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mercoledì 10 maggio 2023

Negurā Bunget - ’N Crugu Bradului

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Black Melodico
Black metal dalla Romania. “Esplorando le tradizioni folkloristiche si possono scoprire tesori nascosti”, si legge all’interno della traccia multimediale (realizzata, con la consueta perizia, da Twan Sibon) inclusa nel cd. Una dichiarazione di principio senz’altro condivisibile. Peccato che i Negurā Bunget non l’abbiano messa in pratica nella stesura delle canzoni. I quattro lunghi brani che compongono l’album presentano un’alternanza di parti aggressive e passaggi più calmi, il tutto però all’insegna del black metal, con quel che ne consegue. Sono le aperture melodiche a dare un tocco di godibilità al lavoro dei Negurā Bunget. Sappiamo tuttavia come la band è riuscita a coltivarle, arricchendo la propria proposta di ingredienti folk, e rendendo tanto più apprezzabile il proprio percorso evolutivo, interrotto prematuramente nel 2017 con la morte di Negru. Se volete potete riscoprire questo disco, riproposto peraltro in vinile nel 2021 in due colori sempre dalla nostrana Code666.

Hyrgal - Sessions Funeraires anno MMXXIII

#PER CHI AMA: Black/Death
Dopo aver recensito più o meno positivamente tutti i full lenght degli Hyrgal, ecco che fra le mani mi capita anche il loro nuovo EP, 'Sessions Funeraires anno MMXXIII'. Registrato (credo) volutamente con un approccio casalingo, l'album consta di cinque nuove tracce più la cover dei Marduk, "Dark Endless". Come ovvio che sia, il quartetto transalpino continua a muoversi nel sotterraneo mondo estremo già dall'iniziale "Deuil Éclair". Come da protocollo, i nostri ci trascinano nel loro personale inferno fatto di sonorità black metal nude e crude, come più volte sottolineato dal sottoscritto nelle precedenti recensioni. Difficile quindi trovare grandi spunti innovativi nelle song qui contenute, se non un tentativo di coniugare in taluni frangenti il black al death (soprattutto a livello di un robustissimo rifferama), o di affidare ad interessanti porzioni melodiche lo svolgimento di un brano comunque complesso e controverso come può essere "Phalanges Assassines". Sghemba al punto giusto "Épique Spleen", spaventosa peraltro nel suo roboante incedere, che la rende, nella sua magniloquente potenza, anche sontuosamente claustrofobica. "Gorge Blanche/Surin Noir" entra assai lenta e inquietante, quello che stupisce è poi la porzione ritmata su cui poggia un brillante assolo (si, avete letto bene, un assolo, che peraltro tornerà anche nel finale) e i vocalizzi dannati dell'ex Svart Crown, Clément Flandrois (aka C.F), sia in forma urlata che più pulita. Ecco, se all'inizio parlavo di pochi spunti innovati nel sound degli Hyrgal, mi devo rimangiare le parole, visto quest'ultimo brano e l'esperimento ambient/noise della successiva "炎が秒を貪り食う場所 (Honō Ga Byō o Musabori Kuu Basho)", sottolineano una ritrovata vena di creatività dei nostri. Certo, se poi riproponi una cover dei Marduk, ecco forse una volontà di cambiamento non la leggo affatto e sulla scelta di includere questo brano, ci sarebbe forse un po' da discutere. Comunque, un discreto ritorno sulle scene, sebbene l'ultimo album fosse datato 2022 e quindi ritengo non fosse strettamente necessario dare un segno di vita. Eppure, qualcosa di interessante e potenzialmente rivoluzionario, lo si può anche ritrovare in questo 'Sessions Funeraires anno MMXXIII'. A voi l'arduo compito di recepirne il messaggio subliminale. (Francesco Scarci)

domenica 7 maggio 2023

Mortali Irae - Promo cd 2000

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Prog Death, Opeth
Il genere proposto in questo promo cd è di chiara matrice death-prog svedese. L’aria che si respira all’interno è decadente e melanconica. Per i Mortali Irae (oggi M.Ire per definire un cambio stilistico volto all'heavy rock/ndr), il paragone con i maestri Opeth (quelli degli esordi) è d’obbligo, ritrovando perciò caratteristiche stilistiche e di timbrica vocale molto vicine ai succitati. Il livello tecnico è molto buono e lo si nota anche dalla facilità con cui i nostri riescono a gestire pezzi della durata media di 6-7 minuti senza stancare l’ascoltatore, dandogli modo di essere attento ad ogni cambiamento d’atmosfera effettuato all’interno delle canzoni. Dopo aver ascoltato questo promo cd, si è tuttavia pervasi da un senso di amarezza, dovuta ad una eccessiva somiglianza alle sonorità che hanno reso grandi gli Opeth, sebbene si tratti comunqui di un ottimo prodotto.

Karne - Condamnés

#PER CHI AMA: Black/Thrash
Terzo lavoro per i francesi Karne intitolato 'Condamnés' e se non li conoscete, beh iniziate a documentarvi bene su questo ensemble, potrebbe sorprendervi. Se di primo acchito potreste infatti pensare al tipico black old school, un ripetuto ascolto potrebbe aprirvi la mente anche ad una miscela esplosiva tra black e thrash dalle forti venature di matrice svedese. Non c'è da sorprendersi se "Mandragores" ci tira subito due schiaffi ben assestati in volto, con quelle sue ritmiche infuocate (spaventoso a tal proposito il lavoro alla batteria di Armory) e lo screaming efferato di Julien Remy (aka Apathy), il tutto comunque ammantato di una certa vena melodica. Il lavoro tritacarne del quintetto di Nancy prosegue anche nella successiva e più dilaniante "Kamarde", che vive di ottimi cambi di tempo, di un'atmosfera decadente, a tratti malinconica, e di quelle chitarre che evocano per certi versi lo spettro dei Dissection. Ecco perchè trovo la band transalpina più interessante di tante altre che suonano magari con la stessa furia e tecnica, ma a cui manca quello spirito epico che ritroviamo qui, e non solo nei cori battaglieri, ma anche nell'afflato musicale e in quella ricerca chitarristica che fa di 'Condamnés' un lavoro da tenere in enorme considerazione. Ottime le cavalcate ritmiche della seconda traccia, interessanti le grim vocals del frontman, ma più di tutto, il mio interesse vola sulla melodia di quelle chitarre maestose e incandescenti che mi richiamato alla memoria anche gli esordi dei Sarcasm. "Limbus Puerorum" ha un incipit dotato di un suono pieno e avvolgente, ma da li a poco esploderà in un velenoso attacco black che avrà modo di evolvere in chiaroscuri musicali (con un riffing qui di scuola norvegese), tale da rendere la proposta dei nostri più appetibile (ma non troppo originale). "Caffa" parte decisamente in sordina rispetto agli standard del disco ma è solo questione di mezzo giro di orologio, visto l'andazzo minaccioso che vi brancherà dal trentesimo secondo in poi. Certo l'alternanza ritmica agevola l'ascolto anche laddove il batterista sembra tenere in mano una mitragliatrice piuttosto che le bacchette. Lavoro mostruoso, lo ribadisco. E anche il suono delle chitarre qui, nuovamente intriso di malinconia, dà il giusto valore al disco. Qualora ce ne fosse bisogno, anche "Le Silence Est d'Ordre" contribuisce a dare del valore aggiunto a 'Condamnés', grazie ad un riffing che sembra quasi ululare nella possenza dell'impianto ritmico. Chiusura affidata a "La Fin Aux Misérables", l'ultima apnea musicale a cui ci costringono i Karne per l'ultimo attacco all'arma bianca di questo 'Condamnés' che sottolinea la buona prova della band, che necessita tuttavia ancora di quel piccolo passettino in avanti per definire una sua propria e consolidata personalità. C'è ancora da lavorare, ma sicuramente siamo sulla strada giusta. (Francesco Scarci)

(Epictural Production - 2023)
Voto: 72

https://karnebm.bandcamp.com/album/condamn-s

Edredon Sensible - Montagne Explosion

#PER CHI AMA: Jazz/Avantgarde/Kraut Rock
Due anni fa presentavamo la band di Tolosa come un tossico mix di Seefeel, Ottone Pesante e Naked City. Oggi siamo qui a riproporveli con la stessa esilarante verve ma con caratteristiche più evolute: detto che squadra che vince non si cambia, l'accoppiata di due percussionisti e due fiati si dimostra tutt'altro che logora di idee e punta dritta al salto di qualità. In effetti il nuovo disco, intitolato 'Montagne Explosion', parte subito a mille all'ora con un brano, "Poulet Gondolé (Chasuble)", accelerato ritmicamente e molto vicino allo Zorn più scanzonato e divertente passando per "Une Bonne Soupe Au Lard" che, tra strampalate grida euforiche, ci espone un tema ipnotico e paranoico. Krautrock per forma e sostanza, un sound compulsivo, sull'orlo di una crisi di nervi, suonato da sax impazziti e una ritmica cara ai Tambours du Bronx (in un numero ristretto di percussionisti) quanto ai giochi percussivi di Byrne in 'Rei Momo'. Il tutto vale anche per "GQ" e "Where Is un Alcool Japonais Qui Aime Se Baigner En Restant à La Même Temperature" . Canoni sonori che si ripercuotono in tutto il disco e lo caratterizzano fortemente. Lungi però dal pensare che gli Edredon Sensible siano ripetitivi anzi, dimostrano infatti in questo secondo full length, di aver raggiunto un consolidamento stitlistico di tutto rispetto ed una fantasia compositiva sopra la media. Di certo usare i concetti compositivi che sono più identificabili con la musica elettronica pulsante ed ossessiva, tanto per fare un nome alla Miss Kittin and the Hacker, in forma sempre progressiva, psichedelica e jazz fuori dagli schemi, non è proprio da tutti, e anche il suo ascolto non è proprio per un vasto pubblico. Il quartetto francese è senza freni e viaggia sulle onde del free jazz più libero permettendosi di mandare più di una volta in orbita l'ascoltatore, come un vero e proprio progetto di musica trance, mantenendo sempre un fortissimo legame con le fondamenta del jazz più d'avanguardia ma anche quel tocco frizzante di certo acid e free rock, come se gli Us3 riprendessero una song per riproporla in chiave psichedelica, dallo sterminato catalogo del maestro Zorn. Titoli di canzoni strani per una musica complessa e carismatica, fatta per essere compresa da una piccola nicchia di veri ascoltatori e adoratori di sperimentazione intelligente, suonata da musicisti con la M maiuscola. Quando "Lo Pastour Bai Amouda" stravolge e silenzia il tutto, passando ad un canto appena sussurrato e folk, rurale e ancestrale, con sperimentazioni vocali nel ricordo delle divine scuole di Meredith Monk, Joan la Barbara e l'ancestrale mistico di Sharron Krauss, rivela un brano assai suggestivo composto in compagnia delle belle voci di Lola Calvet, Lisa Langlois, Noëllie Nioulou, Marthe Tourret, in una traccia molto diversa e inaspettata per lo stile della band, ma davvero intrigante. Come già accennato, l'efficacia percussiva della band, si apprezza alla grande in "Where Is un Alcool Japonais...", che potrebbe rientrare nel catalogo dei Banco de Gaia (stupendi peraltro i momenti in cui la musica sembra incepparsi), mentre nei brani a seguire ci si gioca la carta dell'atmosfera e dell'esotico, ampliando ulteriormente la rosa di sonorità toccate dal quartetto. "Danke Schoen Paul" è il brano più d'impatto e disturbato del lotto, con degli stop musicali interrotti da cori stile festa di capodanno e urla forsennate tra sax impazziti e ritmi trascinanti, mentre "Gros Pinçon" è una spettacolare, straziante e lunghissima marcetta progressiva, in stile no wave, coinvolgente e stralunata, che mi ricorda lo stile dissonante di 'Eine Geschichte' dei Palais Schaumburg, unito a certe atmosfere impossibili di Terry Riley, per una melodia insana, intensa e malata. Questo è un vero disco per appassionati ascoltatori, indifferenti alle etichette di ogni sorta, questa è vera avanguardia sonora. Fatevi avanti gente, qui ce né per tutti i gusti! (Bob Stoner)

(Les Productions du Vendredi - 2023)
Voto: 84

https://edredonsensible.bandcamp.com/album/montagne-explosion

venerdì 5 maggio 2023

Mushroom Giant - In a Forest

#PER CHI AMA: Post Rock
Li avevo recensiti due anni fa in occasione del decennale dell'etichetta Bird's Robe Records, con l'album 'Painted Mantra', uscito originariamente nel 2014. Li ritrovo oggi con un album nuovo di zecca, 'In a Forest', ed un sound che non si discosta poi di molto da quella che è l'architettura post rock di fondo degli australiani Mushroom Giant. Il "Fungo Gigante" ci offre sette nuove tracce, che si rivelano introspettive nel loro incedere sin dall'iniziale "Owls", che richiama inequivocabilmente in causa i due gufi ritratti in copertina. I suoni dicevo, sono alquanto introversi, ma ci stanno se l'intento è quello di narrare di una foresta e dei suoi misteriosi abitanti. La band di Melbourne è sapiente nel miscelare post rock con una buona dose di dark, progressive e suoni cinematici vari, per quello che è il marchio di fabbrica del quartetto australiano. Poi, chi li conosce, sa perfettamente cosa aspettarsi dall'ascolto di questo nuovo capitolo: le atmosfere spettrali che si respirano nella seconda metà della prima traccia sono un esempio delle caratteristiche dei nostri ma non solo. Io li ricordo anche come abili costruttori di break di pink floydiana memoria e a tal proposito mi viene in soccorso la settantiana e nebulosa "And the Earthly Remains". "Vestige" è caratterizzata da una stratificazione di chitarre che esibisce la tecnica-compositiva dell'ensemble, che necessiterebbe tuttavia di un bravo vocalist per dare una narrazione a quello che la band allestisce in sede musicale, e per tirarci fuori dalle sabbie mobili di un genere, a volte, troppo spesso ingessato nei suoi rigidi paradigmi. "Earthrise", song da cui è stato peraltro estratto un video, parte lenta e malinconica, ma sarà in grado di aumentare i giri del motore grazie a una splendida chitarra solista che si sovrappone a una ritmica più ordinaria. "Aire River Rapids" sembra prendere le distanze dal post rock dei primi pezzi, risultando decisamente la più pesante delle tracce, complice un robustissimo riff e un drumming bello potente. Ah, una voce un po' urlata, come avrebbe fatto comodo nelle insenature di questo pezzo, e forse ancor di più nella successiva e sinistra "Mountain Ash" che sfodera un grande lavoro sia alla chitarra solista, e ancor di più a quella ritmica, che improvvisamente s'interrompe per cedere il passo a "And the Earthly Remains". "The Green Expanse" propone il secondo video di questo lavoro: un'apertura dai tratti ambient e poi i classici suoni dilatati del post rock, per una chiusura che ha il solo difetto di risultare un po' troppo scontata nei suoi contenuti, nonostante l'eccelso lavoro svolto a livello di suoni. Il fatto è che, attenendosi troppo agli standard del genere (e penso anche al tremolo picking proposto qui), il rischio è quello di sapere già cosa ci sarà ad aspettarci nell'evoluzione di un brano, e per questo opterei, anche a piccolissime dosi, all'inserimento di una voce o anche di un parlato, che dia maggiore imprevedibilità ad un disco che ha il solo rischio, di risuonarvi nelle orecchie come già sentito. E sarebbe un peccato. (Francesco Scarci)

Yattering - Human’s Pain

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Grind/Brutal Death
Fortunatamente la ripubblicazione del primo loro album, che fu apprezzata solo in Polonia, sarebbe stata solo la solita fortissima mazzata sui denti, invece con una cover dei Brutal Truth, una degli Slayer più brutali, e l’inserzione di un’altra bonus track, si rinforza questa dose di violenza. L’album è brutal grind, che aizza anche numerose digressioni di cieca ferocia, ed è in generale schizzato, secco, arido e sgraziato, con una voce straziata ed una cavernosa e profonda, forzata; strilla anche un urlo cupo. Il loro secondo album è più intricato. Questo è una soluzione, senza morbidezze, compatto, di isterie che maneggiano molteplici lame dalla batteria alle chitarre. Gli assoli spezzano la brutalità da riminiscenze thrash, ma più spesso esprimendo senso di disgusto mordace.

(Moonlight Productions/Season of Mist - 1998/2001)
Voto: 70

https://seasonofmistcatalogue.bandcamp.com/album/humans-pain

Nott - XX

#PER CHI AMA: Black Metal
Da non confondere con l'omonima creatura statunitense, i Nott di quest'oggi sono una one-man band italica, dedita a quello che il mastermind H. Archvile definisce "primitive black metal". E non posso che essere d'accordo con tale definizione, laddove "Two Decades of Oblivion" irrompe nel mio stereo con quella sua forma primigenia di black nero come la pece. Sembra un tuffo indietro nel tempo di quasi 30 anni, quando il black metteva a ferro e fuoco la penisola scandinava e avanzava strisciando minaccioso nel resto d'Europa. Ecco dove affonda le sue radici il factotum bresciano che da ben vent'anni ha in mano le redini di questo progetto (ormai al quinto album) ma che compare anche in altre realtà come i Nebrus, i Necrutero e I Sentieri di Staglieno. La proposta del polistrumentista si muove in modo piuttosto omogeneo in tutti e gli otto capitoli di questo lavoro, attraverso un riffing vorticoso e tagliente, screaming vocals che vengono inframmezzate qua e là da un cantato epico e folklorico che sembra stemperare per alcuni secondi, quella furia atavica di darkthroniana memoria messa in musica da Archvile. Se "We Are the Virus" segue pedissequamente le trame chitarristiche dell'opener, con "Naked Apes", il musicista lombardo prova quanto meno ad iniziare con un suono più compassato che da lì a pochi secondi, divamperà comunque in un incendiario attacco black. Fortunatamente la song gode di molteplici cambi di tempo che le permettono di staccarsi dal routinario sound ascoltato sin qui. C'è anche una certa parvenza di thrash metal a permeare il brano, che permette di apprezzare meglio il lavoro. Chitarre (melodiche) e voci al vetriolo contraddistinguono invece la successiva "So Close in the Fog". Il sound è veloce, ha un taglio infernale, le vocals sono oscure e le ambientazioni inquietanti, tanto da evocarmi gli Aborym più feroci degli esordi. Ancora un sound più controllato quello che si respira in "Conclave of Fire", lugubre e atmosferica e per certi versi più vicina alle produzioni passate dei Nott. Il nuovo verbo imposto da Archvile al proprio sound deve essere però quello di un black al fulmicotone, scarno e lineare quanto basta; ecco perchè al quinto minuto, si ritorna su ritmi decisamente più tirati, sebbene un'alternanza tra rasoiate e altre più atmosferiche. E se si parla di atmosfera, anche "Earth’s Black Box" deve essere inclusa tra quelle song che la esibiscono almeno per pochi secondi, per poi dar fuoco all'aria con ritmiche sanguinose (e qui anche più sghembe), per poi ripristinare la famosa quiete prima della tempesta con un cantato epico e maestoso. Il disco continua con il medesimo canovaccio con altri due brani, "Culicidae Cult" e "Twelve". Il primo mette in mostra un ipnotico giro di chitarra come matrice ritmica, pertanto una maggiore ricerca atmosferica, che forse alla fine dei conti, lo renderà il mio brano preferito. La seconda, di burzumiana memoria nella parte più evocativa, riprende con un riffing serrato a base di chitarre zanzarose e blast beat. Forse qui risiedono i limiti di questa release, che poco ha da dare in termini di originalità, ma che magari farà la gioia di tutti gli amanti della prima ondata black metal norvegese. Intriganti si, ma credo che in pochi ascolti si esaurirà l'interesse verso questa release, un po' troppo piattina per i miei gusti, nonostante abbia assistito a fine anni '80, alla nascita del black. (Francesco Scarci)

(Schierling Klangkunst - 2022)
Voto: 66

https://schierlingklangkunst.bandcamp.com/album/nott-xx

lunedì 1 maggio 2023

Stormhaven - Blindsight

#PER CHI AMA: Prog Death
Per i fedelissimi del Pozzo dei Dannati, il nome Stormhaven dovrebbe richiamare qualcosa nella vostra memoria. Recensii infatti nel 2019 il precedente lavoro della band francese, 'Liquid Imagery'. Il quartetto di Tolosa torna ora con questo nuovo 'Blindsight', una mazzata in pieno stomaco e una carezza in pieno volto, attraverso sei sole tracce (per oltre un'ora di musica). Il disco si apre con la dirompente "Fracture", e le sue fragorose ritmiche che chiamano in causa ancora una volta i vecchi Opeth in quelle cascate di riff e bordate alla batteria. Lo stesso dicasi del buon Zachary Nadal alla voce, bravo a districarsi tra un growling purulento e clean vocals che evocano anche qui il frontman degli svedesi, Mikael Åkerfeldt. Se ad una prima lettura, quello degli Stormhaven sembra più un "copia-incolla" degli Opeth, beh vorrei dirvi che la struttura dei brani, i cambi di tempo, la tecnica sopraffina, gli assoli, le parti acustiche, le trovate geniali, i cori e molto altro, sparigliano invece le carte, mettendoci in mano un lavoro solidissimo e assai figo. Questo per dire, che alla fine non me ne frega un cazzo se i nostri possono ammiccare più e più volte a quelli che per me un tempo (prima della famigerata sterzata stilistica) erano i maestri del prog death, quanto contenuto in 'Blindsight' infatti sembra raccogliere definitivamente il testimone dai master scandinavi, aggiungerci un tocco dei Ne Obliviscaris, a cui poi aggiungere una buona dose di personalità. Certo, al pari dei colleghi più famosi, anche in questo album troveremo lunghe partiture dissonanti di chitarra (quasi un tributo a 'My Arms, Your Hearse') come potreste ascoltare per lunghi tratti nella più sghemba "Vision", ma poi i nostri sembrano raccappezzarsi in lunghi e splendidi assoli melodici (scuola classic metal) e ottimi cori che rendono il tutto più fruibile anche in quegli spaventosi attacchi al fulmicotone; si ascolti il finale della stessa "Vision" per credere. Più lineare e ritmata "Shadow Walker", che per almeno i primi 120 secondi sembra rispettare i paradigmi del genere, per poi prendere la tangente e dar sfogo alla propria visione di death progressivo che noi non possiamo far altro che apprezzare, ascoltandolo in rigoroso silenzio, fino al nuovo inebriante assolo da urlo che chiude il brano (ma che lavoro stratosferico è stato fatto qui alle sei corde?). In successione arrivano poi "Hellion" e "Salvation", per altri 17 minuti di sonorità in cui gli Stormhaven si muovono in bilico tra prog, death, suoni sperimentali, classic rock, parti acustiche, e che vedono la band dare il meglio di sè, per un'esibizione davvero coinvolgente e avvolgente. Rimane ancora il classico mostro finale da affrontare, ossia gli oltre 24 interminabili minuti di "Dominion", ma chi glielo ha fatto fare a mettere in piedi un tessuto cosi complesso, mi domando? Comunque mi dò in pasto all'ultimo brano (ora capite anche perchè il disco dura 64 minuti), che sin dall'apertura si dimostra ubriacante a livello ritmico con cambi ritmici vertiginosi, sorretti da uno splendida, quanto inatteso, arpeggio di chitarra, mentre un saliscendi chitarristico ci porta diretti sulle montagne russe, con il vocalist che peraltro assume qui contorni più blackish, e i synth sembrano dare un taglio più sinfonico al tutto. Ma il brano è in continua evoluzione, dal black al prog death, a raffinate sonorità più dark rock oriented. Insomma, la tipica ciliegina sulla torta, che porta con sè nuovi suoni, nuove idee, granitici muri sonori, break atmosferici, un'alternanza vocale da paura e molto molto altro, segno dell'enorme maturità tecnico-compositiva raggiunta da questi straordinari musicisti francesi, di cui l'invito a dargli una chance, è ben qualcosa di più che un semplice consiglio. (Francesco Scarci)

Atsuko Chiba - Water, It Feels Like It's Growing

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock
Con un moniker fantastico, mi avvicino con una certa curiosità agli Atsuko Chiba, band originaria del Canada il cui nome sembra derivare dal protagonista di un anime giapponese. ‘Water, It Feels Like It's Growing’ è il loro terzo lavoro che ci delizia con un post rock ritualistico, sperimentale e riflessivo. Almeno questo è quanto testimoniato nella splendida traccia d’apertura, “Sunbath”, che si muove tra atmosfere ipnotiche guidate da un eccellente lavoro di basso e chitarre e dalla gentile ugola del frontman. Echi di Tool, Lingua e A Perfect Circle si coniugano in questo primo splendido pezzo che ci accompagna a “So Much For”, song alquanto imprevedibile per quel che concerne una musicalità in bilico tra prog rock, alternative, math e suoni sperimentali che sembrano scomodare addirittura i The Mars Volta, mentre la voce sembra aver perso qui quella morbidezza che avevo apprezzato nell’opener, per una versione più in linea con la band australiana e anche con Mike Patton. La traccia, per quanto dotata di una certa dose di originalità, devo ammettere non mi faccia del tutto impazzire. Molto meglio la successiva “Shook (I’m Often)”, più dotati di ritmi compassati e di una buona base melodica su cui poggia la meritevole voce del cantante canadese che si conferma ad altissimi livelli anche nella successiva “Seeds”, meravigliosa, con quei suoi ritmi pulsanti e synth che donano al pezzo un certo spessore, complice peraltro l’utilizzo di violino e violoncello nel break centrale del brano. Quando gli Atsuko Chiba provano a uscire dagli schemi per voler strafare, perdono un po’ della loro magia, leggasi la prova di “Link”, un pezzo che risente di una certa vena post punk sperimentale che tuttavia non riesce a sfondare, complice ancora una volta un utilizzo più alternativo e meno suadente del cantato che sembra snaturare il sound dei nostri. In chiusura, ecco la title track, un connubio tra psych blues post rock dalla verve pink floydiana che ci lascia con uno splendido assolo che sottolinea, ancora una volta, la classe e l’eleganza che permea questi straordinari musicisti. (Francesco Scarci)

(Mothland – 2023)
Voto: 75
 

sabato 29 aprile 2023

Blind Ride - Paranoid-Critical Method

#PER CHI AMA: Garage Rock/Post Punk
Per Dalí, la rielaborazione razionale delle conseguenze della paranoia, ovvero le delusioni, le allucinazioni e il delirio, rappresentano il processo critico, concetto sul quale poggia la nascita del disco di debutto dei molisani Blind Ride, ‘Paranoid-Critical Method’, che esce tre anni dopo l’EP ‘Too Fast for a Sick Dog’ che ci aveva fatto conoscere la band italica. Ora il terzetto torna più in forma che mai con un sound scontroso ma atmosferico, pesante ma vellutato, il tutto certificato dall’apertura affidata a “Surrogate of a Dream” che mi conquista immediatamente con quella sua matrice ossessiva che sembra coniugare dissonante post punk e garage rock. Il post punk esplode forte anche nella successiva distorsiva “Relationship Goals”, un pezzo che per certi versi mi ha evocato lo spettro dei Fountains D.C. che vanta peraltro un fantastico lavoro alle chitarre nel finale. “For You” ci prende a schiaffi con un groviglio di riff marci quanto basta per catapultarci indietro nel tempo di una trentina d’anni (chi ha detto Sonic Youth?), con la voce di Marco Franceschelli a mandare a fare in culo il mondo intero. “Holy Arrogance” è un manifesto contro le guerre fatte in nome della religione, che si muove su una ritmica piuttosto lineare e che mostra un buon lavoro alle percussioni, al pari di quello delle chitarre. Con “Numbers” ci si muove nei paraggi di uno psych rock compassato, melodico ed ispirato, tale da renderla anche la mia traccia preferita del disco. È decisamente in questa veste più raffinata ed elegante che preferisco infatti i Blind Ride, anche se devo ammettere che il loro fare “arrogante” non mi dispiaccia affatto, come testimoniato nelle chitarre sghembe di “Corporate Rock” e nelle sue lugubri atmosfere dark punk di primi anni ’80. Una modalità che sembra ripetersi anche nella tribalità stoner psych rock di “Stranger to My Eyes”. A decretare la fine dei giochi ci pensa la frenesia pulsante acid rock della strumentale “A Song Without Words”, che sottolinea la capacità dei Blind Ride nel districarsi positivamente in territori musicali battuti e strabattuti. Bravi! (Francesco Scarci)

Khanate - S/t

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Doom/Drone
Ammetto di non sapere assolutamente nulla riguardo questa band newyorkese, cosi come devo ammettere che la copertina non mi ispirasse molto, ed invece mi sono ricreduto dopo aver ascoltato almeno quattro o cinque minuti della prima lunghissima song, "Pieces of Quiet". Mi ci sono voluti almeno cinque minuti di ascolto perché non sapevo se la band stesse scherzando oppure no, visto l'ultra slow doom proposto, cosi come tradizione vuole. Chitarre distorte e pesanti, tempi al limite dell’ossessione, a tratti sembra anche molto stoner, ma questo è doom metal, e poi, la cosa che mi ha colpito di più, la voce, stridula e gracchiante, sembra che gli stessero strappando le corde vocali. Questi erano i Khanate (oggi ormai scioltisi), che si pronuncia CON-EIGHT, che erano formati da membri di OLD e BURNING WITCH, e cosa volete di più.

(Southern Lord Recordings - 2001)
Voto: 70

https://www.metal-archives.com/bands/Khanate/


Les Dunes - S/t

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
Come evolvono a volte le cose. La Norvegia, patria natia del black metal, ora è fucina infinita di talenti che si muovono in un sottobosco brulicante di eleganti sonorità post, prog e symph rock che ci hanno permesso ultimamente di perlustrare in lungo e in largo il territorio scandinavo. Oggi mi fermo a Haugesund, piccolo paesino nella contea di Rogaland, luogo da cui provengono questi Les Dunes. Anche qui, che cambiamento: una volta s’incensava la lingua degli antenati vichinghi, oggi si utilizza addirittura la lingua di altre nazioni. I Les Dunes non sono poi gli ultimi arrivati, visto che tra le proprie fila, inglobano membri di The Low Frequency in Stereo, Lumen Drones, Helldorado, Undergrunnen e Action & Tension & Space, che in questo album autointitolato, sciorinano otto pezzi strumentali condensanti post rock dai tratti dilatati, malinconici e meditabondi, che potrebbero evocare le sonorità intimiste di act quali Explosions in the Sky o addirittura Sigur Rós, laddove il trio si lancia in partiture più ambient (“Keisarholi”). Un approccio cosi tranquillo, che sfiora lo slowcore degli anni ’90, fatto di chitarre in tremolo picking, melodie soffuse (“Spectral Lanes”) e suoni minimalisti, ha però pregi e tanti difetti: nei primi collocherei una sana voglia di abbandonarsi ad un mondo sognante, tra i difetti, il fatto che dopo sole quattro canzoni non ne posso davvero più di andar oltre, inducendomi a slittare la finalizzazione della mia recensione il giorno seguente. L’effetto però si è rivelato il medesimo, con quello stesso desiderio di skippare al brano successivo e poi ancora avanti, perché dopo un po’, l’ascolto diventa dilaniante, noioso (“Zosima”), nonostante la band sia comunque composta da ottimi musicisti. Il fatto che rimane è che dopo un po’ non se ne può più, sebbene qualche buon spunto sia anche riscontrabile nel disco, ma forse qui più che altrove, l’assenza di un vocalist si fa sentire più che mai. In definitiva, ‘Les Dunes’ è un disco che mi sento di consigliare a chi non può proprio fare a meno della dose quotidiana di post rock strumentale, tutti gli altri si astengano se non vogliono ritrovarsi con un cappio al collo dopo pochi minuti. (Francesco Scarci)

(Kapitän Platte – 2023)
Voto: 60

https://lesdunes.bandcamp.com/album/les-dunes

Suffocation - Blood Oath

#FOR FANS OF: Brutal Death
Downright abrasive to the ear lobes! What a masterpiece, I cannot say what a riff that's been played on here that was in an ill place or poorly played. All seemed to fall into place perfectly. Vocals are top-notch as well! They're compliment the dark death metal that goes alongside it. The leads were immaculate, too. I believe this was one of the last LP's that's with Frank Mullen on vocals. I think he did a couple more until he hung it up with Suffocation. What a tragedy, as well. He was one of the driving forces for the band and always had been. Well, hold on tight to these vocals here and embrace the music!

The majority of the music on here is downright brutal riffs. Along with Frank's vocals the music just tears it up. Tempos vary from a blitzkrieg of fury to moderate to slower, but technical riffs. All in all, this is an abomination of soul in the dark feeling of despair. Their earlier material shows more disruption into faster flowing riffs. On here, they pretty much shoot on all fronts of metal. That's what makes this release so likable. You'll find that they flow more freely in the realm of slower riffs with the drums backing up the guitars gruntingly. And the lead guitars are all so very technical in flowing.

Frank leads the way though on this album, he belts out his grunting and the music follows his lead quite solemnly. The band does a great job collectively. Again, it's a slower paced Suffocation release, but it's still magnificent in composition. The sound quality is top notch and you can hear everything pieced together. That's what lacked in their earlier recordings...the production was lacking in good sound but on here it's top notch. Everything seems to flow together and all instruments/vocals share triumphant bits of music throughout. I think this is one of my favorite ones ABSOLUTELY!

I heard this on Spotify first off and decided that I needed the CD itself. That's how highly I esteem this release. It goes from death metal to brutal death metal to doom metal all in one release. There just is a lot of fluctuation on here which makes it so versatile! It's a bit under an hour of great metal! If you think otherwise when you hear this, I would be appalled. This album just dominates through and through. It's a somewhat different Suffocation release in that the production is better but the music is more chargingly dismantled. From every avenue this release topples it all! Check it out! (Death8699)


(Nuclear Blast - 2009)
Score: 85

https://www.facebook.com/suffocation/

Magnify the Sound - Don’t Give Us that Face

#PER CHI AMA: Suoni Sperimentali
Non certo una passeggiata la recensione del duo norvegese che risponde al nome di Magnify the Sound, una band in giro ormai dal 2010, ma di cui francamente non avevo mai sentito parlare, se non fosse che uno dei membri fondatori è Trond Engum che a suo tempo fondò pure i The 3rd and the Mortal e i The Soundbyte, il che aumenta a dismisura la mia curiosità. Escono con un nuovo album quindi, e ‘Don’t Give Us that Face’ sembra essere di primo acchito un esercizio di improvvisazione musicale che esplode potente nelle nostre orecchie (io l’ho ascoltato con la cuffia ed è stata una figata). Quello che deve essere immediatamente chiaro è che verremo sommersi da 40 minuti di suoni unici, affidati a chitarre, a una batteria pazzesca (a cura del jazzista Carl Haakon Waadeland) e all’elettronica, il tutto ideato come una sorta di jam session catartica proiettata nell’universo, un po’ alla stregua dei suoni della sonda Voyager I che inglobavano quelli naturali (le onde del mare o il vento), quelli prodotti dagli animali, come il canto degli uccelli e le balene, cosi come pure percussioni senegalesi o musiche di Bach, Chuck Berry o Mozart. Ecco, se avete avuto modo di ascoltare quel disco d’oro inserito nella famosissima sonda lanciata nello spazio infinito, e poi vi approccerete a questo 'Don’t Give Us that Face', le sensazioni sovrannaturali che sperimenterete potrebbero essere alquanto similari. Difficile parlarvi quindi di un brano piuttosto che di un altro, il flusso sonoro deve essere gustato tutto d’un fiato dall’inizio alla fine, liberi da ogni pregiudizio di sorta, e poi anche voi sarete pronti a contemplare l’infinito dello spazio profondo, ve lo posso garantire. (Francesco Scarci)

(Crispin Glover Records – 2023)
Voto: 74

https://facebook.com/MagnifyTheSound


The Pit Tips

Francesco Scarci

Dødheimsgard - Black Medium Current
Great Cold Emptiness - Immaculate Hearts Will Triumph
Lost in Kiev - Rupture

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Death8699

Arch Enemy - Deceivers
Megadeth - The Sick...The Dying and the Dead
Metallica - 72 Seasons

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Alain González Artola

Soul Dissolution - SORA
Downfall of Gaia - Silhouettes of Disgust
Vintertodt - Under Endless Invented Night

 

giovedì 27 aprile 2023

Svntax Error - The Vanishing Existence

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock
Era da un po’ che non avevo dischi della Bird’s Robe Records da recensire, ci pensavo qualche giorno fa, eccomi accontentato. A giungermi in soccorso in questa mia richiesta, ecco arrivare i Svntax Error, band australiana che rilascia questo ‘The Vanishing Existence’ a distanza di quattro anni dal precedente ‘Message’. La proposta, come potrete intuire dall’etichetta discografica, è un fluido post rock (semi)strumentale come solo la Label di Sydney sa offrire. Dico fluido perché è la prima sensazione che ho fatto mia durante l’ascolto della traccia d’apertura “Radio Silence”, timida, psichedelica, quasi ipnotica, a cui si aggiunge poi quell’ipnotismo claustrofobico intimista della seconda “Broken Nightmares”, che vede peraltro comparire la voce di Ben Aylward in un pezzo dai forti brividi lungo la schiena, un vellutato manto di dolce malinconia che fa allineare i miei chakra a quelli dei musicisti originari di Sydney. “215 Days” è ancora imbevuta di note di velluto, flebili e morbide come la famosa copertina di Linus, un porto sicuro, un abbraccio della persona amata, un posto dove piangere, riflettere o rilassarsi. “Circular Argument” è invece un pezzo più da lounge bar, di quelli dove un riff o un giro di chitarra si fissa nel cervello e da li non si muove; nel medesimo brano ritorna anche la voce del frontman a confortarci con la sua ugola gentile. Esperimento che si ripeterà anche nella percussiva, arrembante e ben riuscita “Relentless”, un brano che mi ha in questo caso richiamato gli Archive più sperimentali, e nella conclusiva “Backwards Through the Storm”, in una sorta di tributo ai Tool. La title track si affida ad un post rock strumentale cupo e dal flavour notturno, che nella sua crescente dinamicità, potrebbe addirittura evocare un che dei Pink Floyd. Ultima menzione per “Kelvin Waves Goodbye”, con i sentori pink floydiani che si coniugano alla perfezione con gli estetismi shoegaze dei Mogwai, ma dove a prendersi tutta la scena, è in realtà lo spettacolare suono del theremin di Matthew Syres. Provare per credere il crescendo di un brano di una portata spettacolare, unico ed epico, che vi invito decisamente a supportare. (Francesco Scarci)

mercoledì 26 aprile 2023

Karnak - Melodies of Sperm Composed

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Techno Death
La band in questione nasce come Subtraction nel ’93 con una line-up differente; dopo cambi di formazione, di monicker, correzioni di stile, tre demo tape, un mini cd ed un cd, giungono a questo lavoro intitolato 'Melodies of Sperm Composed'. Non avevo mai ascoltato nulla di questa band e non immaginavo che in Italia esistesse un gruppo del genere! Infatti il sound del gruppo è composto da una personale e strabigliante miscela di death metal ipertecnico dal gran gusto compositivo e dalla grande varietà di idee ove ogni musicista dà l’impossibile ed ogni secondo di ascolto si rivela una sorpresa! Questi quattro matti sono irraggiungibili ma il più malato è probabilmente Gabriele Pala: le sue parti di chitarra sono folli e quelle di tastiera sono macabre, morbose, deviate, allucinanti, squilibrate, originalissime e totalmente fuori dall’ordinario! Questo gruppo insegna qui a come usare la tecnica come mezzo e non come fine, e spaccando pure il culo! Insomma, immaginate un disco che comprenda l’influeza di Meshuggah, Arcturus, Death, Nocturnus, Pestilence, Voivod, Cynic e compagnia bella, non era questo che stavate aspettando? Le liriche di questo disco parlano poi di malatissime perversioni e visioni di assassini ormai completamente estraniati dal mondo e probabilmente lo è anche chi le ha scritte! La stravaganza delle parti musicali calza perfettamente con le incredibli nefandezze raccontate dai testi. L’artwork è curato e a tema. La produzione è buona e il fatto che il disco sia stato registrato in soli quattro giorni, conferma l’eccelsa abilità dei componenti di questo magistrale gruppo. Ottimo lavoro.

(The Twelfth Planet Records - 2001)
Voto: 80

https://www.facebook.com/karnak.death/

Fiesta Alba - S/t

#PER CHI AMA: Alternative/Math Rock
Se cercate qualcosa che possa alterare i vostri sensi con sonorità stravaganti, oggi potreste essere nel posto giusto. Si perché questi Fiesta Alba provano a ridare un po’ di vitalità ad una miscela di suoni stralunati che sembrano pescare qua e là indistintamente da funk (alla Primus), post punk, math rock, alternative e sperimentazioni varie. Tutto chiaro no? Per me francamente non è stato proprio così semplice, visto che ho dovuto ascoltare e riascoltare l'ipnotico trip iniziale affidato a “Laundry” diverse volte. Eppure, ho vinto le mie paure e mi sono lasciato sedurre da quel sound sperimentale, contaminato da un certo percussionismo etnico, dall’elettronica, dal funk e appunto dal post punk (prettamente a livello vocale, ove segnalerei la comparsata del primo ospite dell’album, Nicholas Welle Angeletti). Più si avanza nell’ascolto e più diventa complicato per uno come me abituato a pane e black/death metal. In “Juicy Lips” vengo addirittura inglobato in una spirale dub, in cui i suoni si ripetono in un inquietante moto circolare con un cantato, ad opera della guest The Brooklyn Guy, che sbanda pericolosamente nel rap, mentre quel che rimane delle chitarre (qui sommerse da un massivo lavoro elettronico), vaga per cazzi propri in caleidoscopici universi paralleli, di cui ignoravo l’esistenza. Un turbinio sonoro che evolve in un chitarrismo dissonante nella successiva “Dem Say”, che sembra consengnarci un'altra band, in grado qui di condurci nel cuore dell’Africa nera, grazie ad un’effettistica mai ingombrante, ma che comunque ci distrae da tutto quello di folle che va comunque palesandosi nel corso di questo brano, con una voce (il featuring è qui del nigeriano Kylo Osprey) che narra di favole sulla madre di tutte le terre mentre un virtuosismo chitarristico da paura (in tremolo picking) gioca con le note in sottofondo. “Burkina Phase” combina splendide e ariose chitarre all’elettronica, in un incastro di suoni ricercati, mentre una flebile voce (Thomas Sankara) estratta dal “Summit Panafricano, 1987”, sembra gridare il suo desiderio di libertà verso il neocolonialismo. Il movimento funky richiama anche in questo caso l’estetica freak e zappiana dei Primus, l’elettronica evoca il kraut rock germanico, ma quel sax in bella mostra emana vorticose emozioni jazz. La chiusura del disco è affidata a “Octagon”, un pezzo elettronico, un battito del cuore, un ossessivo agglomerato di suoni che sancisce la genialità di questo misterioso ensemble formato da quattro lottatori mascherati, Octagon, Pyerroth, Fishman e Dos Caras, che sapranno assoldarvi nella loro lotta contro il conformismo della società contemporanea. Io sono pronto ad unirmi alla sommossa popolare dei Fiesta Alba e voi? (Francesco Scarci)

(Neontoaster Multimedia Dept – 2023)
Voto: 75

https://fiestaalba.bandcamp.com/album/fiesta-alba

martedì 25 aprile 2023

Wintarnaht - Anþjaz

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Formatisi originariamente col moniker Winternight e come one man band capitanata dal bardo Grimwald (che sta dietro anche a band quali Dauþuz e Isgalder, oltre ad essere un ex di molte altre), il buon mastermind ha poi tradotto il proprio nome nella forma germanica più arcaica, ossia Wintarnaht, proponendo una commistione di suoni epic black pagani in questo lavoro intitolato ‘Anþjaz’. La classica intro atmosferica e poi via alle epiche battaglie già dalla title track di questo quinto album della band della Turingia. Se la copertina del cd lasciava presagire un prodotto scarno e forse mal registrato, in realtà ho trovato i contenuti di ‘Anþjaz’ al pari dei primi brillanti lavori dei Menhir (fatalità anche loro della Turingia, quasi ci fosse un magico sottobosco in quella zona di foreste della Germania) in grado di quindi di sciorinare un pomposo concentrato di black ispiratissimo che si muove tra arcaiche melodie, cori folklorici e galoppate di black furente, che trova però spesso e volentieri rallentamenti atmosferici che rendono il tutto decisamente più gustoso e appetibile (ascoltatevi “Wint Zuo Storm” per meglio comprendere il flusso musicale del factotum teutonico). “Regangrâo” è un bell’intermezzo acustico che ci conduce alla devastante “Haimaerþa”, una scheggia impazzita di black grondante odio nelle sue ritmiche infuocate e nel growling/screaming efferato del frontman. Grimwald picchia sicuramente come un fabbro, ma stempera l’irruenza del black con i suoi intermezzi folk con tanto di cori, che per certi versi mi hanno evocato gli Isengard. Nella lunga e tenebrosa “Untar þe Germinâri Mâno”, il black si sporca di sonorità doom che vedono in splendide aperture chitarristiche, tiepidi squarci di luce, cosi come pure il cantato pulito rende tutto evocativo, al pari di un basso che macina lugubri suoni in sottofondo. Ancora un break strumentale e poi arrivano le ultime due tracce, di cui vorrei sottolineare la vivacità di “Staingrab in þe Morganbrâdam”, ove ho la sensazione di captare tracce di Absu nelle sue linee di chitarra che nel finale, si sbizzarriscono in una ritmica impetuosa e devastante, diluita solo dal lavoro delle tastiere e dai molteplici cambi di tempo e coro. In chiusura, “Ûzfaran” sembra nascere dalla chitarra di un impavido menestrello, per poi evolvere in una sorta di rituale sciamanico che chiude alla grande un lavoro a cui francamente non avrei dato un euro e che invece ha saputo conquistarmi per i suoi interessanti contenuti. Ben fatto. (Francesco Scarci)

Zagara - Duat

#PER CHI AMA: Alternative Rock
L'ascolto di questo album mi lascia più di un punto di domanda. La band torinese, alla sua seconda uscita discografica, parte molto bene, e fino al quarto brano, "Apophis", strumentale e sperimentale in senso electro ambient rumorista, si comporta in modo degno di lode, curando testi e artwork in maniera ottimale. Le idee su cui imbastiscono il loro scopo sonoro sono attraenti, tra cantato e sfumature melodiche che raccolgono frammenti di prog rock italico dei mitici anni '70 miscelato a un alternative sound capitanato da una distorsione zanzarosa, esplosiva e accattivante, che espande l'idea di trovarsi di fronte ad una band assai originale, con richiami alla new wave degli '80 di Faust'o e Denovo, cosi come pure trapela una dose di passione per l'electro rock e l'elettronica nazionale moderna. Il tutto lascia sperare in un piccolo miracolo dei giorni nostri, visto come ce la passiamo per via di musica cantata in lingua madre in Italia. "Maat", "Quello che ha un Peso", "Se ha Fame" e appunto "Apophis", hanno questo sentore, se poi ci si aggiunge quel giusto pizzico di alternative rock emotivo, di vecchia scuola Afterhours o Verdena, senza difficoltà, ci si rende subito conto che i primi quattro brani diventano molto piacevoli. Questa sensazione purtroppo, viene a decadere nei successivi brani, dove l'ispirazione sembra attenuarsi per aprirsi a strade, per così dire più consone allo standard commerciale italico. Intendiamoci, l'album è ben fatto e ben prodotto, la band suona bene e quello che fa, lo fa bene, ma quando cade la tensione e si opta per aperture pop rock, dalla dubbia intuizione compositiva, sulla falsariga dei Coldplay di recente ascolto ("Pezzi di Ossa"), oppure, si crolla crudelmente in uno stile sanremese ("lluminami"), che crea una voragine tra i primi quattro brani e i successivi tre, bisogna prendere atto di un certo sconforto musicale. E se "Illuminami" dicevo potrebbe partecipare e vincere tranquillamente la kermesse ligure, "Amnesia", finalmente, risolleva la verve dei Zagara e si riappropria un po' di quel coraggio sperimentale presente all'inizio del disco. "Sole e Limo" parte un po' in sordina, ma ha un bellissimo finale, estremamente distorto, che compensa un'evoluzione abbastanza piatta. La chiusura è affidata a quello che probabilmente è il brano più intenso del disco, "Lago", che con coraggio, unisce ritmica post rock ad un cantato/recitato ad effetto, in un'atmosfera surreale e drammatica, con delle sospensioni temporali di scuola floydiana, miste ad aperture ed evoluzioni teatrali veramente intriganti. Un brano, a mio avviso, che può, e deve dare, la direzione artistica futura di questa band, che sembra non aver ancora trovato la sua vera identità, ma che ha tutte le carte in regola per divenire un qualcosa di veramente originale nel panorama italiano. Rimaniamo in paziente attesa. (Bob Stoner)

(Overdub Recordings - 2022)
Voto: 69

https://zagara.bandcamp.com/album/duat

Drakon - П​р​о​б​у​ж​д​е​н​и​е (Awakening)

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Mi fa piacere poter constatare che nonostante gli strascichi della guerra, arrivino nella mia cassetta della posta, ancora cd dalla Russia. Sapete come la penso, per me la musica non ha confini, non ha colori, nè bandiere. Quindi il mio giudizio sui Drakon e sul loro lavoro ‘П​р​о​б​у​ж​д​е​н​и​е’ (‘Awakening’ in inglese) è libero da ogni forma di pregiudizio. Concentriamoci quindi su quello che è a tutti gli effetti il disco di debutto del duo di Chelyabinsk (che conta anche tre EP all’attivo) e su sonorità che sin dall’iniziale “Closedness of Forest Darkness” mi hanno evocato i fasti degli Emperor. Ecco, avrete già inquadrato la musica dei nostri che peraltro includono in formazione anche il vocalist Demether Grail, un vagabondo del metal che abbiamo già incontrato nei Lunae Ortus, negli Shallow Rivers, negli Skylord e negli Arcanorum Astrum, giusto per citare le esperienze più significative. Tornando alla musica, il disco include sette song che sono fondamentalmente un inno al black metal old fashion di metà anni ’90, “sporcato” di una leggera vena melodica che rende sicuramente di più facile approccio l’ascolto di questo disco. Infatti anche la seconda “In the Gloomy Feuding” (userò i titoli in inglese forniti dalla band per facilitarne la memorizzazione) parte sparata alla velocità della luce, con ritmiche vertiginose, chitarre in tremolo picking e le classiche screaming vocals, come andava di moda negli anni d’oro del black norvegese, per poi trovare un delizioso break centrale che ne attutisce toni e velocità. L’incipit di “Lunar Path” è cupo e successivamente frastornante a livello ritmico, con una batteria che sferra colpi alla stregua di una mitragliatrice M60 e con la voce del frontman, che esce come proiettili da quello strumento infernale. Fortunatamente, un break atmosferico rende l’aria appena più respirabile, ma ben presto la band ripartirà da ritmi infuocati e acidi vocalizzi. Ecco, diciamo niente di nuovo dal fronte orientale. La proposta dei Drakon va ad appiattire una scena sempre più povera di proposte originali, anche se vorrei sottolineare che quella dei due musicisti russi non è assolutamente una prova da bocciare. Anzi, qualcosa di buono si sente, soprattutto nella più compassata e melodica “In the Murk of Night”, ma il messaggio che deve passare chiaro qui, è che non c’è una sola nota in questo disco che possa dirsi dotato di una certa personalità. Per quanto mi riguarda, i Drakon hanno preso il testimone da alcune realtà norvegesi di 30 anni fa e stanno provando semplicemente a portarne avanti il verbo con risultati accettabili. Un paio di menzioni prima di chiudere vanno all’acuminatissimo riffing di “Above All” e all’epica robustezza di “Ode to North”, quest’ultimo forse l’episodio meglio riuscito di ‘Awakening’, che vanta peraltro un notevole assolo a cura di tal Pavel Sochev, personaggio esterno alla band, cosi come il bassista Vadim Basov e il batterista Vyacheslav Popov. Per concludere, ‘Awakening’ è un lavoro indicato a chi ha amato il black norvegese e ancor oggi insegue i fasti di un genere che sembra non essere più in grado di uscire dalle sabbie mobili della propria storia. (Francesco Scarci)

(Soundage Productions – 2022)
Voto: 64

https://drakonblackmetal.bandcamp.com/album/-

venerdì 21 aprile 2023

Carnival in Coal - Fear Not

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Avantgarde Death/Grind
Skizzati! È la prima cosa che mi è venuta in mente ascoltando il terzo album di questi due francesi attivi dal 1995. La Season of Mist li descriveva come se i Morbid Angel avessero una overdose di Mr Bungle. Beh, anche se dei Morbid Angel non se ne sente granchè e i Mr Bungle non li conosco (ma so cosa posso apettarmi dal leader dei Faith No More), mai messaggio promozionale fu più azzeccato. Per farvi capire la stravaganza dei Carnival in Coal mi vengono in mente solo i Solefald di 'Neonism', anche se dei Solefald solo in pochi momenti si riscontrano le sonorità e la genialità. Le composizioni dei due francesi sono meno fluide e un po’ troppo eterogenee; d'altronde come coniugare violentissimi stacchi grind con musichette da gameboy come in "Daaahhh!!", o brani brutal death con basi Disco Music anni '70 come in "1308.JP.08*"? Gli episodi migliori sono quelli in cui uniscono la furia del brutal con ritornelli funky rock come in "Yes, We Have no Bananas" e "Don’t be Happy, Worry!". Già dai titoli potete capire lo stato d’animo del disco ma non pensiate che i C.I.C. non facciano sul serio, nulla è lasciato al caso, sono precisi e la registrazione è ottima. Certo è un album molto difficile o, meglio, è difficile digerire un tale miscuglio di generi e sonorità ma a me è piaciuto molto.

(Season of Mist - 2001)
Voto: 75

https://www.facebook.com/CinCofficial

Deicide - In Torment In Hell

#PER CHI AMA: Death Metal
Upon first hearing this, I think it's one of Deicide's worst albums with the Hoffman brothers. I thought 'Insineratehymn' was pretty generic despite my high score upon a few listens to. The newer generation of Deicide is pretty bad, 'The Stench of Redemption' I marked pretty poorly but in retrospect that was a decent album with Ralph Santolla (RIP) and Jack Owen. But 'In Torment In Hell' I still like, I just think it's really sloppy and uncreative. They kind of pulled a 'Serpents of the Light' intro with the title-track but it's just turned into their own riff. They're pretty careless on here and left their creative juices behind.

I like the intro, but overall the music just sucks. They didn't offer much in airing 31 minutes of shit metal. I'm not sure if they had their contract up with Roadrunner or what. A totally thoughtless release which had many fans (including me) disappointed. How can they take a break and make up for this. With 'Scars of the Crucifix'? I don't know, maybe. But the Hoffman brothers legacy is over onto the next generation (which it has been) of Deicide. I'll always appreciate the first 4 releases from this band. But talk about getting lazy! That's exactly what they did here and their previous (as I noted).

Nothing on here is worth getting excited over. You would think a band would progress over the years and not the reverse of that. But they just show you that they just suck on this album. It doesn't matter what track you pick, they're all equally worthless. I actually went ahead and ordered this on eBay hoping that some day I'll appreciate this album. Listening to it on headphones has me keyed into all the flaws with it that I don't want to do. They used to be an inspiring death metal band with riffs that were supercharged and creative. I guess that they just didn't want to continue their career making quality material.

I heard this on Spotify with disbelief. What happened!! This average score was 45% and hell my score is right about there too! I wouldn't say to buy this even if you are a Deicide fan. I did, but with much reluctance. Putrid as hell, what a major dud! There's nothing on here worth mentioned maybe check out the title-track, "Vengeance is Mine" and "Christ Don't Care." Then you'll get an idea of what to expect. They're still death metal, just at their worst. I don't want to turn you off from being a fan of the band it's just that when music sucks, something has to be said why or what happened that made it that way. Beware! (Death8699)


(Roadrunner - 2001)
Score: 45

https://www.facebook.com/OfficialDeicide/

At the Altar of the Horned God - Heart of Silence

#FOR FANS OF: Experimental Ritualistic Black
Founded only three years ago, the Spanish solo project At the Altar of the Horned God, whose leader Heolstor is a quite active musician in the Spanish underground scene, has managed to release two rather interesting efforts. Heolstor has been involved in excellent projects like Nazgul or Cyhriaeth, whose only full lengths are strongly recommendable. I guess that this background alongside the inherent quality of his first album was more than enough for a well-stablished label like I, Voidhanger Records to sign a contract with him. The first effort, entitled 'Through Doors of Moonlight' was a good starting point, so it was interesting to see what this project could offer with the always crucial sophomore album.

At the Altar of the Horned God’s music is a quite personal approach to a combination of black metal and ritual music. This later influence is a remarkably defining one of how this project sounds, and the new effort 'Heart of Silence' is well-achieved example of this mixture. The rawness and atmosphere are very nicely combined and Heolstor’s vocal approach also adapts itself to the difference influences, intensities and how each composition works. The album contains eight songs, and the listener will be able to appreciate the different nuances and touches that enrich this project’s music. The album opener "Listen" differs from the typically opening for a black metal album, with these whispering vocals and ritualistic drums. The vocals remind me for sure some goth and dark metal bands, which I think it is a quite appropriate inspirational source. The song gains in intensity with the guitars and some more aggressive vocals, but always accompanied with certain atmospheric arrangements that enhance the mysterious atmosphere that every ritual-influenced band should have. The introduction of "Closing Circle" follows similar patters with this captivating atmosphere and the use of clean vocals, that differ from the classic black metal bands. This project is for sure none of them, and I personally consider that this sort of voices is very necessary to create the aforementioned occult ambience. In any case, aggressiveness has its room in tracks like "Heart of Silence" or "Anointed With Fire", among others, where the guitar riffing is more powerful and some faster sections are included. Typically, black metal screams are also used, but never left completely behind the cleaner vocals which are always introduced at the appropriate time and with a good taste. The ups and downs in the intensity are well distributed throughout the album, as you usually find a more aggressive song like the mentioned "Anointed With Fire", followed by a more atmospheric track like "God is in the Rain", which is a nice contract to make the album sound diverse and interesting.

In conclusion, 'Heart of Silence' is a very enjoyable and personal album. The combination of black metal with a strong occult essence is very well accomplished. The songs sound diverse, but coherent, and the contrast between the expected aggression and much more atmospheric parts is really good. It indeed requires some mind openness to enjoy the generous use of clean vocals, but I am quite confident that the way they sound will convince the reluctant listener. (Alain González Artola)

(I, Voidhanger Records - 2023)
Score: 80

giovedì 20 aprile 2023

Astimi - TrinaCapronuM

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Brutal Death
Dopo due demo ('Opus I' e 'Opus II') di black metal piuttosto vario, atmosferico, suggestivo e caratterizzato anche da linee melodiche dell’ormai tipico "Mediterranean Scene Sound", gli Astimi arrivano al debut album con una rinnovata line-up (Agghiastru alla voce, alla chitarra e alla programmazione delle parti di batteria, 3 alla chitarra e al synth, Fantasma al basso) ed un differente stile musicale. Gli Astimi del 2001 propongono del brutal death di classica matrice americana in cui vengono ben amalgamate tra loro parti sparatissime ed altre più cadenzate ma mai troppo lente. È quindi un classico disco del genere in questione che comunque sa farsi apprezzare per la rabbia e la foga con cui è stato concepito e che efficacemente trasmette, anche grazie a dei testi che, con parole dure e sprezzanti, attaccano l’ipocrisia e la falsità del cristianesimo. La produzione è sino ad ora la migliore delle Inch Productions: le chitarre suonano abbastanza spesse ma la batteria poteva rendere maggiormente con dei suoni migliori; la voce, per cadenza e timbro, ricorda un po’ quella di Glen Benton. L’artwork (come per ogni produzione Inch Prod.) è assai curato, ad effetto e stravagante… Cristu Crastu!!!

Mogwli - Gueule De Boa

#PER CHI AMA: Jazz/Rock
Jazz, elettro jazz, acid jazz, classic jazz, improvvisazione, c'è proprio di tutto nel nuovo album del trio francese Mogwli, un exploit di colori e musica per un disco strumentale, sofisticato e dinamico, pieno di virtuosismi e congetture ritmiche singolari, alla maniera intricata dei Battles. Supportati da batteria, fiati e tastiere (le chitarre non sono ammesse in questo gioco di suoni), i Mogwli si sbizzarriscono nel ripercorrere e deformare teorie e strade di tanti generi e stili musicali diversi tra loro. Il sound è moderno, carico, con quel tocco cool alla The Smile, ed anche se qui, il jazz la fa sempre da padrone, sebbene possiamo parlare tranquillamente di trame ed intermezzi che guardano al progressive rock più eclettico ed istrionico, senza però perdere quel sound alternativo, che per tutto il disco ti rimanda, a volte nel mondo elettronico, sintetico e cosmico delle produzioni della Ultimae Records, a volte tra le follie compositive degli Art Zoyd, in altre occasioni si crede di aver a che fare con un presunto nipote di Edgar Varese, schizofrenico, volgarmente innamorato delle bizzarrie dei sopracitati Battles, con il gusto compositivo che distingueva i Medeski, Martin e Wood negli anni '90/2000. Quindi, momenti frenetici s'intrecciano a forme più contratte e sperimentali, oppure melodiche e armoniche, a volte il lato percussivo prende il sopravvento, per poi lasciar spazio ad un classicismo che è lontanissimo dal sound precedente, che improvvisamente cambia direzione verso una techno elettronica imitata perfettamente dai tre, senza campionatori o aggeggi simili. Insomma, stiamo cercando il bandolo della matassa, ma non lo troveremo, e i cambi di tempo spettacolari di "Lèviathan" non ci aiuteranno proprio ad identificare questa creatura sonora. In realtà il disco ha un sound veramente originale ed è ben costruito e ben prodotto, non ha una singola direzione sicura, tutto può accadere, nota dopo nota, canzone dopo canzone, un continuo esternare teorie sonore e ritmiche, messe in atto da tre superbi musicisti (basti guardare il video live - Mowgli, Murkiness. Festival JAZZ360 2019 - che trovate in rete per capire di che pasta sono fatti). Potremmo cercare di definirlo etichettandolo fusion/jazz/rock, ma ancora ci sarebbe da obiettare, perchè, in effetti, 'Gueule De Boa', letteralmente testa di serpente, che nasconde un po' anche il significato di postumo di una sbornia, ha l'onore di essere una vera e propria jungla sonora, che farà molto piacere agli amanti dell'avanguardia e del jazz meno ortodosso. Brani come "Dario", "Bicouic Orbidède" e "Sauge d'une Nuit d'ètè", dettano legge, ma tutto il disco risulta imprevedibile e godibilissimo, da ascoltare e riascoltare in continuazione, per coglierne l'enorme lavoro compositivo ed esecutivo che si nasconde dietro le geniali composizioni di questo trio transalpino. Ascolto doveroso per tutti gli amanti del prog e dell'avantgarde jazz contemporaneo. (Bob Stoner)

(Budapest Music Center Records - 2023)
Voto: 83

https://soundcloud.com/mowgli-official

giovedì 13 aprile 2023

Kvist - For Kunsten Maa Vi Evig Vike

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Black
Vorrei, con questa recensione, rendere omaggio ad un gruppo norvegese ormai sciolto (anche se Metal Archives darebbe la band ancora attiva nonostante non rilasci nulla dal 1996/ndr), che però con questo album di black potente e fiero si era distinto tra gli altri esponenti della scena per una buona tecnica e per una buona costruzione delle atmosfere, tristi ma evocative, vicine a sonorità che resero celebri i Satyricon di 'Nemesis Divina'. Certo, i Kvist avevano dalla loro una regisrazione più modesta ma sempre di buon livello, però erano riusciti comunque a convogliare in un'unica direzione il black primordiale senza tanti fronzoli, al black più ricercato e sinfonico. Da sottolineare l’ottimo intreccio fra armonie di tastiere e di chitarre. Se 'For Kunsten Maa Vi Evig Vike' non fosse in vostro possessso, beh datevi da fare e trovatelo.

(Avantgarde Music/Peaceville Records - 1996/2020)
Voto: 72

https://peaceville.bandcamp.com/album/for-kunsten-maa-vi-evig-vike