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domenica 3 ottobre 2010

Kauan - Aava Tuulen Maa


“Contro il logorio della vita moderna!” Questa era la frase di un’indimenticata pubblicità di un amaro, a base di carciofo, ai tempi di “Carosello”. È anche quello che ho pensato dopo il primo ascolto. I Kauan (parola finlandese che dovrebbe significare “per molto tempo”) abbandonano il loro stile precedente e danno alla luce un disco completamente folk. Se questi due russi vogliono cambiare genere ogni volta, e in questa maniera, facciano pure. Anton Belov (chitarre, voce, tastiere) e Lubov Mushinkova (violino) forgiano un’atmosfera autunnale/surreale che si mantiene inalterata per tutto il cd. Quest’atmosfera, quest’anima calma, sognante, calda, con un che di bucolico e con una venatura malinconica, è il punto di forza di questo lavoro. Le emozioni che ne nascono infatti sono le vere protagoniste. Non aspettatevi di cadere nelle braccia di Morfeo per il ritmo lento che caratterizza l’intera release: il duo è in gamba e riesce a tenere svegli, basta provare a seguirli. Sia ben chiaro che non troverete nulla di rock (tanto meno di estremo), anche se, a voler guardare bene, l’unico lascito dalla “vita” precedente, si ritrova nella voce roca in alcuni punti. I suoni elettronici sono molto ben amalgamati alle chitarre, al violino e alle brevi parti cantate. Non aspettatevi grandi differenze di suoni o di composizione tra le tracce (forse “Föhn” è l’unica che si stacca per le parti in crescendo) tutte molto lunghe; non troverete neppure riffs aggressivi, tecnicismi o assoli. Ma va bene così. Sarebbero un peso per le canzoni, che già sono al limite dell’ipertrofia. Fronzoli che costringerebbero i pensieri e ruberebbero la scena alle emozioni. Da apprezzare anche il booklet e il package. Un disco non per tutti, ma state al loro gioco e vedrete che ne varrà la pena. Perdersi un po’ in un angolo sognante, nella frenesia quotidiana e farlo con classe, è una cosa che fa bene allo spirito. (Alberto Merlotti) 

(Firebox/BadMoodMan Music)
Voto: 80

Fairyland - Score to a New Beginning


Ricevo questo album da recensire. La copertina, con una nave sullo stile vichingo e cavalieri in armatura con la spada sfoderata, mi fa subito pensare ad una delle tante band scandinave, magari female fronted, piene di canzoni un po' mielose e speranzose... Invece scopro che la band è al maschile, è italo-francese (ci sono un paio di elementi italiani, per la precisione il bassista Fabio D'Amore e il cantante Marco Sandron, entrambi di Pordenone o zone limitrofe) e assomiglia in modo pauroso sia ai Dragonforce che ai Rhapsody; oltre a suoni sinfonici sono anche presenti parti strumentali che ricordano molto le atmosfere di Danny Elfman: ne è un esempio la prima traccia, che ricorda ampiamente il villaggio di “Nightmare Before Christmas”. “Across the Endless Sea” fa un ampio uso di synth e batteria, mettendo in secondo piano le chitarre e avvalendosi di cori stile orchestra. Il ritmo spazia dal pacato al power, sostenuto anche da assoli di nota modulata (ovvero la tastiera che fa le veci della chitarra) e voce con finali acuti. “Assault on the Shore” si caratterizza di tastiera per il 70%, con la voce che alterna un quasi growl agli acuti che tanto riescono, mentre tutto il ritmo segue perfettamente le orme dei Dragonforce: tutto il brano è incentrato sulla fine del viaggio, un viaggio in barca che ricorda gli attracchi vichinghi alle terre inesplorate ed aride. “Master of the Waves”, più orchestrale delle prime due, rimembra le epiche avventure per mare, verso una destinazione sconosciuta, in balia delle onde e delle speranze: qui il cantante si avvale dell'aiuto vocale femminile di Elisa Martin, female vocalist che in questo album fa solo delle comparse. Accanto alla sua voce, Philippe Giordana decide di tralasciare gli acuti e preoccuparsi di tenere un tono più basso e roco, con un buon risultato. “A Soldier's Letter”, malinconica come non mai, presenta un testo che verte sul difficile addio alla persona amata, soprattutto quando si è distanti e non vi è alcun modo per rivedersi. Tutto il brano riprende il ritmo di “Across the Endless Sea”, riportando di nuovo l'apporto vocale di Elisa Martin e i cori che accompagnano gli acuti, fino a sfumare verso la chiusura. “Godsent”, con violini ed altri elementi orchestrali ed in puro stile Therion, ci ricorda la nostra effimera esistenza verso la grandiosità ed eternità degli Dei, impersonati da una voce grave e profonda. Ascoltando “At the Gates of the Morken”, mi vengono in mente le scure montagne di Mordor, mentre la guerra in fine menzionata nel testo, mi ricorda tanto le vicissitudini di Frodo e Gollum contro l'armata di Sauron (probabilmente si saranno ispirati a questa saga per stendere il testo). “Rise of the Giants”, strumentale, fa un largo uso delle note messe in successione in modo tale da far immaginare qualcosa di grandioso, di immenso, di epico: insomma, l'apertura di un film fantasy con mondi in un'altra dimensione e altri costumi. “Score to a New Beginning”, la penultima traccia, ha un mood più ottimista pieno di speranza come si evince dal testo: persino i cori sono più enfatici ed entusiasti, trasportati dal testo e dall'immagine che crea. Tra attracchi a lande desolate, viaggi per mare verso l'infinito e oltre, tra lacrime e tristezza e nuove speranze, si arriva così all'ultima traccia, “End Credits”, ancora una volta song al femminile, che chiude in dolcezza l'album e per decantare la nuova vita ricreata nelle lande desolate: un bel happy ending e tanti saluti. In sé l'album non è affatto male, anzi: per gli appassionati di questo filone, direi che un ascolto lo merita. Il timbro di Giordana non mi convince granché, forse perché sono più abituata ad ascoltare i Sonata Arctica o i Dragonforce, ma ripeto, un ascolto (e anche più di uno) l’album se lo merita. (Samantha Pigozzo)

(Napalm Records)
voto: 70

Achernar - Spectral Universe

#PER CHI AMA: Black/Death
Immaginate la liscia superficie di un lago assolutamente priva di qualsivoglia increspatura. Ora osservate al suo centro quella nitida, ferma e perfetta falce di luna: crescente, abbagliante. Qualcun altro con voi la sta guardando: la vedete, là, sulla sponda, quella figura incappucciata e oscura? Pronuncia arcane parole. Ecco d’improvviso innalzarsi verso il cielo una violenta e fluorescente colonna d’acqua proprio là dove un attimo prima vi si specchiava la luna. L’acqua ricade impetuosa e repentina, si plasma a formare la creatura. Ascoltatela parlare, emette un growl profondo, catarroso. Quale magico filtro ti sei trangugiato Okram? Bravo davvero. Se mi concentro odo or ora persino il profondo e ritmico pulsare del suo cuore: ottimo lavoro con quella cassa Reshaim. Ecco come “vedo” o meglio “avverto” “Sky’s Suicide”, prima track dell’album. Spero, con queste mie parole, che l’abbiate vista anche voi: che spettacolo. E se vi dicessi che questo era solo l’inizio? Si era solo l’inizio, l’estasi procede cavalcando le note di “The Sign of the Moon”. Una luna che un segno lo lascia davvero. Ancora una volta è la voce che voglio premiare, anzi: le voci, ne distinguo infatti due. E cosa dire della magia di “Into the Depth”: ma quale profondità??? Il fondo lasciatelo toccare agli altri, voi volate lassù, sempre più in alto, voglio vedervi un giorno dare una bella grattatina all’Empireo. Davvero bravo Reshain in “Morning Star”: la scelta di soluzioni relativamente semplici premia un pezzo che sicuramente molti altri non avrebbero esitato a violentare con talvolta inutili estremismi tecnici. Non vi ho ancora parlato di Misa e Antonio, chitarra e basso di questa quaternaria costellazione. Cosa dire: molto buona la mai esagerata distorsione che sempre si sposa con tutti gli altri strumenti senza coprirli. Le plettrate proprio bene quelle corde. Se usassi l’aggettivo estremo per definire questa release, più di qualcuno potrebbe non essere d’accordo al riguardo: sotto sotto non lo sono nemmeno io con me stesso, diciamo che nella scala Mohs lo collocherei al sesto grado, quello dell’ortoclasio. Ne sono certo: la vostra lucente stella del mattino continuerà a brillare lassù in alto, in alto Achernar. Washington sarebbe di certo fiero di voi e del vostro “geomantico” “Spectral Universe”. Pochi capiranno il profondo significato di queste mie ultime, criptiche parole, ma sinceramente non importa… (Rudi Remelli)

(Self)
Voto: 75

NeverNight - NeverNight


“There is a time to fight, there is a time to rest, but no one will sleep tonight”
Loro vi hanno avvertito, continuate l’ascolto e vi dimostreranno di mantenere la parola data. E rimarrete sorpresi dal modo in cui riescono a farlo. Gli italiani NeverNight nascono nel 2001 a Montebelluna (TV) da un'idea di Dimitri Salomon (bassista) ed Eric Panazzolo (chitarrista della band fino al 2003). La prima formazione della band registra il demo autoprodotto “Voices from Hell” che raccoglie i migliori pezzi della band. Un cambio dei componenti porta ad una nuova formazione e ad un’evoluzione stilistica che sfocia nell'estate del 2008 con l’entrata in studio di incisione. Nasce il full lenght dal titolo “NeverNight”, nel 2009 i nostri firmano con la "Steelheart Records" che fa uscire l'album nel 2010 ed eccolo tra le mie mani e nelle mie orecchie. Citando un politico contemporaneo “strabuzzo le orecchie!”. Temevo in un prodotto stratosferico per tecnica, ma sempre uguale: timore infondato. Si parte con l’evocativa e oscura “Intro”, da cui è tratta la citazione sopra, che mi ricorda vagamente alcune sonorità anni ’80. Ma il primo vero assaggio della bravura di questi ragazzi è “NeverNight”. Qui ci fanno sentire cosa sono in grado di fare e che cosa hanno davvero in serbo per noi: velocità, tecnica, potenza, versatilità vocale, intensità con un certo riguardo alla melodia. Devo farvi una confidenza, mi sono sentito un po’ orfano di questo tipo di musica ultimamente, sentire questa ottima e coinvolgente produzione italiana mi rende particolarmente felice. Imparata la lezione dei primi “Four Horsemen”, i nostri, la applicano con bravura da vendere e si muovono tra sonorità ora tiratissime, ora più melodiche in una maniera da lasciarmi sbalordito. Devastante l’impatto ritmico di tutto il cd. Andrea Cini (che ha recentemente abbandonato il combo) alla batteria è davvero fenomenale, supportato da un Dimitri Salomon al basso a livelli similmente alieni. I riffoni di chitarra, gli assoli, gli arpeggi di Andrea Collusso sono ottimi, perfetti nell’esecuzione e non banali. Un menzione alla voce del cantante Stefano Bellon, che si dimostra notevolmente duttile passando con una naturalezza invidiabile dal melodico, al growl (vedi “Nevernight), al gridato epic (“The Reaper”) sapendo essere particolarmente sofferta in una traccia come “Prayer”. Tutte queste caratteristiche si fondono in una di quelle rare alchimie dove il tutto è più della somma delle parti. Un disco che mi ha affascinato per la varietà delle track, alcune tipicamente thrash, altre metal, con slanci verso l’epic (“The Reaper”), con cavalcate furiose come “Night of Death” e ballad toccanti come in “Fly”. Quest’ultima, divisa in due parti, emoziona per la melodia raffinata, ricercata e impreziosita dalle tastiere, posta a metà del lavoro, creando una pausa calma ideale per esaltare ancora di più le altre parti molto tirate. Molto ben curati il packaging e l’artwork. Il booklet con tutti i testi delle canzoni è sempre una gioia per i miei occhi. I NeverNight dimostrano di essere a livelli molto alti, per esecuzione, per creatività e per capacità di scrivere canzoni, anche piuttosto lunghe, senza ripetersi. Non nascondo il mio piacere nell’aver ascoltato questa loro fatica: coinvolgente, potente, dalle molte sfaccettature, capace di colpirmi con (quasi) ogni canzone e per nulla scontata. Merce rara al giorno d’oggi. Veramente di buon auspicio questo full lenght. Attendo da loro nuove emozioni! (Alberto Merlotti)

(Steelheart Records)
voto: 75

The Way of Purity - Crosscore


Premesso che la band che mi accingo a recensire usa dei nicknames ed è solita coprire il volto per cui mi risulta assai difficile conoscere i nomi reali e le facce dei nostri. Sfogliando il booklet, si trovano poi immagini di braccia tagliate, croci insanguinate e persino un Cristo in croce bruciacchiato: si parla di religione e natura, in questo strano connubio che rappresentano uno il male e l'altra il bene, con la voce pulita femminile in netta contrapposizione con il growling che occupa con forza la scena. Ad un primo ascolto, l'album ricalca fedelmente le sonorità americane del crossover/nu metal: già dalla prima traccia, “The 23rd Circle Breeds Pestilence”, la batteria e il growling ci danno dentro terribilmente, tirando fuori il meglio in fatto di rabbia e cattiveria. “Lycanthropy”, seconda track, prosegue perfettamente il ritmo e il sound della precedente, cosi come pure in “Anchored to Suffocation”, sebbene il ritmo sia meno incalzante e più cupo. Il cantato è sempre sull'urlato, anche se è comprensibile (a fatica, lo ammetto). Per quanto possa sembrare troppo sintetica, le canzoni lasciano poco spazio ai pensieri, ma ti colpiscono così a fondo che viene spontaneo aggregarsi alle sensazioni che la band esprime. Con “The Rise of Noah” il sound dei nostri prende un'altra piega: la voce pulita di una fanciulla prende il sopravvento (vedi Lacuna Coil), accompagnata sempre da un sound nu metal più - oso dire - commerciale, con qualche nota qua e là del bel urlato furioso di cui fecevo menzione in precedenza. Chiusa la parentesi femminile, arriva “Loyal Breakdown of Souls”, in cui tutto l'astio viene messo in luce e gli strumenti straziati, sebbene ancora qualche particella in pieno stile nu sopravviva. Arrivati a metà disco, con “Sinner” si ha il totale ritorno al crossover: ritmo incalzante, niente respiro, headbanging sfrenato e la sensazione di essere invincibili! “Egoist” non cambia direzione, se non forse il piccolo mal di collo che sta uscendo dal movimento della testa e per qualche incursione della female vocal. Da segnalare che in questo album c'è una cover, “Deathwish”, uscita dalla mente malata dei Christian Death nel lontano 1982, e rifatta degnamente anche dai nostri svedesoni: nel loro stile ovviamente, esattamente agli antipodi dal goth rock dei suddetti Christian Death. “Burst”, la penultima canzone, riprende lo stesso motivo di “Egoist”, senza cambiarne nemmeno una virgola. Si arriva così a fine album, con la bella “Pure” che chiude questa sequela di rabbia furiosa senza limiti: normalmente si pensa che con l'ultima traccia, ci si senta un po' stanchi e si voglia rallentare il ritmo ma non in questo caso, visto che i nostri rimangono “crudi e puri” fino alla fine, magari aiutati qualche volta dalla suadente voce femminile che tende ad ammorbidire il sound. L'album si chiude di punto in bianco, senza alcuno strascico od eco, punto di cessazione dell’energia dei nostri. Da risentire… (Samantha Pigozzo)

(WormHoleDeath)
voto: 70

Nauthisuruz - State of Mind


Correva l'anno 2008, Mosca. Un duo, formato da Casuru e Sequoror, sfornava un album totalmente sperimentale: 8 tracce una diversa dall'altra, che presentano delle atmosfere che passano dall'incubo, all'elettronica più pura (che rimanda anche a sonorità fine anni ‘80) e alle atmosfere funebri. Iniziando l'ascolto dell'album, troviamo “Cosmos”: il nome di suo la dice tutta, infatti le atmosfere ivi contenute sarebbero più che perfette per un viaggio nello spazio: chitarra e tastiere sono al loro apice, mentre la mente vaga tra i gruppi di costellazioni e di ammassi globulari; difficile tenere la mente concentrata, visto che la musica ti entra nei meandri della mente e accompagna i pensieri ben oltre la realtà. Arriva poi il turno di “Whisper of a Soul”, più adatta ad una processione funebre, con la voce sussurrata e appena percettibile, mentre la tastiera e la chitarra sembrano avere vita propria: non vi è traccia di malinconia o tristezza, ma più un senso di ipnosi che ti svuota la mente, quasi eliminando ogni pensiero e disperdendo lo sguardo. “Lust”, invece, è più rancorosa e cattiva: caratterizzata da cori tipicamente eighties (probabilmente anche Casuru si è prestato alla voce, assieme a Sequoror), la song sciorina riff solisti e una batteria abbastanza tranquilla. Il cantato in puro growl alternato allo screaming, espelle tutta la frustrazione e la rabbia: da metà in poi anche la tastiera fa il suo solenne ingresso, presentando anche una parte di cantato “pulito”. “Dream, Mesmerize and Think” è a dir poco psichedelica. Con questo termine intendo che sembra non seguire affatto un filo logico, in quanto la chitarra va per la sua strada, la voce è grave e flemmatica e la mente ritorna a vagare sperduta, senza nemmeno rendersi conto del tempo che passa: è in questo modo che mi accorgo di stare già ascoltando la quinta traccia, “My New Way”, la traccia più industrial del lotto (e anche la mia preferita) con una chitarra distorta che mi fa destare ed illuminare: persino la tastiera fa la parte della chitarra (la cosiddetta nota modulata), il che porta questa traccia ad entusiasmarmi, piacevolmente sorpresa. Ascoltando il resto della traccia in religioso silenzio, seguendo attentamente i cambi di ritmo e di strumenti, arrivo a “Requiem to the Darkness”; qui il vento soffia forte e freddo, le atmosfere sono cupe, mentre una voce pare arrivare da molto lontano, portando con sé urla di paura e di dolore indistinguibili: sembra di essere in un film horror, più che in un album... ma, essendo totalmente sperimentale, è anche normale sentire questo lato “terrorifero”, demoniaco e infernale. Sarò visionaria, ma questo brano lo vedrei bene nel “Dracula” del 1931, con Bela Lugosi: magari si sono ispirati a lui nella stesura del brano, chissà. Pian piano si arriva alla fine dell'album: la prossima tappa la si trova in “Nostalgia (Disco in Hell 2008)”: come dice il titolo, lo stampo ricalca un po' la musica disco, ma senza mai abbandonare il filone di appartenenza metal sperimentale. Si ha così come risultato un “disco inferno” (non la canzone, ma proprio l'idea di una discoteca demoniaca), una cosa che le mie orecchie non avevano mai sentito prima, ma che sono una bella sorpresa. Chissà come sarà dal vivo, di sicuro smuoverà le masse. “Back to the Cold Reality”, chiude il platter: se l'inizio si mostra pacato, il resto del brano ce la mette tutta per riportare la mente alla realtà e per caricarci in modo da poter affrontare la dura vita. Elementi orchestrali si mescolano al growling e la calma si alterna alla furia, esattamente come le onde del mare. La nota nuova di questo brano è il violino, portatore di malinconia, che sembra quasi prepararci ad uscire dalla porta di casa. Ed è così che il viaggio nel lavoro dei russi Nauthisuruz arriva al capolinea, con la consapevolezza di essersi in qualche modo perduti e ritrovati. Concludo con una parola: spettacolare! (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 80

Adimiron - When Reality Wakes Up


Pochi istanti d’ascolto ed eccomi violentemente catapultato nell’ipnotico trip degli Adimiron. Subito mi identifico in uno di quei caduchi angeli ribelli di Pieter Paul Rubens, al seguito dei quali precipitano a catena uomini e donne trascinati sulla via del male. Gli Adimiron sono cinque, sono italiani, sono vincenti. Con “When Reality Wakes Up” giocano la loro partita e la vincono. Nulla da spartire con quegli undici perdenti d’azzurro vestiti. Le vorticose note di “Desperates”, prima track della release e la successiva “Wrong Side of the Town” dal sound potente, tecnico ed aggressivo, mi travolgono, ghermiscono o forse abbracciano. Mi sento sempre più vicino, sempre più solo, sconfitto e perduto, al fondo degli inferi. Si, proprio là dove sta il drago, a cibarsi dei dannati ma senza alcun San Giorgio a dissuaderlo. “Mindoll”, al contrario di una droga, stimola nel mio encefalo la formazione di nuove lisergiche reti neurali cablate dalla successiva “Das Experiment” e cauterizzate definitivamente poi con “Spitfire” (cover dei Prodigy): ormai sempre più vicino al drago, avverto l’odore del suo mefitico fiato. Non convince invece, a mio parere, la scelta della strumentale title track come titolo di questo lavoro: non che sia brutta ma nemmeno da premiare. Una parentesi, a questo punto, se la merita sicuramente anche il packaging: davvero ben curato, esteticamente perfetto, grafica riuscita ed un libretto davvero moderno. Chiusa la parentesi, tornando alle musiche, a chiudere per sempre(?), di sicuro in bellezza, le fauci del drago ci pensa “Flag of Sinners”. Ancora una volta, quindi, vince Giorgio ma stavolta, non con una lancia ma con l’asta di una bandiera. D’altronde questo è un anno di mondiali ed al posto delle trombe ad annunciarci l’apocalisse ci tocca, purtroppo, una schifosissima vuvuzela. (Rudi Remelli)

(Alkemist Fanatix)
voto: 75

Moloken - Our Astral Circle


Lo ammetto: ho appena iniziato ad ascoltare l’album di questi svedesi Moloken, che seguono l'EP di debutto “We All Face the Dark Alone”, e la mia faccia si è dipinta di un’espressione indecifrabile, misto tra curiosità, senso di cattiveria e anche stupore: questo perché l’album presenta un’alternanza di suoni, che passano dalla furia accompagnata da un growling cavernicolo alla pacatezza e alla lentezza delle note, rendendo il tutto a tratti pesante e a tratti rilassante. L’opera d’arte (perché anche la capacità di mescolare tonalità contrapposte è un’arte) si apre con le atmosfere lugubri di “Molten Pantheon”, ben sottolineate da una voce cattiva e cavernicola, alternata da chitarre e batteria ben equilibrate tra loro: il sound risulta degno del death che più death non si può, rendendo l’animo ben oscuro e pesante. Se si provasse a chiudere gli occhi mentre scorre il cd, si verrebbe attanagliati dai incubi paurosi che scaturiscono dalla menti di questi oscuri individui Svedesi, immagini che riportano alla mente le distese infinite di boschi durante il lungo inverno, che sembra non avere mai fine. Qualche barlume di speranza lo si ha con “Untitled I”, grazie ad un riffing di chitarra molto malinconico e pacato, ma che viene sconvolto quasi subito dal growling del singer. Tutto il brano, comunque, alterna la furia del trio chitarra-batteria-basso con le note della sola chitarra, come a voler risanare le orecchie prese d’assalto. “Die Fear Will” sembra voglia strapparci di dosso l’anima, grazie ad una voce disumana e agli strumenti che la seguono fedelmente, come in un turbine senza fine. È poi la volta di “Followers”, che riprende le atmosfere ferine e il sound della precedente, anche se si rivelerà un po’ più melodica. “Untitled II”, strumentale all'inizio, genera sensazioni più malinconiche e tristi ma man mano che la traccia avanza, e il ritmo si fa più serrato è un senso di oppressione a schiacciarci il petto. Arrivati a metà album, il sound rimane sempre lo stesso, anche se inizia a far tiepidamente capolino una certa vena progressive rock anni '70: ne è l'esempio “Ebeorietement”, con molti inserti di chitarra, ad opera di Patrik Ylmefors, che rallentano la traccia, giusto per lasciare un po’ di respiro alla mente (e alle orecchie). Questa pace, però si conclude ben presto con “My Enemy”: una vera e propria dichiarazione di guerra con la batteria di Jakob Burstedt e la chitarra a picchiare veramente duro, ma condito da un mood a volte rallentato e subdolamente perfido. Sembra che la band scandinava pecchi un po’ di fantasia visto che arriva anche “Untitled III” più tranquilla rispetto alle precedenti songs con quella sua verve più progressive, per la mia gioia (finalmente posso chiudere gli occhi e immaginare le distese di boschi… ma stavolta di giorno!), anche se per pochi minuti… infatti a metà brano la cattiveria non può mancare, facendo ripiombare la mente nell’oscurità più profonda di un bosco a mezzanotte (e senza luna piena). Si arriva così all'ultimo brano, “11”12”: l'inizio di chitarra non fa presagire nulla di buono, come lo dimostra perfettamente la voce lacerante poi... le vertigini che questo brano crea sono a dir poco inquietanti, quasi non si riesce a scrollarsi di dosso l'angoscia che i riffs di chitarra ripetono continuamente, asfissianti nel loro incedere e a rendere questo brano quasi eterno! Ti martella così tanto che ti viene l'istinto di togliere il cd dal lettore... ma vi consiglio di resistere, perché dovete assolutamente ascoltarla fino in fondo. Traendo le conclusioni, non nascondo che ho faticato non poco ad arrivare alla fine del disco per il forte peso che mi ha messo sul costato! C’è sicuramente da ammirare la capacità dell’act scandinavo, di associare il death metal al progressive rock, rendendo questo album veramente degno di nota e di ascolto. Può piacere e non piacere, ma merita davvero un ascolto attento, anche da chi, come me, preferisce altri tipi di metal ma che comunque vuole comunque spaziare sin nell’oscurità più profonda di questa musica, incontrando l’anima più caotico malvagia del metal. (Samantha Pigozzo)

(Discouraged Records)
voto: 70

Sad Dolls - About Darkness


Formatasi nel 2007, questa band proveniente dalla Grecia (con un’età media molto bassa), dà alle stampe il loro album di debutto (dopo il demo “Dead in the Dollhouse”), mescolando le sonorità più cupe del gothic metal con l'elettronica più industrial: ne esce così un lavoro che può essere definito “electro gothic metal”. Il tema ricorrente sono le tenebre e la sensazione che esse portano (oltre, anche, a tutte le sue caratteristiche come il sangue, lacrime e l'abbandono). L'intro cattura da subito l'ascoltatore in un mondo oscuro, con parole sussurrate e accompagnate prima dalle tastiere e poi dal pianoforte, per poi lasciare spazio ad una chitarra malinconica, in grado di sottolineare con le sue note, i temi dell'oltretomba e della solitudine, oltre al sentimento di smarrimento e d'inquietudine. “Bleed All I Can” è già meno cupa, ma ricorda immediatamente il sound degli Him, con la voce alterata ed accompagnata dal connubio tastiere-chitarra, lasciando in secondo piano la batteria: si direbbe quasi che il sound sia perfetto per il tipico brano da cantare a squarciagola. Seguendo il filone dell'electro-metal, “Misery” lascia più spazio alla batteria, denotando un sound più industrial (leggasi Deathstars) rispetto al gothic della prima traccia. La voce è meno alterata, le chitarre sono messe in primo piano assieme alla batteria e le tastiere si limitano nella creazione dell'atmosfera. “Life Equals Zero” invece si distacca dal sound verso cui l'album stava virando e torna sul percorso gothic iniziale, con l’elettronica elemento costante di fondo e con la voce del singer tendente al grave/cupo: alta è la concentrazione di suoni elettronici e graditissimo l’assolo di chitarra nel mezzo del brano. “Watch Me Crawl Behind” prosegue con le sue atmosfere tetre, sottolineate anche dalle liriche incentrate su angeli, tenebre, sangue e amore finito: colonna sonora perfetta per film come “Twilight” e affini. “In Your Lies” si prosegue sulla stessa linea d’onda della precedente, se non per l'inserto di una voce femminile che sottolinea le tematiche meste e desolate: tastiere e chitarra sono all'ordine del giorno, come anche gli archi e la voce pulita e tenue. Con “Hopes” ci si desta dallo stato catatonico in cui si è caduti e si è più spronati a risorgere, cercando di lasciarsi alle spalle tutti i pensieri negativi: finalmente una song che dopo tanta negatività ci dona un barlume di speranza, come il titolo dice. “Death is Your Name” e “Dawn of Love” si avvicinano più a sonorità doom, una vera sorpresa dopo tanta elettronica: un momento di totale relax per la mente, dove da padrone sono le chitarre pure e semplici, con la voce che pare provenire dalle viscere della terra, quasi demoniaca per quel suo estremo growling, dopo averla sempre sentita pulita. “Evil One” è la copia sputata di “Misery”, più electro-industrial sulla scia dei già citati Deathstars, mentre “Mistress, Goodnight” recupera le sonorità di “Life Equals Zero”. L'album si chiude con “Don't Say Goodbye”, caratterizzata da pianoforte e violoncello, oltre alla voce sussurrata e dolce: scelta azzeccata, volendo restare sempre in tema gotico e lugubre. Non può però mancare la parte di chitarra, chiara espressione della tristezza e della disperazione più profonda. Nonostante i Sad Dolls siano una band giovane e influenzata dal sound dei finnici Him, saranno di sicuro in grado di sorprendere e di creare lavori sempre migliori. Quindi sarà meglio tenerla d'occhio, in quanto hanno ancora ampio margine di miglioramento. (Samantha Pigozzo)

(Emotion Art Music)
voto: 70

Sancta Poenas - Artificiell Gnosis


Disturbati e disturbanti. Parafrasando un noto adagio, non bisognerebbe mai giudicare un album dalla copertina. Io però voglio essere sincero: mi capita spesso di farmi un’idea mentale del contenuto dal contenitore. Delle volte le due cose hanno una certa continuità. Prendiamo l’immagine frontale di questo Cd: lisergica, contorta, vagamente disturbante. È un ottimo viatico della musica contenuta. Questa band, formatasi nell'autunno del 2007 da Jimmy e Niclas in Svezia, originariamente era chiamata “Sanctus Pathos”. All'inizio del 2008 si uniscono TH e Marcus ed il nome cambia in "Sancta Poenas”. Ecco quindi la line-up: Niclas (testi, voce), Jimmy (chitarre, composizione, canto), TH (basso) e Marcus (batteria). L’immagine prevalentemente evocata è oscura, indefinita, strisciante, angosciante. Visivamente penso a quei quadri espressionisti tedeschi astratti di metà ‘900, tipo quelli di Hans Hofmann. Sembra di stare in quella zona della coscienza in cui si è a metà via tra la veglia e il sonno, dove i pensieri corrono senza controllo, si compenetrano e formano degli arazzi interminabili. I pensieri sono cupi e tuttavia il loro defluire è aggraziato. Similmente le canzoni dell’ensemble svedese sono ora molto armoniche, ora dissonanti, con ritmi lenti, sognanti. I cantati, calmi nonostante la durezza della lingua svedese, si alternano repentinamente a parti sussurrate, ad altre urlate, alcune persino disperate. Gli innesti elettronici sono spesso distorti e reiterati in maniera quasi malata. Ritmicamente si notano alcuni cambi di cadenza, tuttavia la velocità non ha accelerazioni e fughe. Tutto ciò si amalgama nelle 6 tracce. Se ascoltate l’album tutto d’un fiato, dopo le prime due songs, avrete la sensazione che anche le canzoni si mescolino tra loro, che i confini tra l’una e l’altra si facciano nebbiosi, si perdano, formando un tutt’uno quasi continuo. Un vero punto di discontinuità si trova nella lunga “Geschtonkenflopped”, in cui vi è una parte recitata prolungata, che sembra tratta da un film. Più omogenee le altre tracce. “Artificiell Gnosis”, che apre il disco, è la più elegante della produzione. Sfuggente, inquietante, con suoni di pianoforte che partono limpidi e poi mutano in distorti. “Svårmod” chiude in una maniera per nulla rassicurante. La produzione poi, mi ha spiazzato fin dal primo ascolto, impegnandomi a risentirla più volte, cercando di carpirne l’anima. Un plauso per la componente grafica, molto bella e coerente con l’anima del disco. L’uso degli allucinogeni, come l’acido lisergico, negli anni ’70 era previsto per aumentare la propria percezione del mondo, indurre la sinestesia, l’espansione dei sensi, “sentire” i colori, portare a bei viaggi, ma anche ad alcuni spiacevoli. Ad un tipo di “conoscenza artificiale”... a proposito, qual era il titolo dell’album? (Alberto Merlotti)

(Self)
voto: 70

Nihilosaur - The End is Within Sight


Un bel pugno, un martellamento bellico di chitarre. Non ho una grande passione per gli album troppo lineari. Ascolto con maggiore interesse lavori che diano spunti diversi, eclettici. Tuttavia in certi casi, questa coerenza può essere stimolante. Polonia, da qui arrivano i Nihilosaur. La band si è formata nel 2005 (da ex membri di The Analogs, Felicite Pueros, Wise Squit, Dzieci, Baby Blue Eyes) ed ecco i membri: alla voce Pawel ‘Mazak’ Mazur, alla chitarra Wojtek Nadolny, al basso Artur Ciechorski ed alla batteria Ziemek Pawluk. Nel 2006 esce il loro primo demo, seguito nel 2007 da questo “The End Is Within Sight”, che solamente ora finisce tra le mie mani. Ma tranquilli, non aspettatevi nulla di strabiliante. Non troverete né novità, né fusione di generi e stili, tanto meno alchimie sonore. Ascolterete piuttosto chitarre spianate, riff potenti ripetuti allo sfinimento, batterie rutilanti ed un cantato growl ridotto ai minimi termini. Un disco cocente, ma non originale. Punto di forza è senza dubbio la potenza perpetrante delle chitarre ed il pregevole livello tecnico nelle esecuzioni. I Nihilosaur mi hanno circondato di un mare di accordi potenti e reiterati, accordi scarni, condotti dalla chitarra e dal basso spaventosamente metal mentre il lavoro dietro alle pelli di Ziemek si perde, in questo mare. La voce del singer non varia quasi mai con la sezione canora davvero ridotta al lumicino. Ed è un bene sia così, poiché le doti canore di Mazak non sembrano poi cosi eccelse. Potenza come non ne sentivo da un po’. Concludendo tra up e down, nonostante la mancata originalità, la lunghezza talvolta noiosa di alcune canzoni, la possibile pigrizia compositiva, va detto che il cd è registrato bene e se ne consiglia l’ascolto a chi è saturo di generi meticci ed è invece alla ricerca invece di un muro armato di metal. (Alberto Merlotti)

(Self)
voto: 65

Dekadent Aesthetix - Dekadent Aesthetix


Altro duo questa volte proveniente dalla Romania a turbare i nostri sonni tranquilli. Emi (responsabile di tutti gli strumenti) e Cosmin (vocals), costituiscono questi strani Dekadent Aesthetix che sfoderano come prima prova un concentrato davvero interessante di black metal che incorpora al suo interno sonorità provenienti dai più disparati ambiti musicali. Sebbene si tratti di una produzione minimalista decisamente low cost, devo sottolineare che la masterizzazione è stata fatta ai Unisound Studios, da sua maestà Dan Swano (Nightingale, Bloodbath, Edge of Sanity, Katatonia). Il contenuto? Dicevamo che affonda le sue radici nel black metal primordiale, ma da li poi una girandola di umori ed influenze emergono più forti che mai. Superata l’enigmatica intro, ecco subito emergere la forte personalità del duo rumeno: chaos black, soffuse atmosfere shoegaze/post rock, voci industrial, in un turbinio disorientante di musica dal forte impatto emotivo. Che diavolo succede, dove mi trovo sono le uniche parole che riesco a proferire al termine di “Plethora”. Con “Suicide Hobby”, la musica non cambia e anzi, i nostri ci mostrano che anche senza budget faraonici è possibile produrre musica con le palle, dotata di rabbia dalle venature poetiche. Quarta traccia dedicata alla cover electro pop “17” dei Ladytron; con la successiva “Track 0”, si parte in sordina con un arpeggio acustico, risa di una donna e parole sussurrate in rumeno in una sorta di danza amorosa tra due innamorati. “Rock’n’Roll Machine” mostra un altro lato della band rumena: una sorta di song dal vago sapore stoner-psichedelico, con vocals alcoliche e screaming blacksters, un trip in un mondo malato ma è solo l’abuso di acidi a turbarci le nostre menti inizialmente sane. Ancora una volta non capisco cosa stia succedendo al mio cervello, troppi sono gli impulsi che alterano la mia rete neuronale, sollecitati dalle sonorità completamente schizofreniche di questo duo di pazzi scatenati. Perversi, imprevedibili e folli, signori e signore vi presento i Dekadent Aesthetix… (Francesco Scarci)

(GoatowaRex)
voto: 75

Galar - Til Alle Heimsens Endar


Se anche voi come me siete rimasti scossi dalla scomparsa dalle scene dei grandi Windir (il vocalist Terje "Valfar" Bakken morì infatti in circostanze misteriose nel 2004), non temete perché una nuova creatura è finalmente pronta a sostituirli nei nostri cuori. Si tratta dei qui presenti Galar, già autori di un discreto cd nel 2006 “Skogskvad”, ma che con il nuovissimo "Til Alle Heimsens Endar" sorprendono tutti gli addetti ai lavori per le loro sonorità che non possono non rievocare le cavalcate pagane di cd come “Arntor” o “1184” dei già sopraccitati Windir. Mi sono emozionato ed infiammato subito nell’ascoltare le note di questo “Fino alla Fine di Tutti i Mondi”, proprio per l’emozioni che da subito si sono manifestate in me, come una sorta di deja vu per qualcosa che avevo già vissuto anni orsono all’ascolto dei capolavori dei vichinghi norvegesi. I giovani Galar, non sono da meno, e fatti propri anche gli insegnamenti di altri maestri quali Ulver o dei folkers Isengard o Storm, ci regalano sette emozionali tracce di black pagano. Il duo di Bergen, aiutato da Phobos dei Malsain/Aeternum, prende ancora spunto dalla tradizione mitologica nordica per dipingere desolati paesaggi ghiacciati, combinando un sound estremo raffinato (Enslaved docet), con il tipico riffing di matrice norvegese, intermezzi acustici, richiami alla musica classica (meravigliosa la strumentale “Det Graa Riket”), elementi folk e ovviamente il viking metal (“Ván” e “Ingen Siger Vart Vunnin”), in un incedere emozionante e suggestivo di suoni che da tempo non sentivo. Ottime le linee di chitarra, eccellente la prova del vocalist capace di spaziare dallo screaming black ai vocalizzi puliti alla I.C.S. Vortex (o potremo addirittura smuovere il padre dell’epic black Quorthon), "Til Alle Heimsens Endar" ci consegna una band davvero matura e capace di stupirci per la bellezza delle antiche melodie e la freschezza della loro proposta musicale. Forti di una eccelsa produzione ai Conclave & Earshot Studios (Taake, Enslaved) i Galar rappresentano una graditissima ed inattesa sorpresa di questo primo semestre del 2010. Spero si possa parlare a lungo di loro… (Francesco Scarci)

(Karisma Records/Dark Essence Records)
voto: 80