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lunedì 20 maggio 2019

Haiku Funeral - Decadent Luminosity

#PER CHI AMA: Industrial/Dark/Ambient, Esoteric, Godflesh, Samael
In un mondo dominato dal conformismo, dove ogni forma d’arte e d'intrattenimento tende sempre più ad appiattirsi allo scopo di compiacere la maggioranza del pubblico e sulla spinta di logiche di mercato, è naturale che le voci fuori dal coro esplorino sentieri totalmente opposti, puntando su proposte singolari ed estreme, per porsi come alfieri di coloro che non accettano di essere omologati e incatenati alla deriva generale. Nobile scopo senza dubbio, ma da perseguire con accortezza, perché il confine tra provocazione e forzatura è molto breve. Prendiamo l’ultimo lavoro degli Haiku Funeral, duo francese (in realtà un americano e un bulgaro trapiantati chissà come a Marsiglia) che nel 2016 si era fatto notare con ‘Hallucinations’, album dalle coordinate nettamente metal, per quanto ricco di contaminazioni elettroniche e sonorità a cavallo tra l’industrial e le melodie orientaleggianti dei Septicflesh. Questo ‘Decadent Luminosity’ si libera invece di ogni elemento tradizionale, dando preminenza alla componente elettronica e danzando ipnoticamente tra la pesantezza apocalittica dei Godflesh, i tribalismi meditativi alla OM, e l’esasperante lentezza degli Esoteric. Il tentativo di diluire tutti questi elementi ha ovviamente influito sulla durata di questo mastodonte musicale, che si presenta come un doppio album di un’ora e mezza: da un lato ‘Decadent’, dove dominano la freddezza marziale della drum-machine e i rabbiosi giri del basso di William Kopecky, dall'altro ‘Luminosity’, che invece si muove in malsane paludi dark ambient in cui di luminoso troviamo ben poco. Sempre presente invece l’elemento vocale, con Dimitar Dimitrov che ci accompagna in questa specie di discesa negli inferi come un blasfemo Virgilio, alternando il cantato cadenzato in stile Blixa Bargeld allo scream black metal, a cui si aggiungono poi svariati effetti orchestrali, sax, violini, voci femminili e mormorii indistinti che non fanno altro che aumentare la sensazione di trovarsi in gita sulle rive del Flegetonte. È dunque la debordante ricchezza di elementi ed influenze, più che il minutaggio, a rendere quest'album molto ostico: delle due parti è sicuramente ‘Decadent’ a risultare più accessibile, caratterizzata da pezzi in cui la forma canzone è più definita e dove risaltano la marziale e meccanica "The Crown Of His Glory", le grandiose atmosfere sinfoniche di "The Dreams Of Celestial Beings" (in cui è avvertibile l’influenza degli ultimi Samael) e l’allucinante orgia ritualistica di “Dreaming Kali In The Temple Of Fire”, dove si combinano elementi orientali con la teatralità dei Kilimanjaro Darkjazz Ensemble. I richiami al collettivo olandese fanno capolino anche nella seconda parte dell’album ("Vision Pit"), ma qui basso e drum-machine ci abbandonano per dare spazio a stridenti feedback ed oscuri effetti elettronici, mentre si compie la metamorfosi del cantante da guida dantesca a vero e proprio sacerdote demoniaco, apparentemente impegnato nell’evocazione di creature non euclidee. Bisogna ammettere che la scelta di dedicare interamente metà dell’opera alla componente ambient rende faticoso anche per l’ascoltatore più eterodosso arrivare alla fine senza skippare qualcosa, questo perché il passaggio tra le pulsanti dinamiche di ‘Decadent’ all’esasperante lentezza di ‘Luminosity’, è forse troppo brusco (un po’ come passare da 'Pretty Hate Machine' dei Nine Inch Nails ad un disco dei Raison d'Être) e le due parti finiscono per avere ognuna vita propria. Il risultato finale è un esperimento affascinante ed ambizioso, ma poco equilibrato, talmente trasgressivo da rischiare di non essere preso del tutto seriamente. Una maggior sintesi delle varie tendenze della band e un minutaggio più contenuto avrebbe permesso a ‘Decadent Luminosity’ di risaltare maggiormente tra le uscite estreme di questi ultimi 12 mesi, ma forse gli Haiku Funeral preferiscono muoversi nella buia desolazione dei gironi infernali più profondi. (Shadowsofthesun)

(Aesthetic Death Records - 2018)
Voto: 66

https://haikufuneral.bandcamp.com/album/decadent-luminosity

domenica 19 maggio 2019

Primus - The Desaturating Seven

#PER CHI AMA: Funk Rock
Nella rilettura musicale de 'I Coboldi dell'Arcobaleno' di Ul de Rico musicata ed eseguita nientescoreggiadimeno che dallla formazione originale dei Primus, una prevedibilmente liquidissima (ed eccessivamente lunga) introduzione lascia spazio all'ahimè ormai consueta carrellata di (peraltro godibilissimi) trademarks Primus-Clapypoll-iani: sbilenchi vaudeville stompeggianti da stivali sporchi, orecchie a punta e parecchia birra in circolo ("The Trek" e, nel prosieguo, la più prosaica "The Storm", eppure in grado di trasmettere un certo senso di pathos stupefatto), marcette incazzofunky di quelle che ascoltereste volentieri mentre pigliate Anthony Kiedis a schiaffoni sul muso (la nervosa "The Scheme", oppure nella materica "The Seven", che durante l'ascolto assumerà fattezze proprie, fuoriuscirà dall'album, dal vostro lettore mp3, dalle cuffie, dalle vostre orecchie, per attraversare lo spazio ed il tempo e finire per collocarsi direttanete sul lato B di 'Discipline' dei King Crimson) e filastrocche strumentali ("The Ends?") che vi sembrano collocarsi grosso modo tra 'Chocolate Factory' e la torta di compleanno degli undici anni di Mercoledì Addams. Virale. (Alberto Calorosi)

(Prawn Song - 2017)
Voto: 63

http://www.primusville.com/

Bruce Lamont - Broken Limbs Excite No Pity

#PER CHI AMA: Drone/Ambient Rock
Languida eppure dronizzata (la ficcante "Excite No Pity", successivamente deliquescente verso un noise eversivo alla Godspeed You Black Emperor) od, oppostamente, etno-liofilzzata ("Neither Spare Nor Dispose"), la litania messianica Michael-Gira/ffazzonata messa in scena nei momenti più avant-garde del secondo disco solista di Bruce Lamont, appare comunque di primo acchito come una sorta di schizo-frantumazione del jazz-core stanziale nelle ineffabili menti disturbate dei chicaghesi Yakuza. Un (white) noise liquido, kelviniano (il gelo cosmico espresso in "8-9-3" ne è un esempio) o termodinamico (il caos ronzante di "The Crystal Effect" potrebbe ricordarvi anche un Minipimer rotto), oppure morfologicamente stratificato (gli infiniti loop di "Maclean", ma anche il divertito hereafter-surf "Goodbye Electric Sunday", volendo) nella direzione, sempre che quello di direzione sia un concetto vagamente significativo all'interno di questo album così scarsamente cartesiano, nella direzione dicevo, di una dissolvenza quintessenziale e definitiva: sostenuta da una riverberante chitarra acustica, la straordinaria "Moonlight and the Sea" in chiusura vi suonerà come una sorta di "Space Oddity" kubrickiana. Da ascoltare in cuffia mentre attraversate un buco nero pentadimensionale a velocità curvatura. (Alberto Calorosi)

mercoledì 15 maggio 2019

He Comes Later - Cognizance

#PER CHI AMA: Deathcore
La scuola americana deathcore fa proseliti anche in Italia. È il caso dei bolognesi He Comes Later, una band nata nel 2010 e votata inizialmente al metalcore, che ha poi virato il proprio tiro verso il deathcore con l'ingresso in formazione nel 2013 del bravo vocalist Andrea Piro. I punti di riferimento guardano ovviamente agli USA, dove negli ultimi tempi si è visto un pullulare frastornante di una miriade di gruppi dediti a queste sonorità che puntano ad emulare, ahimè senza grossi risultati, i gods Rivers of Nihil e i compari Fallujah. Con i nostrani He Comes Later siamo però un po' più distanti dalle melodie sognanti e un po' ruffiane di quelle due realtà, sebbene un uso massiccio dei synth già a partire dalla malinconica opener di questo 'Cognizance', intitolata "Despondency". Quello che mi sento immediatamente di sottolineare è la potenza di fuoco messa in mostra dal quintetto italico e da quel rifferama ribassato (coadiuvato da martellanti blast beat) che evoca, per forza di cose, i maestri Meshuggah. Il growling di Andrea poi è davvero notevole nella rabbia profusa e nella profondità della sua timbrica. Il disco avanza attraverso tracce quali la sincopata e djentleliana "Execution" e la più atmosferica "Detachment", detonando ritmiche possenti su cui s'installano i synth cibernetici (a tratti psichedelici) dei nostri, che per certi versi richiamano gli americani Honour Crest. In "Torment" il gruppo sperimenta soluzioni alternative, miscelando un urticante death metal (con tanto di pig squeal vocali) con la musica classica, rallentamenti paurosi ed una onnipresente dose di melodie, peccato solo che la traccia sfumi in modo brutale sul finire. Ancora atmosfere e ritmiche incendiare con la brutale "Healing", dove accanto ad ubriacanti sterzate ritmiche e vocalizzi animaleschi, la band trova ancora il modo di coniugare ottime melodie con stop'n go da cavare il fiato. Cosi come convincente è l'arrembante "Guidance", tra riffoni serrati, una buona sezione solistica ed ottime keys, quasi a evidenziare che di cali fisiologici la band emiliana non ne vuole sapere. Lo stesso dicasi di "Atonement", song assai ispirata a livello atmosferico, con keys spettrali davvero convincenti che non rappresentano un semplice corollario alla sezione ritmica ma che assumono invece un ruolo da assolute protagoniste. "Quiescence" è un breve brano strumentale che funge da bridging con la dinamitarda "Resurgence", song dalla ritmica a tratti compassata che mi ha ricordato un che degli statunitensi Kardashev. A chiudere ecco la furibonda title track ed i suoi quasi quattro minuti di killer riff, rallentamenti da paura, vocals belluine, synth di "tesseractiana" memoria e quanto di meglio possa offrire oggi il panorama deathcore. Interessante anche il concept che si cela dietro al disco, ossia la vicenda di un ragazzo depresso, voglioso di suicidarsi che tuttavia, nell'attimo di compiere l'atto fatale, fallisce entrando in uno stato cognitivo di pre-morte che lo porterà a vivere varie esperienze che lo arricchiranno di una nuova consapevolezza verso la vita. Insomma, 'Cognizance' è un buon debutto sulla lunga distanza dal quale iniziare la scalata verso le vette del deathcore mondiale. (Francesco Scarci)

(Self - 2018)
Voto: 74

From Another Mother - ATATOA

#PER CHI AMA: Math Rock/Punk
Al giorno d’oggi l’offerta musicale è talmente ampia e ramificata che si fatica a tenere il passo delle nuove proposte: inutile dire che le produzioni di formazioni affermate provenienti da scene “storiche” catalizzano l’attenzione di pubblico e critica, forti della maggior visibilità guadagnata nel corso degli anni. Tutto questo ha un prezzo: molto promettente materiale di realtà dell’underground non riceve la meritata attenzione, così come il lavoro di artisti provenienti da scene ancora lontane dalla luce dei riflettori. Ho pensato a questo quando mi sono imbattuto in 'ATATOA', seconda fatica dei croati From Another Mother, eclettico terzetto in azione dal 2013 che promuove una sorta di fusione tra math rock cerebrale alla Dillinger Escape Plane, sfuriate punk-rock e passaggi più orecchiabili: una gran bella miscela che richiede non poca abilità per essere concepita e amalgamata. La ricetta concentrata in queste nove tracce è ricca di sfumature e sicuramente interessante (per quanto un po’ acerba), tuttavia le informazioni presenti in rete sulla band sono davvero scarse e risulta quindi difficile farsi un’idea su ciò che ha portato alla genesi dell’opera: lasciamo dunque parlare la loro musica. La prima traccia “May” ci fornisce subito una chiara indicazione di come si svilupperà l’album: partenza leggera e accattivante, caratterizzata dal cantato scanzonato e dalla chitarra pulita, che dopo meno di un minuto lascia bruscamente spazio ad un esplosivo ritmo serrato a supporto di un travolgente assolo di chitarra e voci urlate. Il repentino alternarsi di parti melodiche e riff furiosi sembra essere il marchio di fabbrica del gruppo e viene ripreso anche in “First Things First” e “Song Number 9”, dove possiamo apprezzare l’abilità dei tre musicisti nel destreggiarsi tra i cambi di tempo e le irrequiete dinamiche che costituiscono l’ossatura di 'ATATOA'. Decisamente più atmosferiche e sognanti sono invece “Supernova” e “Walnut”, brani che risaltano grazie alle forti influenze post-rock e che richiamano i britannici And So I Watch You From Afar, ma nemmeno in questi i From Another Mother lesinano nello spingere sull’acceleratore, lanciandosi in tumultuosi crescendo rumoristici quasi shoegaze. “I Will Atone” e Slightly Wrong” si distinguono invece per le divagazioni jazzy e gli elaborati giri di basso, mentre in coda troviamo “Keep Your Head” e “Baited”, i brani più diretti e pesanti del mazzo, i quali meglio esprimono l’anima “heavy” della band senza per questo cadere nel banale. 'ATATOA' è un album che incanala l’entusiasmo del gruppo e trasmette per tutta la sua durata emozioni estremamente positive, riuscendo a coinvolgere l’ascoltatore e rendendo l’ascolto piacevole e leggero, malgrado i repentini cambi di tempo e le nervose strutture delle canzoni. Se da un lato la tecnica nell’esecuzione e la ricercatezza degli arrangiamenti non sono in discussione, va detto però che i pezzi, per quanto validi, si sviluppano in modo troppo eterogeneo, suscitando spesso la sensazione di ascoltare la registrazione di una divertente jam session. Nel complesso il lavoro sembra mancare di un’idea di insieme e fatica a trasmettere un concetto unitario, disperdendo molte ottime idee in un’impetuosa ricerca di varietà stilistica. I From Another Mother giocano tutte le loro carte sulla creatività sregolata, dando liberamente sfogo ad ogni idea e confezionando un disco energico e diretto; la band, invece di puntare con decisione verso percorsi più ambiziosi per valorizzare il proprio notevole bagaglio tecnico, sembra volersi accostare più ai rassicuranti filoni punk e alternative rock, ma per una giovane realtà dell’est europeo, ancora alla ricerca di un posto al sole, probabilmente va bene così. (Shadowofthesun)

(Kapitan Platte - 2019)

The Mighties - Augustus

#PER CHI AMA: Punk/Garage Rock, Ramones
Non sono proprio la persona più indicata a recensire questo genere di suoni, ma visto che il lavoro è finito tra le mie mani (si tratta di un vinile), mi adatto e vi racconto quello che ho sentito. Sicuramente quello che si evince da "Caprice de la Drama", la opening track di 'Augustus', opera prima dei The Mighties, è che il disco dei nostri (non certo degli sprovveduti, avendo all'attivo già quattro EP ed una miriade di concerti alle spalle) abbia voglia di portarvi indietro di una cinquantina di anni e farvi divertire con il loro garage rock. Immaginatevi un po' la sigla di Happy Days, la sit com americana famosa a cavallo degli anni '70-80 per Fonzie e compagni, e quei ragazzi che ballavano il rock'n'roll, ecco l'intento della band umbra, ovvero quello di immergervi in quei suoni, riportando in voga il rock di quegli anni e diventando prodromico del punk che in paio di lustri si sarebbe sviluppato. E allora balliamo selvaggiamente al ritmo incalzante di "Chinese Drop", che ammicca ad un che dei Ramones, mentre con la successiva "Everybody's Doing" lasciatevi trascinare dal groove infuocato dei nostri per poi trovarvi a cantare a squarciagola col ritornello assai catchy della song. Non è musica certamente impegnata quella che ci offre 'Augustus', accogliendo un sound caldo e divertente, che la maggior parte dei giovani di oggi crederà appena concepito o peggio, inventato dai Blink-182, mentre in realtà affonda le radici proprio negli anni '60. Alquanto inusuale, almeno per il sottoscritto, è "Church of R'n'R", rilassata quanto affascinante nel suo sinuoso incedere. Le mie song preferite però sono "Girl in the Zoo", cosi oscura e maledettamente rock, sebbene nel suo refrain ci senta un che di "Seven Nation Army" dei The White Stripes e "Casablanca", scanzonata ma seria allo stesso tempo, con un assolo conclusivo davvero incazzoso. Insomma, con 'Augustus' c'è da divertirsi non poco per scoprire o riscoprire la freschezza di suoni che alcuni di noi pensavano persi nella notte dei tempi. (Francesco Scarci)

(We're at Fruit Records/SOB Records - 2019)
Voto: 72

lunedì 13 maggio 2019

Ho Gravi Malattie - Lithium (Mental Illness)

#PER CHI AMA: Noise/Ambient
Altro capitolo targato Ho.Gravi.Malattie, progetto che associa noise ed arte nell'intento di mostrare e svelare le sofferenze che stanno dietro alle tante malattie che affliggono l'uomo. Una malattia, un disco, questo è il format, con confezione handmade in CDr a tiratura limitatissima (solo 7 copie) ed in futuro prevista anche la versione in cassetta, oltre al formato digitale. Riporto una parte della presentazione dell'artista, perchè troppo bella: è il misantropo (H)organismo.(G)ravemente.(M)alato, un passato da recensore musicale per due importanti webzine italiane e performer del progetto merda-noise chiamato, appunto, HgM. Costui è anche il mentore e custode di questa coraggiosa, morbosa e fantasiosa label DIY torinese, che sforna idee così stravaganti e scomode, e nonostante lo shock iniziale dovuto ai temi non certo allegri delle opere trattate, una volta capito l'intento artistico ci si inoltra nella musica reale, o meglio nel rumore reale. Ho trovato questo a proposito di sperimentazione medica sui ratti: il litio rimane il trattamento più utilizzato per il disturbo bipolare, tuttavia, i meccanismi molecolari alla base delle sue azioni terapeutiche non sono stati completamente chiariti. A tal proposito presumo che il titolo scelto, seguito dalla dicitura "Mental Illness", si sposi benissimo con l'intento di portare in musica il concetto della malattia mentale e qui troviamo molto su cui riflettere. Un deserto sonoro fatto di lunghissimi rumori ambientali di sottofondo, come se fossimo sotto un cavalcavia di un'autostrada cosmica che porta verso l'ignoto, grida disperate e solitudine, isolamento, la tecnica della stratificazione del suono per ottenere un wall of sound fatto di noise e cicatrici sonore rubate all'ambiente che ci circonda. Due sole tracce molto lunghe di quindici ("Lithium") e venti minuti ("Arsenic Death") rispettivamente, esplorano questo triste declino della mente umana, cercando di esportarne le controverse e disperate emozioni che possono convivere in un paziente affetto da tale patologia. Detto questo, per capire al meglio quest'opera, ci si deve apprestare ad un ascolto assai emotivo ed impegnato, visto che stiamo parlando di un ambient/noise ortodosso e mal disposto ai compromessi. Un'opera dura, minimale ma d'impatto e corposa, una nebbia fitta che rapisce i sensi e rende palpabile questa forma atroce di malattia. Un disco/concetto molto violento, non tanto per la musica in sé ma in quanto alle sensazioni malate, è il caso di dirlo, che esso emana. Ovviamente, musica per ascoltatori forti di stomaco ed amanti del noise d'ambiente più estremo. (Bob Stoner)

Abraham - Look, Here Comes the Dark!

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, The Ocean
Disco uno. Suoni pesanti. Wave. Stoner. Panico. La fine dell'anthropocene, il declino e la conseguente scomparsa del genere umano. Era ora. Disco due. "Phytocene". Immaginate che la specie dominante del pianeta Terra sia ora una gigantesca ortica telepatica e iraconda. Rarefazione, linfa pulsante. Disco tre. "Mycocene". Psichedelia. Spore. Quattrocentomila dopo Cristo. Grosso modo. La Terra è infestata di piccoli bizzarri funghetti del tutto simili a quelli che avete assunto l'altra sera. Disco quattro. "Oryktocene". Pulviscolo. Radiazione di fondo. Erosione. Estinzione totale. Quattro dischi quattro, uno per era geologica. Da oggi fino alla fine del tempo. Centotredici minuti di musica. Un'eternità. Sonorità grevemente concrezionali e limpidamente riverberanti, qualcosa a metà tra una specie di ultra-doom amniotico post-crepuscolare ("To the Ground", per esempio) e una sorta di psych-stoner diffratto e ultrapercettivo ("God Pycellium" per esempio). Di tanto in tanto, divagazioni jazz-core ("Wonderful World" per esempio) e magma-drone ("Wind" per esempio). Estenuante. (Alberto Calorosi)

Helheim - Rignir

#PER CHI AMA: Epic/Viking, Bathory
Ci eravamo fermati al 2011 qui nel Pozzo a recensire i norvegesi Helheim. Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti: due album di suoni vichinghi, 'raunijaR' e 'landawarijaR', fino ad arrivare al nuovissimo 'Rignir' (che significa pioggia) fuori per l'imprescindibile Dark Essence Records. Le novità in questi anni sono state diverse, assistendo al forte desiderio di sperimentazione da parte della band di Bergen. Lo avevamo colto negli ultimi due album, forse è ancor più forte in quest'ultimo arrivato. Diciamo che all'ascolto della mite ed epica opener, il black metal degli esordi sembra ormai essere solo un lontano ricordo. Niente paura perchè con la successiva "Kaldr", non posso che sottolineare l'abilità dei nostri di muoversi tra un black atmosferico (di scuola Enslaved) con tanto di sporadiche accelerazioni ed un suono che a tratti diviene evocativo e solenne, complice come sempre l'alternanza alla voce tra V'ganðr e H'grimnir che, grazie ai loro differenti registri, riescono a mutare drasticamente la proposta dei nostri, tanto da farmi strabuzzare gli occhi nella seconda parte di "Kaldr", una song che si muove tra il progressive e le sperimentazioni neofolk di Ivar Bjørnson & Einar Selvik. Cosi come pure quando inizia "Hagl", song che si sviluppa attraverso un incedere lento, sinuoso, un po' stralunato in salsa folk rock, con improvvise accelerazioni, di fronte alle quali non posso che rimanere piacevolmente sorpreso e colpito dalla voglia dei nostri di suonare originali. E dire che nelle file della compagine nordica, ci sono ex membri di Gorgoroth e Syrach. Comunque la band è convincente in quello che fa, dall'epica bathoriana di "Snjóva" alle suggestive melodie di "Ísuð", là dove soffia il freddo vento del Nord, in un altro piccolo tassello di suoni devoti a Quorthon e compagni. Con "Vindarblástr" mi sembra di aver a che fare con i Solstafir, visto quel cantato pulito che evoca non poco il vocalist dei maestri islandesi. C'è ancora tempo per un altro paio di song: "Stormviðri" è un pezzo malinconico e compassato che vede ormai rare tracce di un retaggio black ormai quasi del tutto svanito. La conclusiva "Vetrarmegin" è l'ultimo atto in cui compaiono ancora forme di un black ritmato ma ormai completamente affrescato da un epica di bathoriana memoria. 'Rignir' è un disco ben fatto sicuramente, ma degli esordi dei nostri ormai non v'è più traccia alcuna. (Francesco Scarci)

(Dark Essence Records - 2019)
Voto: 75

https://helheim.bandcamp.com/album/rignir