamma nera con il medieval sound? Andatevi ad ascoltare la ricca discografia dei nostri e se intanto volete partire da quanto di più nuovo prodotto dai due russi, eccovi accontentati con un EP nuovo di zecca con tre pezzi, di cui uno, la cover degli AC/DC "For Those About To Rock", scelta quanto mai discutibile. Eppure, l'opener di 'Broken Sword' è un tipico pezzo marchiato a fuoco dai nostri, in cui abbinare ad un black nudo e crudo melodie folkloriche ed harsh vocals, con tanto di parti acustiche che sorreggono la loro primigenia forma musicale per un risultato epico. La seconda traccia è appunto la cover dei canguri australiani, in una versione completamente stravolta, con ottime e pompose orchestrazione, dove vagamente si può intuire il rifferama della song originale (soprattutto a livello solistico), ma dove il cantato in screaming ne altera completamente il risultato finale. Bell'esperimento ma francamente non avrei mai coverizzato una band come gli AC/DC. La terza traccia è affidata invece all'acuminata title track: chitarre zanzarose, batteria parecchio inascoltabile, vocals urlate, il tutto proposto a tutta velocità, con le solite e solide parti sinfoniche a dare brio ad una proposta che rischierebbe invece di (s)cadere nell'anonimato più totale. Insomma, un EP interlocutorio che non mostra le potenzialità della band russa, ma che può essere un buon punto di partenza per saperne un po' di più dei Moongates Guardian. (Francesco Scarci)

domenica 13 giugno 2021

Frozen Wreath - Memento Mori

#PER CHI AMA: Black Atmosferico
È una nuova creatura sonora quella proveniente da Szombathely in Ungheria che risponde al nome di Frozen Wreath. Il duo magiaro ha da poco pubblicato per la Filosofem Records questo debut intitolato 'Memento Mori', che include otto tracce cantate in ungherese, all'insegna di un black atmosferico. Nulla di innovativo, faccio le debite premesse: parte "Megsárgult Fényképek" e il sound proposto sembra un ibrido tra black e folk, con velocità esagerate e blast beat a profusione coniugate con melodie folkloriche. Il risultato non ha nulla di trascendentale fatto salvo quell'assolo finale in grado di regalarmi piacevoli emozioni. La seconda "Halott Igéret" prosegue sparandomi in faccia ritmiche vorticose, quasi i due musicisti ungheresi vogliano dimostrare di essere abili blacksters di un sound in realtà in voga quasi trent'anni fa (Darkthrone docet). Si salvano solo per quei break atmosferici con tanto di spoken words a donare un pizzico di mistero ad una proposta che rischierebbe invece di fare una pessima figura invece per una qualità contenutistica non proprio cosi esaltante. Con "Miért?" si torna ad un black mid-tempo di stampo folk con la voce del frontman Roland Neubauer (che abbiamo già incontrato nei Witcher) che abbandona il classico screaming scolastico per abbracciare un cantato pulito in un contesto epico in stile Isengard, il che non mi dispiace affatto, anche se arrivato 27 anni dopo quel 'Vinterskugge' che mi fece adorare il side project di Fenriz. "Ősz" riprende con un black ferale scoordinato che mi fa francamente storcere il naso e presto anche skippare sul lettore cd. Non è certo questa la versione dei Frozen Wreath che prediligo, a base di quel black old school con cui sono cresciuto nei famigerati anni '90. Non saranno pertanto questi Frozen Wreath a farmi tornare il desiderio di rivivere quelle emozioni vissute oltre un ventennio fa. I due di oggi sono più convincenti infatti nella loro versione più melodica, come in questo pezzo quando un piano si prende la scena e guida le clean vocals dei nostri in una seconda parte decisamente più riuscita, merito anche di un comparto melodico più piacevole. La band però deve ancora avere le idee confuse e in "A Kőszikla Megmarad" propone un black troppo ragionato che alla fine non sa proprio che direzione pigliare e dopo una sconclusionata parte centrale vira verso un finale atmosferico. Furia black invece per "Feltámadás", in cui sottolinerei le chitarre stile Windir, in un pezzo che vanta un organo a metà brano, prima dell'ennesima scorribanda black nel finale. La title track è forse il pezzo migliore del disco, grazie alla sua lunga parte atmosferica introduttiva e ad una seconda metà, per quanto all'insegna di un black scolastico, meglio riuscita rispetto ai precedenti pezzi. Ancora meglio la conclusiva "Fagyott Koszorú", il pezzo più cupo, lento e ben assortito di questa prima release dei Frozen Wreath, che dovranno far decisamente di più in futuro per uscire da quell'underground affollato di band uguali a questa. (Francesco Scarci)

(Filosofem Records - 2021)
Voto: 63

https://frozenwreath.bandcamp.com/releases

domenica 7 marzo 2021

Empyrium - Über den Sternen

#FOR FANS OF: Black/Doom/Folk
The German duo Empyrium is without any doubt one of the most personal and exquisite projects out there. The project, founded in 1994 in Bavaria (Germany), was from its early inception already a quite unique creature. Its personal and remarkably tasteful combination of neofolk influences and doom metal with epic touches, shocked the scene with it almost unbeatable inspiration and quality. Early works like 'A Wintersunset' and especially its sophomore masterpiece 'Songs of Moors & Misty Field', made this band a truly respected project. In this second opus the mixture of an intensely melancholic doom beauty and the folk influences was nearly perfect. Vocally, the band was also original with the combination of extreme vocals with baritone-esque voices, which gave an even stronger solemn and melancholic touch to its music. Afterwards, the band left behind the metal influences and focused sorely on folk and neo-folk sounds, which was a pity from a metalhead perspective, although the music continued to be very personal and excellent. With the band’s split-up, the classic members focused their efforts on new projects, though thankfully they returned some years ago with a slightly more modern yet tasteful opus 'The Turn of the Tides'. This effort didn´t receive a so warm welcome, although it pleased the fans in reasonable way.

Still, many fans deeply missed the early works of Empyrium and there was a cautious excitement when the band announced a new album entitled 'Über den Sternen', that was supposed to bring to black many influences from the classic works. This "back to the roots" is usually no more than a marketing strategy, but thankfully this hasn't be the case with Empyrium. I don´t imply that this is a replica of the early albums, but the influences are strong and completely present. A more modern touch in the production, already seen in the previous work, is still there, but as previously announced by the label, the doom metal and folk influences are back in a way we haven´t seen for a long time, and also the extreme vocals, largely missed by many metalheads. 'Über den Sternen' obviously tries to mix the most known two sides of Empyrium´s coin, the metal influences and the folk/neo-folk ones and they successfully do it. If I could complain about something from this album, it would be the following two aspects. Firstly, that the central part seems to be too focused on the softest and more folky influences, unbalancing the final result of the album. Secondly, maybe I had expected more shrieks based on my early impression from the first self-titled single. In any case, this is a magnificent album with many great tracks. The initial part is almost faultless with two compositions that bring us the best of their early works. The album opener "The Three Flames Sapphire", that has been presented with a beautiful video, is a perfect blend of the calmer and folk influenced side and the most metal one. The song evolves from its more folkie and melancholic start to a final heavier section as a delicate piece with a excellently executed ‘in crescendo’, just to end acoustically. The magnificent clean vocals with this baritone style and the undoubtedly nice flute are 100% Empyrium, and this means quality and style. The following track "A Lucid Tower Beckons on the Hills Afar" is a more metal oriented song, bringing back the best of Empyrium’s second and legendary album. The combination of extreme vocals, baritone voices and background vocals, alongside the always exquisite melodies, is a pleasure for the ears. The guitar lines vary from metal riffs to acoustic tones with elegance and naturalness as it happens with the intensity of the music. Doom metal and folkish music embrace together in a unique way. The central part of the albums focuses, as said before, much more on the folk side and though it does it with indubitable quality. The contrast with the rest of the album makes me feel think that another harder composition, would have been more than welcome between the purely calm songs like "Moonrise" and "The Archer". Its not a big deal, but I personally think that this would improve the overall impression and result of this album. The problem is not the neo-folk influenced tracks, but the impression that they are wrongly placed as they follow a song like "The Oaken Throne", which is still quite tranquil. The album recovers its initial momentum with the beautiful "The Wild Swans", once again the sophomore album’s greatness is back with an extraordinary track, that mixes with success the fury and the calm, the strength and the delicacy in one single composition. The album ends with the aforementioned self-titled song, that is undoubtedly a great way to end the album on a high. The final song summarizes all the trademark influences that have made Empyrium a so beloved and unique band. Pure elegance and beauty.

In conclusion, 'Über den Sternen' is an excellent work by Empyrium and aside minor complains from me side, this is a brilliant album. 'Über den Sternen' will make happy all Empyrium fans around the globe and should be a mandatory listen to all who like music made with taste. (Alain González Artola)


(Prophecy Productions - 2021)
Score: 85

https://empyrium.bandcamp.com/album/ber-den-sternen

venerdì 26 febbraio 2021

Vestindien - Null

#PER CHI AMA: Black/Epic, Isengard
Dalle lande norvegesi ecco arrivare i Vestindien con il loro debut su lunga distanza, ben nove anni dopo l'EP che li vede debuttare, 'We Are the Lords of Hellfire, and We Bring You​.​.​.​Fire'. Il quartetto di Bergen, una città che ne ha viste di belle per quel che concerne la scena black metal negli anni '90, propone un black che prende drasticamente le distanze dal punk/hardcore degli esordi. 'Null' parte in sordina, con le note strumentali e assai malinconiche dell'opener "Mot Dag", che mi danno un'idea del tutto estranea a quello che sentiremo da "Beerenberg" in poi. Si perchè dal black atmosferico della traccia d'apertura si passa ad un sound più old school che evoca nella sua linea di chitarra il mefistofelico duo Venom/Bathory, mentre la voce irrompe prima in falsetto (King Diamond docet) per poi farsi più screamish. E nella parte finale, il black si miscela al thrash per una chiusura più robusta. "Meldrøye" mi dà una visione più epica dei norvegesi, quasi i nostri rendano tributo agli Isengard del buon Fenriz, con un sound decisamente più ritmato ma anche estremamente più melodico e venato di quel piglio folklorico che contraddistinse il mitico 'Vinterskugge'. Con la title track, le melodie si fanno più dark e al contempo ipnotiche, complice dei synth vintage che potevano stare tranquillamente nella colonna sonora di 'Twin Peaks'. Il sound è cupissimo, complice quel basso che detta i tempi in sottofondo ma che oscura totalmente tutti gli altri strumenti, mentre la voce del frontman Torjus Slettsnok eccheggia nel sua cantato il buon Quorthon. Da brividi. Quelli che non ho sentito invece nella più lineare "Ormegard", una traccia in cui forse emerge il retaggio hardcore dei nostri, ma che nel finale palesa invece ancora forti ancoraggi con il folklore nordico. Meglio la successiva "Ned", un mix tra black, viking e folk che la rendono davvero gradevole e danzereccia. Con la conclusiva "Øst for Sol", i suoni si fanno più compassati, e per quanto la song ammicchi ai Bathory più foschi, la traccia non mi coinvolge fino in fondo. Alla fine 'Null' è un album con un paio di hit davvero azzeccate ("Meldrøye" e "Null"), che lascierebbe presagire grandi potenzialità per il futuro, fatto salvo che non si debba attendere altri dieci anni. (Francesco Scarci)

(Dark Essence Records - 2021)
Voto: 73

https://vestindien.bandcamp.com/album/null

mercoledì 10 febbraio 2021

Needlepoint - Walking Up That Valley

#PER CHI AMA: Psych/Prog/Folk
Nel brano di apertura del nuovo disco della band di Oslo, "Rules of a Mad Man", c'è una frase del testo che mi ha colpito molto e dice più o meno così: "...ben presto la scacchiera fu un disastro, il gioco non aveva l'aspetto degli scacchi, la regina è stata pugnalata da una forchetta, da una pedina malvagia di New York..." Questo dettaglio, a mio parere, è la chiave per affrontare e capire il pianeta Neddlepoint, band talentuosa, con più di un decennio di vita e molti album alle spalle, band dall'indole visionaria, stralunata, piena di risorse e degna prosecutrice di una sorta di musica concettuale con chiari rimandi al periodo power flower, quanto alla psichedelia di fine anni '60, primi anni '70 per toccare picchi di progressive, jazz e free rock. Un quartetto capace, proprio come nel primo brano, di cantare e mettere in musica, le vicende di una battaglia che avviene tra pedine, fantomatici eroi e cavalieri, in una scacchiera immaginaria. Questa ben presto si allargherà ad un campo di battaglia all'interno della mente di un folle, affondando le sue radici in un contesto intellettuale, talmente fantasy e psichedelico favolistico, che lascia sconcertati per tanta fruibile bellezza. I norvegesi Needlepoint adorano il lato morbido e poetico del progressive, carico di venature assai colorate, ove nei testi si nasconde sempre una vena malinconica. Nel loro rincorrere voli di libera fantasia, ci si può imbattere poi in un corpo che si sdraia sull'erba e vuole essere portato via dalle formiche, proprio come raffigurato nell'artwork della copertina, sulla falsa riga de "I Viaggi di Gulliver". Musicalmente il quartetto di Oslo è impeccabile grazie a una sezione ritmica brillante piena di vitalità esecutiva che quando scioglie le briglie è un piacere ascoltarla. Tra le varie peripezie, la lunga "I Offered You the Moon" è una vera delizia. Una voce moderata di grande enfasi conduce il gioco ma non invade mai il campo, a tratti ricordando il guizzo allucinato dei Nirvana (quelli psichedelici inglesi non quelli di Kurt Cobain) di 'The Story of Simon Simopath' del 1967, poi si ricoprono di luce cristallina aprendosi al psych folk di 'The Shepherd' dei Genesis più intimi, abbandonandosi alle allucinazioni psichedeliche tra The Kaleidoscope e primi Caravan. L'intero disco è solcato da un sacco di strumenti e ospiti, il solo vocalist e compositore di tutti i brani e testi, Bjørn Klakegg, suona chitarra, cello, flauto e violino con cui, nel finale della folkloristica "So Far Away", dona anche un tocco di atmosfera celtica, il che ne amplia notevolmente le prospettive. "Carry Me Away" assume un taglio esotico con venature jazz, rock e bossanova, inoltre la presenza del coro "Carry me away", impreziosisce il brano portandolo verso lidi inaspettati e geniali proprio nella sua parte finale, cosi carica di fascino luminoso. "Another Day" e la lunga title track, con quella sua iniziale sognante malinconia e la sua coda evolutiva, sono l'ideale conclusione per un'opera immensa che il grande pubblico amante del prog/psych con la P maiuscola dovrebbe conoscere. Un disco che nasconde un'infinità di spettacolari luoghi e paesaggi sonori tra le sue note, un album che impressiona anche solo immaginando lo sforzo fatto per la sua stesura, l'ottima produzione e la sua artistica concezione, un disco che a dispetto del tempo, è da mettere in bacheca tra i gioielli di un'era, quella tra il 1967 ed il 1970, che cambiò il modo di intendere la musica rock, per sempre. (Bob Stoner)

lunedì 11 gennaio 2021

Spectrale - Arcanes

#PER CHI AMA: Ambient/Neofolk
Fluttua gorgogliando, agitandosi lento il primo pezzo degli Spectrale di questo secondo lavoro intitolato 'Arcanes'. “ Overture”: vortici dalla forza centrifuga alimentano acuti inviolati. L’apertura senza colpo di scena non sarebbe degna. Eccoci a “Le Soleil” brano da cui è stato estratto uno splendido video. Cavalcano i suoni le valchirie di Odino con i tocchi acustici del maestro Jeff Grimal. Scompongono i suoni le ancelle di Zeus. Le baccanti danzano sinuose dinanzi al fuoco di Bacco. Capite che in questo corpo di emozioni potreste essere chiunque, senza scordare che la malia del suono vi può portare da Medea. Dagli dei ad un talamo di veli di lino mossi dal vento dell’est. “L’Impératrice”. Un arpeggio di chitarra ed il violoncello di Raphaël Verguin ci portano ad un loop scomposto, poi a singole note pizzicate, ed ancora all’emozione, perché questa song si congeda con un climax ascendente di suoni emotivamente sanguigni. Quest'album è un salto continuo tra continenti. Ora la foresta Amazzonica ci ospita nell’ascolto di “Le Jugement”. I tronchi sentono i suoni, rimbalzandoli di volta in volta per rendere giustizia ai pensieri degli Spectrale che sembrano riflettere qui, alimentando l’attesa del prossimo brano. Non si fa attendere “Le Pendu”. Musica e poesia. Ripetuti e Rabbia. Carezze e diamante. Un vetro scolpito. Una soglia che cela. Un manto invisibile che vorrebbe cadere. Lasciamo l’atmosfera per una colonna sonora al cardiopalmo. “Interlude”. E vi ho detto troppo. Cambia ancora la veste trasformista degli Spectrale. Eccoci a “La Justice”. Ebbene siete innocenti? O siete colpevoli? Questo brano, col suo ritmo vibrante, vi porterà alla soluzione catatonica delle vostre incertezze. Aspettate che debbo vestirmi appositamente per questa “Le Bateleur”. Senza forma non potremmo assorbire la sostanza invisibile di questo grido femminile che vede il sublime featuring di Laure Le Prunenec (Igorrr, Corpo-Mente, Öxxö Xööx, Rïcïnn) dietro al microfono. Noi sulle rive della Senna. Lei sulle vette piu alte di una città. Noi predati dal suono. Lei suono. Ed è come avessimo vissuto un istante in mille anni. Sempre sul suono strumentale. Sempre sul ghiaccio sciolto dall’armonia. Sempre chiara, lontana e nostalgica è “La Lune”, un pezzo oscuro quanto una notte di luna nuova. Gli Spectrale chiudono con “La Papesse” il loro album. Un labirinto di speranza ed attesa. Una caccia ed una preda. Una evoluzione sonora che può ravvivare il nostro ascolto o portarci in un ghiaccio che solo noi potremo sciogliere. Immaginoso. Folgorante. Enigmatico. In questo lavoro degli Spectrale, ascoltate e scrivete. Avrete sorprese in musica.(Silvia Comencini)

(LADLO Productions - 2020)
Voto: 75


https://ladlo.bandcamp.com/album/arcanes

lunedì 21 dicembre 2020

Cave Dweller - Walter Goodman (or the Empty Cabin in the Woods)

#PER CHI AMA: Neofolk/Psych
Sono dieci i brani che compaiono in quest'album di debutto in qualità di solista, del musicista americano Adam R. Bryant. Uscito con il nome di Cave Dweller (da non confondere con altri, omonimi progetti sparsi per il web), già mastermind e componente effettivo della band post industrial, Pando, Mr Bryant ne evolve il concetto musicale, spostandolo decisamente verso le terre sconfinate del neofolk. Dieci canzoni immerse nelle nebbie mattutine, notti insonni e spazi aperti di natura incontaminata tra i paesaggi del Massachusetts. Storie che parlano di solitudini e disordini mentali, malattie, affrontate con il tono solenne del folk apocalittico ("Ancestor"), dell'alternative country filtrato dalla più buia espressività del dark e dell'alternative più rumoroso ("Why He Kept the Car Running"). La ballata nello stile di David J, soffocata da rumori d'ambiente, cicale, uccelli, fruscii, registrazioni in finto low-fi, una sorta di Burzum in veste di menestrello folk, imbevuto nello shoegaze, che a suon di chitarre acustiche mescola la selvaggia libertà di 'Into the Wild' con certo noise minimale e sperimentale, tanto caro ai Death in June. 'Walter Goodman (or the Empty Cabin in the Woods)' è un disco intimo e frastagliato, che riporta alla mente proprio l'album del 2016, 'Negligible Senescence', degli stessi Pando, con una ricercata vena poetica di base che si snoda lungo tutte le tracce. A volte si sentono echi post rock ma il suono è scarno, acustico e pieno di interferenze, anche il folk psichedelico appare tra le fila, ma il buio lo anima e lo rende tragico, mai spensierato, spesso ipnotico, malinconico, a volte persino evanescente, quasi ad inseguire un suono fantasma che ammalia, rapisce e sconcerta ("Where Trees Whispers"). Parti recitate e rumori d'ambiente inquietanti, disseminate ovunque ("Upon These Tracks"), registrati con smartphone e qualche altro aggeggio anomalo. Allucinazione e un senso di angoscia che si trasforma nei quattro brani conclusivi, spostandosi verso una tenue luminosità quasi pastorale con il coro di "The Secret Self", la cavalcata, alla Hugo Race (tipo 'Caffeine Sessions 2010'), tra country e synth wave cosmico di "Your Feral Teeth", lo strumentale dal solitario e rallentato passo bluegrass con il sottofondo di gabbiani e mare di "Bliss" ed il finale (con l'inizio che ha la stessa intensità della splendida "October" degli U2) lasciato ai rintocchi di piano di "To Return", segnano il battito di un disco non convenzionale, pieno di paesaggi in chiaroscuro tutti da scoprire, un viaggio insolito nel mondo di un folk parallelo, assai personale, intimo e nero come la pece, votato alla pura espressività poetica, per certi aspetti coraggioso ed innovativo. Una nuova veste per il neofolk a stelle e strisce. (Bob Stoner)

martedì 1 dicembre 2020

ĀraṇyakAƔnoiantAḥkaraṇA (ĀAAA) - S/t

#PER CHI AMA: Experimental/Ethno/Folk/Psych
La Family Sound è una realtà artistica esageratamente underground e fedele al credo Do It Yourself. La sua energia comunicativa è alimentata da una luce propria molto intensa, che mette l'arte al di sopra di ogni cosa, in maniera così ostinata che dalla produzione fisica a quella concettuale di un'opera sonora (nella sua filosofia rigorosamente una diversa dall'altra) non tralascia nulla alla banalità delle cose, neppure nella realizzazione dei dischi. Evitando le normali vie di fabbricazione dei vinili, costruendosi copertine autonomamente, fino a far uscire sul mercato, come in questo caso, la bellezza di sole 21 copie in vinile fatte a mano. Ricordando che i suoi artisti sono praticamente senza identità, che le opere nascono da una collaborazione internazionale, col solo intento di far esplodere l'ispirazione creativa dei musicisti, vi invito a farvi un'idea leggendo di seguito come questa etichetta usa presentarsi: "una one man label specializzata nella pubblicazione in vinile creando edizioni con musica diversa per ogni copia, copertine diverse, loops finali e altro". La label promette di adottare i principi dell’industria musicale al contrario: nomi dei gruppi impronunciabili e impossibili, edizioni in vinile super-limitate e super-costose, testi chilometrici, produzioni musicali troppo eversive per entrare in qualsivoglia nicchie, generi fuori moda, e altro ancora. Fatte le dovute premesse, affrontiamo il disco degli ĀraṇyakAƔnoiantAḥkaraṇA, cominciando da un nome impronunciabile per un disco ispirato alla cultura sacra vedica. Gli Aranyaka o "libri anacoretici" (circa sec. VIII-VI a. C.) sono opera di asceti che nella "selva solitaria" (āraṇya) sostituivano al culto esteriore delle cerimonie sacrificali il culto interiore della meditazione sul valore simbolico e sul significato mistico dei riti. Il nome del duo si fa carico del significato musicale dell'opera il cui intento è proiettare l'ascoltatore in un'estasi mistica, ipnotica e incantatrice, oserei dire, ossessivamente trascendentale. Prendete "Dust" di Peter Murphy, privatelo di tutte le sue parti ritmiche, tenendo solo quelle etniche, spostandole poi nel versante indio/ mediorientale, avvolgetele in un tappeto costante di sitar ancestrale e acido al pari di certa psichedelia allucinata di casa nella Londra del '67, sporcate il tutto con rumori e brevi accenni ritmici minimali, filtrate con l'elettronica, quella low fi, ed con del folk apocalittico. E il gioco è fatto. Immaginate i due brani di apertura del capolavoro '...If I Die, I Die' dei Virgin Prunes, "Ulakanakulot" e "Decline and Fall", scarnificati e suonati con la cupa e lenta avanguardia dei Sunn O))), il lato mistico dei Dead Can Dance e la psichedelia etnica di un capolavoro degli Aktuala quale fu il loro album omonimo del 1973, e ancora, la drammaticità dell'ultimo Nick Cave e le sfumature notturne del più cupo Tom Waits e forse avrete una lontana idea di cosa si nasconde dentro questo album. Tre brani di cui il primo, "No Store of Cows" supera i 22 minuti, seguito da un lampo di neppure due minuti per concludere con una liturgia dark di circa 15 minuti ("The Margin Spread"). Vi siete fatti un'idea di quale spettacolare risultato sia riuscito ad ottenere questo duo di musicisti senza volto? Un cantato oscuro alla maniera del gotico vocalist dei Bauhaus, teso, esasperato, che usa salmodiare le preghiere descritte nei testi che dentro al vinile sono trascritti, niente poco di meno che su di una reale pergamena, un impianto sonoro che non lascia intendere dove inizia il campionamento, il loop o la reale strumentazione suonata, ed una emotività sacra tanto esposta da rendere alcuni momenti musicali veri e propri viaggi spirituali, a volte trascendentali, a volte aspri e bui al pari di una composizione degli OM. La difficoltà di descrivere un album simile è enorme, poiché questo tipo di opera non è alla portata di tutti e rifiuta ogni logica commerciale, sono brani che richiedono attenzione assoluta e apertura mentale per essere recepiti nella loro integrità artistica, per questo servono più ascolti e molta concentrazione per capirli. Alla fine però, si ha l'impressione di essere di fronte ad un vero capolavoro, che rimarrà in eterno al di fuori del tempo. L'intento di creare musica altra, senza vincoli, ispirata e profonda, in questo disco si è decisamente fatta realtà. Un immancabile ascolto per gli amanti più temerari della psichedelia d'avanguardia. (Bob Stoner)

lunedì 9 novembre 2020

Varde - Fedraminne

#FOR FANS OF: Black Folk
The Norwegian trio Varde was founded three years ago by musicians with, at least for two of them, a previous background in the metal scene, being especially linked to the black metal scene in Norway. I especially think to Nord, currently involved in the return of the excellent Russian band Tvangeste. In its short existence the band has been quite active releasing two singles, one promising EP and the recently debut album 'Fedraminne', which has been released by the always reliable label Nordvis Produktion.

Varde’s core sound is firmly rooted in the black metal genre, though the Norwegian folklore has a primordial influence both in its lyrics and the music itself. Moreover, the band has not fear to introduce some unusual influences which enrich its music. The debut album 'Fedraminne' is a mature evolution of those ideas, which have been represented in eight songs, with a quite interesting degree of variety. This remarkable diversity may surprise the unprepared listener in certain moments. Varde’s style has a raw nature in its heaviest moments, with some powerful riffs and a remarkable vocal performance with some vicious screams. Anyway, we will taste through the album a combination of influences and approaches, both in the vocal department with the introduction of different types of clean vocals and rhythmically with the introduction of different arrangements. The evocative opening track, "Kystbillede del I" is a nice first example of it, with an excellent mixture of delicate keys, great riffs and a different range of vocals. We can also find more straightforward tracks like "Halvdan Svarte" or the more extreme one "Forbundet", which show Varde’s rawest face, with a high dose of aggression in the later one. The more surprising homonymous song shows in contrast the most experimental side of Varde, where we can find acoustic guitars, saxophone leads and folk influenced clean vocals, which create a totally different composition. Surprises don´t end here as a song like "Skuld" could confuse us with its industrial and martial sound, bringing us back those industrial black metal influences. The track itself is a good piece, though I must admit it may sound a little bit out of place in comparison with the general tone and conceptual background of the album. The closer song, "Kystbillede del II", is a nice summary of the album, combining atmospheric touches, experimental details and a more blackish and aggressive second half. In this final section both influences converge lead by ferocious vocals and a faster pace, until the rhythm decreases and the initial experimental and quiet introduction returns, making this song a remarkable way of ending this debut album.

All in all, 'Fedraminne' is a good work with some truly interesting and even genuinely surprising moments, which make the listener be reasonably excited with every song that comes next. This is always good when the quality is high and in general terms, Varde has created a fine release, which should help them to receive some attention from the scene. (Alain González Artola)


(Nordvis Produktion - 2020)
Score: 76

https://vardeband.bandcamp.com/

sabato 24 ottobre 2020

Falconer - From A Dying Ember

#FOR FANS OF: Power/Folk
I didn't think too much of this album until I heard it enough to make a formal opinion about it. It's quality! So sad to hear of their departure from the music community upon release of their album. They really had a great career that spanned about 30 years. I worked with Stefan on the guitar tab "Upon The Grave of Guilt" which made it official. The fact that he took the time to correct it was very kind on his part. And it goes to show you what a pleasant band to write about. This one is another one that goes into the about an above average release. As I say, it took a while to listen to until I felt the vibe on this.

The vocals are all clean by Mathias which isn't any different than any Falconer release. The riffs are invigorating and mindful. I like the melodies and leads. All 11 songs are killer. I liked every one of them and I thought that they were well worked out by the band. The vocals go well with the music. The guitars are way melodic. And there were some clean points mixed with piano (brief). I don't think there's a Falconer release that I dislike. They all are monuments. And Stefan kills it every time on lead. His performance is nothing but incredible. It's a shame that they wrapped it up for good with this release.

The production quality is sublime. It does the music justice. And the mixing, too. I'd say the highlights of the album are the tracks that show the utmost diversity in musicianship. The guitars are pure Stefan-related. He really does a powerful job with the writing here. Nothing but perfection! I think that these guys are and always will be at the top of their game. This one I like as much as 'Black Moon Rising' and 'Among Beggars and Thieves'. The music (I think) is the most noteworthy on this one rather than previous releases. It just simply shreds all of it. I think that they really left the scene on a positive note.

Check this out on YouTube because it might not be on Spotify. There's nothing but perfection on here. The whole album just simply rips. When you hear track 1 you'll probably say "oh yeah, I hear what he's talking about". I think that the legacy that Falconer left is for the next generation of folk metal to become of another. There will never be another Falconer, they are in the archives now with the rest of retired bands that left the scene on a good note and with another monument. It's sad that this is a reality, but they've chosen other pursuits in life to challenge them, thank you Falconer, thank you. (Death8699)


(Metal Blade - 2020)
Score: 76

https://www.facebook.com/falconermetal/

giovedì 24 settembre 2020

Gernotshagen - Ode Naturae

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Dalla Turingia ecco giungere direttamente dentro al mio stereo la quarta fatica dei Gernotshagen, a distanza di ben nove anni dal precedente album, 'Weltenbrand', che tanto impressionò (pare) la critica musicale. L'oscuro sestetto si presenta come dedito ad un pagan black misticheggiante e lo dimostra subito "Erwachen", intro tastieristica posta in apertura a questo 'Ode Naturae'. Dopo l'estasiante prologo, ecco scatenarsi il black dei nostri con la lunga "Eibengang", una traccia che mette in mostra le velleità dell'ensemble teutonico nel voler coniugare il furore della fiamma nera con sonorità ben più ispirate che ci trascinano in luoghi incantati, popolati da mitologiche creature. E la colonna sonora di tutto questo non poteva che essere affidata alla musica dei Gernotshagen, bravissimi nel saper dosare alla perfezione rabbia (poca a dire il vero) con splendide atmosfere, ma soprattutto incantevoli assoli che elevano alla grandissima le sorti ddell'album. Non li conoscevo, lo ammetto candidamente, ma diavolo che musica spettacolare, cosi suggestiva ed evocativa nel suo incedere, da farmi gridare immediatamente al miracolo. È un black mid-tempo quello che si consuma poi nelle note di "Eisenwald", traccia contraddistinta da una linea ritmica pulita, da screaming (e growling) vocals sempre comprensibilissime e da risvolti gotici che sembrano rievocarmi un che dei primi Moonspell. A tutto questo aggiungete anche una certa vena sinfonica, venature malinconiche e una dose di pompose atmosfere che sembra talvolta sovrassaturare la proposta dei sei musicisti di Trusetal. In taluni frangenti parrebbe infatti che la band voglia stupire con un sound costantemente in movimento che non riesce a proseguire su di uno stesso filone per più di pochi secondi. C'è davvero tanta carne al fuoco in queste tracce e il consiglio che mi sento di darvi è quello di assaporare il tutto con un bel paio di cuffie che possano avvinghiarvi le orecchie ma pure il cervello. E lasciarsi andare. Abbandonarsi alle autunnali atmosfere di "Blut für die Meute", un ascolto ideale per questo periodo dell'anno, laddove il verde delle piante cede il posto agli splendidi aranciati e rossi delle foglie che dipingono idealmente la musica di questa compagine tedesca che scopro ahimè soltanto ora, nonostante la loro formazione risalga addirittura al 1999. Mea culpa, e per farmi perdonare, mi darò all'ascolto dei precedenti lavori, ma nel frattempo ho promesso di immergermi nelle magica musicalità delle successive tracce: "Fahle Wege" sembra ispirata da certe cose dei Moonsorrow (soprattutto a livello effettistico) mentre i seguenti deliziosi capitoli che ci condurrà per quasi 70 minuti di musica a gustare melodie di un altro tempo. "Zyklus Tod" e "Wildnis" sono due song notevoli per proposta artistica, forse più cruda e orientata a sonorità doomish la prima, sebbene una seconda parte più varia, tra epici chorus e ritmiche più arrembanti (per non dire blackish). La seconda invece parte subito forte, tagliente, la più violenta del lotto e per questo anche la più imprevedibile. Ma i Gernotshagen sanno come ricatturare l'attenzione di chi ascolta, proponendo nuovamente partiture estremamente atmosferiche, cariche di un misticismo davvero intrigante, corredato qui da voci e cori puliti. Il risultato conferma l'eccelse doti dei sei guerrieri germanici, nelle cui file figurano anche ex membri di Menhir e Firtan, due band parecchio apprezzate da queste parti. In chiusura, la song fiume, "Transzendenz", diciassette e più minuti di sonorità fosche e decadenti, all'insegna del black progressivo, ove perdersi definitivamente nell'ascolto di un lavoro di tale portata che si candida ad essere una delle mie sorprese di questo 2020. Classe sopraffina, melodie incantevoli, talento da vendere per una band davvero sorprendente. (Francesco Scarci)

martedì 22 settembre 2020

Magni - S/t

#PER CHI AMA: Folk Acoustic Rock, Tenhi, T.K. Bollinger
Da membri ed ex membri di Until the Sky Dies e Idiot Robot, ecco a voi i Magni, band originaria di Phoenix che si presenta al pubblico con questo EP omonimo di quattro pezzi. La band, formatasi per mano di Clint Listing durante le sessioni dei suoi Until the Sky Dies, combina visioni dark folk sulla scia di quanto fatto da Tenhi o Antimatter, due band citate dallo stesso Clint nella pagina bandcamp dei nostri. Il dischetto si apre con le tenui suggestioni di "Pagan Vastland", una song che scorre sui tiepidi e malinconici accordi di chitarra acustica e una voce ancora bagnata da whiskey e sporcata dal fumo di una sigaretta. "Ragnarok" prosegue su queste coordinate, forse ancora più oscure e fragili dettate da enigmatici tocchi di tastiera dal forte impatto destabilizzante; quello che cambia rispetto all'opener è l'utilizzo di una voce che sembra travalicare nel black ma che dà comunque un pizzico di originalità alla proposta del duo dell'Arizona. Con "The Watcher" i nostri sembrano muoversi nei meandri di un gothic rock ancestrale, in una delle prime manifestazioni ottantiane del genere, penso a dei Joy Division decisamente depotenziati e de-elettrificati. In chiusura "Gold Fields", un altro pezzo dedito ad un mix tra folk, rock acustico e blues, con qualche rimando anche a T.K. Bollinger. Insomma, quello dei Magni è un discreto esordio per gli amanti di sonorità soffuse e raffinate. (Francesco Scarci)

(Dead Games Records - 2020)
Voto: 65

https://magnifolk.bandcamp.com/album/magni

lunedì 21 settembre 2020

Subway to Sally - Nord Nord Ost

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Folk Metal
Premesso, odio il cantato in crucco e trovarmi di fronte a questo disco, mi si scatena una sorta di allergia. Vabbè, cercherò di essere professionale fino in fondo. I Subway to Sally, come sapete, provengono dalla Germania, nazione importante solo per crauti e birra, per quanto mi riguarda. Formatisi nel 1992, vantano una discreta produzione discografica che spazia tra l’hard-rock e il metal, passando attraverso la musica folk-medievale, tanto da essere più volte accostati ai loro conterranei In Extremo. Questo 'Nord Nord Ost' album uscito una quindicina d'anni fa, non aggiunge più di tanto alle loro precedenti produzioni, se non per l’aver relegato in secondo piano la componente folk e vedere l’ingresso del batterista Simon Michael a completare la line-up. Per quanto riguarda la musica, direi che i Subway to Sally seguono il filone capitanato dai Rammstein, come era successo per 'Engelskrieger' con i classici pesanti riffoni di chitarra, musica elettronica e tante melodie popolari parecchio ruffiane. Alcuni brani non sono neppure malaccio, sempre dotati di ottimi arrangiamenti e piacevoli inserti acustici di liuto, violino e mandolino, tanto per citarne alcuni, ma poi quella voce, quella fastidiosa voce che si staglia sopra gli strumenti e che utilizza la “melodiosa” lingua tedesca per trasmettere le proprie emozioni, riesce nell’intento di rovinare tutto. No, proprio non riesco a mandare giù questo tipo di musica, ci ho provato con diversi ascolti, ma niente da fare, inoltre ho spesso trovato i brani fin troppo prevedibili e poco efficaci. Se anche voi, come me, non amate il cantato in teutonico, lasciate perdere; se siete amanti di Rammstein o In Extremo, i Subway to Sally potrebbero essere una discreta (ma niente di più) alternativa. (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2005)
Voto: 60

https://www.facebook.com/subwaytosally/

lunedì 7 settembre 2020

Dawn of a Dark Age - La Tavola Osca

#PER CHI AMA: Black Avantgarde/Folk
Dopo aver saputo che Vittorio Sabelli aveva ricostituito la sua creatura Dawn of a Dark Age (supportato questa volta alla voce da quell'Emanuele Prandoni di cui abbiamo recentemente recensito l'album degli Anamnesi), ero assai curioso di ascoltare i contenuti del nuovo disco. Abbandonato il filone relativo ai sei elementi della Terra, Vittorio è tornato questa volta con una tematica di carattere storico, 'La Tavola Osca' (o Tavola degli Dei), che dà appunto il titolo alla release e si riferisce ad un antico reperto di bronzo del III secolo a.C. appartenuto al popolo dei Sanniti, che testimoniò l'esistenza della lingua italica nella terra di origine del musicista molisano. Il disco pare muoversi attorno alle vicende che hanno portato al rinvenimento della lastra bronzea nel 1848 e alle sorti che la portarono a scomparire e ricomparire nelle mani di vari personaggi storici, ma il tutto è ben spiegato all'interno del booklet. Si parte dall'opener "La Tavola Osca - Le Divinità - pt.1 (Excerpt 1)", una song che sembra voler ricalcare il passato musicale dei nostri, attraverso la combinazione di un black serrato contrappuntato da una forte componente folklorica, il tutto palesato da ritmi incalzanti, screaming vocals ma anche da splendide melodie in sottofondo. Interessante il mid-tempo a metà brano con certi interessanti richiami a sonorità anni '70. Vittorio non rinuncia ovviamente alla furia del black, ma nemmeno alle trovate avanguardistiche che da sempre contraddistinguono il progetto. Si prosegue con i suoni pù calibrati di "La Tavola Osca - Le Divinità - pt.2 (Excerpt 2)" dove largo spazio viene concesso alla narrazione degli eventi da parte della voce di Vittorio stesso, ma l'apoteosi si raggiunge quando la scena se la prende l'imbizzarito clarinetto del polistrumentista italico, con un assolo da brividi, che mi fa ricordare il motivo per cui non vedevo l'ora di riascoltare la musica dei Dawn of a Dark Age. Quasi a voler parafrase il suo titolo, "La Tavola Osca - Processione Funebre pt.3 (Excerpt 3)" assomiglia ad uno di quei cortei funebri che sono stati messi in scena nella filmografia del sud Italia. Sicuramente un brano suggestivo a suggellare l'italianità di un lavoro che sembra voler affrescare scene della vita del nostro Mezzogiorno. Terminato questo trittico di brani facenti parti dell'Atto I del disco, ci troviamo di fronte al secondo Atto, che prosegue in "La Tavola Osca (I Atto)", con la narrazione da parte del factotum nostrano degli eventi storici come se si trattasse di un audiolibro, con tanto di strumenti acustici e clarinetto in background ad accompagnarne la lettura. Bisogna immergersi quindi nel coinvolgente contesto storico-musicale di queste parole e note, lasciandosi sedurre dal folk acustico del sempre più imprevedibile polistrumentista originario di Agnone, che da li a breve si lancerà in un'altra cavalcata dal sapore post-black. Ma la song, della durata di ben 23 minuti, regala sprazzi di grande musica evocativa, toccante, tribale, mediterranea, feroce quanto basta per definire questa suite un piccolo gioiello incastonato nella discografia del mastermind italico. L'ultimo atto, "La Tavola Osca (II Atto)", nei suoi 17 minuti narra di quando nel 1873 il British Museum acquistò la collezione artistica che includeva la tavola stessa e che oggi stesso ancora la preserva, alternando nel suo corso, fumantine esplosioni black con popolari intermezzi da sagra di paese. Gli ultimi dieci minuti che rappresentano verosimilmente l'ultima scena del lavoro, sono affidati ad un antico e litanico rituale in cui vengono menzionati peraltro i nomi delle divinità sannite incluse nella tavola. Alla fine, 'La Tavola Osca' segna il graditissimo ritorno sulle scene di uno dei musicisti più talentuosi e originali della nostra penisola, con un album strutturato, dotato di una buona dose di raffinatezza e sicuramente ben suonato, che peraltro unisce con grande interesse due ambiti culturali, la musica e la storia, ove il folklore popolare ne rappresenta il minimo comun denominatore. (Francesco Scarci)

sabato 29 agosto 2020

Suidakra - Command to Charge

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Folk
Iniziai ad ascoltare i Suidakra, quando nel 1999 uscì il loro terzo lavoro 'Lays From Afar'. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia con i quattro tedesconi che hanno dato alle stampe altri album, tra cui questo 'Command to Charge'. La qualità del sound proposto dal combo teutonico però, è andato via via peggiorando. Se tanto avevo apprezzato la band per la loro proposta death-epic-folk-power metal di 'Emprise to Avalon', non avevo di certo gradito la sterzata stilistica con il successivo 'Signs for the Fallen', che aveva abbandonato le caratteristiche atmosfere dei dischi precedenti, per lasciar posto ad un sound più aggressivo ma anche più anonimo. Con questo cd invece, i nostri hanno continuato sulla scia del precedente lavoro, perdendo però in cattiveria, probabilmente a causa di un uso più marcato di mid clean vocals, che mi hanno rievocato le performance vocali del singer dei Pyogenesis e che ammetto di non aver particolarmente apprezzato. Il guitar riffing, più raffinato rispetto al passato, paga spesso tributo allo swedish death metal dei Soilwork, ma rispetto ai colleghi svedesi, riesce fortunatamente ad essere più vario, passando da ritmiche incalzanti a piacevoli arpeggi, concludendo però con assoli poco convincenti. Ho dovuto attendere la decima traccia, la strumentale “Dead Man’s Reel” per ritrovare quel folk sound, a la Skyclad per intenderci, che tanto mi aveva colpito nei primi lavori, tuttavia si tratta di un episodio isolato. Il cd comprende anche due bonus live video tracks, “Reap the Storm” e “Morrigan”. Infine, vorrei segnalare che gli ultimi tre minuti dell'album riservano la classica ghost track, addirittura la cover “Moonlight Shadow” di Mike Olfield, completamente stravolta. Per quanto mi riguarda, questo 'Command to Charge' è più un album di transizione che porterà la band di Düsseldorf a ottimi traguardi già a partire dai successivi 'Caledonia' e 'Crógacht'. Qui ahimè semplicemente sconclusionati. (Francesco Scarci)

(Armageddon Music - 2005)
Voto: 55

https://www.facebook.com/Official.SuidAkrA

venerdì 31 luglio 2020

Vermilia - Keskeneräisiä Tarinoita

#PER CHI AMA: Folk Pagan Black, Myrkur, Dismal Euphony
Vi presento Vermilia, la one-woman-band finlandese dedita ad un folk pagan black. A distanza di un paio d'anni dal pluriacclamato debut 'Kätkyt', ecco ritornare la nostra eroina con un EP nuovo di zecca intitolato 'Keskeneräisiä Tarinoita'. Il disco, uscito autoprodotto, si apre sulle delicate note folkloriche di "Hauras, Kuollut, Kaunis" che funge da intro al platter. Un pizzicato di chitarra, degli archi e la suadente voce dell'artista finlandese e già mi sono perso tra le foreste incantate della Lapponia a ripescare dalla mia memoria i primissimi The 3rd and the Mortal e la principessa Myrkur. La sublime voce di Vermilia è puro incanto, e l'utilizzo della lingua madre ne aumenta la sua magia. Con "Taivas Hiljaa Huutaa" si comincia a far sul serio, con il classico pagan black dove la voce della polistrumentista nordica assume connotati leggermente differenti, spingendosi talvolta nell'utilizzo delle screaming vocals. La proposta si muove comunque nel mid-tempo, sebbene ogni tanto ci scappi qualche accelerazione black. Carino il chorus folkish sul finire del brano. La title track occupa il terzo posto in scaletta e l'inizio ha un che di colonna sonora cinematografica. Poi la canzone si srotola in un sound oscuro, lento e compassato, ove quasi in sordina, appare la voce della mastermind finlandese nella sua duplice veste, pulita e più rabbiosa. Ottimi gli arrangiamenti della traccia, peraltro al limite del sinfonico. La conclusiva "Pimeä Polku" è la song più ringhiante del lotto, spettacolare nello sprigionare un gran carico di energia malvagia, evocandomi per certi versi i Dismal Euphony di 'Autumn Leaves - The Rebellion of Tides'. Alla fine l'EP è ben riuscito, forse non quanto il debut album, ma comunque costituisce un buon viatico per un secondo lavoro che in molto attendono con curiosità. (Francesco Scarci)

mercoledì 29 luglio 2020

Thrawsunblat - Insula

#PER CHI AMA: Folk Black, Woods of Ypres
'Insula' credo che sia uno dei primi lavori nati e concepiti in pieno periodo di lock down. Scritto infatti tra il 23 marzo e il 20 aprile 2020, il disco nasce interamente per mano di Joel Violette, il fondatore dei Thrawsunblat. Il titolo si rifà ovviamente al latino isola e il frontman canadese lega il significato di questa parola al fatto che ognuno di noi fosse in un qualche modo intrappolato nel proprio isolamento, proprio come accade agli astronauti durante le loro missioni nello spazio. Da qui nasce l'ispirazione proprio all'astronauta Chris Hadfield e ai quattro punti da lui indicati per vivere bene l'isolamento sulla Terra e renderlo produttivo: comprendere il rischio reale, identificare l'obiettivo, tenendo presente i nostri vincoli e infine agire, l'isolamento quindi come opportunità di fare qualcosa di diverso, proprio come un'astronauta nello spazio. Fatte queste dovute premesse, per comprendere al meglio la filosofia che si cela dietro questo lavoro, esploriamone anche i contenuti musicali. L'EP si apre con "Spectres in Mist" e quel black melodico che affonda le proprie radici nel folk. Ottime le linee melodiche che fanno subitissima presa nella testa, cosi come le clean vocals dei cori che si contrappongono al rauco cantato del frontman, per una delle migliori canzoni partorite dal quartetto originario di Fredericton. Più lineare e aggressiva la seconda "Carry the Sun", una traccia che non vede grosse impennate emotive, se non in una seconda parte più ispirata della prima, decisamente un po' piattina. "Until Ebb the Waters" suona invece come la classica cavalcata di black epico, che vede comunque buoni rallentamenti e in generale un song writing sopra la media. La traccia di chiusura è affidata a "Heave the Oars", un pezzo ritmato, carino ma che francamente non aggiunge davvero nulla degno di nota alla discografia del combo canadese. Alla fine si percepisce che 'Insula' è un lavoro di pancia, non troppo studiato e nato proprio dall'urgenza di esprimere un messaggio che sarà bene si imprima nella mente di chiunque. (Francesco Scarci)

venerdì 10 aprile 2020

Eluveitie - Slania

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Pagan/Death, Cruachan, Korpiklaani
Andiamo a ripescare quello che è stato il secondo lavoro degli svizzeri Eluveitie, ossia 'Slania' del 2008 (riproposto peraltro in occasione del decennale nel 2018 con una cover rinnovata e alcune bonus track, le demo version delle song incluse nell'album). La band elvetica torna con quel sound rude, ma atmosferico, caratterizzato dall'utilizzo di strumenti tipici della tradizione celtica (l'hurdy gurdy e la fisarmonica per esempio), tradizione alla quale si rifà la band alpina ma non solo, vista la presenza anche di altri strumenti tipici svizzeri come lo zugerörgeli (una specie di accordion) e il bodhràn. Più vicini alle sonorità di Korpiklaani e Asmegin, accomunati più per ideologia agli irlandesi Cruachan, l'act d'oltralpe (composto da ben otto elementi!) rilasciò questo interessante e suggestivo lavoro, addirittura per la Nuclear Blast e il risultato non fu affatto male. Il death metal dalle tinte folkish dell'act di Zurigo mantiene la rudezza del genere, ma grazie a preziosi e ariosi arrangiamenti, è capace di spingerci a ritroso nel tempo di mille anni, dove i riti pagani si consumavano quotidianamente. A me questo lavoro piace senza ombra di dubbio, anche se rimango stupito di fronte all'incedere super indiavolato di un pezzo come “Bloodstained Ground” che di folk ha ben poco, se non il finale. Sorprendente è l'aggettivo che si deve dare a un disco di simile fattura, perchè in grado di rievocare con estrema efficacia, le tipiche melodie popolari irlandesi, pur mantenendo intatto l'approccio feroce del death metal: riffing veloci, nervosi e ritmiche sostenute delineano il sound di fondo di 'Slania'; tocca poi al magico suono delle fisarmoniche e dei violini donare quel quid in più ad un lavoro in grado di spingere la band verso quello che sarà il meritato successo. (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2008)
Voto: 75

https://www.facebook.com/eluveitie

venerdì 27 marzo 2020

Dark Fount - Become the Soul of Mist (幽浮林澗之霧)

#PER CHI AMA: Black/Acoustic Folk
Dati per dispersi da ben 13 anni, i cinesi Dark Fount tornano a farsi vivi, rilasciando un EP (tra l'altro disponibile in soli 30 pezzi esclusivi in cassetta) di un paio di brani, edito dalla Pest Productions. La one-man-band di Tai'An, guidata da Li Tao, si è fatta portavoce fin dagli esordi del black metal made in China, in compagnia dei soci di scuderia Zuriaake. Dicevo solo due pezzi per questo 'Become the Soul of Mist', che si aprono con il black mid-tempo di "幽浮林澗之霧", un esempio di glaciale e melodico sound oscuro che vede delle accelerazioni al limite del post black comparire nella seconda metà del brano, ove le grim vocals del mastermind cinese trovano ampio spazio, mentre la melodica linea chitarra ricorda un che dei Mahyem di 'De Mysteriis Dom Sathanas'. La seconda "餘燼" è una suggestiva song acustica che nel suo desolante e malinconico incedere folk, sembra tributare quell'ultimo saluto alle vittime del virus che sta falcidiando il mondo in questi giorni complicati. Certo la proposta del musicista cinese è un po' troppo risicata per delineare in modo strutturato il come back discografico dei suoi Dark Fount, per cui conto assolutamente di risentirli quest'anno in un disco dalla durata più importante, per ora da parte mia solo un ben tornato. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2020)
Voto: 64

https://pestproductions.bandcamp.com/album/--8