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domenica 21 febbraio 2016

The Pit Tips

Emanuele "Norum" Marchesoni 

Sailing to Nowhere - To the Unknown 
Avantasia - Ghostlights 
Benighted Soul - Kenotic 

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Francesco Scarci 

Postvorta - Beckoning Light We Will Set Ourselves On Fire
Swallow the Suns - Songs from the North pt I, II & III
Secrets of the Moon - Sun

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Don Anelli 

Critical Solution - Sleepwalker 
Nidsang - Into the Womb of Dissolving Flames 
Voltumna - Disciplina Eterna 

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Matteo Baldi 

Thom Yorke - The Eraser 
Pallbearer - Foundations of Burden 
Om - Advaitic Songs 

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Samantha Pigozzo 

Hot Action Cop – Listen up 
Faith no More – King for a Day, Fool for a Lifetime 
Blutengel – In Alle Ewigkeit 

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Claudio Catena 

Megadeth - Dystopia 
Colonnelli - Verrà la Morte e Avrà i Tuoi Occhi 
Pearl Jam - No Code 

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Jeremiah Johnson 

Under the Church - Rabid Armegeddon 
Abbath - Abbath 
Weresquatch - Frozen Void

Earth's Yellow Sun - The Infernal Machine

#PER CHI AMA: Progressive Rock/Djent strumentale
Facciamo il punto. I canadesi Earth’s Yellow Sun (EYS) sono in cinque: due chitarre, basso, batteria, tastiere. Poi c’è la EYS Saxophone Collective (otto sassofonisti), i sette vocalist del The Infernal Choir e tre extra guest: tablas, violino e vocal. Totale: ventitré musicisti. Dico, ventitré. E sul loro meraviglioso ‘The Infernal Machine’ campeggia a lettere cubitali l’avviso: in questo disco non abbiamo usato campionature di batteria, simulatori di amplificatori, né strumenti virtuali. ‘The Infernal Machine’ è davvero una perfetta, diabolica e ben costruita macchina infernale: cinque movimenti di un unico concept album che, pur durando solo 23 minuti, potrebbero dare riff e materiale per due, forse tre dischi interi. Pochi secondi di piano introduttivo e siamo già in pieno prog-metal contemporaneo ("Assembly"): le chitarre in palm-mute danzano chirurgiche a sincrono con la grancassa, mentre costruiscono arpeggi melodici su cui – sorpresa! – entrano i sassofoni in un gioco di accenti spostati che ha quasi del funky. Il timing cambia: un dissonante solo di tastiere e uno più classico di chitarre, si avvolgono intorno ad un groove incalzante da puro headbanging. L’inizio di "Unveliling" è straordinario: sono quartine o terzine quelle? Lo capirete solo all’ingresso del rullante, che finalmente raddrizza un poliritmo degno del miglior djent. Ancora sax, accenti spostati, poi un organo; e finalmente un'epica melodia di chitarra su un arpeggiatore di tastiera. "Betrayal" viaggia su delle coordinate prog-metal premiate però da una maggiore accelerazione e da interessanti inserti elettronici e industrial (splendidi i suoni di tastiere intorno ai 50 secondi), prima di aprirsi su un poetico break di pianoforte e rituffarsi in un inferno strumentale di riffing serrato, poliritmi e melodie. I tre minuti semiacustici di "Bastion" godono del tocco orientaleggiante delle tablas e del violino, una vera oasi di magia. Chiude "Rapture", il brano più lungo del disco, che in qualche modo riassume l’intero approccio degli EYS alla musica: un gioiello di prog-metal, confezionato in un continuo gioco di rimbalzi tra cori e sassofoni da una parte e distorsioni dall’altra, fino ad un epico finale di strings e soli, quasi una ninna-nanna metal. Ottimo il lavoro della sezione ritmica (sentite cosa combina intorno ai 2 min) – ma è il songwriting la vera arma degli Earth’s Yellow Sun. ‘The Infernal Machine’ è un disco strumentale che non annoia, non lascia respiro, stupisce in continuazione. Gli EYS sono bravissimi e concentrati, non si perdono in fronzoli, non esagerano nell’autocelebrazione tecnica, non amano la ripetizione pur non disdegnando la melodia. Non mi vergogno a dirlo: buttate nel cestino l’inutilmente lungo 'The Astonishing' degli ormai troppo anziani ed egocentrici Dream Theater, e salite a bordo di questa nuova e fiammante macchina infernale. (Stefano Torregrossa)

sabato 20 febbraio 2016

The Leaving - Faces

#PER CHI AMA: Psych Folk Acustico
Lasciate dissolvere il noise dagli ampli saturi di suoni perché in questo viaggio il silenzio e le pause se la giocano alla pari con la musica. Frederyk Rotter, voce e chitarra degli Zatokrev, una band svizzera dedita da oltre dieci anni al doom/death/sludge metal, ci presenta il suo progetto solista a nome The Leaving. Le coordinate sono quelle di un folk acustico, prevalentemente voce e chitarra, roba che si può scrivere e suonare se si è nati nel Pacific North West degli USA o in qualche piovosa campagna scozzese, ma anche nel Canton Basel-Stadt, da dove proviene appunto l’autore. "In Faces" è il brano di apertura che richiama anche il titolo dell’album: qui la voce e lo stile rimandano ad un eroe del folk inglese come Bert Jansch, quasi sicuramente ignoto ai fedeli supporters degli Zatokrev. La narrazione prosegue con canzoni in bilico tra Nick Drake e Steve Von Till, dove la chitarra acustica è accompagnata da preziosi inserti di violoncello e, talvolta, da lapsteel, basso e batteria, il tutto sempre suonato con molta misura e facendo attenzione a non prevaricare sulla voce. Qualche eco di Neil Young compare in "Hands", brano dove il suono vintage crunch di una chitarra elettrica dialoga con la lapsteel. L’umore generale del disco è quello delle ballate che continuano a crogiolarsi in uno spleen mai troppo decadente, piuttosto melanconico nel suo incedere. Solo nell’ultimo pezzo intitolato "Pulse", la tensione sale e i The Leaving sembrano volerci ricordare da dove provengono: la voce del frontman si abbassa drammaticamente di tono e i cori raddoppiati sono la cosa più vicina allo stile degli Zatokrev, pur restando sempre in territori acustici. Molto buona la produzione del disco, con collaborazioni americane nelle fasi di mixaggio e masterizzazione. Disco consigliato, anche per il bene delle vostre orecchie. (Massimiliano Paganini)

(Czar Of Crickets - 2016)
Voto: 85

https://www.facebook.com/theleavingofficial/

Łinie - What We Make Our Demons Do

#PER CHI AMA: Alternative/Stoner/Protometal, Tool
Disclaimer: questo è un disco importante, per cui poco male se decidete di non leggere oltre, ma se decidete anche di non dargli un ascolto, sappiate che state probabilmente facendo un grosso errore. L’oceano di produzioni piú o meno metal (sui generis, tanto per capirsi) negli ultimi anni si è fatto davvero sconfinato, ed esplorarlo tutto in lungo e in largo è impresa inumana, destinata a fallire miseramente, eppure ogni tanto (molto raramente, purtroppo) capita di imbattersi in qualcosa che si staglia per originalità e personalità risultando, di fatto, inaudito. I Łinie sono un quintetto tedesco, sulle scene dal 2012, formato da Jörn Wulff (voce, chitarra), Alex Wille (chitarra, voce), Alex Bujack (batteria, voce), Ralph Ulrich (basso, voce) e Alex “Iggi” Küßner (tastiere, elettronica) che definisce la propria musica con tre parole perentorie e molto precise: desert, noise, darkness. Dopo essermi scervellato per descrivere quello che fanno, devo arrendermi e riconoscere che non puó esserci definizione migliore per questo originale coacervo di influenze e suggestioni. Dovendo cercare di descrivere a parole i 40 minuti di questo esordio sulla lunga distanza, dopo il demo del 2014 'Negative Enthusiasm', punterei l’attenzione su tre aspetti chiave: la base della musica dei Łinie è una sorta di alternative-stoner-protometal come potrebbe essere quello dei Tool piú viscerali e meno cerebrali, quelli di 'Undertow' e 'Aenima', innervata peró di giuste dosi di elettronica mai invadente ma sempre perfettamente integrata, il tutto reso davvero unico da un cantato che si discosta nettamente dai canoni del genere, tanto che Wulff, col suo timbro profondo e bluesy, sembra quasi un novello Glenn Danzig. Il pezzo d’apertura, “Blood on your Arms” non fa progionieri coi suoi riff granitici, il drumming potente, un synth sinuoso e il maestoso declamare del cantante. Il resto del programma fila via senza cedimenti e nemmeno un riempitivo, tra citazioni tooliane ("The City", "Lake of Fire") e accelerazioni stoner ("Non Ideal"), ci sono vere e proprie gemme come “Inability”, “Designate”, o la conclusiva, bellissima, “Natural Selection”, che fa quasi pensare a una versione sludge dei Depeche Mode. Il tutto è sempre fortemente caratterizzato dal particolarissimo modo di cantare di Wulff, che ha un timing e un modo di stare sulla battuta tutto suo, riuscendo a donare quel tocco scuro e minaccioso che aleggia in tutto il lavoro, a partire dall’inquietante immagine di copertina. Album sorprendente, che rasenta la perfezione, in cui tutto, produzione, chitarre, ritmica, tappeti sintetici e voce, concorre a definirne la bellezza epica, allo stesso modo glaciale e rovente. Łinie. Segnatevi questo nome. (Mauro Catena)

Aethyr - Corpus

#PER CHI AMA: Black/Sludge
Gli Aethyr sono un quartetto moscovita, costituito da Mr. D, Mr. W, Mr.S e Mr. Y che escono con il loro secondo lavoro, 'Corpus', per la label CSR, a distanza di cinque anni dal debut, intervallati però da una serie di EP e split album. Sette i pezzi a disposizione per lasciare testimonianza della loro nuova fatica musicale, uno sludge/doom (con ricorrenti fughe nel post black cascadiano, come testimoniato nella traccia d'apertura) guidato da vocals aspre come nel più ferale dei dischi degli Immortal. Si parte con la lentezza disarmante di “Nihil Grail” (già presente nell'EP omonimo del 2011) e le sue lenti falcate, fatte di riff ripetuti allo strenuo, su cui poggiano le voci in acido di Mr. D; per fortuna il finale è un crescendo in intensità che dona un certo brio al pezzo. Si passa a “Sanctus Satanicus” e il rifferama dei nostri cambia, transitando per un apprezzabile stoner sludge, dotato peraltro di una certa fantasia a livello ritmico, ma che lascerà ben presto il posto al riffing, un tantino statico, della opening track. Difficile esaltarsi per cosi poco, ma in aiuto dei nostri sopraggiungono delle rasoiate ritmiche che spostano l'attenzione dell'ascoltatore su altri versanti sonori e evitano un precoce collasso dovuto alla noia. Con i dieci minuti di “ATU” (attenzione, non è la sponsorizzazione di una famosa marca di preservativi), ci inguaiamo inizialmente nelle sabbie mobili di uno sludge abissale, ove la band avrà modo di rivitalizzare ed esaltare il proprio sound con assoli psicotici, momenti di stanca lisergica e soffocanti drappeggi di una musicalità comunque melmosa, che lascia presagira le grandi doti fin qui celate del combo russo. Con "Cvlt" si continua a solcare i territori infausti dello sludge, che in taluni frangenti si concede belle accelerazioni black che hanno il grosso merito di rendere più varia la proposta sonora degli Aethyr. Che ai russi piaccia sperimentare è palese con "The Gnostic Mass", un'inquietante traccia noise/ambient non certo memorabile, se non fosse che la voce campionata che si sente, è quella di Mr. Aleister Crowley. Tralasciabile. Con la title track ci prepariamo ad affrontare altri 10 minuti di suoni al limite del funereo, con delle parabole chitarristiche che strizzano l'occhiolino ai brillanti fraseggi melodici dei Saturnus e ci consegnano un gran bel pezzo di suoni plumbei ma atmosferici, che ci accompagneranno fino alla conclusiva "Templum". La song apre lasciando grande spazio alla batteria e a graffianti riff di chitarra che pian piano troveranno il modo di salire in cattedra e lanciarsi in scorribande di isterico post black di scuola statunitense. 'Corpus' è un album interessante, non proprio semplicissimo da approcciare ma che comunque merita un vostro ascolto. (Francesco Scarci)

giovedì 18 febbraio 2016

Zlang Zlut - Crossbow Kicks

#PER CHI AMA: Hard Rock, Led Zeppelin
Gli Zlang Zlut sono un duo di cinquantenni svizzeri che ha dedicato la propria vita alla musica. Infatti sono attivi sin dai mitici anni '90, quando i due di Basilea si dedicavano prima alla musica classica e poi al rock con diversi progetti. Amici di lunga data, nel 2010 hanno deciso di fondare questo energetico duo dando così alla luce il loro primo EP l'anno seguente. Nel 2014 hanno sfornato l'album omonimo ed ora ritornano con 'Crossbow Kicks', un digisleeve ben fatto con undici tracce di rock dalle influenze hard, ma pieno di sperimentazioni e con così tanta energia che farebbe impallidire parecchie giovani punk band. I ragazzotti amano il rock'n'roll vecchia maniera, ma non disdegnano anche sonorità moderne, distorsioni seducenti e ritmiche taglienti come un rasoio. In realtà la formazione è alquanto strana, nel senso che la line-up prevede un violoncello elettrico/bass synth con controllo a pedali e una batteria/voce, con un risultato finale alquanto soddisfacente. "Hit the Bottom" apre le danze con una ballata rock veloce, un cantato squillante e ben modulato in pure stile hard rock, mentre la sezione ritmica srotola un'ingente quantità di battute. Il violoncello distorto non fa certo rimpiangere la mancanza di una chitarra, anzi, l'assolo permette di godere appieno le diverse sfumature che tale strumento regala. In sé la canzone non offre niente di nuovo, grandi influenze dal passato sia nella struttura che nei riff, ma non fermiamoci al primo brano e passiamo oltre. "Rage" alza il tiro con un mood più oscuro e introverso, sonorità tra i Led Zeppelin e AC/DC, mentre il vocalist si lancia in un cantato ipnotico, sostenuto dai riff ossessivi del violoncello. I cinque minuti abbondanti della traccia rimangono sempre ad un livello che sembra voler esplodere, ma in realtà gioca su altri fattori, come i brevi assoli psicotici di violoncello. Non ancora soddisfatto, passo a "Out of Control", una vergata rock old school fatta di riff ballerini e ritmica figlia dei migliori moto raduni dagli anni sessanta ad oggi. In alcuni passaggi vocali sembra quasi che l'inossidabile Ozzy abbia prestato le sue corde vocali, in realtà il cantante è cresciuto a pane e rock come avveniva qualche anno fa. Anche qui il cello si inerpica in un assolo granitico, dimostrando che non ci vuole per forza una sei corde per scrivere qualche pagina di rock. "Now" è il brano più variopinto dell'intero disco, la struttura è classica, ma il tempo a disposizione permette di dare spazio al bass synth che probabilmente è un Taurus della Moog, a sentirne la cremosità delle frequenze. Anche il violoncello qui si arricchisce di effetti che insieme ai già sentiti excursus sclerotici, permette di inserire dei break che spezzano e rendono più vario il lungo brano. In generale gli Zlang Zlut sono un ottimo duo che brucia di rock come se non ci fosse un domani e nonostante sia restio a prendere la strada della sperimentazione, ne esce a testa alta, grazie anche alla lunga esperienza musicale che i due musicisti si portano sulle spalle. L'impressione è che i due si divertano un sacco, suonino quello che adorano e quindi vincano la loro sfida, senza il bacio accademico però. (Michele Montanari)

(Czar of Revelations - 2016)
Voto: 75

mercoledì 17 febbraio 2016

Dean Wallace - Metal Family

#PER CHI AMA: Heavy, Metallica
Vede la luce verso la fine del 2015 questo CD, frutto del lavoro di un polistrumentista francese, Dean Wallace. Dean è un chitarrista estremamente dotato tecnicamente, più che onesto invece quando si trova alle prese con gli altri strumenti. Se da un punto di vista essenzialmente formale il lavoro si difende discretamente bene, non posso dire lo stesso per quel che riguarda le altre sfaccettature di questo 'Metal Family', a partire da una copertina, che ricalca piuttosto banalmente i cliché del genere con borchie e placche metalliche. Approfondendo poi l'ascolto, emerge subito che il genere proposto è un metal molto classico, con tempi “dritti” e riff più classici del classico. Quello che salta però subito all'orecchio è l'impressionante (e vi assicuro che non esagero) somiglianza del timbro vocale del buon Dean, con quello del “vecchio” James Hetfield, compresi i cari “Yeahhh” di James o lo storpiare le finali delle parole aggiungendo una “A” un po' così a cazzo. Insomma, il ruggito tipico del californiano del periodo post 1991, ecco qui troverete tutti gli elementi che ho citato, e anche di più. E purtroppo, questo è il maggiore difetto di questo cd, e forse dell'artista in toto. Dico questo perché onestamente, ascoltare un CD che puzzi di plagio dall'inizio alla fine, non è ciò che cerco in un album o in un gruppo. Devo essere sincero, non sono riuscito ad ascoltare il CD più di una volta e mezza; anche quando a livello compositivo sembra esserci qualcosa, il tutto scade nel già sentito anche per quel che riguarda i suoni scelti (in alcuni punti sembra di ascoltare dei passaggi riscontrabili sul 'Black' album, ma senza raggiungerne neppure un quarto in termini di qualità). Mi sento solo di consigliare un ascolto ai più curiosi, ma per gli altri, questo 'Metal Family' non è altro che un lavoro superfluo. Per fortuna nostra, questo lavoro non rappresenta assolutamente la famiglia metal che, invece, Dean Wallace intende farci conoscere. (Claudio Catena)

(Tinphlo Records - 2015)
Voto: 45

Goatpsalm – Erset la Tari

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Ambient Noise/Drone/Black
I Goatpsalm sono una band di sicuro interesse per ricercatori di suoni spinti al limite del rumore ambientale, del feedback lisergico oltre confine ed estimatori d'avanguardia black/industrial estrema. La band russa esplora con il secondo album, uscito per la Aestethic Death nel 2012 l'universo storico e l'oscurità che si cela nella cultura sumero/babilonese, raffigurando la divinità Tiamat armata di tridente in copertina e cospargendo l'intero artwork di riferimenti e simboli storico religiosi dall'aria sinistra e minacciosa, mischiati alle poco rassicuranti figure dei tre musicisti sovietici. I nostri propongono la loro musica attraverso sonorità estreme divise in tre brani distinti, di cui il primo e l'ultimo di notevole durata (vicina ai venti minuti), separati da "Bab Illu", più corto e rafforzato da una evidente presenza etnica mediorientale costruita da strumenti a corde irrorati di misticismo e mistero per un'atmosfera arcaica e cupa pregna di sentore nero, un presagio sonoro perfetto per l'imminente disfatta di Babele. La conclusiva "Under The Trident Of Ramanu" mette in evidenza un riconoscibile destrutturato riff di chitarra, sorretto da una rarefatta, rumorosa e lacerata sezione ritmica in salsa lo-fi, con un finale caotico e astratto come se, giocando con il sound più glaciale e minimale del black metal, i Sunn O))) perdessero il mastodontico peso a favore di un groviglio di riff e lamenti chitarristici abissali, rubati ad un Eric Draven, fantasma e malato, nascosto in un luogo solitario tra il Tigri e l'Eufrate, investito da rumori di ogni tipo con finale spettrale che richiama i temi toccati nel brano d'apertura. Ricco di minimalismo rumorista, voci agghiaccianti, sussurrate e recitate, escursioni etnico/tribali che conducono in un viaggio da incubo in compagnia della divinità Marduk; una chitarra scarnificata, tagliente e gelida rallenta il battito cardiaco, giocando le sue carte sul filo del black sperimentale oltranzista (immaginate i Beherit di 'Unholy Pagan Fire' con una sezione ritmica dalla cadenza marziale, eterea, statica e lacerata) e l'industrial/drone più radicale, drammatico, minimale, cinematico, per certi aspetti molto simile ad una vera e propria colonna sonora da film. Aspettando il terzo e nuovo full length in uscita sempre per Aestethic Death a brevissimo, lasciatevi travolgere da questa infinita, affascinante, tenebrosa, tempesta mistica mediorientale! (Bob Stoner)

(Aestethic Death - 2012)
Voto: 75

martedì 16 febbraio 2016

Ha Det Bra – Societea for Two

#PER CHI AMA: Punk/Noise Rock
La meritoria etichetta croata Geenger Records, attenta nel setacciare la scena rock locale e distillare gemme preziose, propone questo cioccolatino imbevuto di noise che promette di placare la voglia di tutti noi orfani inconsolabili dei Jesus Lizard. Sarebbe tuttavia ingeneroso e ingiusto derubricare gli Ha Det Bra a semplici epigoni dell’indimenticata band di David Yow, in virtú della qualità altissima e della varietà di stili che fanno di questo 'Societea for Two' un esordio col botto. Le quattordici schegge che si susseguono lungo i 44 minuti totali, scorrono a meraviglia evidenziando innumerevoli sfumature e una personalità ben definita, attraverso gorghi noise rock, forti di una sezione ritmica granitica, chitarre affilate e urticanti, voce tormentata e graffiante. A colpire sono la qualità media dei brani e la straordinaria resa sonora, potente e sporca come i dischi Touch and Go degli anni '90, tanto che, tracce come “In Lies” o “Sleeping with the Werewolf” (per citarne due tra le tante), non avrebbero affatto sfigurato se inserite in scaletta nei classici del genere di Jesus Lizard o Unsane. Varietà, si diceva poc’anzi, e allora ecco la splendida “Mustafa the Tyrant” con inedite atmosfere orientaleggianti, o “Lowthing”, piccola parentesi che si distacca dal tono malato del resto del lavoro, per immergersi in atmosfere psych che ricordano addirittura gli Screeming Trees di mezzo. Altrove, ("Under the Mould" o "Michael’s Nightmyers") a farsi protagonista è quell’indole blues, quello passato attraverso indicibili torture e sofferenze degli Oxbow, che aleggia sul disco come una presenza maligna e beffarda. Sarebbero da citare tutti i brani, e ci sarebbero da spendere tante altre parole entusiastiche, nonché paragoni e rimandi che scaturiscono continuamente dall’ascolto di questo lavoro, la sfacciataggine malevola degli Swans o la furia iconoclasta dei Birthday Party, ma ogni parola spesa qui è un secondo rubato all’unica attività che invece andrebbe fatta: ascoltare questo disco! Esordi cosí sono rari e preziosi, e credo che se la band, invece che a Zagabria, fosse nata a Chicago, ora il suo nome starebbe di fianco a quello dei nuovi eroi del noise come Pissed Jeans, Whores e Metz. Unico rammarico: aver ascoltato 'Societea for Two' solo dopo aver stilato la mia classifica di fine anno. (Mauro Catena)

(Geenger Records - 2015)
Voto: 85

domenica 14 febbraio 2016

Astral Blood - S/t

#PER CHI AMA: Black, Deafheaven, Emperor
Ci si poteva sprecare un po' di più ragazzi e rilasciare un EP di almeno una ventina di minuti, no? D'accordo il detto "chi si accontenta gode", ma 16 giri di orologio, sono un po' pochini per descrivere la musica di questa band di Minneapolis. Tre brani (in realtà saranno due visto che il secondo è un interludio) che irrompono con "Secluded and Forbidden", un pezzo che mette insieme il classico post black americano (Deafheaven su tutti) con sonorità black atmosferiche nordiche (Emperor), in un miscuglio perfetto di violenza sonora. Diavolo, ma perchè solo due pezzi, qui c'è la potenzialità per trovarci tra le mani qualcosa che scotta, una musica che quando esplode nell'aria, manifesta il suo diabolico intento di entrare nelle nostre vene. Ariose tastiere volano nell'etere mentre serrate ritmiche triturano riff minacciosi quanto la voce in screaming di Andrew Rasmussen. Una bomba ad orologeria che vi esploderà in mano lasciando soltanto polvere. Il riffing sciorinato dagli Astral Blood ha un che di magnetico e magico, nella sua fragorosa potenza, e il breve assolo che compare nella opening track ha il merito di rizzarmi la pelle d'oca sulle braccia. La poderosa violenza di questo trio del Minnesota, unita alle fantastiche melodie tessute, rendono questo EP merce prelibata per gli amanti del black in tutte le sue forme. "Interlude" è un omaggio a quei momenti di passaggio che popolavano 'The Principle of Evil Made Flesh' dei Cradle of Filth. Arriva anche il turno di "Our Almighty Gaze" e la profondità delle sue ritmiche è orgasmica, cosi come l'epicità che si respira nell'aria incendiata dai riff maestosi di Joe Waller (membro anche degli Adora Vivos) e Tommy Curry. Era una vita che non sentivo un black dalle tinte sinfoniche, qui peraltro unito a momenti in cui il tono si fa ancor più greve e in cui i lampi di genio di Joe squarciano il cielo con fantastiche melodie. Che altro dire, se non auspicare il vostro ascolto e un ritorno sulla scena dei nostri a breve con un full length. Da segnalarvi intanto che la band si è arricchita di membri di Amiensus e di Ashbringer, il che promette davvero ottimi risultati. (Francesco Scarci)

Under The Ocean - Dark Waters

#PER CHI AMA: Deathcore, At the Gates, The Black Dahlia Murder
Abrasivi. Fine. La mia recensione si potrebbe chiudere tranquillamente qui. Descrivere il sound macinato da questa band di Parma è abbastanza facile: un mastondontico deathcore, un rullo compressore che non si ferma davanti a nulla e asfalta qualsiasi cosa gli si pari davanti. 'Dark Waters' è un EP di 20 minuti, che in quattro brani, dà prova dell'energia di cui questi cinque giovani sono dotati. Un suono senza compromessi che sarebbe facile etichettare con un modo di dire abbastanza abusato ultimamente, "un sound che non fa prigionieri". Un principio culturale della politica americana, in cui la sostanza è che gli avversari devono essere distrutti con ogni mezzo. Altrettanto fanno gli Under the Ocean, che da "The Leper Town" alla conclusiva "The Creeper", ci offrono tonnellate di riff sparati in faccia alla velocità della luce, con un batterista che deve essere uscito dal circo per i numeri che riesce ad offrire con la sua tecnica e velocità, mentre i chitarristi provono a tessere qualche melodia di scuola death svedese (At the Gates) ma anche americana (The Black Dahlia Murder), corredata da stop'n go, begli assoli (interessante quello di "The Bell Tower" che mi ha richiamato i Sepultura di 'Arise'), break acustici e ritmiche decisamente, fortemente serrate, mentre il vetriolico vocalist sbraita nel microfono. Inusuale l'inizio di "The Riverbank", la traccia che forse di più si distanzia dalle altre e che, nel suo incedere a tratti marziale, rappresenta anche la mia preferita dell'EP, per quel suo mood più asfissiante delle altre. A chiudere, le vertiginose e aggrovigliate ritmiche di "The Creeper", che sanciscono la fine di questo EP niente male, ma che necessita ancora una revisione nel proprio sound per poter emergere dalla massa di band che offrono questo genere. Coraggio! (Francesco Scarci)

(Drown Within Records - 2014)
Voto: 65

https://drownwithinrecords.bandcamp.com/album/dark-waters

Svartelder - Askebundet

#PER CHI AMA: Black Old School, Immortal, Ancient
Nostalgia nei confronti del black metal norvegese? Ho la soluzione che fa per voi. Vi presento i norvegesi Svartelder, band formatasi nel lontano 2005 per mano di Doedsadmiral (Nordjevel, Doedsvangr) e nelle cui fila militano anche AK-47 e Cobold, due loschi individui che hanno fatto parte o sono ancora membri, tra gli altri, di In the Woods, Carpathian Forest, Blood Red Throne, Ewigkeit e Den Saakaldte. Questo per dire che questo quartetto di Indre Arna, non è certo l'ultimo arrivato. E la nostrana Dusktone Records ci ha visto lungo, mettendoli sotto contratto e facendoli esordire con il loro EP 'Askebundet'. Quattro canzoni, 30 minuti di durata, fatto di suoni black mid-tempo rancidi, malefici e sinistri. La matrice ritmica è quella tipica norvegese: chitarre ronzanti, melodie orecchiabili, qualche tocco di synth in stile Burzum, fin dalla lunga title track che apre le danze. La voce di Doedsadmiral poi è in linea con le produzioni norvegesi, la associerei a quelle di Immortal e Ancient per timbrica e abrasività. I 10 minuti di "Askebundet" scorrono via piacevoli, tra qualche frangente che puzza di già sentito e qualche apertura più varia. Più interessante invece, la seconda "Bleeding Wounds", forse meno monolitica della opening track, e con qualche soluzione strumentale più fresca e ariosa, anche se mi rendo conto che questi due aggettivi potrebbero far storcere il naso ai puristi del genere, però voi dateci un ascolto e potrete anche riscoprire un che dei Satyricon degli esordi o un pizzico di epicità dei Bathory. "Ingen Vet Jeg Var...", la terza song, è più potente grazie a suoni più profondi e a un uso ancor più incisivo delle keys, sebbene il flusso sonico mantenga comunque l'intransigente glacialità degna del black. Incredibile la presenza di un melodico assolo nella sua seconda metà, laddove il sound dei nostri sembra richiamare anche quello dei conterranei God Seed. L'ultima traccia del dischetto è una versione demo di "Black He Stands", un brano che sinceramente non so da dove salti fuori, ma che comunque mostra l'intenzionalità da parte di Doedsadmiral e compagni di abbinare black old school con inquietanti tastiere e qualche sperimentazione anomala per il genere. Per ora accontentiamoci di 'Askebundet', un lavoro sicuramente gradevole, ma che non aggiunge grandi novità al verbo nero. Sia chiaro pertanto che dal futuro mi aspetto qualcosa di ben più convincente. (Francesco Scarci)

giovedì 11 febbraio 2016

CONTEST RUSTY PACEMAKER


I vincitori del contest "Rusty Pacemaker", che hanno risposto correttamente alle domande poste e vincono una copia dell'ultimo cd, 'Ruins', dell'artista austriaco sono:
The winners of the "Rusty Pacemaker" contest, that answered correctly to the questions and win a copy of the last album, 'Ruins', of the Austrian musician, are:

Caterina M. (Trezzo sull'Adda - Italy)
Michela M. (Coldrerio - Switzerland)
Piero S. (Breganzona - Switzerland)
Diego C. (Bardolino - Italy)
Giulio D.G. (Creazzo - Italy)