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venerdì 14 giugno 2019

Darkenhöld/Griffon - Atra Music

#PER CHI AMA: Atmospheric Black/Folk
Torna la Les Acteurs de l'Ombre con una produzione nuova di zecca, tutta made in France, come da tradizione in casa dell'etichetta transalpina. Questa volta trattasi di uno split album, in cui a condividere il minutaggio, ci pensano i Darkenhöld, trio originario di Nizza, e i Griffon, quintetto proveniente da Parigi. La proposta di 'Atra Music', questo a proposito il titolo del dischetto, si apre col folk black di quest'ultimi e i loro quattro pezzi a disposizione con i quali farci assaggiare la loro personale visione del black. Oltre alle variegate contaminazioni folk, quello che colpisce in "Si Rome Vient à Périr", è un uso alquanto originale delle voci, tra il declamato e lo screaming arcigno, il tutto su un impianto ritmico a tratti nevrotico e urticante, ma in grado anche di deragliare in anfratti più sinfonici, proprio come accade nel finale dell'opening track. Lo sferragliare di "Souviens Toi, Karbala" sembra evocare il suono della battaglia grazie ad un black tirato, interrotto solo da qualche frangente più ragionato e melodico, nonchè tribale, ancora una volta sul finire del pezzo. In "Jérusalem" rieccheggia il suono di un black battagliero, di scuola "windiriana" che sottolinea le influenze della band ma che ci dice anche che non c'è nulla di nuovo all'orizzonte, aggrappandosi ad idee interessanti fino ad un certo punto, sicuramente già largamente sfruttate da tutto quello stuolo di band dedite ad un atmosferico ed epico black metal. L'outro folkish dei Griffon ci dà modo di prepararci al sound acustico di "Marche des Bêtes Sylvestres", la prima delle quattro frecce da scoccare da parte dei Darkenhöld. Con mia somma sorpresa però apprendo che la proposta dei nostri sia interamente affidata a suoni acustici e quella che io credevo una sorta di intro, rappresenta in realtà lo standard dell'offerta dei Darkenhöld anche nelle successive "Le Sanctuaire de la Vouivre", "Les Goules et la Tour" e via dicendo ove i nostri ci deliziano con un sound all'insegna di un medieval black metal, dove la parola black è affibiabile esclusivamente alle grim vocals. La ritmica infatti, è affidata a flauti, violoncelli, arpe e percussioni, il ttuo in versione completamente unplugged. La proposta del terzetto mi ricorda per certi versi il brano contenuto in 'Rotten Light', “Dialogue with the Sun”, dei nostrani Laetitia in Holocaust, per quel suo drumming incessante che va ad intersecarsi alle chitarre acustiche e ci permettono di conoscere qualcosa di più della personalità camaleontica dei Darkenhöl. Esperimento riuscito, anche se non so quanto possa aver presa sui fan. Vedremo. (Francesco Scarci)

Feradur - Legion

#PER CHI AMA: Melo Death/Thrash, Amon Amarth
In uscita questi giorni il comeback discografico dei lussemburgo-teutonici Feradur. 'Legion' rappresenta infatti il secondo lavoro per il quintetto originario della capitale del piccolo stato mittle europeo, con qualche membro poi dislocatosi ad Amburgo e Colonia, in Germania. 'Epimetheus', il debut del 2015 era arrivato solamente nove anni dopo la nascita della band, ora abbiamo atteso quattro anni per gustarci il secondo album dei nostri, con questo ritmo non è detto che il prossimo lavoro possa uscire fra un paio di anni. Comunque, parlando dei contenuti musicali delle undici tracce qui incluse, posso dire che in mano ci ritroviamo un Lp dedito a sonorità melodeath, dalle influenze più disparate. Si va dal sound degli Amon Amarth di "A Hadean Task" agli Iron Maiden di "Fake Creator", ma andiamo con ordine. I nostri sono sicuramente diligenti nello svolgimento del loro compito, affidandosi sin dall'opener "Deus (Finis Saeculorum)" a ritmiche robuste, ben dosate, una produzione bella piena, e ritmi incandescenti. Ascoltatevi a tal proposito la roboante "Kolossus", una bella cavalcata death thrash, che vi riporterà ai fasti degli anni '90, pronti per lanciarvi in un infuocato headbanging, anche se poi il finale sembra virare verso territori più moderni, ad un black death dotato di ottime melodie al servizio di una buona tecnica. Sia ben chiaro che nessuno ha scoperto l'acqua calda, un nuovo continente o inventato un nuovo genere musicale, i Feradur suonano quello che più amano e più ha plasmato la loro crescita musicale, un death metal venato di qualche influenza progressive, che trova addirittura il modo di sfociare in influenze folkloriche. Si perchè l'inizio acustico di "Omen of Incompleteness" ci proietta al Kantele finlandese di Amorphis memoria, in un brano che evolve successivamente in un sound macinaossa stile Arch Enemy. Ben più ruffiana "Fake Creator", vuoi per le melodie che si stampano immediatamente in testa, ma anche per l'uso delle keys, che lasciano poi il posto ad un bel rullo compressore fatto di ritmiche tirate e un growling omicida, merito dell'ultimo arrivato, in seno alla formazione, l'unico vero tedesco della compagnia, Mario Hann, che suona nei Reapers Sake e ha peraltro collaborato con altre band, sia dietro la consolle che come guest, vedi Firtan o nel nuovo EP dei Luzidity. Intanto, qui si continua a viaggiare su tempi sparatissimi con un bel tremolo picking in sottofondo, mentre le chitarre sembrano invece richiamare il NWOBHM con le linee melodiche in stile Iron Maiden. C'è tempo ancora di farci sparare in faccia altre granitiche tracce, il disco dura infatti oltre 50 minuti: "Of Greater Deeds" è una bella mazzata in pieno volto con una serie di cambi di tempo da urlo ed una prova alla batteria di "D-" Mich Weber davvero notevole, senza mai perdere di vista il lavoro dei due axemen, che ne combinano di tutti i colori alle sei corde. Più oscura "The Night They Were Taken", dura, quasi spettrale nella sua componente solistica, che mi ha evocato per certi versi i primi Testament, poi altro sublime cambio di tempo e sembra di ascoltare un altro brano, compresso, caustico, serrato, feroce. Si cambia ancora registro con il mid-tempo di "Amplification Monolith", un brano che s'ispira nuovamente agli Amon Amarth e che vede nel ricamo chitarristico delle due asce, il punto di forza della compagine lussemburghese. Poi il finale, affidato alla marziale "Maelstrom" e a quel prepotente gorgo che crea un ambiente denso ma atmosferico prima dell'uscita sparata a mille, con chitarre di Overkilliana memoria. Si arriva intanto alla conclusiva e strumentale "Into Stygian Depths", un breve outro che chiude questo secondo episodio della saga Feradur. Ben fatto. (Francesco Scarci)

(Self - 2019)
Voto: 75

https://feradur.bandcamp.com/

giovedì 13 giugno 2019

Membrane/Sofy Major - Split Lp

#PER CHI AMA: Noise/Hardcore, Unsane, Melvins
Membrane e Sofy Major hanno da poco rilasciato gli ultimi capitoli della rispettiva discografia, il ruggente 'Burn Your Bridge' per il terzetto post-hardcore di Vesoul, e il graffiante 'Total Dump' per il gruppo di Clermont-Ferrand (che probabilmente qualcuno avrà potuto apprezzare live insieme agli Unsane al Solo Macello del 2016). Scopriamo che nel 2011 (riproposto nel 2017 dall'Atypeek Music) le due band transalpine, allora scarsamente conosciute dalle nostre parti, avevano unito gli sforzi registrando uno split fatto di distorsioni ipertrofiche e riff abrasivi. Aprono le danze i Membrane con “Gruesome Tall”, “Small Fires” e “Lifeless Down on the Floor”, pezzi ombrosi e che trasudano rabbia, perfetta sintesi delle coordinate della band: un post-hardcore molto pesante e metallico che richiama Breach e Today Is The Day, lanciato come un treno fuori controllo sui binari tracciati dalla batteria martellante e alimentato dallo sferragliare del basso. Ci pensano poi i cupi accordi di Nico e il cantato sofferente a raschiare ogni residua resistenza di fronte al cataclisma che i Membrane scatenano su di noi. La proposta dei Sofy Major è meno viscerale e più cafona (in senso buono), punta su suoni grossi e sulle distorsioni slabbrate create da quei Big Muff di cui non negano la dipendenza e l’abuso: “Ruin It All”, “Doomsayer and Friends”, “Some More Pills” e “Once was a Warrior” sono dei pugni in faccia a cavallo tra il pesante noise degli Unsane e lo stoner pachidermico dei Melvins, brani in cui la band dimostra tutto il suo potenziale sonoro distruttivo. Entrambe riconducibili al filone noise-core, Membrane e Sofy Major ci offrono due approcci differenti, con i primi maggiormente incattiviti e attenti a costruire atmosfere che coinvolgano l’ascoltatore nel loro abisso di angoscia, i secondi irriverenti e rumoristici servi di una qualche divinità del caos. Dal 2011 a oggi entrambi hanno affinato le proprie lame consegnandoci uscite memorabili, ma dando un ascolto a questo split c’è da dire che le premesse erano buone già all’epoca. (Shadowsofthesun)

Rature - Les Oublies d'Okpoland

#PER CHI AMA: Rap/Punk/Jazz, Massive Attack, Manes
Nel Pozzo dei Dannati si fa metal, che diavolo ne posso pertanto sapere io di rap/hip hop, manco mi piace, eppure c'è chi pensa che inviarci materiale di simili sonorità possa essere sempre un buon mezzo pubblicitario, il classico modo di dire "che se ne parli bene o male, l'importante che se ne parli". E cosi ecco trovarmi qui a parlare dei Rature, duo francese e del loro 'Les Oublies d'Okpoland', secondo atto della loro discografia. Diciamo subito che l'impressione che ho avuto all'ascolto di "Orgue", opening track dell'album (peraltro riproposta anche in versione remix con "Stone" alla fine dell'album), è stata più o meno la medesima di quando piazzai nel lettore cd 'Disguised Masters' degli Arcturus, con la sola differenza che qui si rappa e nel '99, in un disco estremamente sperimentale di una band già di per sé sperimentale, non lo si faceva. Poi ovviamente se sento uno dopo l'altro una serie di "yo", come accade in "Oldschool", non posso rimanere favorevolmente colpito, ripeto io ascolto metal e per quanto possa essere di vedute aperte, il rap non è certo il mio genere. Eppure quello dei Rature è un sound caldo che miscela in modo particolare hip hop, punk rock e free-jazz, insomma un bel pastrocchio. Non mi resta altro che farmi intrappolare allora e superare il mio blocco psicologico, facendomi avvinghiare dalle sinistre sonorità di "Poney" e da quel drumming elettronico accompagnato dalle litaniche vocals di arcturiana memoria. Sta a vedere che ci trovo anche godimento ad ascoltare questa musica, non lo escluderei aprioristicamente. È tempo di "Stone" e di un sound che mi evoca i miei trascorsi trip hop con Massive Attack (e gli album più sperimentali dei Manes) e diavolo mi ritrovo addirittura a scuotere la testa al ritmo strisciante dei Rature; questa sensazione tornerà anche in "Coma", dove ho ripensato a "Karmacoma" dei Massive. Che succede, la musica mi entra sotto la pelle, entra nelle vene e mi immergo completamente nel groviglio sonoro creato da questi due artisti. La successiva "Aeiou" non la amo particolarmente, forse troppo vincolata al rap e non proprio brillante a livello di testi, anche se poi quando parte il soundscape in background, ammetto di esserne particolarmente affascinato, vuoi perché riesco a trovare anche qualche similitudine con i CROWN. Il lavoro continua in questa direzione, abbinando alla trance sonica, una buona dose di sperimentazione che va ad ampliare ulteriormente i miei orizzonti musicali. Voi vi sentite pronti? (Francesco Scarci)

(Atypeek Music - 2019)
Voto: 74

https://business.facebook.com/AtypeekMusic/

mercoledì 12 giugno 2019

Ferriterium - Le Dernier Livre

#PER CHI AMA: Black, Windir, Satyricon
Oltre a Dies dei Malevolentia coinvolto nei Saturnus Terrorism, anche Raido, della stessa compagine, si è lanciato nel classico side-project, i Ferriterium. La band francese è però già al secondo album, ossia questo 'Le Dernier Livre', un lavoro diviso in sei lunghi capitoli. L'album chiama in causa come principale influenza i Windir, proponendo infatti già dall'opener epiche melodie di chitarra che accompagnano una ruvida matrice ritmica e le indemoniate vocals di quello che è in realtà il chitarrista dei Malevolentia. La musica è tiratissima in tutti i brani ma mantiene comunque quell'approccio evocato dalla musica classica, sviscerato peraltro dagli stessi Windir e dagli svedesi Dispatched. Se i primi due capitoli del cd guardano tendenzialmente ad un black algido ma atmosferico, "Chapitre 3" è più orientata al versante thrash black, pur esibendo un breve break strumentale ove poggiare le vocals invasate del frontman e ripartire poi di slancio con le classiche glaciali melodie intessute dalla sei corde e il serratissimo lavoro alla batteria di Bael. È tuttavia con il quarto capitolo del disco che si toccano gli apici sensoriali di questo lavoro. Una melodia estremamente malinconia scandita dal rifferama del chitarrista, affiancata da un drumming omicida aprono il pezzo, che in 90 secondi prova a cambiar ritmo, rallenta creando un po' di suspense, ma poi riparte col classico tremolo picking ed una serie di cambi di tempo da urlo, scanditi da splendide melodie e da una sezione solistica finalmente all'altezza, che eleggono il pezzo come il mio preferito del disco. Il pungente e ficcante tremolo picking apre anche "Chapitre 5" in quella che forse è invece la song più brutale del disco, là dove convergono le influenze dell'asse formato da Dissection, Satyricon e Mörk Gryning, anche se in realtà potrei citarvene mille altri, considerato che la song strizza poi l'occhiolino ad un certo black'n roll spaccaculi, soprattutto nell'ottimo assolo a metà brano. La carneficina termina con "Chapitre 6", l'ultimo episodio che mette ancora in mostra una certa abilità nella ricerca melodica messa poi a disposizione della durezza del combo transalpino, a scardinare i cuori gelidi dello stuolo di metallari e allo stesso tempo a testimoniare l'eccellente performance stilistica messa in atto da questi Ferriterium, una band assolutamente da non sottovalutare. (Francesco Scarci)

Marche Funèbre - Death Wish Woman

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Paradise Lost
In attesa di ascoltare il nuovo Lp dei belgi Marche Funèbre, la band ha pensato di regalare ai propri fan, nell'autunno 2018, un EP ('Death Wish Woman') di una mezz'oretta che tenesse calde le orecchie degli amanti del death doom del quintetto di Anversa in vista dell'inverno. E cosi, ecco tre nuove tracce più la cover "As I Die" dei Paradise Lost. E proprio ai primi vagiti di Nick Holmes e compagni, la band belga sembra rifarsi, anche se francamente siamo lontani dalla genialità dell'act britannico. "Broken Wings" è una stilettata death metal, solo leggermente sfiorata in qualche soluzione atmosferica, dalle reminiscenze doom che fanno parte del bagaglio dei nostri, mentre a livello solistico, i punti di contatto con il "Paradiso Perduto" si fanno più forti. Con la title track, il registro non sembra cambiare: ancora death secco e diretto ad inizio e fine canzone, mentre nel bel mezzo del brano fa la sua comparsa una voce pulita e una ritmica più adeguata ai canoni dell'ensemble, che ci riporta in mente i Candlemass più epici. "A Departing Guest" è un viaggio di quasi tredici minuti all'insegna di un doomish sound che questa volta evoca i My Dying Bride, ma la song è cosi lunga che nel suo malinconico svolgersi, si possono scorgere altre influenze, soprattutto nel dicotomico uso della voce, sia in pulito che growl e nella comparsa di atmosfere dal sapore quasi stoner che cozzano un pochino con le più intransigenti accelerazioni death. Non so, non mi convince granché, mi sembra un po' troppo eterogenea, anche quando le chitarre nel loro rifferama, celebrano nuovamente i primi Paradise Lost. E si arriva finalmente a "As I Die", visto che ero curioso di verificare come i Marche Funèbre avrebbero modificato il mitico brano dei PL: se nulla cambia da un punto di vista prettamente strumentale, è a livello di cantato che la song ne esce penalizzata, non tanto quando il vocalist dà libero sfogo al proprio growl, piuttosto quando usa il clean o continua a ripetere "As I Die", mah da rivedere. Alla fine mi sento di dire che 'Death Wish Woman' è un lavoro raccomandato solo per i fan del combo belga, per gli altri, il suggerimento è di ascoltarsi i precedenti full length dei nostri. (Francesco Scarci)

The Vasto - In Darkness

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore
A partire dal nome, i The Vasto non le mandano di certo a dire, la furia distruttiva ed il gusto per la rabbia più pura e feroce sono infatti le caratteristiche principali del loro punk-core viscerale e questo 'In Darkness' segna il punto di definizione della loro identità artistica. Interessante la commistione tra assalti al vetriolo e momenti più calmi come l’inizio di "Fractures", come le onde del mare che prima di infrangersi sugli scogli formano una risacca che porta il fondale alla luce del sole. Non si pensi a qualcosa di post oppure troppo emozionale, la rabbia e l’intensità impregnano pesantemente ogni nota, ogni intro, ogni passaggio. Sì, la risacca funziona come metafora ma solo per mostrare un fondale marcio, pieno di plastica e detriti della civiltà umana, non c’è niente di idilliaco o di poetico, solo un rigurgito di nausea verso tutto e tutti, che non si ferma davanti a nulla. "Fractures" è forse il mio pezzo preferito del disco grazia alla varietà di ritmiche usate e alla sua potenza espressiva, si passa dalla classica ferocia punk ad una coda a ritmo dimezzato propria di generi distanti dalla radice core della band, a riprova del fatto che i The Vasto non sono solo rabbia cieca ma lucida creatività e consapevolezza artistica. "Constellation" con i suoi riff granitici e gli arpeggi dissonanti potrebbe sembrare a tratti una canzone dei Cult Of Luna o dei Deathspell Omega, senza mai perdere di vista il quel tocco personale che i The Vasto sanno conferire ad ogni loro brano. Chiude il disco un’adrenalinica "Crocodile Tears" dove la radice punk si fa ancor più evidente sempre accompagnata da ruggenti stacchi di distorsioni fino al rallentamento e alla conclusione finale di 'In Darkness'. Sicuramente un disco che soddisferà il palato degli appassionati del genere ma che sarà in grado di dare spunti originali ed inaspettati a chiunque lo ascolti. Se cercate qualcosa di arrabbiato e ruvido, ma che al contempo sia in grado di spaziare dal proprio genere di provenienza, qualcosa di personale insomma, di squisitamente unico e compiuto nella sua concezione, allora mi sento di consigliarvi vivamente questo ultimo disco dei The Vasto, sono sicuro non ne resterete delusi.(Matteo Baldi)

(Overdub Recordings - 2018)
Voto: 78

https://thevasto.bandcamp.com/

lunedì 10 giugno 2019

Satori Junk - The Golden Dwarf

#PER CHI AMA: Doom/Stoner, Electric Wizard, primi Black Sabbath, Cathedral
Uscito originariamente nel 2017, ristampato nel 2018 e finalmente recensito nel 2019, compare sulle pagine del Pozzo dei Dannati, la recensione di 'The Golden Dwarf', opera seconda dei milanesi Satori Junk. Un disco di sette tracce (di cui l'ultima è la cover dei The Doors "Light My Fire") che confermano quanto già precedentemente apprezzato nel debut album dei nostri. La proposta del quartetto italico ci porta dalle parti di uno stoner blues rock doom di stampo settantiano che ammicca per forza di cose, agli Electric Wizard, ma che prova in un qualche modo ad offrire anche una propria originalità, frutto della cospicua personalità in seno alla band, intuibile peraltro già dalla coloratissima cover del disco. Quindi non stupitevi, ascoltando "All Gods Die" di rimanere impressionati di fronte alla bravura dei quattro sapienti musicisti lombardi nello sciorinare un muro di chitarre ultra stratificato. Non sono certo degli sprovveduti e la musica imbastita ne è certamente testimone, soprattutto nella fumosa "Cosmic Prison", in cui si scomodano facilissimi paragoni con i primi Black Sabbath, vera fonte d'ispirazione dei nostri, in compagnia di Cathedral ma anche dei Baroness, due realtà che già comunque traevano ispirazione dai maestri di sempre. La componente synth-effettistica impreziosisce di molto la proposta dei Satori Junk, e li avvicina per certi versi agli psych stoner veronesi Kayleth. Per ciò che concerne i vocalizzi poi, siamo dalle parti di una voce pulita, un po' effettata ma certamente convincente. Andiamo avanti nell'ascolto e per godere del roboante rifferama della brevissima, si fa per dire, “Blood Red Shine”: oltre cinque minuti, un lampo se confrontata con la successiva "Death Dog", dove sono invece più di quindici giri di lancette a dettare legge, in una melmosa sezione ritmica formata da basso e chitarra, due primizie, soprattutto la sei corde e le sue mirabolanti aperture solistiche, da applausi. La voce invece rimane un po' più nelle retrovie, concedendo maggior spazio all'apporto strumentale dei nostri, in cui a mettersi in evidenza c'è ancora un ispiratissimo synth. Tra lugubri rallentamenti, parti robuste più ritmate ed altre decisamente più atmosferiche, un finale ambientale, i quindici minuti sembrano scivolare anche abbastanza velocemente andandosi a collegare direttamente con la song che dà il titolo all'album per un altro sfiancante giro di dieci minuti secchi, in una traccia dal chiaro sapore sabbattiano, quello del primissimo Ozzy per intenderci. L'incedere è dapprima lentissimo, affidato alla voce del frontman, alle keys e ad un drumming ossessivo, poi ecco a subentrare chitarra e basso, in un pezzo ammorbante, ansiogeno e orrorifico. E passiamo alla cover dei The Doors, ultimo atto del cd: che dire, se non che sia praticamente irriconoscibile. Nemmeno nell'introduttivo giro di chitarra si riesce a riconoscere la famosissima melodia di Jim Morrison e soci; direi che l'unico punto di contatto con l'originale rimane il chorus centrale, visto che la voce di Luke Von Fuzz non ricorda nemmeno vagamente quella del suo ben più famoso collega e la parte solistica prende una piega tutta sua con i nostri a dar vita ad una versione funeral stoner di una delle canzoni più famose della storia del rock. Esperimento comunque riuscito e che ancora una volta, sottolinea la spiccata personalità del quartetto milanese. Con qualche correttivo, auspico che il terzo album sia molto meno derivativo di questo 'The Golden Dwarf' dando modo ai Satori Junk di essere ben più originali. (Francesco Scarci)

(Endless Winter - 2018)
Voto: 74

https://satorijunk.bandcamp.com/

Laetitia in Holocaust - Fauci tra Fauci

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Blut Aus Nord, Janvs
Era la fine del 2011 quando recensii 'Rotten Light' su queste stesse pagine ed intervistai i Laetitia in Holocaust negli allora studi di Radio Popolare Verona. Da allora un lungo silenzio, che mi ha portato più volte a pensare che il misterioso duo di Modena, si fosse sciolto. Poi ecco che spunta il coniglio bianco dal cilindro del mago e come il classico fulmine a ciel sereno, i nostri tornano con un lavoro nuovo di zecca, 'Fauci tra Fauci', fuori per la Third I Rex, che ha avuto il grande merito di credere in questi due ottimi musicisti. Diciamo subito che il sound dei nostri non è cambiato poi di molto rispetto a quel disco che tanto mi aveva impressionato, sebbene siano trascorsi quasi otto anni. I due misantropi N. e S., continuano nella loro proposizione di un black scevro di ogni riferimento e contaminazione, come se il tempo si fosse fermato a quel lontano 2011 e che nessuno abbia nel frattempo partorito idee vicine a quelle schizoidi della compagine emiliana. E quindi ecco che gli sperimentalismi ritmici dei nostri tornano a frastornarci nell'opener "Diva Fortuna", grazie a quel riffing che io trovo inimitabile, forsennato, straniante, sul quale poi poggia il cantato grattato di S.. "Through the Eyes of Argo" ha un attacco più punk oriented, anche se poi la traccia si muove lungo le coordinante di un black che rievoca per certi versi Janvs e Spite Extreme Wing, e dove sottolineerei l'ottimo lavoro di basso di N. in sottofondo, mantenendo comunque intatta l'originalità, da sempre marchio di fabbrica del duo modenese. "In Cruelty and Joy" è una song più vicina a quanto fatto dai nostri in passato con il classico rincorrersi delle chitarre tra improvvisi cambi di tempo, ritmiche convulse e ammorbanti, che crescono dentro come un virus mortale. La cosa che mi stupisce dopo tutto questo tempo è l'osservare che la band, pur non brillando per un largo sfoggio di melodie, ha la capacità di convogliare nelle proprie ritmiche, un fluido immaginifico che ha il potere di attrarre e sedurre coloro che si mettono all'ascolto della musica dei Laetitia in Holocaust. E quindi nel caos primigenio della terza traccia, io abbandono i miei sensi e mi lascio annegare in una furia iconoclasta avanguardista sperimental-esticazzi mi verrebbe da aggiungere. Questo perché i due sovversivi musicisti fanno ancora una volta quel diavolo che gli pare, sbattendosene di canoni e stilemi vari del genere e sbattendoci in faccia un suono privo di ogni tipo di rigidità strutturale. Figurarsi poi quando mi ritrovo ad ascoltare il pianoforte di "Exile" (opera di Dark Shaman) con le clean vocals a supporto, che cosa posso pensare? Che siano dei fottuti geni o che ci stiano prendendo tutti per il culo, fatto sta che i Laetitia se ne fottono di quello che posso pensare io o chiunque altro e vanno dritti per la loro strada fino a "The Elders Know". Un brano questo, in cui i chiaroscuri si fondono con la distorsione delle chitarre, con il suono che rimane sempre in bilico tra vertiginose e scoscese accelerazioni e frangenti più introspettivi, che confondono le idee non poco, cosa che accade anche durante l'ascolto della successiva "The Foot That Submits", ove emergono le influenze alla Ved Buens Ende. Mi soffermerei invece sulla lunga ed epica "Gods of the Swarm", nove minuti e mezzo di accelerazioni indemoniate guidate dalle demoniache vocals e dalle chitarre tanto semplici quanto efficaci, elaborate dal duo italico, frammentate da angoscianti rallentamenti che regalano ampio spazio strumentale al graditissimo comeback discografico dei Laetitia in Holocaust. Speriamo ora non dover aspettare un altro paio di lustri per sentir parlare di questi due stralunati musicisti. (Francesco Scarci)