Cerca nel blog

sabato 16 aprile 2016

Aidan Baker - At Komma

#PER CHI AMA: Post Rock
'At Komma' è uno dei tanti progetti di Aidan Baker (chitarrista) qui aiutato da Felipe Salazar (batterista dei Caudal, altro gruppo di Aidan Baker). Il Canadese Baker, in attività dal 2000, vanta numerosi album e collaborazioni tra Stati Uniti e Berlino. ed è proprio nel vecchio continente che nasce 'AT KOMMA'. cd registrato live nel febbraio del 2014 presso il centro culturale di Esslingen in Germania, e l'album e le tracce prendono il nome proprio dal locale, appunto Komma. dove spesso i suoi live sono improvvisati grazie al suo stile nel ricreare atmosfere dispersive tramite lenti e eterne sequenze di accordi e suoni che si mescolano tra loro e in loop ti portano altrove ("Komma 2" su tutte). La fragilità di un disco post rock, come quello prodotto da Aidan Baker, sta nel momento in cui lo ascolti. per cui non ne vieni immediatamente folgorato per la costruzione delle canzoni nemmeno dopo svariati ascolti. Devi essere particolarmente propenso a lasciarti trascinare e perderti, trasportato dalle onde sonore ("Komma 3") che Baker e Salazar sono riusciti a creare. Non trovo nulla di nuovo, ma è un buon sottofondo per certi momenti riflessivi che la vita ti richiede. "Komma 4" parte con un clima più festaiolo, 4/4 bello spedito, shaker in ottavi, che un po' ti rincoglionisce dopo 10 minuti di canzone, ma forse è proprio lo scopo prefissato dai due musicisti. Certo, da un album live non ci si può aspettare molto di più, quindi considerando l'attitudine ad improvvisare spesso, lo trovo anche ben strutturato. (Alessio Perro)

(Tokyo Jupiter Records - 2014)
Voto: 60

https://www.facebook.com/AidanBakerMusic/?fref=nf

venerdì 15 aprile 2016

Corinth - S/t

#PER CHI AMA: Stoner/Sludge
Lo sludge/stoner sembra andare parecchio di moda in UK. I Corinth sono infatti una band di Leeds formata da quattro simpatici burloni, come si evince dalla loro pagina facebook (andate a dare un'occhiata giusto per farvi due risate), che ha rilasciato a febbraio di quest'anno, un EP omonimo di tre pezzi che si aggiunge nella loro discografia, ad altri due EP usciti rispettivamente nel 2013 e 2014. Nonostante il loro buffo aspetto, l'ensemble di sua maestà la regina, offre un sound tipicamente melmoso che nelle sue corde, ha modo di inserire spruzzatine doom e heavy. Se l'attacco di "Solar Blaze" sembra abbastanza aggressivo e arrogante, nella sua evoluzione sonora, avrà modo di rendere la propria proposta musicale ben più tetra e pesante, definitivamente doom nel suo claustrofobico finale. Con "Those With No Eyes", il mood dei Corinth si fa ancor più cupo e ossessivo, con il cantato (nella sua duplice forma, sporca e pulita) del duo formato da Ben e Tom (rispettivamente anche chitarrista e bassista della band) ad emulare in una qualche maniera i Neurosis. Il riffing dei nostri è lento, quasi asfissiante ma trova comunque squarci di una certa eterealità nei momenti in cui il vocalist si cimenta con clean vocals evocative. Un approccio più stoner oriented invece si ritrova nella lunga e conclusiva "Ironclad", forse la migliore song del lotto, certamente la più completa. L'incipit stoner dicevamo, a cui seguono deliziosi e pulsanti momenti di psichedelico space rock, reso interessante da un cantato che si fa ancor più convincente lungo gli oltre nove minuti di una traccia ipnotica, lisergica e pachidermica, ma che sa anche divenire camaleontica, contorta e psicotica, e che in alcuni frangenti sembra persino rievocare lo spettro degli Isis. Insomma un disco quello dei Corinth che può essere un preludio a qualcosa di davvero buono. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 70

giovedì 14 aprile 2016

Ashen Horde - Nine Plagues

#PER CHI AMA: Death/Black, Akercocke, Mithras
La seconda fatica per gli Ashen Horde, one man band californiana del polistrumentista Trevor Portz, è un concept album horror incentrato su nove piaghe che affliggono gli abitanti di un piccolo villaggio isolato. L'opera, oscura ma di brioso ascolto, non è di facile descrizione a causa delle sue numerose sfumature che ricoprono le composizioni, ma sin dall'inizio chiara e forte è l'impronta progressive in gran parte dei suoni che richiamano nomi del calibro di Morbid Angel, Immortal, Behemoth e Strapping Young Lad. “Desecration Of The Sanctuary” introduce epicamente l'opera e, subito dopo terminato l'accomodamento con le sonorità create dal nostro musicante hollywoodiano, non lascia scampo complici le sfuriate death/black e le ritmiche sincopate che con l'avanzare della traccia diventano sempre più serrate, innalzando malvagi muri di blast-beats. L'opener, insieme all'ultima song, “A Reversal Of Misfortune”, sono le composizioni più prolisse del disco con l'evidente compito di accompagnare l'ascoltatore dentro e fuori da questo concept e a mio parere sono anche le tracce meglio riuscite del disco grazie a questa loro funzione pedagogica capace di coinvolgere ulteriormente l'ascoltatore. Le piaghe invece centrali viaggiano su distanze più brevi e colpiscono dirette e precise, alternandosi tra furiose accelerazioni e rallentamenti marziali, trovando nel binomio creato da “Feral” e “Famine's Feast”, un accostamento a dir poco letale. Altri brani, come “Atra Mors” e “Dissension”, trovano invece la loro forza nel riffing sinistro che rende l'atmosfera fredda, gelida, notturna e soprattutto angosciante. Nonostante tutta la malignità che trasuda, il disco abbonda di melodia la quale, seppur mascherata da toni cupi e macabre pennate, esce palesemente negli assoli e pare essere il marchio che contraddistingue complessivamente il sound degli Ashen Horde (mi sovviene un'analogia con l'ossessiva passione per la scala minore armonica nei Death). Alla fine 'Nine Plagues' è fonte di linfa fresca per il metal estremo figlio delle classiche band death e black, che a livello puramente sonoro rimane ancorato al passato senza cercare particolarità come fatto da altri act quali StarGazer, Mithocondrion o Portal. Questo non significa che il disco suoni banale o semplicemente già sentito, anzi sono certo che gli amanti del classicismo apprezzeranno particolarmente le scelte di Mr. Portz. A livello più personale, una pecca che trovo in quest'opera, seppur riconosca la preparazione tecnica e l'alchimia ricercata dal mastermind statunitense, è la mancanza di una certa espressività nelle composizioni, in quanto il disco si muove costantemente a livelli massimi di rabbia e potenza. Non c'è alcun riff particolare o qualche passaggio che mi coinvolga realmente o mi rimanga in mente, ma sono conscio che 'Nine Plagues' sia certamente un lavoro complesso, pieno di elementi, che necessiti di numerosi ascolti per essere assimilato a pieno. Sono sicuro che con pochi accorgimenti, gli Ashen Horde potrebbero sorprenderci ancor di più in un (speriamo breve) futuro. (Kent)

(Mandol Records - 2015)
Voto: 70

Absent/Minded - Alight

#PER CHI AMA: Death/Doom/Sludge, Neurosis
La Baviera non è solo crauti, birra e wurstel, oggi potrebbe essere equiparabile a un piccolo spicchio di Bay Area, dove lo sludge imperversa da quasi trent'anni grazie ai Neurosis. Ne avevamo già parlato in occasione del loro secondo album, 'Earthone', torniamo a recensire gli Absent/Minded in occasione del terzo lavoro, 'Alight', uscito lo scorso autunno. Differenze sostanziali rispetto al suo predecessore non se ne scorgono, i quattro di Bamberg continuano nel proporre un death doom sludge dall'incedere monolitico, circolare, che tuttavia mostra una certa freschezza nei suoi suoni. Questo per dire che se ascoltando "Light Remains", la sensazione è quella di schiantarsi con l'automobile contro un muro di cemento armato, data una certa durezza nel rifferama contorto e melmoso (tipicamente sludge), con la successiva e strumentale (fatto salvo per alcune voci campionate) "Stargazin'", la musica cambia e di parecchio, acquisendo una certa celestialità che la rendono decisamente abbordabile ai più. L'arpeggio iniziale di "Clouds", accompagnato dalle flebili vocals di Steve, non fanno altro che confermare quanto detto, anche se poi la ritmica assume certi connotati di pesantezza e profondità, con il growling cavernoso del vocalist quasi a spaventarci. Nessuna paura però, perché il fluido sound dei nostri troverà ancora modo di addolcirsi per scatenarsi successivamente nel roboante rifferama di questi artisti. I suoni fluttuano nell'aria rincorrendo gli insegnamenti dei già citati Neurosis, ma anche dei bostoniani di nascita e los angeliani di adozione, Isis. La proposta degli Absent/Minded è un crescendo di intensità, che in "Arrivers" ha da offrire una ritmica sincopata, quasi etnica, che entra dentro come un battito del cuore e si insinua nell'anima cosi come nella testa. Il ritmo è tutto in salita e contribuisce ad aumentare l'adrenalina in corpo, per un finale, in cui le vocals sembrano le urla del muezzin in preghiera nel minareto. C'è una minacciosa calma apparente nelle note iniziali di "Skies of no Return", segno che presto la tempesta si abbatterà sulle nostre teste e infatti non mi sbaglio: il tonante riffing dei quattro teutonici torna a pestare, mantenendo comunque sempre intatto il mid-tempo che guida l'intera release. Splendido l'acustico break centrale che interrompe il pachidermico avanzare dei nostri anche se la sua oniricità sarà da li a poco frantumata dal più violento intervento ritmico, quasi al limite del post black. Con ‘So Dark, the Con of Man’ arriviamo all'epica conclusione di 'Alight': ancora un lungo e semplice incipit acustico accompagnato da voci campionate, e poi la rabbia degli Absent/Minded esplode sotto forma di riff incandescenti ultra distorti, volti a prenderci a pedate nel culo. 'Alight' conferma le ottime doti dell'ensemble bavarese, abile nel muoversi nei territori ostili dello sludge e mostra anche come, pur non avendo stravolto il mondo musicale con chissà quali trovate artistiche, sia ancora possibile offrire musica di qualità e di sostanza. Ben fatto ragazzi! (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 80 

Fallen - S/t

#PER CHI AMA: Funeral Doom
I Fallen sono norvegesi e suonano funeral doom fin dal lontano 1996; hanno prodotto un demo e un album nel 2004 dal titolo 'A Tragedy's Better End'. Nel 2015 hanno pubblicato una raccolta per la Solitude Productions, riproponendo il vecchio lavoro arricchito da una splendida cover di "Persephone - A Gathering of Flowers" dei Dead Can Dance e di un altro brano fantastico dal titolo "Drink Deep My Wounds". In assoluto questa compilation è un lavoro stupendo, ricercato, che colpisce profondamente, un geniale colosso sonoro, romantico, malinconico ed ipnotico, un album che nessun appassionato del genere deve farsi mancare, un lavoro da rispolverare in pompa magna. Niente di nuovo sia ben chiaro ma semplicemente un mastodontico capolavoro di ottanta minuti dove il trio scandinavo non lascia superstiti, tra folate di vento gelido, ritmi al rallentatore, riff strazianti, morenti, decadenti, una qualità sonora egregia ed aperture pianistiche in pieno spirito classico ("The Funeral" è a dir poco fantastica e magnificamente inserita nell'album), puntuali come non mai nell'infliggere il colpo di grazia allo stato d'animo di chi ascolta. L'evocativa voce baritonale di Kjetil Ottersen è il perfetto Caronte della situazione, a traghettarci nell'Ade cavalcando le lente e drammatiche litanie della band, in un infinito inferno della psiche, spingendo al massimo la crescita artistica del gruppo e in generale di un genere tanto affascinante quanto di nicchia. Tornando a "Drink Deep My Wounds" la eleggo a mia song preferita, un capolavoro gotico, di tristezza profonda e imperiale che supera il confine del mondo metal accostandosi più all'opera teatrale, alle colonne sonore, alle opere maestose ed epiche di certa imponente musica classica e lirica. I quindici minuti circa di questa canzone sono il condensato della musica dei Fallen, una band che punta all'oscurità e che vuol lasciare parlare solo la propria musica, piena di risvolti sonori inaspettati ma sempre coerenti al genere ma al tempo stesso rivitalizzanti e suonati in modo inusuale. Con un artwork lodevole, 'A Tragedy's Better End' si conferma uno tra gli album più apocalittici ed interessanti degli ultimi anni, in cui i Fallen sono riusciti a valorizzare il modo di intendere il rock, emulando in modo egregio i grandi miti del genere, trovando però una propria inconfondibile, potente e distinta personalità. La mia massima ammirazione per la band che è riuscita a comporre un'opera simile, immortale, infinita e a oggi ancora stupenda nonostante il tempo passato. (Bob Stoner)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 90

mercoledì 13 aprile 2016

Demons of Old Metal - Dominion

#PER CHI AMA: Thrash/Heavy/Nu, Pantera, Slipknot, GWAR
Una macabra intro in stile King Diamond, apre il nuovo album dei britannici Demons of Old Metal, band grottesca nel look (in stile GWAR, tanto per intenderci) ormai in giro dal 2010, che con 'Dominion' giunge al traguardo della quarta uscita discografica. 'Dominion' è un disco di heavy metal corrotto, che nei suoi 11 pezzi vanta richiami a varie band del più recente passato. Le danze si aprono con il martellare grooveggiante di "Fakesin", una song che sembra miscelare il mosh di Exodus e Pantera con il Numetal degli Slipknot e sonorità un po' più classiche a la Megadeth e Anthrax. La ritmica arrembante non lascia scampo e l'assolo conclusivo rende più appetibile un brano che vivacchia nel limbo del "già sentito". Un bel riffone contaminato (una costante per il disco), accompagnato dalle vocals altrettanto sporche di Tombstone Cowboy, ci guida in "You Version 2.0", altra song che preferisco ricordare più per l'aspetto solistico che per quello ritmico, troppo tributante a Slipknot e a tutti coloro che cercano di donare un aspetto tribale al proprio sound. "Dance of the Damned", 'la Danza dei Dannati", probabilmente si addice con la filosofia del nostro sito, tuttavia un riffing troppo sincopato con flares elettro-industriali, lo rendono poco affine ai miei gusti. Chi invece ama sonorità rabbiose e al tempo stesso ruffiane, avrà di che divertirsi con questo pezzo. Si rimane nei meandri della contaminazione pesante con "Open Wide and Scream", un brano che sebbene un cantato "alternative", mi piace per quel suo intrigante e malsano feeling di fondo. Con "The Quiet Ones" solchiamo i territori di un rock oscuro e malmostoso, che se non fosse per quel vocalist che fatico a digerire, risulterebbe come mia song preferita, soprattutto per la thrashettona ritmica infernale che si scatena nella sua seconda parte. Non male, ma questo cd poteva essere affine ai miei gusti 20 anni fa, per questo genere non c'è più spazio nella mia collezione. Qualche altro brano interessante in 'Dominion' c'è ancora: la "panterosa" "Behind the Mask" ad esempio, però a non convincermi è la solita timbrica del vocalist. "The Star of Your Nightmare" è una traccia dove mal si adatta l'utilizzo delle tastiere in background e dove le chitarre sono forse un po' troppo leggerine e si riprendono solo nella fase solistica. Il disco volge al termine con "See How They Die" e "Get Outa Dodge", in cui  il quintetto britannico continua con un sound carico di groove, scomodando i System of a Down nella prima traccia e offrendo un'inutile forma di heavy southern rock'n'roll nella seconda. 'Dominion' alla fine è un lavoro che vive tra le ombre di un passato che fu e di un presente a cui nessuno sembra più essere interessato. Rinnovarsi please. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 60

domenica 10 aprile 2016

Teverts - Towards the Red Sky

#PER CHI AMA: Stoner/Psych/Alternative
Se sentite il bisogno di un disco ruvido, oscuro e ricolmo di energia incendiaria, i Teverts fanno al caso vostro. Il progetto è orgogliosamente italiano, i ragazzi sono di Benevento, cattivi come il veleno. Un primo disco è uscito nel 2013 intitolato 'Thin Line Between Love & Hate' ed ora abbiamo tra le mani 'Towards the Red Sky' che ci arriva tramite la Karma Conspirancy Records. La copertina è suggestiva e rende giustizia alla musica: corvi famelici e possenti con i cactus che si stagliano davanti ad un gigantesco sole rosso. L’attitudine è stoner non scevra però dalla sperimentazione e dalle derive psichedeliche. I trenta minuti scarsi di questo LP scorrono velocemente e accendono gli animi, come fare rafting in un fiume in piena. Le chitarre, gigantesche, sembrano quasi bruciare ad ogni accordo e la voce al napalm di Phil Liar, che ricorda a tratti il compianto Lemmy Klimster e a tratti King Buzzo, è come vento sulle braci. Dino Sauro e Head Bomb, rispettivamente basso e batteria, sono talentuosi strumentisti che oltre tutto non si prendono poi così tanto sul serio. A parte la vena ironica della band, quello che passa chiaramente è che non c’è nessuna paura di andare avanti, nessun ostacolo può fermare la cavalcata di 'Towards the Red Sky', tutto viene travolto e divorato. La prima song “Control” fa subito capire in che direzione andiamo, con pensanti riff sabbathiani, assoli lisergici in stile Josh Homme e un incedere da panzer tedesco. La title track non è per niente da meno, grazie alle sferzate di chitarre distorte dritte in fronte e lanciafiamme alla mano. Quella dei Teverts non è rabbia, è voglia di arrivare, una tensione all’esplorazione e una ferma convinzione di proseguire sul percorso intrapreso. Avanzando verso il cielo rosso incontriamo “Charles Dexter Ward”, in cui lo stile è quello dei Melvins sia nella scelta delle note che nel modo di cantare, tuttavia il titolo del pezzo nasconde una storia interessante. Questo strano nome è infatti preso da un romanzo del maestro dell’horror H.P. Lovecraft: si tratta della storia di un ragazzo, appunto Charles Dexter Ward, che, ossessionato dalla fama di stregone di un suo lontano parente, inizia a praticare le arti magiche oscure finendo quasi per perdere la ragione. A proposito di “Two Coins on the Eyes” invece vi è uno strana somiglianza con “Blue” degli A Perfect Circle, non facilmente individuabile perché il sentimento dei Teverts è nettamente più disilluso e impassibile rispetto agli eterei e sognanti APC, ma la parte di batteria e alcune lunghezze risultano simili, a riprova della capacità dei Teverts di iniettare diversi stili nella propria musica, riuscendo ad allargare la normale portata dello stoner inteso in senso classico, cioè per come ci è stato donato da band come Kyuss e Fu Manchu. Degno di nota e sicuramente di un ascolto è poi la particolarissima chiusura del disco, “Sanctuary”. L’intro ricorda ambienti dei Pink Floyd che vengono trasfigurati in un vortice di un cinico e impetuoso stoner per poi ritornare graziosamente calmo e sfociare infine nel silenzio. 'Towards the Red Sky' è un concentrato di fiamme e roccia, un viaggio verso il tramonto nella consapevolezza che il sole, come ogni giorno, sparirà dietro le montagne. (Matteo Baldi)

(Karma Conspirancy Records - 2016)
Voto: 85

sabato 9 aprile 2016

Soijl - Endless Elysian Fields

#FOR FANS OF: Death/Doom, Officium Triste, Red Moon Architect, Et Moriemur
After several years of inactivity, Swedish doom/death project Soijl brings about a rather simplistic and minimalist approach to the genre that’s certainly quite decent enough in it’s approach. Revolving around a simple swirling guitar-and-keyboard heavy framework here, this gives off a series of lethargic-to-slow paced efforts built around those swirling riffing patterns and haunting melodic keyboard work as the drumming keeping the pace behind it all dominate the album overall to the extent of forsaking everything else. Even with this minimal approach here, there’s a rather intriguing dynamic throughout here in that this type of astrological-styled minimalism manages to come off entirely enjoyable and convincing with the plodding rhythms and making for a much more celestial-flavored aspect on display than would otherwise be the case here. It’s still pretty slow-going and lumbers along at a sluggish pace, though it’s still somewhat energetic at times when it gets going. It’s just not often enough here due to the slower pace. The opening title track takes a strong lilting riff around plodding paces filled with celestial patterns that work nicely along through the slower rhythms churning along to the simplistic and minimalist environments throughout the final half for a solid opening here. ‘Dying Kinship’ offers swirling riff-work thumping along with the celestial melodic patterns against the minimalist atmosphere that plods along throughout as it changes into a more lively and engaging epic celestial melodies into the finale for another solid effort overall. ‘Swan Song’ features a light series of swirling celestial rhythms and simple drumming as the haunting rhythms throughout here bring along plenty of plodding beats with the swirling riff-work leading into bigger chugging patterns in the final half for a decent enough track. ‘The Formation of a Black Nightsky’ immediately takes the celestial swirling patterns along the sluggish chugging with plenty of tight patterns leading along through the scorching riff-work coming along through the mid-tempo riffing in the final half for an enjoyable and impressive highlight. ‘Drifter, Trickster’ takes an extended, long-winded series of swirling riffing and plodding tempos accompanied by the rather tight drumming bringing along the driving riff-work leading the celestial patterns through a series of tight swirling patterns through the finale for a fine if slightly long-winded effort. ‘The Cosmic Cold’ features a strong swirling series of riffing with plodding rhythms augmented by the occasional mid-tempo gallop and urgent chugging riffing off-set against the celestial swirling rhythms throughout the final half for another strong and enjoyable effort. Finally, ‘The Shattering’ takes swirling rhythms and plodding rhythms bringing along the slower pace here with the different engaging melodic patterns keeping the tight, flowing celestial arrangements keeping the tight patterns and swirling rhythms in line through the finale for an overall decent lasting impression. It’s good enough to be enjoyable though it comes off a tad too long. (Don Anelli)

(Solitude Productions - 2015)
Score: 80

Sleepers’ Guilt - Kilesa

#PER CHI AMA: Groove Death, Soilwork, Dark Tranquillity, Megadeth
Iniziano col botto i lussemburghesi Sleeper's Guilt, che dopo un paio di EP, vanno a debuttare sulla lunga distanza nientedimeno che con un doppio album, 'Kilesa'. L'ambizioso lavoro conta dieci tracce nella sua prima parte e tre lunghi brani per trenta minuti nella seconda, il tutto sotto l'egida di André Alvinzi e Tony Lindgren, ai rinomati Fascination Street Studios in Svezia (Katatonia, Opeth, In Flames tanto per citarne qualcuno). La cosa che mi ha stupito immediatamente, dando uno sguardo al digipack, è il supporto ricevuto dal Ministero della Cultura lussemburghese per la realizzazione del cd, avanguardia pura! Iniziando ad ascoltare il disco, quello che si apprezza maggiormente, oltre alla pulizia (inevitabile) dei suoni, è il quantitativo esagerato di groove che risiede nel disco, che lo rendono decisamente accessibile, pur collocandosi nell'ambito di un death metal di scuola Soilwork. Qui però le ritmiche sono meno esasperate rispetto ai più famosi colleghi svedesi e buona parte del lavoro viene lasciato al cesello artistico delle due asce che contribuiscono nel forgiare splendide linee melodiche, elaborati orpelli chitarristici, resi ancor più interessanti dagli ottimi arrangiamenti orchestrali che contraddistinguono l'intero platter. Cosi è assai facile avvicinarsi alla opener "Sense of an Ending" (dove compaiono nelle sue linee melodiche anche un violino e un violoncello) o alla successiva "Two Words", dove tonnellate di granitici riffs vengono prodotti e confezionati a dovere, per essere dati in pasto ad una fetta assai ampia di pubblico. Il risultato è del sano e grondante groove (in stile Scar Symmetry) che riempie ogni singolo spazio del disco, soprattutto a livello solistico. Quando c'è da spingere il piede sull'acceleratore, il quintetto di Dippach non si fa certo pregare ("Scars of War"), con i risultati che si confermano sempre eccellenti, merito di una già acquisita maturità artistica, di un certo gusto compositivo e di una buona maestria strumentale. Gli Sleepers’ Guilt sanno mostrare anche il loro lato più gentile ("Angel Eyes") con una intro che sa quasi di ballad, prima di esplodere in una tonante fase ritmica in cui, oltre alle graffianti chitarre del duo formato da Chris T. Ian e Manu De Lorenzi (sembra esserci anche un po' di Italia nei nostri), è l'ottimo growl di Patrick Schaul ad emergere; da urlo poi l'assolo conclusivo. Se "I Am Reality" ha modo di strizzare l'occhiolino anche al djent dei Tesseract, con "The Mission" (e pure in "Dying Alive") i nostri si rilanciano nel costruire muri ritmici che compaiono peraltro anche nel nuovissimo disco dei Megadeth, il che dovrebbero indurre anche gli amanti di sonorità thrash e heavy progressive ad avvicinarsi a questo lavoro. Lo dicevo all'inizio, 'Kilesa' è un album che può aprirsi ad un pubblico ben più vasto di quello death metal, il tempo mi darà ragione, ne sono certo. Nel frattempo, le song si alternano con fortuna nel mio lettore: "Teardrop Bullets" ha un approccio assai catchy in un'altra semiballad che strizza l'occhiolino ai Dark Tranquillity di 'Projector'; "Supernova" continua a citare i gods svedesi del Gotheborg sound, mentre l'ultima strumentale "Not For Words", funge da chitarristico outro al disco. Menzione a parte per il secondo disco, contenente i tre lunghi brani che si muovono da "Kleshas" song presa in prestito a livello ritmico da uno degli album centrali della discografia dei Sepultura ('Chaos AD' o 'Roots') che però evolve dinamicamente verso ritmiche serrate alternate a frangenti etnici, il che si discosta dalla proposta contenuta nel primo dischetto. Tutta da decifrare poi la seconda parte del pezzo, con un assolo hard rock che spiazza non poco e un finale affidato a female vocals, per una songs indecifrabile stilisticamente quanto mai interessante a 360°. "Akusala-Mula", il secondo brano, è un altro concentrato di sonorità death grooveggianti che potrei ricondurre ad altre mille band (in ordine sparso, Meshuggah, Megadeth, Tristania), cosi come a nessuna e in cui a prestar la propria voce c'è un'altra gentil donzella (da rivederne però la prova). A chiudere il disco ecco il folk acustico di "Vipassana" che nella sua imprevedibile evoluzione, avrà modo di solcare i sentieri del death offrendo anche tiratissime ritmiche dal vago sapore black. Tanta carne al fuoco con i 13 brani totali di questa release che sicuramente non avranno modo di annoiarvi, ma anzi sapranno catturare i vostri sensi cosi come hanno fatto col sottoscritto). Bravi! (Francesco Scarci) 

(Self - 2016)
Voto: 75

The Shiva Hypothesis - Promo 2015

#PER CHI AMA: Black/Death
Arriva dai Paesi bassi questo quartetto agguerrito e dal sound tanto radicale, immerso nel soundblast più viscerale del black metal e vicino a certe realtà trasversali degli ambienti avantgarde metal. Il confine tra i due generi è sempre labile e molte volte viene oltrepassato, spesso sormontandosi a vicenda, donando sfumature e colorazioni diverse alla musica dei tre brani che formano questo demo autoprodotto. Ottima la qualità di scrittura, varia ed equilibrata, buona la produzione curata dal cantante MvS assieme ai suoi compagni. Tutti musicisti competenti e navigati che danno prova delle loro capacità sfornando tre suite di tutto rispetto, unendo raffinatezza, potenza, velocità e fantasia, nel nome di Dodheimsgard, Enthroned e Mgla, Voce maligna e ritmi incalzanti ad alto contenuto tecnico, strumenti ben amalgamati fra loro, momenti musicali in chiaroscuro dal risultato certo e gratificante, venature progressive, senza mai dimenticare una matrice al vetriolo di natura black/death e thrash metal nera come la pece. Venti minuti di puro cataclisma sonoro, curato e rivestito di oscura, agghiacciante, buia e profetica allucinazione (anche nel nome dei God Dethroned) a sostenere il significato di un nome dai richiami apocalittici com'è The Shiva Hypothesis. L'ipotesi di Shiva è una teoria scientifica esogeologica chiamata, in nome del dio della distruzione degli Hindu, che intende spiegare un apparente schema nelle estinzioni di massa causate da eventi di impatto (cit. wikipedia). Questo promo cd, uscito nel 2015, lascia ben sperare per il futuro e non deve passare inosservato, cosi come buona e inaspettata anche la cover dei Nasum fatta uscire su bandcamp a febbraio di quest'anno che rinforza le nostre speranze per l'avvenire di questa band. Aspettiamo il full length ora. (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 70

Cult of Occult - Five Degrees of Insanity

#PER CHI AMA: Funeral Doom, primi Cathedral
Quando si dice "non è certo una passeggiata" mi vengono in mente le asperità che ho affrontato nell'ascoltare questo tormentato disco dei francesi Cult of Occult. 'Five Degrees of Insanity' è il terzo album dell'act transalpino, che in cinque brani raggiunge la considerevole durata di 70 minuti poco più. La band di Lione ha da offrirci il proprio malsano sound fatto di sonorità sludge doom a dir poco claustrofobiche, che hanno scomodato dalla mia memoria storica, i Cathedral di 'Forest of Equilibrium'. Già proprio dall'iniziale e delirante "Alcoholic", lo spettro sinistro di Lee Dorrian e soci dell'album d'esordio, è rievocato in un disco dal difficile approccio, ma che ha nelle sue corde, aspetti sicuramente intriganti e pregni di contenuti. L'incedere è mortifero e ipnotico, debitore sicuramente di act quali Black Sabbath e Saint Vitus, ma qui riletti in chiave ancor più asfissiante e apocalittica che si spingono quasi al limite del funeral. La durata poi del brano, quasi 15 minuti, non aiuta di certo un ascolto easy listening, in quanto è richiesta una totale immersione sonora nella criptica dimensione dei Cult of Occult e un ascolto, per ovvi motivi, attento, per non lasciarsi sfuggire sfumature e molteplici altri dettagli qui contenuti. Quando in cuffia ti senti montare poi il riffing marziale di "Nihilistic", puoi solo sentire i polsi tremare e farti sopraffare dalla pericolosità di atmosfere raggelanti e vocals demoniache. In realtà il brano non acquisisce mai velocità o pesantezza, continua lungo i suoi 12 minuti a tenere il passo con il suo monolitico riffing infernale. Ci penseranno invece i 16 minuti di "Misanthropic" a catapultarvi nei più profondi abissi infernali con un ferocissimo attacco black che dopo pochi frangenti preme violentemente sul pedale del freno, facendoci impantanare nel distretto delle sulfuree pozze del doom più melmoso e ossessivo. Qui l'asfissia dovuta allo zolfo si fa assai pesante e insopportabile e la necessità di trovare una bolla d'aria sempre più impellente per potere uscire dalle sabbie mobili di un sound che ha addirittura da offrire intermezzi psych-space rock. Non lasciatevi però troppo ingannare da queste mie parole, la proposta dei Cult of Occult continua ad essere ostica e neppure la più breve "Psychotic" sarà per noi la classica e piacevole "scampagnata" della domenica: i suoi dieci minuti infatti, continuano nella malsana direzione fin qui imboccata da questi misteriosi musicisti, che in questo caso arrivano a saturare il proprio psicotico sound doom anche di suoni drone, che echeggiano fino alla conclusiva "Satanic", quando finalmente ci troveremo al cospetto della bestia. Infernali! (Francesco Scarci)

(Deadlight Entertainment - 2015)
Voto: 70

mercoledì 6 aprile 2016

Pearls Before Swine – Lay the Burden Down

#PER CHI AMA: Grunge/Stoner, Alice in Chains
Se decidi di usare per la tua band lo stesso nome di un’oscura formazione di culto degli anni sessanta, devi accettare il fatto che, almeno all’inizio, ogni ricerca in rete relativa a quel nome restituisca nelle prime due pagine di risultati solo indirizzi relativi a quel gruppo. A questo punto, quindi, non rimangono che un paio di opzioni: o si cambia nome o si diventa molto piú famosi degli altri, come pensarono bene di fare i Nirvana (sfido infatti oggi ricordarsi degli altri Nirvana). Così, mentre “quei” Pearls Before Swine erano lo pseudonimo dietro il quale Tom Rapp celava le sue psicosi apocalittiche riversandole in dolcissimi dischi psych-folk dalle copertine che riproducevano Bosch e Bruegel, questi altri sono un trio proveniente da Münster, Germania, usciti sul finire dello scorso anno con questo loro secondo EP, ricco di spunti interessanti tanto quanto lasci intravedere ampi margini di miglioramento. Grunge e stoner gli ingredienti alla base di una ricetta che, se non brilla certo per originalità, si fa apprezzare per passione e sostanza. Se l’iniziale “Valar Morghulis” è uno strumentale piuttosto innocuo, la successiva “Misfortune Cookies” ci riporta immediatamente nella Seattle di metà anni 90, tra Alice in Chains, Screaming Trees e Mad Season, anche per via dell’impressionante somiglianza della voce del vocalist con quella di Layne Staley. Allo stesso modo in ”On My Own”, blueseggiante come potevano esserlo i Temple of the Dog, e nella conclusiva “Shattered Dreams”, dalla lunga intro orientaleggiante, i nostri pescano a piene mani da quello stesso florido bacino e lo fanno con il giusto rispetto, quasi timore reverenziale, riuscendo però a cogliere nel segno anche e soprattutto grazie a capacità di scrittura decisamente sopra la media, tanto che questi tre brani non sfigurano nel confronto con le fonti di ispirazione. Resta da dire di una “I, Jekyll” non proprio a fuoco nel suo voler essere troppe cose e nessuna, e di un artwork non proprio memorabile e forse anch’esso nostalgico degli anni '90. Al netto di qualche ingenuità, la stoffa è evidente, e personalmente sono molto curioso di assistere a sviluppi futuri. Attesi alla prova di un album intero, con l’augurio che possano in futuro comparire come primo risultato di una ricerca in google (per il momento, direi che Tom Rapp può dormire sonni tranquilli). (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 70