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sabato 6 ottobre 2012

Divine Irae - Bible

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, Cult of Luna
Raramente mi è capitato di imbattermi in una band e non trovare assolutamente alcuna informazione sul suo conto: i Divine Irae sono tra queste rarità. Il pugno di informazioni recuperate, mi dice che la formazione di oggi viene dalla Provenza e in questo cd di quattro pezzi, a tiratura limitata e con un digipack numerato a mano (solo 50 copie per pochi fortunati), i nostri propongono un sound epigono di Cult of Luna e Isis. Proprio su coordinate post metal/sludge, i nostri aprono le danze con la lunghissima “Disappear”, song che evidenzia immediatamente la voglia dell’act transalpino di mettersi in gioco, emulando i propri beniamini. Certo, siamo lontani anni luce dagli originali, comunque il combo sembra aver imparato la lezione, lanciandosi alla ricerca di suoni mai troppo veloci, mai troppo pesanti, ma che, alla stregua di un lentissimo mare di lava, scende minaccioso dal cono vulcanico. A vederlo, cosi scuro e lento, non sembra neppure essere cosi pericoloso, ma poi quando solo poco ti avvicini, capisci che le temperatura supera di gran lunga i 1000 gradi. Similmente anche la musica dei Divine Irae, sembra essere innocua ad un ascolto, per cosi dire, distaccato, ma appena dai modo ai nostri di avvicinarsi, capisci che le loro potenzialità sono quasi letali. E proprio come la lava, il sound di “Bible” si presenta viscoso, lento, permeato di pochi gas in grado di esplodere, di cui tuttavia non dovrete sottovalutarne la pericolosità. Lenti, magnetici, penetranti (soprattutto con la seconda “Derelixion”), la band di Aix En Provence, continua imperterrita a soffocarci con quei suoi suoni asfissianti, quelle vocals vetrioliche al limite dell’hardcore; fortunatamente il furore gallico, trova un break in un’apertura acustica, che mi concede giusto il lusso di rifiatare, un po’ come se un boa avesse mollato la presa con le sue mortali spire. Cosi è il sound dei Divine Irae, costrittore. Ecco, se poi magari il vocalist desse meno spazio alle sue urla disumane, si concedesse qualche silenzio in più o desse maggior fiato alle vocals più meditative, ecco forse si potrebbe meglio apprezzare la proposta di questo nuovo gruppo francese, che trova il modo anche di giocare con noi al pendolino magico, cercando di ipnotizzarci, con suoni ripetuti e ripetuti. La musica di questo lavoro non è di cosi facile immagazzinamento, il sound sembra ancora soffrire di una certa acerbezza, che sono certo col tempo saprà maturare. Questo lo si evince soprattutto dall’ascolto della più meditativa e forse più melodica “Icon”, che nei suoi due minuti iniziali, trova anche il modo di cullarci con il suo incedere pacato e tranquillo, prima di esplodere nel fragore elettrico delle sue chitarre fangose, su cui trovano posto anche delle clean vocals, che eleggono questa song la mia preferita dell’album. Ci siamo, ci siamo quasi. Sicuramente c’è da lavorare ancora a lungo per scrollarsi di dosso i fantasmi dei maestri, ma la strada intrapresa anche con l’ultima “Irae” conferma che i Dine Irae stanno percorrendo la giusta via. Il voto basso è di stimolo, non di bocciatura. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

Okera - A Beautiful Dystopia

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride
Mi sa che in questo 2012 sarò costretto a dare la palma di nazione più prolifica all’Australia, capace di rilasciare un quantitativo esagerato di release, di vari generi, ma soprattutto di elevato tasso qualitativo. Tra gli ultimi cd partiti dal “nuovo continente”, che hanno raggiunto casa mia, figurano gli Okera, quartetto di Melbourne dedito ad un death doom di grande intensità, che delinea le proprie doti in termini di preparazione, pathos emotivo ed esecuzione, sin dall’oscura “The Black Rain”, che mette in chiaro la corrente di pensiero dei nostri, che vedono nei My Dying Bride la loro principale fonte di ispirazione, anche se stranamente compaiono echi degli Opeth degli esordi. Forti della produzione di Mark Kelson dei The Eternal, i nostri propongono in questa release le tre tracce che costituivano il loro demo d’esordio con quattro nuove songs, decisamente ricche in fatto di contenuti e dal facile coinvolgimento emotivo. Il death doom dei nostri è veramente manna dal cielo, che sicuramente potrà impressionare i signori della Solitude Productions, costantemente in cerca di nuovi act da inserire nel proprio roaster in modo da differenziare la propria proposta che ultimamente ha rischiato di scadere nel troppo sentito. E per questo mi sento di suggerire alla label russa gli Okera, band che non si limita esclusivamente ad offrire un sound sofferente e apocalittico, ma che nella seconda traccia “I Hope”, spinge un po’ di più il piede sull’acceleratore e se non fosse per qualche parte arpeggiata, potrei decisamente affermare che siamo al cospetto di una band death/black, che mantiene comunque nelle proprie linee di chitarra una velata vena malinconica. Abbandonata la rabbia della seconda song, tra l’altro casualmente anche il pezzo più corto dell’album, ecco i nostri riprendere la via del dolore e lanciarsi in cinque lunghi brani (durata media 8 minuti), in cui la verve inziale, lascia spazio alla desolante disperazione dell’animo umano, con il notevole growling di Jayme Sexton, ad accompagnare le bellissime e nostalgiche linee di chitarra (splendida per altro la chiusura di “Futility”). Il cielo sopra Melbourne si fa sempre più grigio, le nuvole si accumulano e minacciano violenti piogge: “In Solitude” è un altro pezzo che parte violento, ma nel suo corso, riesce a dar spazio anche ad aperture progressive, tali da lasciarmi a bocca aperta perché in grado di conferire maggiore ariosità, ad un genere che talvolta rischia di soffocare a causa di un sound fin troppo opprimente. Quindi diamo atto agli Okera, un po’ come qualche mese fa ai Bela’kor di aver confezionato un prodotto che prende le distanze dagli stilemi di un genere grazie ad una maggiore dinamicità, che consente ai nostri di esplorare territori che vanno oltre le normali definizioni di death doom o funeral. “A Beautiful Dystopia” raccoglie alla fine un po’ di tutto, comprimendolo saggiamente in una proposta, che non ha la presunzione di inventare nulla di nuovo, ma che sicuramente ha il pregio di rendersi vario ed interessante fino alla fine, quando la title track mi stordisce per poco più di dieci minuti con un feeling che sa di primi Anathema, imbastito però su un sound esplosivo, dirompente, furioso, tecnico e melodico che fa gridare decisamente al miracolo. C’è ancora molto da lavorare, ma gli Okera sono sulla strada giusta e vanno premiati da un vostro ascolto. Obbligatorio! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

venerdì 5 ottobre 2012

Bauda - Euphoria… Of Flesh, Men and the Great Escape

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze, *Shels, Archive
L’avevo scritto qualche mese fa, in occasione della recensione della loro prima release, che un vocalist avrebbe giusto fatto comodo ai cileni Bauda, ed eccomi accontentato. Il terzetto di Santiago torna con un nuovo lavoro, tra l’altro fuori per l’italianissima ATMF e signori miei, tanto di cappello, per una release finalmente davvero interessante. Apertura affidata a “Ghosts of Panthalassa”, song che sembra estrapolata da un disco dei post rockers inglesi Archive (penso ad “Again” tratto da “You All Look the Same to Me”), traccia estremamente delicata, che esplode solo in un dirompente finale e che mi fa esultare per la nuova direzione artistica intrapresa dall’act sudamericano. Ci siamo sotto tutti i fronti: l’espressività della voce (che richiama appunto il vocalist degli Archive – un plauso quindi a César Màrquez), l’emozionalità della musica, che abbandonate le strumentali divagazioni folk depressive degli esordi, ora resta costantemente ancorata ad ammalianti e malinconici territori post rock/shoegaze, tessendo dei brani stracolmi di un’espressività inaudita e, splendida a tal proposito, “Humanimals”. Preparati anche tecnicamente e dotati di uno spiccato gusto estetico che si esplica attraverso gli otto momenti qui contenuti, i Bauda sanno come stupirmi e come conquistarmi: in “Silouettes” è ad esempio, il magnetico suono di un basso accompagnato da un’aggressiva chitarra acustica mi tengono concentrato sul sound travolgente, di quella che potrei definire la vera sorpresa del 2012. In questa song, il trio sud americano non nasconde neppure il proprio amore per i suoni post metal, con un finale incandescente. Con “Oceanìa”, i nostri tornano a dipingere paesaggi indefiniti, desertici, quasi i Bauda volessero fotografare, attraverso la loro musica, il desolante deserto dell’Atacama, punteggiato da quelle che sono, tra le più alte vette montane del Sud America. Brividi si, percorrono il mio corpo. Questo è l’effetto meraviglioso del sound, estremamente già maturo di quest’ensemble, che in “The Great Escape” invece, coglie gli insegnamenti di un’altra delle mie band favorite, gli *Shels, e offre dei suoni post rock assai evocativi ed ispirati. Nonostante la lunghezza dei brani, i Bauda non annoiano mai, aggrovigliano con la loro musica, i miei pensieri, conducendomi in posti assai lontani. In “Ascension” ecco emergere forte l’eco dei Pink Floyd, con una bellissima base di pianoforte, su cui la seducente voce di César Màrquez concede il meglio di se stessa. “Euphoria… Of Flesh, Men and the Great Escape” riserva una sorpresa dopo l’altra, fino alla conclusiva notturna (direi ambient) “… Mare Nostrvm? (El Llanto de Quintay)” che suggella, a mio parere, uno degli album più intensi dell’ultimo periodo e che va a candidarsi per ricoprire un posto nella mia personale top ten di questo 2012. Un’altra uscita da “top player” targata ATMF. Complimenti! (Francesco Scarci)

(ATMF / A Sad Sadness Song)
Voto: 85
 

Crionics - N.O.I.R. (Nation Of Illusive Resemblance)

#PER CHI AMA: Black/Death, Old Man's Child
Uscito inizialmente in sordina per la MSR Productions, la Icaros Records ha voluto riproporre questa interessante release di una delle band storiche del panorama metal polacco, i Crionics, qui con una nuova veste grafica. La band, dedita ad un black death, esiste ormai dal 1997 e dopo 15 anni e molteplici cambi di line-up, rilascia questo “N.O.I.R.”. Si tratta di un EP che oltre a comprendere tre nuove songs del quintetto di Cracovia che mostrano il nuovo percorso stilistico intrapreso dai nostri, include anche una cover degli Immortal, l’eterna “Blashyrkh (Mighty Ravendark”, una dei Ramstein, “Moskau”, a cui si aggiungono le tracce del demo del 1998 (tra cui “I Am the Black Wizards” degli Emperor), insomma di tutto di più, per leccarsi i baffi. E devo dire che rimango piacevolmente stupito dal trittico iniziale di nuove song, “NarcotiQue”, la seconda “Scapegoat” e “Perdition”, tre brani che viaggiando sui binari a cavallo di un potentissimo black misto ad un cyber death, talvolta pomposo nelle sue aperture orchestrali, che trae ispirazione dagli ultimi citati gods norvegesi, gli Emperor ma anche dai The Kovenant, per esaltare i propri fan e pure quelli dell’ultima ora, come il sottoscritto. Le chitarre sono graffianti, le vocals gracchianti di Quazarre (vocalist anche nei Devilish Impressions e negli Asgaard) si avvicendano con delle voci pulite stile Arcturus, che tentano addirittura di percorrere la strada tracciata dagli striduli vocalizzi di King Diamond. Il risultato è sicuramente molto positivo e non posso ancora una volta che compiacermi, che il black sinfonico continui a dare i suoi frutti, anche se qui risulta mischiato con dei magnifici suoni cibernetici. Poi c’è “Blashyrkh”, proposta in una veste più potente e non posso che approvare e lasciarmi trascinare dal feeling malvagio di cui è permeata questa unica song, con Quazarre in grande spolvero. Impressionante anche la riproposizione della song dei Ramstein, in cui il vocalist, Peter dei Vader, mostra tutta la sua bravura e il suo spiccato eclettismo (in questa song compare anche Vogg dei Decapitated all’accordion). Quando passo alle tre tracce del 1998, faccio evidentemente un bel tuffo nel passato, ed ecco trovarmi di fronte un black piuttosto primitivo, il cui sound mostra la sua evidente matrice sinfonica di scuola norvegese, con un riffing leggerino ma ricco di cambi di tempo, una batteria indemoniata, delle spettrali tastiere e le canoniche screaming vocals. Il sound dei Crionics si riconduce comunque agli autori dell’ultima traccia, gli Emperor, la cui cover è ben suonata, anche se tra le tre cover, è quella che mi ha convinto di meno. Diciamo che se il nuovo album vedrà seguire gli stilemi delle prime tre canzoni, ne sentiremo davvero delle belle. Per il resto, provate ad avvicinarvi alla band polacca, dare un ascolto alla nuova proposta e se vi piace, non far altro che attendere con trepidante attesa, l’uscita del nuovo album. Ah dimenticavo: il cd comprende anche un “The Making of N.O.I.R.” e il video di “Scapegoat”, filmato durante il “Beware of Your Neck 2010 Tour”. Insomma ce n’è per tutti i gusti, basta solo dargli una chance… (Francesco Scarci)

(Icaros Records)
Voto: 70

Legion of Darkness - Meridies

#PER CHI AMA: Black Epic, Spite Extreme Wing
È noto quanto io sia un profondo conoscitore della scena metal mondiale, mi domando pertanto come mi sia potuta scappare una simile release, peraltro rilasciata da una band nostrana, mea culpa... E cosi, con peccaminoso ritardo da parte mia, mi appresto a scoprire con sommo piacere, i siciliani Legion of Darkness e la loro seconda fatica, “Meridies”, che prosegue quel discorso iniziato con il loro promettentissimo debutto, “Cantus”. Spiace innanzitutto constatare che una band dalle cosi elevate potenzialità, non abbia quella promozione adeguata, da parte di un’etichetta di spessore, che possa dare i giusti meriti a questo eccellente trio. Venendo al disco, “Meridies” consta di 5 lunghi brani che coprono 50 minuti di musica, che decollano con “Sentenced to Eternity”, il cui inizio ha evocato in me un’immagine particolare. Ricordate il film “La Mummia” (quella più moderna), quando l’enorme faccia del faraone, costituita di sola sabbia, si materializza nel deserto, minacciando i protagonisti del film, cercando di deglutire il loro aeroplano? Ebbene, quel senso di potenza infinita l’ho percepito anche nel magniloquente prologo di questo cd, prima che le screaming vocals di Lord Inferos, si materializzassero maligne nelle mie casse e prima ancora che si mettessero in mostra delle epiche vocals. Chi pensava scioccamente di avere fra le mani un lavoro all’insegna del black metal più cruento, dovrà ricredersi come il sottoscritto, perché al minuto numero quattro, una splendida apertura di chitarra acustica mi induce i primi brividi di piacere che mi segnalano quanto mi stia già entusiasmando “Meridies”. Per carità, i nostri sanno anche pestare sull’acceleratore con delle scudisciate rabbiose, pregne di malignità, ma nuovamente, l’utilizzo di brillanti clean vocals, distolgono la mia attenzione dalla furia imponente dei nostri, per andarla a focalizzare invece nella componente più melodica, a cui segue un breve bridge chitarristico. I nostri galoppano a ritmi sostenuti, denotando sicuramente una eccellente preparazione tecnica, a cui si affianca un ottimo gusto in chiave compositiva-esecutivo; brillante da questo punto di vista l’utilizzo delle tastiere. Annichilito dagli undici minuti della prima traccia, ecco “Ek Pètras” pronta a massacrarmi con i suoi 14 minuti. L’inizio è tranquillo, affidato mi pare, ad un mandolino, che rappresenta verosimilmente, la quiete prima della tempesta, che puntualmente non tarda a prendere corpo, e proseguire con quel suo lavoro rutilante. Mostruoso il lavoro al basso di Adranor, cosi come pure quello di Flagellum, che si diletta, nel costruire ringhianti riffs di chitarra che somigliano a saette di Apollo, eccellente poi per quel lavoro di cesellatura, garantito da deliziosi arpeggi che si incontrano nell’ascolto di questa, passatemi il termine, poetica opera, affiancato da violini e violoncelli, e da un buon lavoro in chiave solistica. I Legion of Darkness ci sono e lo confermano anche con “Songs of War”, brano che vede l’utilizzo anche di vocals in italiano dal contenuto prettamente metafisico – guerresco, con una impostazione simile a quella dei Spite Extreme Wing. Ora folkish (da sottolineare anche l’utilizzo del flauto), un po’ pagani nel loro approccio, ma alla fine blackish, nel loro solenne pauroso incedere, i Legion of Darkness confermano la loro classe anche nella successiva “Ciclo d’Acciaio”, altra bestiale song dal flavour sinfonico norvegese di metà anni ’90 (sulla scia di “Stormblast” dei Dimmu Borgir), che fa della velocità il suo punto di forza, su cui però si intercalano ed incastrano, in modo perfetto, gli archi. Sbalordito, giunge nel finale anche l’acustica “Ithaca”, il cui video clip è contenuto nel cd. Un inno alla musica mediterranea che chiude avvalorando alla grande, questo ottimo esempio di black made in Italy. Epici! (Francesco Scarci)

(Dark Babel Records)
Voto: 80

http://www.legionofdarkness.it/

martedì 2 ottobre 2012

Tenochtitlan - Sotvorenie Mira

#PER CHI AMA: Metal Etnico, Avantgarde, Senmuth, Negura Bunget
Era da un bel po’ che tenevo d’occhio questa band, poi finalmente nella cassetta postale mi sono trovato il loro cd e con grande entusiasmo mi sono lanciato ben presto nella recensione. Beh, mettiamo subito in chiaro una cosa: pur avendo i nostri un monicker che richiama l’antica città azteca o un’intro dal sapore vagamente tribale, non siamo al cospetto di alcuna band centramericana, bensì trattasi di un side-project russo, che vede coinvolti alcuni membri di act dell’underground, tra cui il più noto, è sicuramente Senmuth, un polistrumentista resosi famoso, per aver prodotto una cosa come 120 release in una decade. Comunque sia, la proposta del combo dell’est Europa è un qualcosa di estremamente suggestivo, originale, e a tratti mi verrebbe da aggiungere esotico. Si perché pur presentando un sound piuttosto estremo, diverse sono le divagazioni etniche che esso propone, probabilmente dovute anche all’interpretazione in lingua madre (in cirillico tra l’altro l’intero booklet) delle song, che, cinque in tutto, raggiungono un totale di 45 minuti di musica di pregevole fattura. Se devo porre attenzione su qualcosa in particolare mi soffermerei sulla traccia numero tre, un mid-tempo dai suoni stranianti, in cui le vocals pulite di Archon si alternano con le harsh del duo Senmuth e Lefthander, e in cui si percepisce pure l’innesto di un flauto e di altri strumenti tipici della tradizione flokloristica. Niente male, ma l’album non è ancora decollato del tutto; lo fa però alla grande con la sinfonica quarta song, un’ondata di suoni magniloquenti, pomposi ed epici, che mi inducono ad alzare il volume e farmi trascinare dalla fierezza che essa emana. Il quinto brano evidenzia ancora una certa predilezione per sonorità ambient, comunque intrise da quel flavour etnico che va via via conquistandomi; poi ad irrompere ci pensa una ritmica marziale, con un bel growling in primo piano. Quando parte l’ultima traccia, il suono dei synth mi ricorda la proposta etnica del buon Senmuth, mentre le incursioni a dir poco stravaganti, possono suggerire alla mia memoria i francesi, ahimè disciolti, Carnival in Coal o i finlandesi The Wicked. In conclusione, questo quarto lavoro offre la possibilità di dare ascolto ad un interessante prodotto, che per certo, prende le distanze da tutti gli stereotipi che affollano, in questo momento, l’ormai saturo mondo metallico. Provare per credere. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

lunedì 1 ottobre 2012

Inborn Suffering - Regression to Nothingness

#PER CHI AMA: Death/Doom, Draconian, Swallow the Sun
Dopo un paio di giri a vuoto, la Solitude Productions pare aver raddrizzato il tiro ed essere tornata sulla dritta via, grazie alla performance di questi francesi Inborn Suffering, che escono per l’etichetta russa, anche con la riedizione del loro album di debutto, che verrà recensito sempre su queste stesse pagine. Fatto sta che quella della band parigina è la classica uscita che preannuncia la caduta delle foglie, l’arrivo delle nebbie e delle mattinate gelide, in cui il ghiaccio va a depositarsi sull’erba, si insomma l’arrivo dell’autunno. “Regression to Nothingness” è pertanto la più azzeccata delle uscite autunnali, dedite all’ormai imprescindibile marchio di fabbrica della Solitude: death doom atmosferico, che guarda ai soliti Draconian e Swallow the Sun, come principale fonte ispiratrice, senza tralasciare comunque i fondamentali insegnamenti, in fatto di passaggi di tristezza infinita nei Katatonia di “Brave Murder Day” o nell’uso delle vocals meditative, negli Anathema di “Eternity”. Si, insomma, di recensioni di questo tipo, ne avrete letto a bizzeffe nelle pagine del Pozzo, eppure qualcosa di vagamente originale, lo si riesce a percepire nel lungo, quasi estenuante, secondo lavoro degli Imborn Suffering. Già dall’iniziale “Slumber Asylum” c’è qualcosa di pungente nel sound del quintetto di Parigi, pungente quasi quanto il vento d’inverno che soffia tagliente sul viso. Non saprei identificare cosa, forse il suono delle tastiere quanto mai egregio, che in sottofondo fanno un massiccio ed ispirato lavoro oscuro (come l’angosciante suono portatore di morte in “Born Guilty”), o probabilmente la voce di Laurent Chaulet, a cui piace alternarsi tra il growling e il pulito, senza tralasciare le chitarre mai troppo furiose, con le ritmiche assolutamente compassate, se non in taluni sprazzi, in cui i nostri si concedono scorribande tipicamente death; ma ci sta dopo tutto, questi sono gli ingredienti tipici del genere, che fa dei quantitativi esagerati di malinconia, il proprio punto di forza, ben coniugati con rallentamenti enigmatici, dirompenti squarci acustici, con tonnellate di melodia ben distribuite lungo tutti e 72 i minuti di questo attraente “Regression to Nothingness” (con una ragguardevole media di 10 minuti per brano). Insomma, ci voleva una release di questo tipo per farmi iniziare alla grande quest’autunno, che si preannuncia assai infuocato. Bravi Inborn Suffering, anche nella scelta della cover cd e del logo, che devo ammettere avermi abbastanza depistato, spingendomi a pensare a qualcosa di più estremo su sentieri death. Per concludere, vale anche per i nostri la solita raccomandazione espressa per tutte le altre band, facenti parte della nuova ondata di death/doom: se solo si osasse maggiormente per prendere le distanze dai ben più famosi originali, il risultato finale sarebbe decisamente di tutt’altro spessore ed interesse. Per ora mi accontento, ma la prossima volta, non garantisco di essere cosi indulgente… (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 70

Funera Edo - De Bello Heroica

#PER CHI AMA: Black/Thrash, Epic, Janvs, Frangar
Quest’album, dalla veste grafica ben curata, tanto colorata e tanto atipica per il genere intrapreso, è opera dei romagnoli Funera Edo e segue il precedente “Split cd” del 2011, intitolato “Dolore Iconoclasta”, in compagnia degli emiliani Inner. “De Bello Heroica” è un lavoro molto compatto, con i pezzi cantati in lingua italica, pieni zeppi di rimandi di fiera epicità, inni alla guerra, alla vittoria e alla forza, che si muovono attraverso i vari versanti del black metal, ma con un gusto tutto proprio che va a ricordare per attitudine altre bands conterranee quali Janvs o i già recensiti su queste pagine, Frangar. Analizzando i brani, segnaliamo come preferito “Impeto e Tempesta”, per la sua carica guerriera, violenta e primordiale. Il sound è monolitico e standardizzato come scrittura, a volte volutamente statico ed ipnotico, a creare una forma di estasi pre-battaglia, sempre rumoroso e marziale. Nell'insieme il lavoro è molto efficace e la qualità risulta ottima e piacevole per chi ascolta. A volte, l'ago della bilancia si sposta forse inconsapevolmente su coordinate metal/ hardcore “Italian old style”, che fanno vagamente tornare alla mente band storiche come Atrox o più recenti come 1984HC. Questa ultima osservazione tiene in considerazione l'attitudine del suono di “De Bello Heroica” che si estranea dal tipico sound del black (la sezione ritmica costruisce ritmiche lineari e pulsanti che spaccano e viene messa sempre in evidenza da un mixaggio molto classico, creando un vero e proprio distacco dal genere di riferimento). I Funera Edo optano per un suono più italico, personale, ritmico, compatto e vibrante, carico di tensione e presente, molto pieno e martellante con un'ottima voce che comunque si trova a fare i conti con una lingua molto difficile, qual è l'italiano, da inserire in contesti musicali così estremi. Il sound di questa band trova radici profonde nel black metal e molto deve anche al versante epico della musica metal, e la sua fusione all'irruenza schietta dell'hardcore della prima ondata italiana, fa si che il tutto risulti quadrato, diretto e tanto militaresco. Il risultato è a tutti gli effetti una vittoria e per certi aspetti potrebbe essere una coniazione di un nuovo sound tutto italiano molto più rock per un nuovo modo di intendere il metal estremo. Molto personali, una band da tener d'occhio! (Bob Stoner)

(Lo-Fi Creatures)
Voto: 80

Round 7 - Dedicated to Nyhc

#PER CHI AMA: Hardcore, Sick of it All
Ormai la speranza stava svanendo, ma è successo di nuovo. Un gruppo che propone cover e/o tributo (in questo caso ai Sick of it All), comincia a scrivere pezzi propri e arriva ad incidere un intero cd. Questa è in breve la cronistoria dei Round 7, quartetto vicentino che propone un potente hardcore e ne arriva a fare anche una filosofia di vita. Ultimamente la scena HC sta rivivendo una seconda giovinezza nella nostra zona (Verona-Vicenza), sembra di essere a New York tra gli anni 80 e 90. Infatti si contano diversi gruppi (Sin Circus, Social Disaster, etc.) dal livello tecnico anche discreto, probabilmente perché sotto lavorano musicisti con diverse esperienze alle spalle, che popolano questa zona. Ma torniamo ai Round7. Da pochi giorni è uscito il loro primo LP "Dedicated to Nyhc", undici pezzi registrati al Gypsy Studio di Negrar presentati in un semplice jewel box, ma arricchito da una buona fotografia del libretto e una copertina in parte disegnata a mano. I testi scritti avrebbero aiutato a capire lo spessore delle tracce, magari sarà per il prossimo LP. I vari pezzi ripercorrono le sonorità dei Misfits, H2O e traggono molto in termini di ispirazione dai Sick of it All, anche se, ascoltando bene ci si accorge che, certi arrangiamenti, sono frutto di studio e tanta tecnica. Lo scream di Emanuele porta con se i benefici di una voce matura e quindi all'altezza delle aspettative, unite ai fantastici riff e agli assoli di chitarra che si staccano dalla semplicità richiesta spesso dal genere. La parte ritmica, creata da Andrea e Michele, è un treno lanciato all'impazzata senza controllo, con affondi e cambi di ritmo che aiuta i pezzi a non essere mai noiosi. Forse l'unica pecca di "Dedicated to Nyhc" è il classicismo, nel senso che un LP così, qualche anno fa, sarebbe stato molto apprezzato, ma come ho scritto in altre recensioni, non lo considero un difetto. Spesso la ricerca assoluta di sonorità eclettiche può essere catastrofica per tanti gruppi. Questo album getta le basi per una strada dritta verso obiettivi che alla band sembrano essere molto chiari. Dopotutto il treno è in corsa, chi non se la sente può sempre scendere. F..U (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 70

Kråke - Conquering Death

#PER CHI AMA: Black Symph., Dimmu Borgir, Old Man's Child 
Signori, ho il piacere di annunciarvi che il black metal sinfonico non è ancora morto. A tenerlo in vita ci pensano infatti i norvegesi Kråke che, ereditata la pesante eredità dagli Emperor e dagli ultimi Dimmu Borgir, mostrano al mondo che c’è ancora spazio per dire qualcosa in questo genere ormai logoro. E io non posso che goderne. Devono averla pensata come il sottoscritto anche quelli della Indie Recordings, da sempre label lungimirante (penso ad esempio agli Enslaved), che ha dato la chance ai nostri di rilasciare questo album. La solita tastieristica intro dà il la al cd e poi ecco esplodere il melodico symph black dei nostri, che parte piano piano, mostrando addirittura una certa vena viking, con dei chorus che sarebbero più azzeccati in release di band quali Thyrfing o Amon Amarth, ma “… And a Colder Breed” lascia ascoltarsi lo stesso e anzi devo dire che mi piace parecchio; nel frattempo, l’album ingrana ed incrementa poco a poco la sua base sinfonica con la malinconica “Hearts Blood”, mentre l’aggressività si accresce con l’incipit di “Ed”, una song decisamente ben strutturata e complessa, che passa dall’arrembante prologo, tipicamente black, passa attraverso un mid-tempo ragionato, fino ad evolvere a coordinate più progressive. L’eco degli Enslaved lo si riesce cogliere nel corso dell’ascolto, ma anche quello dei Dimmu Borgir meno ruffiani (“Enthrone Darkness Triumphant”), cosi come pure l’influenza dei già citati paladini del viking, grazie a quelle epiche atmosfere, corredate da qualche tastierona e atmosfere da battaglia. Bombastica e assai curata anche la produzione, tipico per questo genere di uscite: il lavoro ci regala difatti un suono pieno, cristallino e potente, da godere assolutamente con le cuffie conficcate nelle orecchie. Per carità non è poi tutto oro quel che luccica, in quanto “Conquering Death” talvolta perde smalto in qualche frangente e rischia di gettarmi nel torpore (ad esempio nella strumentale “Snowfall”), ma niente paura, perché il diabolico quintetto scandinavo, si rialza velocemente e con fierezza, piazzando qualche bel colpo ben assestato, come “The Gatekeeper” o la sognante ultima traccia, “I Ly Av Lyset”, cantata rigorosamente in lingua madre, e che segna la fine del primo positivo capitolo targato Kråke. Ci sarà da sistemare ancora qualche cosina, per risultare più convincenti e meno ridondanti. Direi che per ora mi sento di consigliare il lavoro agli amanti di sonorità, si estreme, ma assai melodiche. Da tenerli sotto stretta osservazione, perché la band ha le carte in regola per vincere. To be continued… (Francesco Scarci)

(Indie Recordings) 
Voto: 75 

sabato 29 settembre 2012

Meniscus - War of Currents

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive, Explosions in the Sky
È tempo di rilassarsi, non posso certo martoriare costantemente le mie orecchie con brutal death o black satanico. Ecco perché ho preso il nuovo disco degli australiani Meniscus e l’ho infilato nel mio lettore, consapevole di quello che avrei trovato, avendo da poco recensito positivamente anche il loro debut EP. Partendo da un ottimo digipack, sotto un profilo prettamente estetico, con una cover cd che richiama quella cascata di lettere e numeri che compariva nel film “Matrix”, su uno sfondo bianco questa volta, la musica dei nostri aussie boys torna a percorrere il filone del post rock, cosi come era stato per il loro precedente lavoro, perdendo tuttavia un pizzico di smalto che tanto mi aveva ben impressionato in “Absence of I”. Mentre le prime due songs, “Room3327” e “130” ripercorrono quanto proposto in precedenza, “Immersion” si rivela molto più pacata, stentando proprio a decollare e trascinandosi pesantemente nell’oblio della noia. Chiaro, la band australiana non è diventata scarsa tutto di un colpo, sembra semplicemente essersi un attimo smarrita, alla ricerca di una visione ancora più intimista della propria musica, ed in tal caso devi essere un fenomeno e non aver paura di rischiare di perdere la faccia, altrimenti il rischio di fare una figuraccia è là dietro l’angolo. Beh per i Meniscus voglio essere chiaro: un passo indietro è stato fatto, e questo mi dispiace, ma sono certo che comunque anche voi avrete modo di perdonare questa defiance, anche perché nei 38 minuti di “War of Currents”, tutti gli elementi classici del genere sono comunque riscontrabili. Partendo dicevamo da un post rock strumentale, il trio cerca di sviluppare il proprio sound lanciandosi in divagazioni space rock progressive che ne esaltano la performance, nella più sperimentale delle tracce, “Fight Club”, in cui fa la sua comparsa in modo importante anche l’elettronica e finalmente un riff di chitarra dotato di un certo mood melanconico. Torno a ribadire la necessità di avere un vocalist, che possa aggiungere un quid in quei momenti che rischiano di intorpidire anche l’ascoltatore più attento. L’abilità della band non si discute, rimango perplesso su alcune scelte ridondanti che sono state fatte in sede di stesura dei pezzi. Meglio rendere più scorrevoli i pezzi, piuttosto che ripetere alcuni giri all’infinito in un loop, ahimè non ipnotico, semmai alquanto tedioso. Comunque i Meniscus rimangono eccellenti esponenti di un post rock, che sta vivendo in questo momento un boom, che non avevo di certo pronosticato. Da rivedere o meglio risentire… (Francesco Scarci)

(The Bird’s Robe Records)
Voto: 70

giovedì 27 settembre 2012

Abske Fides - Abske Fides

#PER CHI AMA: Doom/Post/Avantgarde
Devo ammettere di essermi avvicinato con una certa titubanza a questo lavoro, in quanto le ultime uscite in casa Solitude, non mi avevano granché convinto, a causa di un eccessivo crescere di un movimento, quello doom, che se continuerà ad essere sfruttato in modo cosi massiccio, rischierà di veder ben presto la sua fine. Tuttavia, il debut album di questi brasiliani dal nome astruso, non fa che impressionarmi positivamente e vederli affiancare ai connazionali Helllight, come compagni di etichetta. Qui, non siamo di fronte ad una proposta tipicamente funeral doom, ma la musica del combo di San Paolo, colpisce piuttosto per la sua componente avanguardistica, che ben si fonde con quella death doom. Quel che è certo è, che anche qui si viaggia su durate piuttosto lunghe dei brani, con “The Consequence of the Other” che risulta essere una song ostica, difficile da delineare al primo ascolto, perché pur viaggiando su coordinate stilisticamente vicine al doom, trova il modo di impreziosire la propria proposte con inserimenti estemporanei di female vocals. La seconda “Won’t You Come?” si fa ricordare per un riffing di chitarra ipnotico e melodico, che immediatamente si stampa nel cervello e per uno splendido break centrale, dal vago sapore post rock (ottimo il pseudo assolo e l’intera componente ambient), mentre le vocals si alternano tra un cantato da cavernicolo ed uno più pulito. Ho alzato pertanto le mie antenne, capendo che il debut album degli Abske Fides, non è qualcosa che suona in modo scontato, ma piuttosto, va ascoltato con crescente attenzione, perché i particolari che si possono captare, risultano davvero azzeccati e notevoli da un punto di vista di godibilità del prodotto. Ecco non voglio sembrare uno da televendita, ma mi sembra di scorgere nel sound dei nostri paulisti, un tocco di originalità, che fin qui era venuta a mancare nelle uscite della label russa. Non tutto fila per il verso giusto, in quanto affiorano momenti di stanca, che si potevano sicuramente evitare o per lo meno, non tirare cosi tanto per le lunghe e penso all’infinito inizio onirico/visionario di “Coldness”, ma cavolo, non appena parte una chitarra seventies, di scuola pink floydiana, non posso che sobbalzare sulla mia sedia e porgere ancor più attentamente il mio orecchio, e sentire quelle meravigliose plettrate sulle corde della chitarra che mi fanno godere non poco. Poi le vocals si mostrano magari un po’ deboli, ma poco importa se il feeling che respiro è di quelli da dischi acustici dei favolosi anni ’70. E 70 sarà anche il mio voto finale, come forma di incitamento per il terzetto sud americano a continuare su questa tecnica, affinando di sicuro la tecnica, per quello che potrebbe rischiare di diventare un sensazionale lavoro finale. Gli undici minuti e passa di “Aesthetic Hallucination of Reality” sono belli lunghi, un po’ grezzi e rappresenta alla perfezione quello su cui i nostri dovrebbero lavorare maggiormente per non rischiare di dilungarsi troppo nelle loro elucubrazioni mentali. Menzione conclusiva per l’ultima traccia, “Embroided in Reflections” che palesa invece le influenze più spiccatamente post della band, con un sound notturno. Ve lo dico io ragazzi, non siete una band doom, potete essere tranquillamente qualcosa di più, pertanto non vi nascondete dietro un riff trito e ritrito per farvi apprezzare dalle masse di doomsters, basti ricordare gli esordi degli Anathema e di quell’”Eternity” che li ha portati oggi ad essere quello che sono. L’esperienza insegna e se il nostro bel trio proveniente dal Brasile, sarà bravo a giocarsi le proprie carte, sono certo che potremo sentir parlare di loro molto presto… Audaci ma ancora un po’ troppo timidi (Francesco Scarci).

(Solitude Productions)
Voto: 70