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sabato 2 giugno 2012

Obscurcis Romancia - Theatre of Deception

#PER CHI AMA: Black Symph/Gothic, Cradle of Filth
Gli Obscurcis Romancia vengono dal Quebec in Canada e sono al loro primo full lenght dopo un demo del 2001 e un e.p. omonimo del 2003. L'album del 2012 porta il titolo “Theatre of Deception” e fin dal brano d'apertura si fanno notare le ampie doti tecniche/compositive della band. Nella traccia d'apertura, che supera i 10 minuti, troviamo infatti riuniti tutti gli effetti stilistici della loro musica. In attività dal 1998 i nostri hanno acquisito una certa credibilità e se si naviga un po' in rete si scoprirà anche che hanno una nutrita folla di fans pronti a sostenerli a spada tratta. La band si descrive così: “Neo-classici, black death metal... appello agli appassionati di Dimmu Borgir, The Black Dalhia Murder, Cradle Of Filth, Dissection... assalti alle orecchie degli ascoltatori con la loro miscela distintiva e potente di blast beats furiosi, voci veementi, riff aggressivi eppure melodiosi e trascinanti, le atmosfere diabolicamente malvagie contrapposte sullo sfondo ad un piano armonico...”. Queste poche parole bastano per descriverli alla perfezione, i paragoni musicali sono azzeccatissimi e il piano decadente, malinconico e a volte cabarettistico, è la grande particolarità della loro musica. Un piano che rende la melodia ancora più vampiresca e figlia del miglior “succhia sangue” uscito da un racconto di Stoker. La seconda traccia è quella che preferisco perché mostra come il piano risulti un'arma letale mischiato a questa musica e usato in modo geniale. L'effetto è allucinante sembra di essere in un “Carnival Party” vampiro nella Venezia del '500, tutto così cinematograficamente gotico. L'intero album è un calderone di tecnicismo, chitarre spavalde e super veloci, una ritmica mozzafiato senza respiro, tappeti di tastiera e voce magistrale che attinge al miglior ‘Dany Filth’ (a volte sembra di sentire proprio lui!!!). La melodia è sempre padrone della scena e dirige il tutto in ambito “sinfonico”e generalmente le chitarre hanno un suono molto caro agli estimatori del miglior Malmsteen ancor più se ci si sofferma ad ascoltarne la scuola classica dei riff e soprattutto degli assoli. In “Sanctuaire Damnè” al minuto 3:20 il suono della band diviene così rarefatto, e d'atmosfera che per un attimo si sente la nostalgia dei migliori Dark Reality, quelli di “Blossom of Mourning” per poi ripartire di slancio con una veloce ritmica di memoria speed metal. “Le Quatrenne Acte” mette in tavola otto minuti di sfrontata diavoleria in musica, capitanata magistralmente da un piano strepitoso, chitarre avvincenti ed epiche, stacchi mozzafiato stile operetta e una voce malefica. “Mournful Darkness” è velocissima e preannuncia “From Within the Fire of Eternity” che con i suoi dieci minuti abbondanti risulta la più canonica e Cradle of Filth oriented dell'album. Come per la traccia d'apertura, “In Memoriam” mostra tutte le sfaccettature musicali della band, contando su di un ottimo vocalist, al pieno della forma e tutta la bagarre bizzarra e orgiastica di un piano maestro che insegue velocissime chitarre e ritmiche spiegate. “Season of Infinite Sorrow” chiude in bellezza e velocità questa ottima prova di una band che impressiona per qualità e tecnica d'esecuzione e composizione. Questo album è un dovere per fans del symphonic black metal, ma al contempo può divenire un “ponte” per molti ascoltatori distanti dal genere. Grazie alla sua vena romantica, classica e avantgarde, questo complesso e articolato lavoro, è reso facile e piacevole all'ascolto anche a chi di symphonic metal proprio non se ne intende. Se questo sarà il trend delle prossime uscite degli Obscurcis Romancia, prepariamoci a brindare con calici di sangue infuocati ai nuovi beniamini della scena black metal/neo-classica… (Bob Stoner)

(Self)
Voto: 85

Hinsidig - Bak Og Forbi...

#PER CHI AMA: Black/Doom, Summoning, Nortt, Wolves In The Throne Room
Mi capita tra le mani il primo demo (anche se della durata di ben 33 minuti) degli Hinsidig, e vedendo la lugubre copertina, tipica dell'allegria che riscontriamo nel black e nel doom, gioisco pensando al nuovo ascolto, sperando vivamente che questa release mi possa soddisfare. Subito ad accoglierci in “Intro – Euforisk Depresjon” è un solitario coro che ci fa strada tra le nebbie in un incontaminato scenario montuoso, poco dopo siamo raggiunti da una spettrale chitarra e una base di tastiera che ci accompagneranno fino al termine della canzone. Un urlo squarcia il sacro silenzio delle foreste, immergendoci in “Livets Slos”, brano che alterna lenti e malinconici movimenti a sfuriate simili ai primi Ulver. Con lo stesso stampo “Bak Livets Forheng” e “Gudsforlatt” continuano la prima release del trio teuto-norvegese. I riff in alcuni campi sono più oscuri, più tipicamente anni '90, ma il gruppo non si lascia trasportare eccessivamente dalla vecchia scuola e riesce a trovare la combinazione essenziale per non far skippare la traccia all'ascoltatore, grazie anche all'occasionale ritrovamento dei cori e delle tastiere che ci avevano guidato nel mondo degli Hinsidig. “Outro - De Siste Dager Mot Ragnarok (Part III)” chiude questo debut con un monologo accompagnato da strazianti urla in sottofondo, che in certi casi coprono anche la narrazione. Molto interessante e godibile il gioco promosso dai pattern di batteria perché essi donano alle tracce quel segno distintivo che non le fa precipitare nella monotonia. D'altro canto invece trovo assolutamente fastidiosa la repentina e prematura fine delle canzoni, mutate in tronco senza un minimo di dissolvenza o di continuità. Gli Hindisig non sono degli innovatori del genere ma hanno tutte le potenzialità per creare delle valide opere Atmospheric Black, spero che mi giunga il loro primo full-lenght sperando in una loro notevole maturazione. (Kent)

(Pest Productions)
Voto: 75
 

sabato 26 maggio 2012

Permixtio/Ethere - Split Cd

#PER CHI AMA: Black/Ambient, Burzum, All the Cold
La più classica delle melodie da carillon, contribuisce a farmi sprofondare in un profondo sonno da cui non so se riuscirò mai più a far ritorno. Questo è l’intro affidato alla nuova release dei Permixtio, qui accompagnati dagli Ethere, in uno split cd da 5 pezzi. Si apre immediatamente con “Epidemia” (un nome, un programma) che odora decisamente di putrefazione, prima di sprigionare tutta la propria malvagità nella efferata sezione ritmica, disperata e malata, come solo il buon vecchio Conte Grisnack, era in grado di fare. I Permixtio, one man band guidata da Umbra, chitarrista degli Strix (qui affiancato da Chimsicrin alla batteria), si abbandonano ad un suicidal depressive black metal, che basa i propri suoni sulla malinconia delle chitarre quando esposte in chiave acustica, mentre nei momenti più incazzati, è il classico stridore zanzaroso delle chitarre in stile norvegese a reggere il palco. “Melancolia in Requie” è un uggioso intermezzo acustico prima di “Innalzamento Divino”, una tetra e ossessiva song mid-tempo di chiara matrice old school, in cui accanto al tipico graffiante screaming, Umbra si cimenta anche con un evocativo cantato pulito. Interessante ma siamo ancora in una forma embrionale di un sound che lascia ben intravedere ottime potenzialità per il futuro. La palla passa agli Ethere e al vento d’inverno che soffia e apre “Ode all’Inverno”. Sicuramente complice la posizione montana, Belluno, al pari della Norvegia deve essere influenzata dalla magia di boschi o montagne. La prima song del factotum Ethere, mi proietta nel passato di quasi una ventina d’anni quando uscì “For All Tid” dei Dimmu Borgir, ma anche nelle due tracce della seconda one man band, è presente più che mai l’essenza di Burzum. A differenza dei Permixtio, qui non ci troviamo di fronte a ritmiche tirate o comunque grondanti satanica malvagità, ma l’aura che avvolge la proposta degli Ethere, è decisamente più atmosferica e rilassante, comunque carica di nefaste emozioni (splendida "Lux Eterna"). Sebbene questo split cd non aggiunga nulla di nuovo ad una scena più che mai fiorente di simili sonorità, mi sento comunque di consigliare l’ascolto di queste due nuove inquietanti entità dell’underground black metal italico. (Francesco Scarci)

(Novecento Produzioni)
Voto: 70

Equal Minds Theory - Equal Minds Theory

#PER CHI AMA: Mathcore, The Dillinger Escape Plan
Non è mai cosi semplice recensire album di simile fattura, quei lavori che dall’inizio alla fine ti stravolgono il proprio io e lo riducono in poltiglia, facendoti perdere il senso della realtà e catapultandoti in mondi estranei, fatti di luci e suoni indescrivibili. Di solito questo genere di suoni, arrivano da oltre oceano, mentre quest’oggi, mi ritrovo a recensire una band proveniente dalla madre patria Russia. Signori, ecco gli Equal Minds Theory, quintetto dedito ad un math/grind core, che a parte nella sua inquietante intro, la classica calma prima della tempesta, poi si prende gioco di noialtri, poveri incauti ascoltatori e per poco più di 35 minuti ci massacra con songs tiratissime, schizoidi (l’attacco di “Oceanbound” è da paura), canzoni in acido che hanno il grandissimo pregio per lo meno di interrompere qua e là il proprio impeto belligerante e piazzare dei break salva vita. Ma non contateci molto, perché comunque per avvicinarsi a questo prodotto, bisogna essere assolutamente degli amanti di questo difficoltoso sound che fa di scorribande in territori grind, hardcore, crust e post-core, il proprio inconfutabile credo. A nulla servono gli inserti cibernetici dei synth, la musica degli Equal Minds Theory rappresenta una minaccia per il pianeta terra e la prerogativa principale per proporre una simile offerta, è quella di essere dei musicisti esagerati, abili a viaggiare a velocità sostenute, a divincolarsi in generi che fuoriescono dalla normale definizione di metal (psichedelia, progressive, visual, space rock, colonne sonore), devono essere imprevedibili (splendida “The Nomads” a tal proposito), mostrare una tecnica eccelsa per poter giocare sulle accelerazioni/stacchi e rallentamenti mostruosi (il batterista proviene da un altro pianeta, deve avere decisamente una forma tentacolare) e avere un vocalist costantemente in acido (ottima performance). Insomma, per farla breve, l’album omonimo dei russi Equal Minds Theory non vi annoierà di certo, un po’ come andare in barca: vira, stramba, il tutto però effettuato alla velocità della luce. Ubriacanti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75
 

venerdì 25 maggio 2012

Ordo Obsidium - Orbis Tertius

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves in the Throne Room
Che i Wolves of the Throne Room stiano facendo proseliti lo si è capito da un bel po’: mai come in questo periodo infatti, ho visto cosi tante uscite in campo black o meglio post black o come qualcun altro preferirebbe etichettarlo Cascadian Black. Fatto sta, che quello che mi passa fra le mani quest’oggi, è l’ennesimo esempio di musica rude, estrema e talvolta atmosferica, proveniente dagli States, quasi come se gli americani si siano dimenticati dell’esistenza di altri generi (e dire che fino ad un paio d’anni fa erano fissati col metalcore) e si stiano esclusivamente concentrando a questa forma primordiale di suoni. Non che la cosa mi dispiaccia anzi, per il momento sto sentendo ottime cose provenire dal versante west degli US (e penso a Deafheaven, Addaura o Alda) e questi californiani Ordo Obsidium, non vanno tanto distanti dalla proposta delle band già menzionate: la musica dei nostri è infatti un bel black tirato nelle sue parti più veloci, molto oscuro e apocalittico nelle partiture doom, il che si evince già dalla lunga suite iniziale, “Nequaquam Vacuum” che si protrae furentemente tra chitarre minimalistiche, rallentamenti di matrice funeral e urla strazianti, per quasi 12 minuti. “Into the Gates of Madness” ha quasi un incedere punkeggiante, prima che le ritmiche serrate inizino a calcare nuovamente la mano, avviluppandosi in suoni nevrotici, con le disumane grida a stagliarsi sul tappeto chitarristico, che trova nel suo break centrale anche un accenno di malata melodia (una sorta di Ved Buens Ende in acido). Degli spunti interessanti se ne ritrovano anche in questo “Orbis Tertius”, nonostante talvolta rischi seriamente di annoiare per quel suo feeling che sa di già sentito e risentito. Fortunatamente ci pensano le aperture in acustico o qualche intermezzo tastieristico a ridestare l’interesse dell’ascoltatore, che talvolta scema perché investito da frenetiche e dirompenti ritmiche senza capo né coda. Insomma, un album che farà la gioia di chi ama il black nella sua forma più nichilista, cosi come pure chi ama il funeral doom (basti ascoltare la title track per farsene una buona idea) di derivazione est europea. E allora diamo una chance a questo quartetto americano, con la consapevolezza che comunque questo è il debut, pertanto i margini di miglioramento sono assai ampi… (Francesco Scarci)

(Eisenwald Tonschmiede)
Voto: 65

martedì 22 maggio 2012

Kubark - Ulysses

#PER CHI AMA: Alternative, Isis, Tool, Lingua
Ricorderò questo 2012 come una delle primavera più calde, musicalmente parlando, perché il quantitativo di ottime cose uscite in questo periodo, si arricchisce di un nuovo gioiello, tra l’altro ancora una volta proveniente dal “Bel Paese”, segno che la crescita musicale nel nostro paese, sta procedendo alla grande. Cosi, dopo l’eccezionale prova dei Sunpocrisy, ecco arrivare una new sensation da Piacenza. Kubark. Curioso affidare il proprio moniker ad un manuale sulle tecniche di interrogatorio per cosi dire pesanti, rivolto ai funzionari e agli agenti della CIA; intrigante anche la cover del cd, cosi come pure le fotografie urbane in bianco e nero, interne al booklet. Insomma un lavoro che si rivela fin troppo intelligente già dal suo packaging esterno. Per non parlare poi di quello che è salvato sui quei magici solchi di questo disco argentato. Kubark, li ricordo ancora una volta. Magnetici. Poetici. Una band che farà la gioia di chi ama sonorità alternative, post, psichedeliche, sludge, crossover o stoner che siano. Questo è un Ep che mi ha fatto vibrare le gambe sin dalla prima nota uscita dagli strumenti di questi ragazzi. “Letdown”, una canzone post rock, assai breve, cupa, che mette in evidenza immediatamente le doti canore del vocalist dell’ensemble emiliano e che si chiude con dei suoni malsani ed altri che sembrano richiamare gli echi extraterrestri del film “Contact”. Poi sulle chiacchiere di due “frivole” ragazze, ecco sprigionarsi il sound dei nostri che oltre a richiamare inevitabilmente gli A Perfect Circle, un altro nome salta fuori dalla mia testa, gli svedesi Lingua, mio vecchio grande amore. Sarà forse per questo che ho adorato immediatamente i Kubark. Italiani, ricordiamolo e andiamone fieri. “Ainsoph” è un brano meraviglioso che si dipana tra scorribande rock, oscure distorsioni di basso, malinconici tocchi di chitarra e ancora quella suadente voce di Andrea. Quante suggestioni nell’ascolto di quest’album si incanalano nella mia testa. Lisergico il finale. Fumosa invece la terza “Love & Preach Hate”: ho quasi la percezione di entrare in un qualche torbido locale di Amsterdam, dove belle donnine danzano attorno ad un palo di lap dance e chiedono un po’ di quattrini per donare un po’ del loro amore. Malati. Inquieti. Forse mi sento un po’ come questi ragazzi ed è per questo che li adoro già. Anche un po’ rozzi comunque, non temete, la band non si fa certo pregare quando c’è da essere un po’ più pesanti. O più delicati e sognanti, come sul finire della terza song, dove sono echi alla The Ocean ad emergere. Un bel basso apre la title track, una traccia dal forte flavour post rock, a dir poco disarmante, che sa come conquistarmi, sedurmi, spezzarmi il cuore e poi gettarmi via, come il più classico dei kleenex. A chiudere questo Ep della buona durata di 30 minuti, ci pensa la bella dolce “Vixi”, che chiude un cd che ha la giusta carica e quelle brillanti intuizioni dalla sua parte, per poter dare a questa ottima band la forza di conquistare anche le vostre piccole anime dannate… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85
 

lunedì 21 maggio 2012

Whales And Aurora – The Shipwreck

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge, Russian Circles, Isis, The Ocean, Mogwai
Al calar delle tenebre, nelle oscure acque della scena musicale italiana, si avvista una sagoma all'orizzonte. È il relitto dei Whales And Aurora, che molto lentamente va approdando nel mio stereo con “The Shipwreck”. Le prime tracce, “Refused Recounting Word”' e ”Achieving the Unavoidable” mi fanno subito capire che il giovane gruppo di Vicenza ha le idee chiare sul sound che vuole proporre: lentissimi riff che avvolgono l'ascoltatore in un totale squilibrio emotivo, accompagnati da una batteria la quale, ogni volta colpisce un tom, ci fa un'acconciatura diversa. Il tutto è reso ancora più oscuro da uno screaming disperato, che fortunatamente ci accompagnerà durante tutto il disco. La produzione è ottima, riesce a far risaltare ogni singolo arrangiamento, amplificando in modo ottimale le sfuriate di basso, le chitarre, dai muri sonori dissonanti e dalle fini modulazioni, senza dimenticare le ritmiche della batteria, che fanno da padrone incontrastate nella possanza dei brani. Traccia 3 – “The Aground Hard-Ship”: disagio. Non dico altro. La seconda parte del disco offre il culmine in termini di pathos dell’intero lavoro: dagli assuefanti delay chitarristici e dal basso inarrestabile di “Abandoned Among Echoes”, alla commovente tranquillità di “Awakened by the Aurora”, che momentaneamente mi inganna, gettandomi in un mare di lacrime per la prematura fine dell'album e i conseguenti fiumi di maledizioni verso coloro che hanno composto un disco così breve. Poi mi riprendo. Minuto 32:50 “A New Awareness”. L'intro di questo capolavoro downtempo, mi induce la pelle d'oca ad ogni singola nota, prima di scaraventarmi con innaturale forza e dolore nel pieno di questa nuova consapevolezza che racchiude tutto il malessere inimmaginabile. Tutto ciò poi va a scemare in “Floating on Calm Waters”, brano che rappresenta adeguatamente il proprio titolo, regalandoci una deriva sulle calme e silenziose acque della disperazione. Non mi rendo conto che il disco è finito, sto ad aspettare ingenuamente una nuova traccia, sperando che si ripeta l'episodio che mi ha regalato una perla come accaduto in precedenza, ma dopo alcuni interminabili attimi, mi accorgo che il lettore si è fermato. Il relitto ha terminato la sua attraversata. (Kent)

(Slow Burn Records)
Voto: 90

sabato 19 maggio 2012

The Great Old Ones - Al Azif

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves in the Throne Room, Altar of Plagues
La Francia continua a mietere vittime, non c’è dubbio. La corrente musicale che si è sviluppata nel paese d’oltralpe è di primissimo livello e sono fermamente convinto che abbia ormai scalzato i paesi nordici dal trono che occupavano fino a qualche anno fa in ambito estremo. Non posso esimermi anche questa volta di non citare le band grandiose che popolano l’underground “galletto”: Blut Aus Nord, Deathspell Omega, fino agli ultimi mirabolanti Pensées Nocturnes e Alcest, solo giusto per citarne alcuni, perché la lista sarebbe infinita. E oggi, ancora un’altra band proveniente dal paese dei nostri cugini, precisamente da Bordeaux. È il turno dei The Great Old Ones, portentoso five-pieces, dedito ad un post black di derivazione statunitense, scuola Wolves in the Throne Room, giusto per darvi un indizio di massima. Inutile negare che poi l’ensemble ci metta molto del suo, proponendo nella propria line-up ben tre chitarristi, il cui compito è quello di ergere un muro sonoro violento, maligno ed evocativo, che si esplica egregiamente nel corso dei suoi sei pezzi qui contenuti. D’altro canto, il titolo dell’album, “Al Azif” non lascia margini di interpretazione, trattandosi infatti del titolo originale in arabo, del famigerato “Necronomicon”, il testo di magia nera, uscito dalla penna di Howard Phillips Lovecraft, quindi che cosa meglio di un esempio di black metal diabolico per narrare tutto ciò? La band transalpina pertanto percorre il sentiero della fiamma nera, affidando il tutto a sonorità oscure, selvagge che trovano tuttavia sprazzi di quiete in frangenti che sfiorano il post rock o lo shoegaze (assai palese in “Jonas”). Eccolo quel qualcosa in più che va ben oltre la già valida proposta degli americani WITTR, perché a mio avviso i The Great Old Ones, hanno sicuramente molto da offrire, ben più degli esimi colleghi d’oltreoceano: i suoni avantgarde dei nostri si fondono inequivocabilmente con la furia cieca del black più bieco, in un sound che puzza di morte, complice sicuramente una registrazione cupa che non lascia trasparire altro che sensazioni negative. Angoscia, malinconia, senso di soffocamento (l’inizio di “Rue d’Auseil” non è niente male a tal proposito) impregnano “Al Azif”, un album il cui solo tenere in mano il cd, trasmette sensazioni poco rassicuranti. Sei songs, sei capitoli che potrebbero tranquillamente fare da colonna sonora ai vostri incubi più reconditi, esplicati attraverso le malvagie vocals di Jeff Grimal, accompagnato dalle coreografiche ed efferate pulsioni sonore degli altri componenti della band che candidano i The Great Old Ones ad essere una delle sorprese dell’anno in ambito estremo. Le melodie fangose dello sludge, le turbe psichedeliche dettate da un riffing estremamente ricercato, gli ottimi arrangiamenti, gli inframezzi acustici, la complessità di song altamente strutturate, un packaging limitato a 300 copie davvero interessante, contribuiscono a rendere “Al Azif” un album sicuramente appetitoso agli amanti del genere, a chi segue un genere che sta trovando la sua massima affermazione in act quali Altar of Plagues o i new comer californiani Deafheaven che da poco hanno solcato il suolo italico in compagnia dei Russian Circle. Insomma, a parte tutte queste divagazioni, avrete capito che sono entusiasta di fronte alla proposta di questa ennesima band transalpina; un complimenti anche alla Ladlo Production che continua la sua opera di ricerca intelligente nell’underground europeo, dopo aver assoldato nel suo rooster i belgi Cult of Erinyes, sempre recensiti su queste pagine. Maledetti! (Francesco Scarci)

(Ladlo Productions)
Voto: 85

Brain - Nightmare in Love

#PER CHI AMA: Death/Thrash
Questo lavoro è stato una piacevole sorpresa, interessanti e convincente. Partiamo dall’inizio. Mi capita tra le mani questo “Nightmare in Love”; guardo l’artwork, alzo un po’ il sopracciglio e mi faccio un paio di idee sul contenuto. Carico nel lettore e premo play. Però! Niente male questi “Brain”! Enrico Tiberi (voce e chitarre), Alessio Spallarossa (batteria, militava nei Sadist) e Andrea Lunardi (tastiere) ci hanno dato dentro che è un piacere. Si sono guardati intorno, hanno preso spunti, li hanno amalgamati in maniera solida, persuasiva e piuttosto personale. Ed ecco “Nightmare in Love”, un LP difficile da catalogare. Per darvi un’ idea, lo scheletro delle canzoni parte dal death/thrash, tuttavia gli innesti elettronici e di tastiere mi fanno ricordare certi gruppi di metà anni ’90 (butto lì i Fear Factory). La loro bravura tecnica emerge da ogni brano, in più hanno ottenuto un buon risultato anche a livello compositivo. Tutto questo, combinando aggressività e velocità in modo funzionale. Come dicevo, la parte esecutiva è notevole. Svetta l’operato del batterista, sempre preciso, martellante e mai sopra le righe. A seguire le inquietanti tastiere e le scalpitanti chitarre. Il cantato, sebbene passi agilmente dal growl a parti più pulite, mi suona un filo ripetitivo. Tra le tracce trovo non banali le più gelide title track e “Society”. Invece “Dear Faith” e “Sceptre” sono quelle che esprimono maggiormente le influenze cyber di cui sopra. Con la bella “Love”, quasi solo strumentale, la band crea l’apice del platter. Le altre song rimangono comunque nel solco, senza particolari cadute di stile. Una maggiore varietà nella scrittura delle canzoni sarebbe stata davvero la ciliegina sulla torta. Però è un disco che non stanca, e che riesce mantenerti incollato all’ascolto. Secondo me è davvero da salutare con entusiasmo. Bravi. (Alberto Merlotti)

Blutklinge - Ahnengeist

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Nargaroth
Questa è una radicale vendetta contro tutte le forme corrotte della civiltà moderna. Otto tracce che si addentrano nel dolore musicale più assoluto, una nenia di maledetta sofferenza che batte al posto del cuore. “Ahnengeist” è spirito indomito, è solitudine estrema, è trovarsi nel mezzo di una folla e urlare l’assenza completa di ogni emozione. “Ahnengeist” è lo stadio finale del suicide-depressive black metal, la porta verso l’annullamento totale del proprio io. Sono sicuro che Nietzsche sarebbe stato felice di poterlo ascoltare. Questa demo del 2006 è l’apogeo di un metal pervaso da un decadente senso di abbandono, avvolto da melodie che integrano vere e proprie ballate black in un ricordo lontano del Nargaroth di “Black Metal ist Krieg”. “Einklang” e “Ausklang” sono le tracce che aprono e chiudono rispettivamente dei monoliti di potenza sonora. Corrodono con una poesia densa di elementi ambient, che pare scontrarsi con l’antitesi violenta delle altre sei opere che custodiscono gelosamente. Si passa da veloci andamenti old school norvegesi (“The Fires of War are Burning”) a melodie ‘spiritual-slow’ inserite in momenti topici di precise canzoni (“Depression of a Doomed” e la crepuscolare “Das Sterben der Ewigkeit”). Nel complesso, lo stile Blutklinge presenta elementi caratteristici facilmente riconoscibili. Dominano incontrastate le chitarre a zanzara, che personalmente amo alla follia, e una batteria dalla registrazione meno cupa del solito. Notevole l’effetto dai cambiamenti di tempo che viene interpretato da piatti e doppia cassa in sincrono (ricordate i Darkthrone degli albori?). La voce è una sofferenza trucida. Senza testo sottomano non sono riuscito a comprendere nemmeno una singola parola, tenendo conto che il cantato è quasi totalmente in tedesco. Tuttavia, se pensate ad una voce alla Steve Austin siete sulla strada sbagliata. Queste corde vocali sono black metal al 100%, è esclusivamente la registrazione che le modifica, le assimila alla stessa distorsione a zanzara delle sei corde. Mi sento male quando devo descrivere magnificenze come “Ahnengeist”. È l’assoluta perfezione di ciò che cerco nella musica, l’Araldo del sentimento di abbandono universale. Quando sono stato in procinto di ascoltare la quinta traccia, “Ragnarök”, mi sono reso conto, con estremo stupore, che l’agonia che avevo nel cuore non era nulla in confronto al dolore di chi aveva scritto quella canzone. Nessuna indecisione. (Damiano Benato)

(Wunjo Kunstschmiede Germanien)
Voto: 100

Dug Pinnick - Emotional Animal

#PER CHI AMA: Rock, Psichedelia
Doug Pinnick (ora Dug) è il frontman dei King’s X, creatura heavy-prog, oramai in giro da più di venti anni ed “Emotional Animal” rappresenta il suo terzo album da solista, anche se i due precedenti lavori sono stati registrati sotto il nome di Poundhound. L’album, quasi interamente suonato da Dug (aiutato dal solo Joy Gaskill alla batteria e Kelly Watson alla tromba), percorre un sentiero rock, ricco di varie sorprese, la prima fra tutte, la traccia numero sei, “Equal Rights”, un brano dalle forti venature gospel o ancora, come non menzionare la claustrofobica “Are You Gonna Come”. L’album trasuda di musica contaminata, qui non c’è la benché minima ombra di metal, ma pop, soul, psichedelia, stoner rock e tanto tanto groove, con la ugola calda e inconfondibile di Dug a dominare la scena. Gli altri brani sono tutti godibili: “Change” con il suo flavour pop e con quel suo fantastico assolo posto a metà pezzo, “Beautiful” con il suo incedere iniziale marziale, il suo ritornello orecchiabile e la sempre magnifica voce di Dug; “Missing” per le sue suadenti linee hard melodiche, “Freak the Funk Out” per la sua attitudine funk trip hop. “Emotional Animal” non è però un album di facile assimilazione: è molto intimista, è necessario ascoltarlo più volte per poter apprezzare realmente la proposta di Dug. Registrato e mixato ai Poundhound Studio dallo stesso Dug, il cd contiene anche materiale audio e video bonus in formato multimediale. Se avete amato i precedenti lavori dei Poundhound o se siete fan dei King’s X, acquistate tranquillamente anche “Emotional Animal”, vi sorprenderà... (Francesco Scarci)

(Magna Carta Records)
Voto: 75
 

Valkiria - Here the Day Comes

#PER CHI AMA: Gothic Doom, primi Katatonia e Anathema, Draconian
Una cover con un raggio di sole che filtra attraverso gli alberi; un titolo, “Here the Day Comes”, che ha un forte sapore malinconico, cosi come i nomi delle song, che segnano i vari momenti della giornata; infine, un’intro dal pesante flavour nostalgico, ci introducono nel mondo dei Valkiria, band vicentina che da ben tre lustri popola il fitto underground metallico italiano, ma che ahimè soltanto oggi, sboccia come un fiore in primavera. Eccolo il nuovo album della band capitanata da Valkus, coadiuvato dal buon vecchio Mike (chitarrista anche degli Stighmate) e che vede alla batteria in veste di guest, Giuseppe Orlando, degli ormai scomparsi Novembre. Il sound proposto dai nostri è un black (poco in realtà) doom gothic (parecchio), che trae sicuramente origine da un album meraviglioso quale è stato “Brave Murder Day” dei Katatonia e dalle ultime produzioni in casa Draconian, senza dimenticare quel feeling che solo i già citati Novembre, erano in grado di imprimere nelle loro composizioni. Dopo aver dischiuso i nostri occhi ancor prima che le luci dell’alba si mostrino al giorno, con i suoni lontani di “Dawn”, è con le melodie dolci e suadenti di “Sunrise” che i nostri mi conquistano pienamente: si tratta di una song intrisa di dolore, e di arrendevolezza di fronte al proprio inesorabile destino, che attraverso uno splendido lavoro alle chitarre, mi trasmette tutto il proprio desolante dissapore. Tristi, ricchi di pathos, crepuscolari, fino a quando il sole non si staglia finalmente nel cielo, ma probabilmente è un mattino coperto da una fitta nebbia, perché “Morning” ha un’andatura per certi versi affranta, funerea; Valkus con il suo growling/screaming assolutamente intellegibile, ha un che di disperato, che evoca il cantato di Jonas Renkse nell’indimenticabile “Dance of December Souls”, prima perla dei Katatonia. Tra le nebbie apparentemente diradate, il pomeriggio porta con sé un pizzico di ardore in più, ma è solo una pia illusione, perché i nostri risprofondano già nel finale di “Afternoon”, nella drammatica angoscia di cui è permeato l’intero album. Si conferma splendido il lavoro alle chitarre, nonché quello alla batteria da parte di uno dei migliori drummer in circolazione, senza dimenticare il lavoro di rifinitura delle tastiere di Alberto Pasini. Il tramonto si sa, segna la fine della giornata, e forse anche delle nostre speranze, che si spengono con “Sunset”, un altro esempio di bellezza musicale senza tempo, che pescando dai classici degli anni ’90, “The Silent Enigma” degli Anathema o “Icon” dei Paradise Lost, delizia ulteriormente il mio palato. Poche luci si accendono nella buia sera, ma si affievoliscono da li a poco dietro le nuvole, presagio di una pesante e fredda pioggia incombente. La notte è pronta ad avvolgere nelle sue tenebre ogni cosa, prima che la luce segni nuovamente il ricominciare del ciclo del giorno e della vita. Piacevole come back discografico all’insegna di sonorità decisamente autunnali, che vede la band debuttare per l’attenta Bakerteam Records. Fortemente consigliati. (Francesco Scarci)

(Bakerteam Records)
Voto: 80