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martedì 9 maggio 2017

1476 – Our Season Draws Near

#PER CHI AMA: Indie/Post Punk/Neofolk
Dei 1476 siamo stati tra i primi, in Europa, a parlare, all’epoca dell’uscita del loro secondo album 'Wildwood', accoppiato all’EP acustico 'The Nightside', e all’epoca li definimmo come uno dei segreti meglio custoditi dell’underground americano. Finalmente qualcuno se n’è accorto, per la precisione l’ottima label tedesca Prophecy Productions, che lo scorso anno ha ristampato i lavori, inizialmente autoprodotti, della band di Robb Kavjian e Neil DeRosa. Non è mai bello vantarsi delle proprie scoperte, dire “L’avevo detto io…” con aria saccente e compiaciuta, però è indubbio che faccia piacere vedere una band di cui si era parlato con toni più che positivi più di quattro anni prima, raggiungere ampi e diffusi consensi una volta promossi come si deve da un’etichetta competente. E allo stesso modo non è bello poi, girare la faccia dall’altra parte davanti ad un nuovo disco pubblicato dalla nuova etichetta, dicendo che “erano meglio prima”. Per cui eccolo qui, 'Our Season Draws Near', un disco atteso come pochi altri ultimamente, e che vale ogni giorni passato ad aspettarlo. Rispetto al decadentismo un po’ naif (ma anche tanto affascinante, va detto) delle release precedenti, questo è un album asciutto e rigoroso, che abbandona ogni sovrapproduzione e si concentra sul suono delle chitarre e della batteria, ora acustico e sussurrato, ora ruggente e aggressivo, in un’esasperazione dei contrasti che, alla fine, è il tratto distintivo della band del New England. È evidente il miglioramento a livello di produzione, che ha permesso ai 1476 di esplorare un nuovo lato della loro natura, evolvendo definitivamente dall’art rock degli esordi in un ibrido tra canzoniere gotico americano, una certa wave scura e selvaggia e metal estremo che non ha effettivamente termini di paragone al giorno d’oggi nel panorama internazionale. Provate a pensare, se ci riuscite, a una fusione tra 16 Horsepower, Death in June, Agalloch, Gun Club e, chessó, Iced Earth, e forse vi avvicinerete all’effetto finale. Non è facile descrivere certe tracce, ma la sequenza "Solitude (Exterior)" – "Odessa" – "Sorgen (sunwheels)" - "Solitude (Interior)", col suo alternarsi tra atmosfere acustiche e muri di suono, dolcezza ed improvvise accelerazioni che conducono ad un saliscendi emotivo davvero incredibile, è una cosa che vale intere discografie. La voce di Kavijan si conferma una delle più particolari ed emozionanti sulla piazza, e marchia a fuoco 10 canzoni (11 nella deluxe edition) che sono forse meno immediate al primo impatto rispetto al passato, ma che crescono in maniera costante e inesorabile ad ogni ascolto, disegnando i contorni di quello che si configura come un grande classico, un disco con cui dovremo tutti fare i conti alla fine dell’anno e negli anni a venire. (Mauro Catena)

(Prophecy Productions - 2017)
Voto: 85

https://1476.bandcamp.com/album/our-season-draws-near

giovedì 6 aprile 2017

Soundscapism Inc. - Desolate Angels

#PER CHI AMA: Progressive Post Rock, Anathema, Mogway
Devo ammettere che al primo ascolto, il secondo album dei Soundscapism Inc., datato 2016 e distribuito via Ethereal Sound Works, non mi aveva colpito granché. Questo è il progetto solista di Bruno A., musicista eclettico tuttofare, ottimo chitarrista, programmatore e cantante (aiutato peraltro in tre brani dalla voce del fidato Flavio Silva). Riascoltando più volte il lavoro, soprattutto in un religioso stato di isolamento che mi ha permesso di addentrarmi per benino tra le note eteree e le rarefatte atmosfere espresse in questo 'Desolate Angels', mi sono accorto alla fine, con la complicità di una benevola sensazione, di aver scoperto una piccola perla musicale, ricercata e assai intrigante. Difficile collocare il musicista lusitano (membro anche dei Vertigo Steps) in un qualsivoglia filone musicale, ma se proprio lo si deve fare, a mio avviso l'unico matrimonio artistico lo vedrei con la neo-psichedelia, arricchita da forme di visionario post rock, cariche di colori boreali e memore di sconfinati e rilassati paesaggi sonori, cari a certa musica a cavallo tra il folk e l'ambient. Se "Zwinchenspiel I" sembra una b-side dimenticata in un cassetto da The Edge, chitarrista degli U2, in epoca 'The Unforgettable Fire', nella title track lo spettro dei Coldplay si affaccia mostrando fortunatamente il suo volto meno zuccherino e decisamente più intriso di allucinazione e intensità, avvicinandosi sempre più all'evoluzione progressiva e cinematografica tipica dei Mogway, per una decina di minuti all'insegna della libera fluttuazione nel cielo. La musica dei Soundscapism Inc. è un viaggio alla scoperta del proprio io, come lo stesso autore afferma e ditemi se non si può essere toccati nell'anima dall'intro di "Man in the Glass", che trasuda il sound degli inglesi Bark Psychosis da tutti i pori, per poi penetrare gli angoli più gradevoli dei migliori Mercury Rev, mantenendo sempre una costante originale interpretazione del verbo psichedelico. Centratissima poi la copertina di "floydiana" memoria, coerente con la proposta dell'artista portoghese, ora piazzatosi in pianta stabile a Berlino. Tutto è suonato con eccellenza e la qualità sonora è ben ricercata e particolare, non necessariamente in linea con le produzioni stucchevoli del post rock di oggi, forse più realista e vicina ai mitici Godspeed You! Black Emperor, sempre e comunque carica di personalità. "February North" è incredibilmente vicina alle ballate acustiche che mozzano il fiato negli ultimi capolavori degli Anathema, ricreando quella stessa angelica atmosfera, ovviamente rivista nel mondo alchemico dei Soundscapism Inc.. Senza dimenticare tocchi eterei di cosmica redenzione e granelli di sabbia lunare rubata dal repertorio filmico del grande Vangelis con intrinseca ma velata ammirazione per caldi suoni ambient e vintage trafitti dalla moderna psichedelia e dal folk. Senza dubbio una scoperta assai interessante, stimolante e vera, un originale meltin pot che vi aprirà le porte dell'anima, un artista che vive di luce propria e in tempi come questi non è poco. Massima ammirazione per i Soundscapism Inc., massimo rispetto per questo notevole 'Desolate Angels'. (Bob Stoner)

(Ethereal Sound Works - 2017)
Voto: 80

https://soundscapisminc.bandcamp.com/releases

venerdì 28 ottobre 2016

Ekstasis – The Adversary

#PER CHI AMA: Neofolk acustico
L'universo della musica folk è talmente inconsueto e trascendentale che se si evita il tradizionale e quindi omologato, per ovvi motivi, standard d'esecuzione, si hanno sempre nuove e ottime sorprese. La super band in questione viene da Olympia, Washington (anche se il loro sound non ha nulla di americano) e suona come una sorta di neofolk dalle tinte color pastello molto calde e avvolgenti, con una componente mistica di elevata intensità e, cosa che li contraddistingue dalla grande massa, è un confine labile tra classicismo barocco e folk acustico di rara bellezza e forte emotività. Al secondo album, uscito in collaborazione con la Pest Productions via Invisible Oranges, Johnny DeLacy alla chitarra e voce (Faun, Threnos, Fearthainne), coadiuvato alla seconda chitarra da Ray Hawes (Skagos, Iskra), e con Mara Winter ai flauti, Mae Kessler al violino, Marit Schmidt alla viola (Sangre De Muerdago, Vradiazei, Memory boys) e Michael Korchonnoff (Alda, Fiume, e Novemthree) alle percussioni e voce, i nostri Ekstasis sfornano un disco decisamente di alto livello riuscendo a compiere quel salto finale che li colloca tra le migliori uscite in ambito neofolk degli ultimi tempi. Già nell'album precedente, il paesaggio acustico era portato ad una bellezza senza tempo mentre in questo secondo lavoro la bellezza diviene infinita con picchi di qualità che sfiorano la divinità. In primis, il gusto espresso per un sound colto e rurale (passatemi il termine), una produzione egregia, e un suono talmente naturale che sembra di entrare in un paesaggio medievale immerso nella natura fin dalle prime note d'ascolto; poi, il legame con album epocali come 'Beautiful Twisted' di Sharron Kraus, 'Quaternity' dei Sabbath Assembly o le alchimie ancestrali dei bretoni Triptyque e del folk senza tempo dei mitici Sedmina, è indissolubile e inevitabile per una comune capacità di reinterpretare il folk in termini futuristi senza mai tagliare il cordone ombelicale che lo lega alle radici più oltranziste del genere. Nei sei brani spettacolari contenuti in 'The Adversary' troviamo diverse provenienze musicali riprese da mondi diversi, tutte attinenti al folk più radicale, ma sia chiaro, nessuna parentela con il folk metal o affini, qui c'è un totale isolamento dalla musica di routine ed un'enfasi estatica memorabile tradotta in influenze celtiche, musiche dell'est Europa e tanto altro. Non vi è un brano meno splendido dell'altro, tutti insieme formano una sorta di lungo pellegrinaggio verso una terra di nuova speranza, sofferta e cercata, passando da un impatto epico, sognante e malinconico. Musicisti navigati ed esperti gli Ekstasis, si mostrano oggi desiderosi di creare nuove pagine di una tipologia di folk concettuale, legata saldamente al passato ma lanciata più che mai nel costruire nuovi territori sonori acustici, affascinanti, intimi e barocchi. Senza tempo né origine geografica, universali connessi alle visioni eteree di band quali Ataraxia, Dead Can Dance e The Moon and the Nightspirit. Se il mondo si affidasse alle musiche di artisti come questi, la vita spirituale di tutti sarebbe di uno spessore decisamente più elevato. Capolavoro tutto da scoprire! (Bob Stoner)

lunedì 26 settembre 2016

Dee Calhoun – Rotgut

#PER CHI AMA: Rock Acustico
Non è raro che chi suona in band di musica hard decida ad un certo punto di esprimersi in un ambito apparentemente lontano da quello abituale, pubblicando dischi per lo più acustici, quieti, intimi. Basti pensare ad esempio ai Neurosis e alle uscite soliste di Steve Von Till e Scott Kelly, a Wino o al “nostro” Stroszek. Alla lista si aggiunge anche "Screaming Mad" Dee Calhoun, da qualche anno voce della storica band doom degli Iron Man. Il suo esordio da solista esce per l’etichetta ligure Argonauta Records ed è un lavoro sicuramente interessante, per i fan della band madre ma non solo. 'Rotgut' è un disco prettamente acustico, scritto, suonato e cantato in modo totalmente autarchico dal buon Dee, ad eccezione di qualche parte di armonica e violoncello. Quello che emerge in maniera preponderante è la voce di Calhoum, potente e versatile, al di là di quanto già sentito negli Iron Man. Il nostro è in grado di scegliere tra più registri e risultare comunque convincente, sia quando aggredisce il microfono con tono rauco che quando fa volare le sue corde vocali in alto in modo sorprendentemente limpido. Musicalmente i brani si muovono tra atmosfere alla Alice in Chains acustici ("Unapologetic", "Babelwoka"), western-blues polverosi ("Backstabbed in Backwater", "Cast Out The Crow"), ballate toccanti ("At Long Day’s End") e suggestioni folk ("Winter: A Dirge"). Ci sono poi brani meno definiti, in cui Calhoum sfoggia un approccio forse un tantino epico e che in generale appaiono un po’ troppo prolissi ("The Train Back Home") e c’è anche spazio per un omaggio al figlioletto (che canta con lui) nella prescindibile "Little’Houn, Daddy ‘Houn". La resa sonora non è impeccabile, ma quest’aria da demo casalingo contribuisce ad accrescere quel senso di spontaneità che fa bene ad un album sincero ed appassionato, cui avrebbe sicuramente potuto giovare una nemmeno troppo generosa sforbiciata nel minutaggio. (Mauro Catena)

domenica 10 marzo 2013

The Last Three Lines - Leafless

#PER CHI AMA: Rock Acustico, Post-grunge
Ad essere sincero, avevo un po’ snobbato questo slipcase di cartone che il buon Franz mi ha recapitato sulla scrivania, complici un primo ascolto distratto, dove quasi nulla era riuscito a destarmi dal torpore post-prandiale, e il termosifone dell’ufficio, che da ottobre ad aprile spara fuori aria torrida, senza possibilità di regolazione alcuna. Gli ascolti successivi si sono invece rivelati preziosi, e mi hanno spinto a cercare più informazioni su questa band di Barcellona, dedita ad un genere di musica che loro stessi definiscono come “barbuta” (!). Ho così scoperto che questo EP di sei pezzi – tutti rigorosamente acustici – offre uno spaccato più essenziale e spoglio (da qui il titolo del lavoro) della loro musica, solitamente più elettrica e robusta, sorta di pop-rock ipervitaminizzato, un po’ Muse, un po’ Phoenix. Le prime tre parole che mi sono venute in mente sono state “New Acoustic Movement”, ovvero quella scena – reale o presunta – che aveva preso piede sul finire degli anni ‘90 soprattutto in Inghilterra, impegnata a riscoprire il folk degli anni ‘60-70. E in effetti, qualcosa nella musica dei “The Last Three Lines” ricorda il folk-rock melodico e vagamente epico proposto ad esempio dai Turin Brakes (la bella “Lonely Parade”) o Tom McRae (l’incalzante “Insomnia”), in termini di timbrica vocale, cantabilità e sapiente utilizzo delle chitarre. C’è però dell’altro in questi sei pezzi: ci sono atmosfere vagamente grunge (l’iniziale “Trail of Breadcrumbs” non rimanda forse agli Alice in Chains di “Jar Of Flies?”), armonizzazioni vocali che richiamano la west-coast e anche una sorprendente vicinanza, per timbrica e una certa solennità inquieta, al Dave Eugene Edwards degli episodi meno torbidi dell’avventura Wovenhand. Non vorrei esagerare, ma sembra quasi che la veste acustica giovi alla musica degli spagnoli, esaltandone la scrittura e la freschezza, rispetto al tono un po’ troppo enfatico (ma sono gusti personali) della loro proposta “ufficiale”. Potrebbe essere uno spunto interessante per il prosieguo della loro avventura. Per il momento, noi ci teniamo volentieri questi piacevoli 22 minuti di musica “senza foglie”. (Mauro Catena)

sabato 16 febbraio 2013

Stroszek - A Break in the Day


#PER CHI AMA: Apocalyptic folk, Current 93, Mark Lanegan, Leonard Cohen
Stroszek era il protagonista dell’omonimo film di Werner Herzog (“La ballata di Stroszek” nella versione Italiana) del 1977, che narra, con un forte tono di denuncia, la parabola di un uomo "diverso" che la società a più riprese rifiuta, fino a determinarne l'annientamento. Pare, tra l’altro, che fosse tra i film preferiti da Ian Curtis, che lo guardò poche ore prima del suo suicidio. E proprio questo film, come si legge nelle note biografiche, ha dato il nome a questo progetto di Claudio Alcara, già chitarrista dei Frostmoon Eclipse, che personalmente non conosco ma che mi si dice essere uno dei nomi di punta del Black Metal della penisola. Dati i presupposti, le atmosfere e i temi trattati sono tutt’altro che solari, ma quella operata da Alcara, in termini di impatto, è una sterzata nettissima, quasi un testacoda, dato che si cimenta con sonorità quasi esclusivamente acustiche (pensate ai dischi solisti di Steve Von Till rispetto a quelli dei Neurosis, per esempio). Questo lavoro allinea le cinque tracce che componevano l’EP dallo stesso titolo registrato nel 2011, rimpolpando il programma con altre quattro composizioni che danno un quadro più fedele ed esaustivo della proposta attuale del gruppo, ma forse alterna in qualche modo l’omogeneità del disco. La prima metà del lavoro è caratterizzata dal connubio tra la chitarra acustica di Alcara e la voce femminile di Nat, qua e là punteggiate da qualche nota di pianoforte, come nel magistrale pezzo di apertura, “Autumnal Moon”. Siamo dalle parti di un folk, di impronta essenzialmente americana, fortemente evocativo, che ricorda per atmosfere, suoni e songwriting, i dischi di Mike Johnson o i primi lavori solisti di Mark Lanegan, al quale i vocalizzi di Nat apportano un’impronta molto personale. Nella seconda parte del disco iniziano a fare capolino percussioni e anche qualche distorsione chitarristica, come nella notevole “A Veil”. Gli ultimi due pezzi sono invece di nuovo scarni e un tantino lugubri, quasi apocalittici - alla maniera dei Current 93 - cantati dallo stesso Alcara, il cui timbro baritonale e sussurrato, nonché un po’ monocorde, ricorda un ipotetico ibrido tra Leonard Cohen e Peter Steele. Lavoro interessante, forse di transizione verso una maggiore messa a fuoco della direzione da intraprendere, ma che impone di segnarsi il nome degli Stroszek tra quelli da seguire nell’ambito del new folk. (Mauro Catena)

(Pest Production)
Voto: 70

http://www.stroszekmusic.com/

sabato 23 ottobre 2010

Leafblade - Beyond, Beyond


Consigli per l’ascolto: toglietevi le scarpe, coricatevi su un letto (o un divano), rilassatevi, chiudete gli occhi, premete “Play”, lasciate fuori tutto il resto... Non è un album facile: se non avete voglia di lasciarvi andare ad una musica particolarmente evocativa, eterea e sognante, cercate altrove. Sì perché quest’opera degli inglesi “Leafblade” (formati da Sean Jude, Daniel Cavanagh e Daniel Cardoso) non ha nulla di metal. Ma è maledettamente brillante. Suoni, voci, melodie, arpeggi di chitarra: tutto elegante, curato. Sonorità ricercate, con qua e là richiami new age e inserti di suoni della natura, che portano un che di bucolico in lontananza. Il cantato melodico, confidenziale, in alcuni casi quasi sussurrato, si sposa con gli accordi raffinati e la parte ritmica mai sopra le linee. Ne esce un’alchimia sonora, che è quasi un incantesimo. Il senso di fascinazione, che nasce da ogni singola traccia, nell’ascolto filato dell’album purtroppo si stempera... e quasi le songs non si distinguono, si amalgamo in un continuo sospeso. Sicuramente è voluto, sicuramente è evocativo, sicuramente crea una specie di ostacolo all’ascolto. Ecco dove è il lato debole dell’album. Per mantenere l’incantesimo, il tono diventa un po’ troppo monotono, e così si presta il fianco alla noia. Non perché le canzoni abbiano tutte le stesso schema compositivo, anzi mi pare che gli autori non lo considerino per nulla (non troverete ritornelli o strofe veri e proprie), ma per lo stile mantenuto senza accelerazioni improvvise o fughe. Però, come non apprezzare il ritmo e i suoni di flauto di “A Celtic Brooding in Renaissance Man”? Come non lasciarsi trasportare dalla armonia e dalle parole (sono in inglese, ma cercate di trovarle se non le capite ad orecchio) della conclusiva “Sunset Eagle”? E come non trovare davvero equilibrata “Rune Song”? Quest’ultima rappresenta al meglio l’anima di questo platter, con i suoi pregi e difetti. Una mia nota particolare: il lavoro si apre con il suono di un ruscello e con lo stesso si chiude. Ho un debole per questi espedienti, quando son fatti bene. Trovo molto azzeccata l’immagine in copertina del disco, dal packaging davvero essenziale. Un CD apprezzabile, non immediato, che ha bisogno di qualche ascolto e della voglia di seguire il viaggio propostoci dagli artisti senza remore. Fidatevi. (Alberto Merlotti)

(Angelic Records/Aftermath Music)
Voto: 75