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domenica 27 luglio 2014

Epistheme - Descending Patterns

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth
he botta ragazzi! E' una bella mazzata nei denti quella che si presenta in uscita dal mio stereo quando faccio partire 'Descending Patterns': a divampare è infatti il sound degli EpisThemE, band nostrana che arriva dalla calda Sicilia (Catania) con il loro concentrato di death progressive che giunge al tanto agognanto cd di debutto, dopo gli ormai consueti anni di instabilità di line-up. Sembra infatti che ormai tutte le band un periodo di assestamento ce l'abbiano per contratto, anche se qui di contratto non vi è ancora ahimè l'ombra ed è un vero peccato perchè i nostri lo meriterebbero eccome. La proposta della band sicula è infatti assai affascinante sin dalla opening track, "Eyeland" che parte bella aggressiva, ma tenendo in serbo un bellissimo break acustico in grado di rizzarmi i peli delle braccia di 1 cm. Il perchè presto detto: i nostri rallentano il loro sound roboante per far posto ad un intermezzo che potrebbe esser stato tranquillamente partorito da Mr Åkerfeldt e i suoi Opeth in 'Damnation', con tanto di bellissime vocals pulite e un fantastico assolo conclusivo. Mmm, la cosa si fa interessante anche nella successiva "Erase That Frame" quando la sezione ritmica emula quella dei gods svedesi, mentre la voce di Luca Correnti urla disperatamente, addolcendosi nei momenti in cui la musica stessa, sfodera attimi di calma. Ma il flusso sonico costruito dai nostri è come quello di un fiume in piena, quasi incontrollabile: notevoli sono le spinte elettriche, i cambi di tempo improvvisi, ma altrettanto fantastici sono i frangenti melo-acustici in cui l'ensemble mostra maggiormente la propria classe. Come approccio, 'Descending Patterns' mi ha ricordato quello che riscontrai nel debut album degli Edenshade, 'Ceramic Placebo for FaintHeart': una certa freschezza compositiva, un mare di idee ("Silent Screaming" ne è un fulgido esempio con il suo incedere inquieto, l'alternanza delle vocals - ribadisco eccezionale la pulita - e la parte conclusiva, ottima nella sua sezione solista) e un'eccellente preparazione tecnica che fa degli EpisThemE e del loro album una graditissima sopresa di quest'estate. "Shade of May" è una splendida traccia strumentale in cui emergono tutte le qualità dei singoli musicisti, con il basso di Riccardo Liberti che ben si amalgama con le chitarre del duo composto da Francesco Coluzzi e Enrico Grillo e il raffinato drumming di Daniele Spagnulo. "Blind Side" è una traccia dall'incipit oscuro che evolve linearmente con dei bei chitarroni thrash spinti ad una velocità più sostenuta, in una delle song più normali del disco. Con "Endless Apathy" torniamo ad addentrarci in sonorità più articolate e contorte che si riflettono anche nell'uso delle vocals e di un cupo intermezzo la cui melodia vagamente richiama "My Angel" dei Massive Attack. La chiusura del disco è affidata a "Nemesis", un mid-tempo oscuro e controllato, in cui maggiormente mi rendo conto della produzione bombastica di 'Descending Patterns', che si candida sin d'ora ad essere uno dei miei album preferiti, prodotti in Italia in questo tiepido 2014. Finalmente qualcosa torna a muoversi nella nostra statica penisola, dopo qualche tempo di silenzio. Consigliatissimi. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 80

http://www.epistheme.it/

Kvity Znedolenykh Berehiv – Za Nebokray Mriy

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Anathema, Officium Triste
Certo, presentare alla stampa una band dal nome Kvity Znedolenykh Berehiv potrebbe essere un problema, tanto vale traslarlo in inglese e farsi cullare dal romanticismo decadente dei The Flowers of Crestfallen Shores e dall'EP 'Beyond the Horizon of Dreams', molto meglio no? Trattasi di una one man band ucraina, per cui mi piace pensare che, nonostante il tragico periodo che quella parte di mondo sta vivendo, ci sia ancora spazio per dedicarsi all'arte della musica. Due i pezzi inclusi nell'elegante digipack, due song il cui sentiero è tracciato nel doom, genere che va per la maggiore in Ucraina. Il primo brano mette subito in chiaro quali siano le coordinate stilistiche del mastermind di Kiev, alias Dmytro Pryymak: nove minuti di quel consueto death doom atmosferico, costituito da bei riffoni pesanti, growling vocals profonde, qualche discreto passaggio arpeggiato, che può rievocare 'Pentecost III' dei primissimi Anathema, e tanti cambi di tempo a rendere un po' meno scontato l'evolversi del brano. La seconda song si assesta su dieci minuti abbondanti di un sound che si rende ancora più carico di tristezza e disperazione, che forse si rifà per maestosità, agli Officium Triste e che lascia trasparire solo uno stato di desolazione scevro da qualsiasi tipo di speranza. Da segnalare un romantico e tragico break centrale, sorretto da una delicata chitarra elettrica e dalle clean vocals di Dmytro, per una song che evolverà poi verso un ridondante ripetersi del riff portante e da una cavernosa performance vocale. Che altro dire, se non suggerire in primis di vedere tramutato definitivamente il nome della band nella sua traslitterazione inglese, per garantire una maggiore accessibilità del prodotto, soprattutto alla luce della volontà dell'artista ucraino di trovare una etichetta (Solitude Productions?) che ne possa promuovere la musica. In secondo luogo, raccomanderei di rendere molto più personale la proposta della band, che si muove oramai in un ambito a dir poco saturo e per cui probabilmente è rimasto ben poco da dire. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 65

http://uakvity.com/

sabato 26 luglio 2014

Dalla Nebbia - The Cusp of the Void

#PER CHI AMA: Black Epic Progressive, Windir, Enslaved, Agalloch
Apro questa recensione ringraziando Jeremy Lewis e la sua infinita pazienza per avermi inviato due copie di 'The Cusp of the Void', e bacchettando poi le poste svizzere che si sono perse una delle due copie. Comunque mi fa specie (e piacere) trovare una band statunitense che sceglie come proprio nome una parola italiana, Dalla Nebbia appunto. I Dalla Nebbia sono un quartetto del South Carolina che debutta su lunga distanza sul finire del 2013 con questo album di black metal progressivo, che raccoglie in realtà le song del demo ('From the Fog') e dell'Ep ('Thy Pale Form...'), precedentemente prodotti dall'ensemble americano. Andiamo meglio ad inquadrare qual'è la proposta dei nostri: dicevo di black progressive e infatti quando "Dimmed Through the Smoke" fa irruzione nel mio stereo con le sue malinconiche melodie autunnali (perfette per questo periodo), mi lascio travolgere dal suo incedere che trae forte ispirazione in primis dai suoni etno-folk cascadiani degli Agalloch, ma anche dalle produzioni più ricercate degli Enslaved. Insomma mica pizza e fichi, questo a dimostrare che la proposta dei nostri assume una certa rilevanza artistica per i suoi contenuti davvero interessanti e mutevoli. La traccia alterna infatti diversi umori con una linea di chitarra flebile e triste che si stampa nella testa e successivamente muta tra bilanciati slanci black, momenti acustici e altri atmosferici, e infine parti corali da brivido. Ottimo il mio giudizio fin qui anche se dopo il solo ascolto della opening track. Irrompe la furia selvaggia di "Standing on the Precipice", song carica e veloce ma avvolta da un'aura magica ed epica, con lo spettro dei Windir che ammanta la song e la carica di puro misticismo. Sono rapito dalla proposta dei Dalla Nebbia, che si rivelano band dotata di grande intelligenza e capacità tecniche. E dire che le song sono vecchie di 2-3 anni, chissà quindi cosa attenderci dalla maturità compositiva di questi ragazzi. "Thanatopsis" conferma le influenze nord europee per il combo, con una traccia ricca di pathos e maestosità, nonostante tracimi del black metal velenoso e incazzato: ci pensano poi degli intermezzi in cui compaiono strumenti ad arco o break rock progressive, a restituire l'ordine a quell'empio caos sonoro su cui i nostri poggiano, ma solo per alcuni frangenti, la loro proposta. Proseguo con la spettrale "Humanity (The True Art)", song che mostra un ipnotico giro di chitarra a guida del pezzo e un chorus liturgico spezzato dalle scorribande sonore dell'axeman Yixja e dal growling acido di Zduhać (simile per certi versi a quello di Grutle Kjellson dei già citati Enslaved). Le song dei Dalla Nebbia continuano a stupire per la loro ecletticità, la capacità di modulare i propri suoni disorientando non poco l'ascoltatore, offrendo un qualcosa a dir poco fenomenale. Speranzoso che stiate già segnando l'ennesimo nome sul vostro taccuino, "Sovereign Moments" mi concede un paio di minuti di tregua con un interludio acustico che ci prepara a "The Apex of Human Sorrow", il brano più brutale del disco che mostra le capacità guerrafondaie di Tiphareth al basso e di Alkurion dietro le pelli, gli ultimi entrati in casa Dalla Nebbia. Non è solo violenza quella offerta da questa song, ma come sempre ci si imbatte nei consueti break acustici, prima di venire nuovamente mitragliati dalla sezione ritmica esplosiva della band. "Shade of Memory" chiude la serranda con i suoi quasi dieci minuti di tenue atmosfere, sperimentazioni varie e accelerazioni black. Il disco non si chiude qui perchè in serbo ha la sorpresa della cover dei Windir, "Black New Age", song del 2001 contenuta in '1184' che anche nella sua rilettura, conserva intatto quel suo spirito epico e battagliero che resero la band di Valfar davvero unica. Onore ai Windir, onore ai Della Nebbia per aver creato questo splendido 'The Cusp of the Void'. (Francesco Scarci)

(Razed Soul Productions - 2013)
Voto: 85

https://www.facebook.com/dallanebbiamusic

Raum Kingdom - S/t

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, Cult of Luna, Tool, Neurosis
Di solito penso all'estate come il miglior momento dell'anno per spassarsela, uscire con gli amici e andare in vacanza. Viste le pioggie pseudo-tropicali di questa stagione e le temperature autunnali, meglio starsene a casa e godersi della buona musica. Gli irlandesi Raum Kingdom e il loro album omonimo, mi danno ampio conforto in tutto questo, con un EP che ho amato immediatamente, fin dal primo riff imbastito che, li per li, mi ha fatto pensare ai Primordial, ma che nel suo successivo evolversi tortuoso, mi ha concesso di costruirmi mentalmente una mitologica creatura, una sorta di minotauro metà Primordial appunto (per il suono delle chitarre) e metà Neurosis (per l'approccio claustrofobico). Spaventosa solo da immaginarsi, meravigliosa da sentirsi. E cosi quando lenta e sinuosa, "Wound" varca i confini della mia mente e ne odo i suoi riff, avverto una certa sublimazione dei miei sensi. I riff pachidermici, l'atmosfera magica, le vocals profonde rigurgitano immediatamente il meglio della band. "Barren Objects" inizia con un sussurrato del vocalist, e poi rieccoli quei lenti e magici giri di chitarra che a questo punto bollerei come tipici "made in Ireland". La song è pigra a crescere, ma non temete, piano piano, aumenta di intensità e il coinvolgimento con il sound del quartetto Irish diventerà quasi totale, con i nostri che strizzano l'occhiolino ai Cult of Luna ma anche ai Tool, con basse tonalità e vocals che si alternano tra il clean oscuro e il growl. "Cross Reference" è una traccia ambient fatta di insulti vari e "fuck you" prima di "These Open Arms", tripudio di suoni post-metal, lugubri e desolanti. "This Sullen Hope" è ahimé l'ultimo pezzo del cd (un bel digipack dalle tinte oscure): quasi dieci minuti di sonorità melmose e magmatiche, in cui il vocalist si lancia addirittura in acuti simil System of a Down e la musica lenta e inesorabile avanza avvolta da una nebbia impenetrabile. Un pezzo che alla fine dispone i Raum Kingdom come vera sorpresa di questa fresca estate 2014. Un pensierino per un EP come questo è d'obbligo per tutti coloro che amano sonorità post, sludge e alternative: il download è gratuito, ma fossi in voi un minimo sforzo per l'acquisto del cd lo farei ad occhi chiusi. (Francesco Scarci)

Hawkmoth - Calamitas

#PER CHI AMA: Post strumentale, Isis, Pelican
Band come Isis e Pelican hanno grandi meriti, è indubbio, ma anche discrete colpe, se è vero che, da qualche anno, c’è una distesa sconfinata di band che sfornano album di post-metal/stoner/sludge strumentale, che per la gran parte difficilmente reggono la prova del secondo ascolto. Cosa quindi potrebbe mai farmi venire voglia di ascoltarne un altro, l’ennesimo disco post-metal/stoner/sludge strumentale? Saranno forse le scarse aspettative con le quali mi accingo all’ascolto, saranno – piú probabilmente – le qualità di questi quattro ragazzi australiani, ma questo 'Calamitas', alla fine mi sembra un mezzo capolavoro. Già, perchè, pur non inventando nulla di nuovo, gli Hawkmoth hanno quello che serve per fare grande musica, e che manca troppo spesso a tante altre band: sincera passione, tante cose da dire e i mezzi tecnici ed espressivi per farlo nel migliore dei modi. La caratteristica che colpisce immediatamente è l’armonia dell’alternanza tra parti piú riflessive e rarefatte ad altre in cui la potenza si sprigiona in una maniera che sembra inarrestabile. A questo contribuisce non poco una resa sonora fenomenale (e stiamo parlando di un’autoproduzione), in grado di esaltare tanto le sfumature quanto la furia. Succede sempre qualcosa, in queste otto composizioni, qualcosa che non ti aspetteresti ma che, una volta accaduto, ti rendi conto essere esattamente la cosa che avresti voluto accadesse. Merito di uno spettro di influenze vastissimo, che va dallo stoner al noise, dal doom al grunge, dal post rock al metal classico, e merito anche di quattro musicisti di primo livello: come non citare la prestazione mostruosa della sezione ritmica, in grado di tramutare la musica in evento meteorologico, in un tuono che preannuncia temporali da fine del mondo; come non rimanere affascinati dal lavoro di due chitarre che si fronteggiano e interagiscono in modo sorprendente e mai banale. Otto brani per 54 minuti, e l’impressione che non ci sia nulla, nemmeno un secondo, di superfluo. Tutto qui dentro è funzionale alla riuscita del pezzo. Difficile segnalare i pezzi migliori, tanto ognuno ha una sua identità ben precisa e i suoi punti di forza. Potrei citare "Tundra" e "Big Black Birds Circle the Sky", perchè sono tra quelli che meglio trasmettono un’immagine fedele del lavoro intero, nel loro andamento tortuoso, tumultuoso, sorprendente. Lo dico senza nessun dubbio, e dopo aver ascoltato questo disco per settimane intere: gli Hawkmoth sono una grande band, e 'Calamitas' un grande album. Non potete esimervi dall’ascoltarlo. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 80

https://www.facebook.com/Hawkmoth

lunedì 21 luglio 2014

Splatters - Fear of the Park

#PER CHI AMA: Horror Rock
Oi! Oi! Oi! Queste sono le prime tre parole che mi sono saltate alla testa ascoltando l'album di esordio di questa band lombarda, formatasi nel 2011 e con un demo di 5 canzoni all'attivo. L'ensemble è formato da Drow come voce e seconda chitarra, Alex Damned alla chitarra e cori, Mr. Sprinkle al basso e Paul Destroyer alla batteria. Di loro però parla la musica: come si può già intuire dal titolo, è un gioco di parole che riprende il famosissimo disco degli Iron Maiden, e quella piccola sensazione di disagio che si prova entrando in un luna park (magari scancanato e semi abbandonato): la si sente meravigliosamente nella “Intro”. Pronti per un giro sul rollercoaster? Ottimo, perché ”Killer Clown” è la colonna sonora adatta, così scattante, incisiva e rimembrante il sound più punk/hardcore, con la voce roca e urlata, oltre a dei cori che risulterebbero migliori tenendo le braccia alzate e agitate per aria. Non che ”Welcome to Zombieland” sia tanto diversa, ma qui la differenza è nella sonorità meno spedita e più profonda: giusta proprio per il tunnel degli orrori, o degli specchi. Il ritornello è difficile da non cantare, magari agitandosi per la stanza... Questo potrebbe essere l'incipit adatto per la terza traccia ”Here Come the Monsters”, magari rincorrenti questi audaci (o sconsiderati?) visitatori del luna park in declino, formati magari dagli storici freakshow: la batteria, grazie anche alle note di chitarra ripetute in rapida successione, ricordano facilmente le gambe che scappano e il rumore dei piedi sulla terra, in fuga da questi fenomeni da baraccone. Come se volessero collegarsi al precedente brano, ”Die in a Leather Jacket” sembrerebbe quasi voler ricordare "Die With Your Boots On" degli Iron. ”Hope” si distacca dalla melodia ascoltata finora: addirittura ricorda Alice Cooper con la sua strafamosa “Poison”, anche se gli Splatters si limitano a modificarne il tempo e renderlo più spedito e battuto, mantenendo un profilo più hardcore. “Why Do They Always Die in This Way?” inizia con note di pianoforte, chitarra elettrica e voce grave, ma chiara e limpida. Lasciato trascorrere il minuto (e mezzo) di calma, si torna alla carica con un bel incitamento musicale “Run! Faster than You Can Run!” cantato urlando, mentre la batteria non lascia un attimo di tregua. Ma i peccatori vanno in paradiso? E perché no, con la vertiginosa ed energica “Sinner in Heaven” sembra che possano accedervi, magari con qualche pedata nel fondoschiena, come il motivo lascia intendere... Probabilmente “My Lucky 13” potrebbe essere un plauso, o ringraziamento, a Jason Voorhees per la grande fortuna che ha portato questo infausto numero, o semplicemente un richiamo ad uno dei B-Movie che hanno scandito i grandiosi anni '80. Tornando al nostro luna park infestato, quando i malcapitati si trovano nel labirinto di specchi ritrovano “Minotaury”, da cui è difficile scappare. Si sa che ogni cosa arriva ad una fine: ed è così anche per questo primo lavoro degli Splatters, un viaggio psicotico in un parco divertimenti malefico e invaso da diverse creature. “Dark Way” è la traccia conclusiva, suonata al pianoforte e cantata alla stregua dell'incipit di “Why do...”. Ovviamente le ultime note del piano riprendono quelle dell'intro, creando una specie di vortice da cui è difficile uscire... non puoi scappare dagli incubi. In chiusura, quest'album mi ha letteralmente entusiasmato e ispirato, trovandolo geniale e folle al tempo stesso. Una richiesta: aggiornate il profilo myspace, se volete tenerlo come sito ufficiale; troppo scarno per i miei gusti. (Samantha Pigozzo)

(Atomic Stuff - 2012)
Voto: 80

domenica 20 luglio 2014

Bound by Entrails - The Stars Bode You Farewell

#PER CHI AMA: Black Symph, Emperor, Bal Sagoth
Mi sa che sono parecchio distratto ultimamente: sotto il naso mi passano un sacco di cd, ma non credo di dargli il giusto peso. La band di oggi l'avevo già notata un annetto fa ma solo ora ho realmente prestato il mio orecchio ad un ascolto più attento e cavolo cosa mi sono perso. Con un certo ritardo quindi vi descrivo di 'The Stars Bode You Farewell', album dei Bound by Entrails, uscito nel 2012, che ha visto una marea di consensi positivi nel web (tranne in Italia ovviamente, dove il disco non è stato quasi mai preso in considerazione). La band del Wisconsin ci propina un sound estremo che si dipana vertiginosamente tra il black e il death, offrendo tuttavia anche frammenti che potrebbero essere presi in prestito dall'avantgarde od dal jazz, come accade appunto in "Threshold of Fear", song feroce, ma che propone anche un inedito intermezzo che di metal non ha davvero nulla. La base dei nostri pesca da quei suoni epico-sinfonici da cui sono partite band come Emperor, Borknagar, Limbonic Art o Bal Sagoth, in cui si alternano voci urlate/growl e pulite, e in cui la ritmica martellante di sottofondo è attenuata dalle splendide orchestrazioni. Peccato solo per una produzione non proprio impeccabile, che penalizza notevolmente la qualità dei suoni; ma pure un esuberante utilizzo del drumming conferisce al lavoro una resa sonora talvolta un po' troppo caotica. Tuttavia, l'album si lascia apprezzare offrendo ottimi spunti nella maggior parte dei suoi pezzi. Vorrei citare a tal proposito la vena progressiva di "Swan Song" (particolarmente ruffiana nei confronti degli ultimi Opeth), la malinconica e al contempo feroce "Search for Sunken R'lyeh" o la lunga atmosferica "With Vernal Impunity", che si muove tra un death/black sempre accompagnato da ambientazioni notturne, cariche di un feeling epico, oscuro e spettrale e che vanta peraltro un bellissimo assolo di pianoforte (eccolo qui il mio pezzo preferito). Citazione a parte per i quattordici minuti conclusivi di "Ghost of Our Former Selves", song dall'attacco spiritual-etnico che divamperà in brevissimo tempo in un melting pot di stili, pescando dalla musica estrema ma pure dal progressive d'avanguardia, mostrando comunque le infinite potenzialità di questo ensemble che è giunto addirittura al terzo album, senza che nessuno, nel nostro amato paese, se ne accorgesse. Bound by Entrails, finalmente un nuovo nome, nel desolato panorama black symph, da tenere sott'occhio. (Francesco Scarci)

(Runefire Records - 2012)
Voto: 75

Torrential Downpour - Truth Knowledge Vision

#PER CHI AMA: Math Progressive, Dillinger Escape Plan, Between the Buried and Me
Prima delle mie ferie di agosto e dei suoi consueti Back in Time, meglio darsi da fare per segnalarvi le ultime proposte bollenti di quest'estate un po' timida a venire. Oggi è il turno degli statunitensi Torrential Downpour, quartetto sperimentale che ci offre undici caleidoscopiche tracce che sapranno catturare la vostra attenzione. 'Truth Knowledge Vision' è un album che inganna all'ascolto del suo primo brano, perché sembrerebbe di essere proiettati in una galassia vicina a quella di Devin Townsend. Errato. Quando "TKV", la seconda traccia entra in loop nel vostro cd, vi renderete subito conto che il New Jersey, stato di nascita di questi mattacchioni, dista anni luce dal mondo fatato del folletto canadese (anche se qualche rimando lo si ritroverà nel corso dell'ascolto). I Torrential Downpour ci investono con un sound spaziale, visionario e psicotico, in cui miscelano il math dei Dillinger Escape Plan con il progressive dei Between the Buried and Me, la genialità dei Follow the White Rabbit e la violenza del death, infarcendo il tutto anche con un approccio a la Meshuggah e una stralunata effettistica noisy. Tutto chiaro quindi? Inoltrarsi nel mondo di questi alieni sarà un'esperienza davvero unica: l'arrogante "Satan, Whatever...", la lunga, atmosferica e schizofrenica "Hyperion", la caotica "Basilisk" o la cervellotica e malinconica "The Offering" (la mia song preferita), vi sorprenderanno per tutto il loro armamentario di trovate che consente ai nostri di differenziare la propria proposta dalle altre band di cui sopra. Chitarre ribassate, percussioni tribali, clean vocals che si dipanano tra l'acido e l'isterico, ambientazioni horror, per un album che vanta anche un eccezionale mixering e mastering a cura di Kevin Antreassian (Dillinger Escape Plan) ai Backroom Studio. Torrential Downpour il nuovo nome da segnarvi sulla vostra agenda in quest'estate diventata improvvisamente torrida... (Francesco Scarci) 

(Self - 2014) 
Voto: 80 

sabato 19 luglio 2014

Falloch - This Island, Our Funeral

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze, Alcest
Li stavo aspettando al varco da tre anni, li ho anche dati per dispersi ad un certo punto, ma finalmente gli scozzesi Falloch hanno dato seguito al meraviglioso 'Where Distant Spirits Remain' del 2011, con un lavoro nuovo di zecca, che fin dal suo epilogo sembra voler dare una certa continuità al debut album, concentrandosi su sonorità che miscelano amabilmente post rock e shoegaze, il tutto intinto di un tenue folk. Il risultato, come potrete intuire, non è affatto male, anche se devo ammettere che il quartetto di Glasgow ha perso un po' di quella magia e di quel misticismo e folklore che avvolgevano il precedente Lp. Non fraintendetemi però, l'album è godibile in ogni suo momento, dalla lunga opening track, notturna e malinconica alla successiva traccia, in cui le ritmiche sembrano pestare non poco, ma dove a convincermi non troppo è invece la performance vocale, un po' sottotono rispetto al passato, in quanto sembra aver perso parte del suo calore primigenio. La musica riesce a ritagliarsi i suoi consueti spazi acustici e le sue classiche ambientazioni autunnali, affrescando ancora l'etere di quelle immagini tipiche delle verdi colline scozzesi. Una voce femminile fa capolino nella terza song, più che un reale brano, un passaggio verso la lunga quarta traccia. Tiepida, dalle spiccate atmosfere post- nelle sue nervose chitarre, il brano vede affiancarsi alle clean vocals anche delle urla che rappresentano un retaggio della precedente release. L'influenza dei francesi Alcest tiene banco, ma in 'This Island, Our Funeral' è completamente scomparsa quella componente black che ogni tanto divampava in alcuni pezzi di 'Where Distant Spirits Remain'. Non che sia un difetto, ma il feroce turbinio estremo rendeva l'album più dinamico e imprevedibile. Un altro interludio e poi i 10 minuti della traccia numero 6 (non me ne vogliate ma i titoli delle canzoni non ci sono), che per certi versi mi ha ricordato gli ultimi Lingua, quelli prima dello scioglimento, ma anche qualcosa dei A Perfect Circle, segno che la band in questi ultimi tre anni ha subito comunque una certa mutazione/evoluzione musicale, a discapito di quella componente black folk di cui dicevo poc'anzi, dando invece maggior peso a un approccio all'insegna dello shoegaze/alternative rock. Non so dirvi se questo sia bene o male, io li preferivo nella loro veste primordiale, ma 'This Island, Our Funeral' è l'esatta fotografia di quello che i Falloch sono oggi, una validissima band che ha le carte in regola per sfondare e ottenere il successo che merita con un piacevole mix di suoni che strizzano l'occhiolino ai trend più in voga del momento. Ah dimenticavo: la mia song preferita dell'album? L'ultima, quella di cui non vi ho parlato volutamente. 12 minuti da pelle d'oca, per cui vi incito all'ascolto... (Francesco Scarci)

(Candlelight Records - 2014) 
Voto: 80