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mercoledì 8 agosto 2012

Sioum - I Am Mortal, but Was Fiend

#PER CHI AMA: Post Rock, Progressive
Shhh… silenzio, spegnete la luce e rilassatevi con la musica dei Sioum, trio strumentale dell’Illinois che mi ha inviato questo interessante cd (e pure elegante per la sua lussuosa confezione in digipack, con quelle sue splendide rappresentazioni artistiche all’interno del booklet), fatto di suoni progressive post space rock. Se potessi parlare di techno post rock, forse riuscirei a spiegare al meglio questo “I Am Mortal, but Was Fiend”, release di grande spessore, di difficile assimilazione, e di forte impatto emotivo. Sicuramente le tonalità cosi tetre lo rendono un prodotto assai singolare che abilmente ed amabilmente, riesce a miscelare suoni appunto post con l’ambient urbano (e la seconda “Pillars” ne è l’emblema assoluto), il tutto corredato da un’altissima perizia tecnica, che per un attimo mi ha fatto credere di avere fra le mani un lavoro di techno metal. Suddiviso in un trittico, verosimilmente un concept album, la band statunitense nella sua prima parte “Accession” mostra il lato più oscuro della loro forza, trascinandoci in un buco nero di nefaste emozioni, che sanno anche di depressive rock, dove con “Shift”, i nostri toccano il loro apice compositivo, sia in fatto di tecnica che di creatività. “Drifting Away” chiude il primo ciclo, “Chambers” apre invece il secondo capitolo, “Intervals” con dei synth che mi si incuneano rapidamente nel cervello pericolosamente, folgorandomi del tutto i miei ultimi neuroni rimasti. Ma una sorta di ninna nanna mi restituisce la calma placida del sonno, del relax; torno a richiudere gli occhi e lasciarmi andare in una visione onirica del viaggio intrapreso con l’ascolto di questo sorprendente esempio di musica rock, che risponde al nome di Sioum. Ipnotici. Surreali. Originali. Atmosferici. L’ambientale “Continuum” chiude il secondo capitolo e lascia posto alla rinascita del terzo movimento “Rebirth” e le sue quattro apocalittiche tracce, che chiudono uno degli album, in ambito post, più insoliti, mi sia capitato di ascoltare. Ora sono curioso di dare un ascolto alla nuova release in uscita prossimamente. Audaci visionari. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80
 

Souldeceiver - The Curious Tricks of Mind

#PER CHI AMA: Swedish Death, Soilwork
Questa volta ho voluto provare ad ascoltare il cd senza nemmeno leggere la biografia della band, affidandomi esclusivamente al mio istinto: a giudicare dal ritmo serrato e dalla voce furiosa, sembrerebbe stessi ascoltando un lavoro di una band scandinava (vedi Illdisposed o Meshuggah). Invece si tratta di un ensemble totalmente nostrano, forte, permettetemi il termine, cazzuto; inserire il cd nel lettore il lunedì mattina ti carica completamente (e spero vivamente mi porti a terminare la settimana in fretta e in forze). Parlando brevemente della band, si può dire che questo sia il loro secondo lavoro (senza contare il demo di 5 canzoni nel 2007, anno della loro fondazione) e il primo introducendo l’uso della chitarra a 7 corde, caratterizzato da parti di death metal e altre di thrash. “Hundred 25”, come detto precedentemente, ha un ritmo incalzante che non lascia un secondo di respiro: doppia grancassa martellante, voce growl, chitarre che sembrano lame di un frullatore. “My Closet Embrace”, invece, si distingue dalla precedente per le chitarre che presentano un alone di melodia, con un assolo nella prima parte del brano: per il resto è aggressiva e cattiva quanto basta. In “Suiciding” le chitarre cambiano registro e diventano malinconiche, accompagnando in modo eccelso il growl (ma come fa a tenere lo stesso tono per tutte queste tracce? Sarei sinceramente curiosa di sentire la sua vera voce): vuoi per rilevare il tema centrale, vuoi anche per cambiare in modo da non scadere nella noia, ma l’assolo in sottofondo è veramente notevole. “Mary Ann” inizia con dei suoni distorti presi da una televisione (ricorda tanto le scene degli horror di serie B, dove la tv è sintonizzata su un programma assurdo quanto inquietante, magari in bianco e nero): man mano che prosegue, il growl di Francesco Meo tende addirittura a spostarsi sul melodico (e qui mi vengono in mente i primi Korn, se non per la grancassa come schiacciasassi), con un altro assolo di Alessio Rossano davvero in forma smagliante. In “The Pressing” fanno capolino le tastiere: non hanno un grande spazio, ma creano un’atmosfera sospesa tra l’incubo e realtà (è dall’inizio del lavoro che mi sto immaginando un film horror/splatter che possa accompagnare quest’album): altro assolo del chitarrista Alessio Rossano, prima di una rullata di Alessio Spallarossa (che soprannominerei anche “spacca braccia”, da tanta furia palesata). “Phase C” è solo strumentale (e ci credo, anche il cantante dovrà riprendere un attimo fiato e voce), ma rimanendo sempre con un ritmo veloce e potente. “Icon of Your God” e “Relapse” tendono ad essere meno ansiose, ma più profonda: sebbene il ritmo rallenti, ciò non cambia l’autorevolezza e la cattiveria del combo. Con “Bone Sacrifice” le cose prendono una piega più liberatoria: la batteria è portata all’estremo, mentre la chitarra di Luca Mosti gioca sapientemente con la sette corde, a volte pizzicando e altre volte suonando a fondo. Il tutto mentre Francesco Meo dà fondo alle sue profonde capacità canore. L’album non poteva terminare senza un’altra instrumental track: qui il pianoforte si rende protagonista, ricreando l’atmosfera cupa e inquietante già sentita nel sesto brano (e cercando di placare gli animi tempestosi che hanno caratterizzato l’intero lavoro). L’unica pecca è la lunghezza di “Eternally”: 2.03 minuti di nulla, come se avessero voluto aggiungere qualcosa all’ultimo secondo, ma con un risultato inconcludente. Non sarà però questo a cambiare la mia votazione, comunque positiva, anzi, ci sono alte probabilità che il prossimo lavoro sia addirittura migliore e un maturo. (Samantha Pigozzo)

(Nadir Music)
Voto: 70
 

King of Coma - King of Coma

#PER CHI AMA: Noise, Industrial
Di questo one-man-band si conosce gran poco: dal sito della sua etichetta discografica, emerge che è tedesco e la sua peculiarità sta nel fatto di essere un “noise mongering one man band” ; in italiano lo si può definire uno “smanettone di rumori”, anche perché tutti i brani sono sì strumentali, ma con un’accozzaglia di rumori messi assieme, senza un filo logico. Sempre dal sito, possiamo leggere che si tratta di un album di 21 minuti, composto da 7 tracce di durata varia (si va dai 0,31 minuti della traccia più breve ai 4,21 minuti della più lunga) che assomiglia più ad un giro in ottovolante sotto acido: non c’è definizione migliore, in quanto è totalmente incomprensibile e psicotico. Ma non il psicotico violento, bensì un psicotico introverso, dedito più al trip individuale. Una delle cose curiose rispetto a questo primo lavoro di Michael Van Gore, è che le tracce non hanno titolo: semplicemente si susseguono una dopo l’altra, caratterizzate da ogni tipo di rumore (da suoni metallici, come se stesse battendo il ferro su un’incudine, a rumori d’intermittenza, a qualche nota industrial appena accennata con la drum machine): provando a chiudere gli occhi, sale un senso di vertigine e d’inquietudine degna del migliore incubo. Sembra strano, ma scrivendo con il cd in sottofondo ad un volume medio, aiuta parecchio a concentrarsi: le sensazioni sono talmente mutabili da secondo in secondo, che non basterebbe un’intera giornata per decantarle. Decisamente consigliato per chi cerca un suono totalmente alternativo e impensabile nemmeno dalla mente più bacata che possa esistere. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 70

mercoledì 1 agosto 2012

Pirate - Left of Mind

#PER CHI AMA: Alternative Rock, A Perfect Circle, Mr. Bungle
Devo essere sincero, inizio ad adorare sempre più la Bird’s Robe Records e la sua sfrontatezza nel produrre band, decisamente fuori dall’ordinario. Fino ad ora nessuna delle release rilasciate dalla label australiana riesce a trovare pari nel panorama musicale mondiale. Ciò che stupisce è che poi tutte le band sotto contratto con l’etichetta di Sydney, siano provenienti dall’enorme nazione oceanica. Non ultimi questi Pirate, che si distinguono ancora una volta per una proposta musicale fuori dall’ordinario, una fusion di stili e sfumature che partendo dal rock progressive anni ’70, si fonde con le colonne sonore, per trovare ampio sfogo nella follia delirante di un sax impazzito, come accade nella opening title track o la strumentale “Rough Shuffle”. Pazzi, sicuramente influenzati da quel bontempone che risponde al nome di Mike Patton e una qualsiasi delle sue creature, Mr. Bungle o Fantomas. I Pirate nelle otto tracce a loro disposizione ne combinano davvero di tutti i colori, cosi non stupitevi se in “Animals Cannibals” emergono echi dei Faith No More o di un certo alternative americano, comunque sempre contaminato da suoni freschi e moderni, perché di certo nel corso dell’ascolto di “Left of Mind” incontrerete suoni abili nel passare da sonorità rock old style con montagne di sintetizzatori stile seventies, a suoni stralunati o ambient, fino a sfociare nel jazz (sicuramente complice la presenza del famigerato sax). Le voci poi sono schizoidi, quasi la risposta australiana agli americani Primus; ma i nostri non si fermano certo qui, sono un uragano di genialità, e nella loro immaginaria musica, finiscono per convergere anche accenni di The Mars Volta, la sperimentazione dei Radiohead, l’oscurità dei A Perfect Circle, il tutto suonato nella vena metallica progressive dei Cynic. Si, insomma l’album dei Pirate è qualcosa che va accuratamente ascoltato e ponderatamente digerito, perché di certo non rimarrete delusi di fronte a cotanta ispirazione e genialità. Matti da legare! (Francesco Scarci)

(The Bird's Robe Records)
Voto: 85

De Profundis - The Emptiness Within

#PER CHI AMA: Black Death Progressive
Beh, con un nome del genere, che cosa aspettarsi, se non un sound dedito al death doom? Sbagliato! “Delirium” sembra infatti confutare la mia tesi da quattro soldi, con il suo attacco che appare all’insegna del death più brutale, con delle ferali growling vocals in evidenza. Con calma il combo britannico, prova ad ingrigire la propria proposta, affiancando alla ferocia delle ritmiche arrembanti, quell’oscurità tipica della nebbiosa terra d’Albione: un intrigante suono di basso, delle linee acustiche di chitarra frammiste ad un elegante assolo, con la voce pulita quasi recitata, posta in primo piano. Se il buongiorno si vede dal mattino, il cd che ho fra le mani, sembra scottare parecchio. “Silent Gods” mette in evidenza ancora una volta, l’irruenza del bassista, neppure la band inglese volesse risultare come un mix tra Cynic e Death, per poi scatenare nuovamente la propria violenza, in una sorta di death progressivo, che nelle sue parti più tranquille, pesca palesemente dalla tradizione doom britannica, grazie alla sua vena malinconica. Cosa di poco conto però, in quanto il quintetto, quando schiaccia sull’acceleratore, si ritrova addirittura in territori black, non proprio di loro competenza. Sono frastornato, perché non capisco se la release mi riesce a catturare oppure no. Certo, quando “This Wretched Plague” attacca con quella sua melodica parte di chitarra, mi sembra di avere a che fare un po’ con gli Opeth, un po’ con i Death, poi i nostri vogliono strafare, pestando di brutto e imbruttendo di molto la propria proposta, non incanalando la musica nella giusta direzione. Insomma, pur essendo un grande fan della musica estrema, faccio fatica a digerire la proposta dell’act del Regno Unito. Black, death, progressive, gothic, doom si incontrano o forse meglio dire, si scontrano, in una miscela pericolosa, difficile da manipolare se non si è dei fenomeni ed ecco, i De Profundis non lo sono per nulla, quindi il rischio di commettere qualche grossolano errore c’è e si sente. Da qui la frittata: troppa la voglia infatti di dar sfoggio a tutte le proprie potenzialità che alla fine i nostri perdono per strada il loro vero obiettivo, e quindi ecco che tra buone song, se ne avvicendano altre un po’ troppo scontate che sicuramente suonano come già sentite. Davvero un peccato, perché un pezzo come “Twisted Landscapes” a me piace un sacco, ma poi c’è puntualmente qualcosa che stona e fa scemare il mio interesse. Anche “Release” cattura per la sua dinamicità, certo se poi i nostri tenessero a freno la propria vena techno thrash/death, il risultato sarebbe certo migliore. Si insomma, avrete capito, i De Profundis le carte in regola per fare bene le avrebbero anche, se le giocassero meglio, “The Emptiness Within” rischierebbe di essere addirittura un capolavoro. (Francesco Scarci)

(Kolony Records)
Voto: 65

So Hideous My Love - To Clasp a Fallen Wish with Broken Fingers

#PER CHI AMA: Post Hardcore, Shoegaze, Deafheaven
La Pest Productions ha allungato i suoi lunghi tentacoli fino a New York, inglobando tra le proprie fila, ma sotto la gentile concessione della Play the Assassin, questi So Hideous My Love, che faccio un po’ fatica a classificare. Non che sia d’obbligo la classificazione di un genere, ma sicuramente aiuta, per meglio intuire da poche righe, cosa aspettarsi da una band. Ebbene, partendo dall’iniziale “Handprints on Glass”, mi sembra di avere a che fare con una band dal piglio decisamente hardcore, almeno in ambito vocale (con il tipico screaming selvaggio), mentre musicalmente mi sembra che il sound risenta della ferocia urbana del genere di cui sopra, mischiato a malinconiche e sofferenti sonorità shoegaze e infine forti accenni addirittura alla musica classica, come si intuisce nella sua aria “Prelude in G# Minor”, corredata da una sezione di archi da paura. Certo, quando i nostri, tornano a pigiare sul pedale, scompare del tutto la soave musicalità dei suoni classici, lasciando posto alla robusta irruenza dell’HC, quello più composto e melodico però o se preferite, metteteci pure un “post” davanti, che risolviamo la cosa. Quando attacca la title track, rimango estasiato dalle sue avvincenti linee di chitarra acustica e violini, prima di partire con un attacco che sa quasi più di cascadian black metal, piuttosto che di post hardcore, fenomenale. Mi ritrovo a dimenare la testa come un invasato, di fronte a cotanta bellezza; peccato solo che il disco si chiuda qui e mi lasci con l’acquolina in bocca in attesa di ascoltare un vero e proprio full lenght del trio. A dire il vero c’è una timida traccia fantasma che chiude questo EP, anzi addirittura tre, registrate con una qualità decisamente inferiore, ma che comunque lasciano intravedere, in chiave futura, le enormi e seducenti potenzialità della band newyorkese, che finisce coll’aggiungere un altro ingrediente, alla propria ricetta segreta, il post rock. Esaltanti! (Francesco Scarci)

(Pest Productions/Play the Assassin)
Voto: 80

Zgard - Reclusion

#PER CHI AMA: Folk/Black, Ambient/Doom, Primordial
Gli Zgard sono il progetto di Yaromisl, cantante/chitarrista dei Goverla, e credo che sia io che voi, miei cari lettori, ci stiamo chiedendo chi siano. Questi Goverla, dopo la pubblicazione del loro primo full-lenght due anni orsono, hanno preso la classica pausa di riflessione e da ciò è scaturita la nascita degli Zgard. A sostenere Yaromisl nel suo cammino individuale troviamo anche Hutsul, flautista dei Goverla. E tanto per completare il quadro, per svariati motivi la nostra band ha pubblicato due album con label differenti nel giro di due settimane. Ma lascio trarre a voi le conclusioni sui nostri amici ucraini. Allora vi dico come sono andate le cose. Tornando dalla radio sabato pomeriggio ho subito messo su questo cd, perché i suoi colori mi attiravano fortemente. In tangenziale c'erano lavori e se non ricordo male dovrei averlo ascoltato minimo due volte prima di arrivare a casa, per poi ascoltarmelo ancora nei giorni successivi. Il prodotto che mi hanno somministrato è formato da una spessa base doom e da una venatura di black melodico, dominato incontrastabilmente dalle tastiere. Le sfuriate di batteria e chitarra non mancano certo, ma la loro collocazione è alquanto di dubbia efficacia. È difficile parlare di un disco come questo. Il motivo è per la sua implacabile creatività ma anche per la mia avversione verso tale genere. Parliamoci chiaro: le composizioni in sé non sono pessime ma questo lavoro proprio non mi cattura per niente. È paragonabile all'ascolto di Radio3 quando torni alle 4 di notte da un concerto e guidi in solitaria facendoti inondare di musica classica, la ascolti volentieri ma non sai né che canzone sia né perché la stai ascoltando. Non credete che si salvi così facilmente questo disco però. Le ultime due tracce sono catastrofiche. "Despair" si lascia ricordare per l’enfasi dei suoi synths mentre "Weeping Goddess" ci delizia con un flauto saltato fuori da uno scatolone dei ricordi delle scuole medie. Se poi il booklet, oltre che al cirillico fosse stato tradotto in inglese, mi sarei quasi avventurato a dare una scorsa ai testi per assaporare tutto il pensiero del buon Yaromils. Chiudo dicendo che è l'artwork ad alzarne la valutazione. (Kent)

(BadMoonMan Music)
Voto: 60

domenica 29 luglio 2012

Fall of Serenity - The Crossfire

#PER CHI AMA: Death, Thrash
Ecco il death/thrash spietato dei teutonici Fall of Serenity, in giro ormai da quasi quindici anni; di gavetta i nostri ne hanno fatta parecchia e “The Crossfire” è uno dei risultati di questo duro e costante lavoro. Dopo “Bloodred Salvation” del 2006, il quintetto, che della line-up originale mantiene solo i due axemen, sciorina dieci violentissimi pezzi, accomunati da un minimo comun denominatore: ritmica serratissima con riffs affilati come rasoi e una batteria in pieno stile mitragliatrice, guidano questa ferocie macchina da guerra; le vocals super incazzate di John Gahlert (che nel precedente lavoro vestiva i panni del bassista), qualche spruzzata di melodia e il risultato che ne viene fuori è accattivante, per una serata in compagnia di amici scatenati: il pogo è assicurato! La Lifeforce ha puntato molto sullo spirito pulsante del combo teutonico e sono fortemente convinto che, almeno in patria, i Fall of Serenity godano di un buon successo, forti anche della partecipazione, in veste di guest star, di Sabina Classen (Holy Moses e Temple of the Absurd) alla voce, nel brano "Knife To Meet You" di cui è presente anche il videoclip. Massici, incazzati e determinati più che mai a spaccare le ossa, i Fall of Serenity sono tornati con una release che non vi darà il benché minimo respiro… (Francesco Scarci)

(Lifeforce Records)
Voto: 65


Parkway Drive - Horizons

#PER CHI AMA: Metalcore, As I Lay Dying
Metalcore, ah la mia disperazione: questa volta i ragazzi arrivano dall’Australia, alla ricerca della tanto agognata fortuna. “Horizons” rappresenta il secondo lavoro per il quintetto dell’emisfero australe: dodici schegge di metalcore furioso, con trame chitarristiche che fanno il verso in modo molto palese agli As I Lay Dying e agli In Flames degli anni ’90. Chitarre al fulmicotone, interrotte puntualmente dagli ormai poco amati stop’n go, vocals corrosive (mai un accenno a clean vocals in questo lavoro, se non in “Frostbite”), riffs ripetuti alla morte e qualche buon assolo come in “Idols and Anchors” e “Breaking Point”, rendono la seconda fatica del combo di Byron Bay, un oggetto prelibato, a mio avviso, solo per gli amanti del genere, non ancora saturi, di questa tipologia di sonorità. Piacevoli melodie, sempre assai catchy, ottimi suoni, un grande bilanciamento degli strumenti ed una eccellente performance dal punto di vista tecnico, completano questo lavoro, che ricordo esser stato prodotto dal chitarrista dei Killswitch Engage, Adam Dutkiewicz. C’è da lavorare sicuramente ancora per raggiungere le vette dei maestri, tuttavia sono fiducioso per il futuro di questi giovani ragazzi... e in effetti non mi sono sbagliato! (Francesco Scarci)

(Epitaph)
Voto: 65
 

mercoledì 25 luglio 2012

Frangar - 1915 Tutto per la Patria

#PER CHI AMA: Black Thrash Punk
Oggi avevo voglia di riesumare l’EP del 2007 dei Frangar, band che è stata mia ospite nel Pozzo dei Dannati e con il cui frontman, il Colonello, mi sono anche scolato un paio di bottiglie di Barbera. Cosi per scaricare un po’ la tensione accumulata a lavoro, ecco spararmi in faccia questo trittico di song che miscelano l’ardore del thrash metal con l’irruenza del black, il tutto cantato rigorosamente in italiano e accompagnato da registrazioni storiche o cinematografiche (Colonnello per favore dammi delucidazioni) di marca militare, che lasciano presagire la svolta che i nostri andranno ad intraprendere col successivo “Bulloni Granate Bastoni”. Le song sono belle incazzate come sempre, sporche come solo il punk-hardcore può esserlo, con il pregio di saper offrire qualche variazione al tema (ad esempio degli assoli in “La Settima di Dio”), nelle sue linee di chitarra. “Presente” apre con la storica “Il Piave mormorava…” giusto per non nascondere la rilevanza e il fascino che le Guerre Mondiali hanno prodotto sul quartetto piemontese, ma anche una forma di dedica a tutti gli italiani caduti durante la Prima Guerra Mondiale e forse proprio il suo incedere marziale, vuole celebrare questo, distinguendosi invece da un inizio molto più feroce e aggressivo, quale quello di “Inno alla X Mas”. Ancora una volta, vorrei sottolineare che non me ne frega nulla, se in questa musica vuole esserci un messaggio politico, patriottico o quant’altro, io ascolto, valuto e godo, esclusivamente per quello che un cd è in grado di trasmettermi a livello emozionale e devo dire che “1915 Tutto per la Patria” ha saputo appagarmi, grazie a quelle sue atmosfere militaresche, unite ad un sound spavaldo e robusto. Belligeranti! (Francesco Scarci)

(B.M.I.A.)
Voto: 70

Meniscus - Absence of I

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive, Explosions in the Sky
“Si viaggiare…” cantava Battisti 30 anni fa e io continuo a farlo, rimbalzando da una parte all’altra del globo alla scoperta di nuove entusiasmanti realtà e il mio viaggio, fa oggi tappa in Australia, alla scoperta dei Meniscus. Di primo acchito un nome del genere, mi farebbe pensare a quelle band anatomo-patologiche dedite ad un grind-splatter gore. Niente di più sbagliato, i nostri baldi giovani aprono questo Ep di sei pezzi, citando subito una delle band che ha fatto la storia del rock, i Pink Floyd, prima di iniziare ad entusiasmarmi enormemente con un sound notturno, che seguendo le orme di valide realtà del panorama post rock odierno (e mi vengono in mente Explosions in the Sky e Russian Circle), intraprende un sentiero fatto di magnifiche e fluttuanti melodie, il tutto centrifugato con una tecnica ineccepibile da tre ottimi musicisti, che una dopo l’altra, immortalano il proprio sound con dei grandiosi pezzi. “Cusp”, “Pilot”, “Mother” mostrano la vena progressive/post rock dei Meniscus, che seppur priva della componente (per me fondamentale) del cantato, riesce a catturarmi e lentamente avvinghiarsi alle mie interiora. Atmosferici, malinconici, carichi di groove e al contempo di visioni oniriche, senza tralasciare la pesantezza dell’heavy metal nelle sue ritmiche più rabbiose o un certo feeling etnico, questi sono i Meniscus. La sensazione che mi genera l’ascolto di questo disco è quella di vivere un sogno, dove le immagini sono decisamente sfocate e i suoni risuonano lontano come l’eco che rimbalza sulle pareti rocciose delle montagne, fino a giungere alle mie orecchie. Beccheggiante, come l’andatura delle barche a vela sul mare, “Idiot Savant” potrebbe rivelarsi il brano ideale per una crociera in libertà, perché quella che respiro è si aria di indipendenza, con il vento che soffia in faccia. Apro i polmoni e mi lascio trasportare in mercati mediorientali con sonorità arabeggianti, presto spazzate via da un riffing acuminato e da un drumming fantasioso. Eccelsi, non c’è che dire, anche per uno come me che di dischi strumentali non vuol sentir parlare. L’album si chiude con la timida e al tempo stesso roboante title track e con il cicalio di “Far”, dove ancora il suono lontano di timide percussioni, mi spingono a veleggiare verso nuovi lidi lontani… (Francesco Scarci)

(The Bird’s Robe Records)
Voto: 85

martedì 24 luglio 2012

Kubark - Kubark

#PER CHI AMA: Post Rock/Alternative, A Perfect Circle, Isis, Russian Circle
E dopo aver recensito il nuovo EP dei To a Skylark, non potevo esimermi dal valutare anche il primo demo dei piacentini Kubark, che abbiamo visto recentemente su queste stesse pagine con l’EP “Ulysses”. Ero curioso di conoscere gli esordi del quartetto emiliano e direi che la mia aspettativa non è stata delusa. Se prendete come punto di riferimento le parole spese dal sottoscritto per il loro ultimo EP, aggiungete un po’ di cattiveria a quel loro sound alternative/post rock, assai vicino alle cose degli A Perfect Circle/Tool, condite il tutto con quel feeling un po’ grezzo tipico dei debutti, dilatate il sound a coprire con soli due pezzi più di 18 minuti, potrete forse capire che cosa intendo. “Autogenic” apre e chiude con quel suo ipnotico e ubriacante avanzare, che finisce con l’ammaliarmi sul continuo ripetere del vocalist “Son of me, son of my eye”, prima che una furia inattesa, esploda dirompente, nel growling finale. “Meat” è il classico trip targato Kubark, cosi come abbiamo avuto modo di ascoltare nelle nuove ultime tracce, in cui il vocalist, non ancora al meglio della sua performance, riesce comunque a trasmettere tutta l’emotività della band, che in questa song sembra viaggiare molto più su coordinate progressive e post rock, in cui a colpirmi maggiormente è il suono pulsante del basso e l’effettistica della chitarra. Si, insomma, questo demo self titled, mi è servito a capire che i Kubark non sono certo degli sprovveduti e che “Ulysses”, non è di sicuro uscito per caso… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70 
 

To a Skylark - Tides

#PER CHI AMA: Progressive, Post Metal, Nahemah, Porcupine Tree, Opeth
Della serie “a volte ritornano”, ecco fare di nuovo la propria comparsa i vicentini To a Skylark, di cui avevo perso le tracce ormai tre anni fa, poco dopo il rilascio del loro debut omonimo, per mano della WormHoleDeath. Ebbene, i nostri sono riusciti nel frattempo a partorire ben due tracce (e chissà quando ne ascolteremo di nuove, se il ritmo è questo), ritrovarsi senza etichetta, assoldare in modo definitivo Riccardo Morganate alla chitarra e inglobare nella band, Matteo Galarsa Dalla Valle, dietro ai synth. Se la qualità è questa però, posso fare un piccolo sforzo e attendere magari un lustro per avere tra le mie mani un album completo. “Tides” è appunto un 2-track EP della durata di poco più di 18 minuti, che comprende l’iniziale “High Tide”, che nella sua parte introduttiva di quasi quattro minuti, ci regala un poderoso tributo psichedelico ai Pink Floyd, prima di esplodere fragoroso, in un incedere post progressive e prima che l’irruenza delle growling vocals di Alessandro Tosatto, irrompa furiosa nelle mie casse. La ritmica si presenta decisamente più incazzata rispetto al debut album, ma poco importa perché sono le parti più atmosferiche a spezzarne la sua violenza, cosi come le ottime clean vocals del buon Alessandro a regalarci raffinati momenti di quiete, troncati solamente dall’apparizione, quanto mai inattesa, di buoni assoli. Rimango esterrefatto, ancor di più quando parte la malinconica “Low Tide”, che ancora una volta, rievoca in me la prova degli spagnoli Nahemah, che a mio avviso riconosco essere l’unica band che si possa avvicinare alla proposta del sestetto veneto. E rieccoli prendere il via con tutta la loro aggressività, accumulata nel corso degli ultimi quattro anni: rabbiosi nello strapazzare le corde delle chitarre e del basso o le pelli della batteria, abili nel portarci in cima alla montagna e poi stordirci con un pezzo di musica flamencata, con tanto di nacchere e chitarra acustica a guidarci verso lo strapiombo, violentarci nuovamente con un poderoso sound, prima del loro ennesimo nostalgico commiato. Ottima la produzione, ineccepibile la prova del vocalist e buona quella dei singoli musicisti, splendido il packaging del Lp (per ora un cd non esiste, largo alla musica digitale, non per me ovviamente), con un vinile trasparente e una cover color fuxia, che riporta in rilievo le lettere che scandiscono un nome, da tenere assolutamente a mente… To A Skylark! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80 
 

Rain Paint - Nihil Nisi Mors

#PER CHI AMA: Gothic Rock, Sentenced
Dai membri dei finlandesi Rapture, Fragile Hollow e Denigrate hanno preso vita i Rain Paint, band che raggiunse il traguardo del debutto discografico grazie all’allora giovane e ottima etichetta italiana My Kingdom Music. Se da una parte i Rapture hanno poi proseguito il tema musicale interrotto dai Katatonia dopo la pubblicazione del bellissimo “Brave Murder Day” e i Fragile Hollow si adagiarono su meste atmosfere gothic-rock, i Rain Paint potrebbero collocarsi a metà strada tra le due formazioni, cogliendone gli aspetti peculiari ma non riuscendo sempre ad amalgamare il tutto con la dovuta maestria. Il principale limite che ho riscontrato nell’ascolto dell’album è nelle parti vocali, a tratti piuttosto acerbe e "macchiate" da inserti growl che non trovo per nulla disprezzabili, ma che certamente sono fuori contesto per un tipo di musica come quella dei Rain Paint. Il gothic metal dei nostri vorrebbe emozionare con atmosfere romantiche e al tempo stesso vigorose, ma fallisce in questo intento per un songwriting ancora un po’ disorientato e delle soluzioni compositive che già altri gruppi come Sentenced, October Tide e The 69 Eyes ci hanno ormai riproposto in tutte le salse. “Nihil Nisi Mors” non è comunque un lavoro criticabile sotto tutti i punti di vista e alcuni brani come “Rain Paint” e “Freezes Day” proseguono senza intoppi, rivelando una discreta capacità del gruppo di dare corpo alla struttura generale dei pezzi e facendo trapelare l’esperienza accumulata dal principale compositore Aleksi Ahokas all’interno dei Prophet, band attiva fin dal 1997 e che prima del cambio di monicker in Fragile Hollow aveva già dato alle stampe un paio di mcd. Nonostante le credenziali del gruppo, “Nihil Nisi Mors” si rivelerà però un album che lascia parecchi punti interrogativi e la strana sensazione che permane dopo ripetuti ascolti è quella di avere a che fare con delle canzoni che, per quanto scorrevoli, siano ancora un po’ troppo immature per la pubblicazione di un full-length. Un lavoro senza infamia e senza lode, dunque, che non mette necessariamente in cattiva luce il nome della band, ma alimentò la speranza di ascoltare dai Rain Paint qualcosa di ben più convincente in occasione del successivo album. (Roberto Alba)

(My Kingdom Music)
Voto: 60