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sabato 23 agosto 2014

Nemesis Sopor - Glas

#PER CHI AMA: Black atmosferico, Todtgelichter, Fen
La band sassone, al secondo full lenght autoprodotto nel 2014 dal titolo 'Glas', si presenta con una grafica di copertina con sfumature di grigio e un'immagine malinconica di una radura desolata a rappresentare l'atmospheric black metal racchiuso tra le tracce di questo interessante cd, il secondo per l'ensemble di Dresda. Quasi tutti pezzi sono di lunga durata e sfoderano arte e classe compositiva, un black dai risvolti spesso ai confini del romanticismo violento, aggravato nella sua durezza da un cantato in lingua teutonica che non guasta proprio e che rende ancora più potente l'esecuzione. Ci sono varie correnti all'interno di questo lavoro, l'espressività dura dei Mayhem e il lato evocativo dei Wolves in the Throne Room, l'ira criptica dei Todtgelichter e degli Tsjuder, e per concludere l'incedere progressivo dei Fen. Il confine quasi folk di "Leere Träume" è spiazzante e forma con le successive "Glas" e "Splitter" un trittico mozzafiato dall'atmosfera surreale, solenne, nera e profonda che sfiora i meandri del funeral, le cavalcate epiche e le sfuriate dei primi vagiti di scuola Ulver. Un album impegnativo da assimilare lentamente, un lavoro che mostra i mille volti della band che pur non risultando freschissimi in termini di originalità, suonano comunque benissimo, offrendoci alla fine otto brani di eccelsa fattura, lunga durata e piacevole ascolto, carichi di intensità e rabbia, con uno screaming al vetriolo, il tutto adagiato su vellutate melodie oscure disperse nella nebbia (ascoltate la conclusiva "Ein Zu Stein I: Wind"). Un lavoro intrigante che si muove tra il passato e il futuro, classicismo e ultime evoluzioni di un genere che è ancora in grado di sfornare piccoli oscuri gioielli come questo 'Glas'. Una band da tener d'occhio! Un lavoro notevole! (Bob Stoner)

Voice of Ruin - Morning Wood

#PER CHI AMA: Death Metal Melodico/Metalcore
Provenienti dalla Confederazione Elvetica francofona, il quintetto dei Voice of Ruin dà alle stampe questo cd composto da 12 tracce, di cui un paio completamente strumentali. Al primo impatto, la musica qui proposta non ha fatto fatica a rimandarmi, specialmente in alcuni passaggi, al death melodico di scuola scandinava di fine anni '90 e inizio 2000. Amorphis ed In Flames i principali riferimenti, anche se il tutto è pervaso da quell'aurea di modernità che contraddistingue produzioni di questo tipo. Passaggi veloci e riffoni mid-tempo si alternano per gran parte dei 46 minuti di 'Morning Wood', così come le vocals che, a tratti pulite e in altri casi più aggressive, non danno tregua. I testi, di sicuro, non trattano temi filosofici e sembrano non prendersi troppo sul serio (“Party Hard”, “Cock n Bulls”, “Sex for free” e “Big Dick” parlano chiaro), anche se artwork e produzione sono sicuramente da gruppo ben più affermato. Inutile nascondere il vero valore della musica contenuta in questo cd, non siamo di fronte ad un capolavoro e non farò nulla per nascondervelo. Un po' troppo sconclusionati per i miei gusti, il gruppo suona sicuramente bene ed è bello compatto, ma manca la cosa più importante, la composizione. Mancano infatti le canzoni, quelle che ti fanno innamorare di un cd o semplicemente quei due o tre brani in grado di risollevare le sorti di un lavoro altrimenti non troppo brillante. Belli i suoni, notevoli le prestazioni dei musicisti, ma poca sostanza; ed è la sostanza a fare la differenza, quasi sempre fortunatamente. Il gusto amaro dell'occasione persa rimane anche dopo aver ascoltato 'Morning Wood' più volte a distanza nel tempo, anche se ascolti meno attenti fanno guadagnare a questo lavoro qualche punto perchè comunque dagli speaker, la musica esce bella tosta e sicuramente di impatto. E se è questo che cercate, allora avrete trovato un bel prodotto di death metal melodico. Se cercate invece belle canzoni, bisogna guardare altrove. Il richiamo al tasto skip del mio lettore è stato talvolta forte, ma sono sempre riuscito a resistere per cercare di dare una chance al quintetto svizzero. Senza alcuna difficoltà, vi posso indicare come tracce degne di nota la titletrack, la già citata “Cock n Bulls” e la stumentale e assai piacevole “Today Will End”. Se volete dargli una possibilità, fate pure, cosi come l'ho voluta dare io. Risultato? Aspetterò la prossima release per vedere se la fiducia sarà stata, almeno in parte, ripagata. (Claudio Catena)

Thera Roya / Hercyn - All This Suffering Is Not Enough

#PER CHI AMA: Post Black/Sludge, Agalloch
Non più di due mesi fa vi parlai dell'EP di debutto dei ragazzoni del New Jersey, Hercyn. Oggi tornano con uno split album in compagnia dei Thera Roya, compagine di Brooklyn, NY, che si è fatta notare lo scorso anno con un EP omonimo all'insegna dello sludge/post metal. Ed ecco che le due band si mettono insieme e rilasciano 'All This Suffering Is Not Enough', dischetto costituito da due lunghi pezzi che testimoniano l'ottimo stato di salute dei due act statunitensi. Partono sobriamente i Thera Roya, con gli otto minuti di "Gluttony": arpeggio educato, atmosfera soffusa shoegaze, vocals pulite ma sofferenti. Poi finalmente qualche chitarrone fa decollare il pezzo, accompagnato ovviamente da vocals più sgraziate, ma quello che prevale e rimane nell'orecchio è quella ritmica quasi post punk, ammantata da suoni indecifrabili in lontananza che conferiscono quasi un'aura mistica al pezzo del terzetto della Grande Mela, per un risultato finale direi apprezzabile. Solo sul finire del brano, il suono acquisisce anche un vago sapore tra il doom e lo stoner, segno comunque di una certa ecletticità dei nostri. E' il turno degli Hercyn, che tanto avevo adorato con 'Magda' e quel suo feeling "Agallocchiano". "Dusk and Dawn" prosegue su quella strada e i suoi 14 minuti mi convincono appieno, sebbene il sound risulti un po' impastato e ne penalizzi il risultato finale. In questa lunga traccia, si fa più forte l'influenza cascadiana nelle parti tirate, con tanto di blast beat funambolici che per un momento mi fanno pensare ad un indurimento del sound. Dopo cinque minuti di martellamenti vari, le nubi vengono spazzate, l'atmosfera si fa più cupa e la musica accresce in malinconia e inizia il giro nel mutevole mondo degli Hercyn. Il ritmo torna a farsi infernale, ma è solo una breve parentesi perchè una bellissima chitarra prende il sopravvento e pennella una splendida e drammatica melodia. Ma non è finita, come su un roller coaster, i nostri ci riportano giù con ritmi forsennati per poi piano piano risalire il binario con modi più tranquillizzanti. Insomma, uno split piacevole che permette, a chi non li conoscesse, di avvicinarsi a due interessanti realtà del panorama USA. E ora attendo i loro full lenght! (Francesco Scarci)

venerdì 22 agosto 2014

Labyrinthine - Ancient Obscurity

#PER CHI AMA: Black Doom, Blut Aus Nord
Il black metal statunitense sta vivendo una seconda giovinezza. Nuove leve spuntano ogni giorno nello sterminato territorio oltreoceano, offrendo sonorità, che pur prendendo spesso spunto dalla tradizione europea, vengono poi rivisitate con una più che discreta dose di originalità. Oggi tocca ai Labyrinthine di Philadelphia, da non confondere con la prog band omonima, ma ormai disciolta, dell'Oregon. L'ensemble della Pennsylvania è in realtà la più classica delle one mand band black, dove J.L. si occupa di tutta la strumentazione e delle arcigne vocals. 'Ancient Obscurity' è un album dalle forti tinte depressive, che segue, a distanza di quattro anni, il debut 'Evoking the Multiverse'. Alla luce di un artwork oscuro e disagiato, si muove anche un sound caliginoso, che non trascende mai in velocità ma che talvolta si perde nei vortici della desolazione più assoluta, un incubo ad occhi aperti raccontato dallo screaming agghiacciante del mastermind della East coast. "Enshrined in Death" e la successiva "The Boundless Plane", sono i due pezzi che aprono il disco, lenti e neri quanto la pece, intorbiditi nel loro incedere anche da una produzione non proprio limpidissima ma che rende alla grande l'effetto sfiduciato e sfiduciante che verosimilmente l'artista intende produrre. "Marble and Bone" è una song strumentale dotata di un certo fascino ammaliante ma anche perverso che ci introduce alla feroce e disturbante "The Ichorous Portal" che potrebbe ricordare una forma più rozza dei francesi Blut Aus Nord, che cosi tanti proseliti stanno raccogliendo un po' in tutto il mondo. Arriviamo a "Nexus of the Untold", il mio pezzo preferito, in cui JL ci propone un black dal taglio orientaleggiante, ipnotico e strisciante come la morte. "Accordance" è un altro psichedelico pezzo strumentale che poggia il suo riffing su un vertiginoso loop ritmico che dischiude le porte alla conclusiva "Oath of Divine Doom", ultimo spietato pezzo black doom di un mefitico album che emerge dalle lave profonde dell'inferno. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 70

giovedì 21 agosto 2014

Celestial Waters - Insentient

#PER CHI AMA: Black atmosferico, Blut Aus Nord
Posso vantarmi di essere uno dei cinquanta fortunati che può godere dell'etereo sound estremo in cd dei Celestial Waters (in digitale con dolby surround 5.1). La band di Rapid City (South Dakota) è un duo, in cui il buon JS suona tutti gli strumenti mentre JM ha il ruolo di vomitare tutta la sua rabbia nel microfono. 'Insentient' è un EP di 4 pezzi che si apre con "I", mid-tempo dall'incedere spettrale, incentrata principalmente sullo screaming acuminato di JM e su una ritmica sinistra in cui ronza un'aguzza chitarra, un basso tonante e una flebile tastiera, per un effetto finale dalle tinte assai lugubri. Le atmosfere si fanno ancor più nebbiose con "II", song maligna che potrebbe ispirarsi all'abissale musica dei Blut Aus Nord, con tutte le loro peculiari pieghe disturbanti, nevrotiche, sognanti e schizoidi, per un viaggio che porta direttamente nel profondo, toccando i giusti tasti dell'io psichico. I Celestial Waters hanno una spiccata personalità che emerge prepotente nel terzo brano, "III", una song che, seguendo i dettami dei migliori Darkspace, viene guidata dalle pulsazioni intergalattiche di un basso ipnotico, il vero motore che pilota il suono di questo imprevedibile act statunitense che riesce a offrire un cinematico break ambient prima che il sound torni a contorcersi su se stesso come se fosse affetto da epilessia. La conclusiva "IV" è una song che parte più rabbiosa, ma è solo apparenza: il tumultuo interiore dei Celestial Waters emerge anche in questo pezzo che torna a ricalcare gli insegnamenti di Vindsval e soci, grazie a un timbro cupo in cui ad esaltarsi sono le mortifere atmosfere sulfuree. Peccato solo che 'Insentient' sia un EP di quattro pezzi, avrei desiderato godere ancora delle psichedeliche prodezze sonore del duo JM e JS, splendida sorpresa di questa inquietante estate glaciale, proprio come il sound di questa new sensation. (Francesco Scarci)

(Exalted Woe Records - 2014)
Voto: 80

https://www.facebook.com/celestialwaters0

Heretical - Daemonarchrist – Daemon Est Devs Inversvs

#PER CHI AMA: Black/Death, Morbid Angel, Necromass
Ero scettico, lo ammetto: quando ho inserito 'Daemonarchrist' nel lettore cd e ho sentito superficialmente il primo brano, mi aspettavo di trovarmi di fronte una sorta di clone dei Cradle of Filth. Mi sono sbagliato e anche di grosso. Ascoltando con maggiore attenzione "Averno Resurrecturis", non si possono non notare le ritmiche che strizzano l'occhiolino al death metal, pur sfrecciando indemoniate all'interno di un contesto puramente black. Quello che mi sorprende è che la band esista addirittura dal 1996 (1993 se consideriamo la loro forma primordiale col nome di Immolator), questo a testimonianza del fatto che, nonostante i 3 Lp pubblicati (più uno ancora nel cassetto), gli Heretical non siano dei pivellini di primo pelo e che magari non siano stati proprio i CoF a prendere spunto dai nostri ragazzi siciliani? A parte le mie personali congetture, la band di Caltanissetta, fresca di contratto con la Beyond Productions, rilascia questo dinamitardo concentrato di black iper tirato dall'incedere a tratti orchestrale. Della prima traccia abbiamo già detto in breve, mi lascio pertanto travolgere dalla furia celestiale di "Der Monarchristus", song che sgorga gemme di odio in ogni suo riff, anche dai suoi affilati assoli, che sembrano presi in prestito da un mostruoso duo costituito da Deicide e Morbid Angel. Ecco che i binari della morte e della fiamma nera si incrociano nuovamente, mentre nella liturgica e sinfonica "I Bleed Black", i nostri ci offrono del black sinfonico suonato in una vena death, tradita solamente dalla magniloquenza delle sue tastiere. Le maligne screaming vocals di Nefarius (a tratti in stile Dani) acuiscono la valenza black di questo cd, mentre da sottolineare la mostruosa prova di Arymon (Brisen, Schizo e ex Sinoath) dietro la batteria e di Orias alle keys, apprezzabile soprattutto nella tenebrosa cover dei Limbo, "Devastate e Liberate (Libro Primo)", che ci concede giusto tre minuti di visionarie atmosfere oscure, prima della deflagrazione di "The Gift, Lemegeton". I nostri tornano a pigiare sull'acceleratore come degli assatanati, regalandoci altre violente ritmiche estreme, sulla falsariga di quanto prodotto dai Maldoror di 'Ars Magika' o dagli esordi dei Necromass. La band mostra le sue qualità anche quando i tempi non sono necessariamente forsennati, costruendo grazie a Azmeroth (sia basso che chitarra), delle ritmiche assai articolate. In "Lvzifer Démasqvé" gli Heretical hanno modo di impreziosire ulteriormente il loro sound con un inserto di violino che dona una dose di magia all'album, che nei suoi tre episodi conclusivi, ha ancora modo di offrirci ottimi spunti. "Res Satanæ Creata" è un pezzo esoteric-ambient, "Cvm Clave Diaboli" furia cieca e la conclusiva "Demonmetal" ci garantisce gli ultimi attimi di death/black, con tanto di chorus thrashettoni. Il disco si chiude con un outro in cui ricompare il violino, strumento caldo e sensuale che termina degnamente un lavoro che trova il modo di sorprenderci (io avrei evitato) con una serie di tracce fantasma, fino alla 66 in cui la band si diletta in inutili suoni dal sapore noise. Ci saranno anche voluti 13 anni dal precedente album, ma ne è valsa fondamentalmente la pena. (Francesco Scarci)

(Beyond Productions - 2014)
Voto: 80

Asgrauw – Schijngestalten

#PER CHI AMA: Black, Watain, Craft, God Dethroned
Gli olandesi Asgrauw ci offrono un album autoprodotto di otto brani di media/breve lunghezza, che incarnano alla perfezione il lato del black metal viscerale, combattivo e sanguigno. Il trio sfodera le sue armi all'insegna della fiamma nera al meglio e non fa prigionieri sotto i colpi del proprio tiratissimo sound, registrato a puntino e mixato in perfetto equilibrio. Screaming violentissimi e ritmiche trita tutto ai mille orari, forse non così variegati gli arrangiamenti e leggermente ripetitivi ma decisamente efficaci, per non dire letali. Siamo nelle praterie oscure dei Watain, God Dethroned e Craft, con il tutto che ruota intorno al malefico screaming dei due egregi vocalist, rispettivamente Vaal (anche alle chitarre) e Kaos (anche al basso), mentre alle pelli troviamo Batr che, in fatto di velocità, non ha di che temere nessuno. Dicevamo che il sound è scarno e violentissimo, senza fronzoli inutili e devoto all'assalto frontale; raramente placa la sua ira per lasciar posto a forme più atmosferiche di musica. Le traccie che riassumono al meglio la personalità della band olandese sono a nostro avviso il quinto e sesto capitolo, "Luxuria" (la nostra preferita) e "Uit Grauwe as Ontstaan". Il cantato come si evince dai titoli, è in lingua madre e considerando che la band si è autoprodotta ed è al suo primo lavoro, non possiamo che sperare in un cammino costellato di allori e grosse soddisfazioni, ma solo se i nostri continueranno a percorrere questa strada. A nostro modestissimo parere, l'unica pecca di questo lavoro alla fine, risulta essere un artwork assai primordiale e minimalista che non incarna in nessun modo l'esplosiva forza sonora emanata dalla band, che andrebbe meglio rappresentata da una grafica mozzafiato. Comunque il succo c'è ed è tutto da gustare! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 75

And Then We Fall - Soul Deserts

#PER CHI AMA: Rock Dark Folk
Dopo tante distorsioni, ritmiche furibonde e urla strazianti, è piacevole fare un washout mentale e uditivo con melodie rock\folk\dark new wave, magari da un paese che non ha una vasta scena di questo tipo, come il Portogallo. Il quartetto degli And Then We Fall (ATWF) debutta con questo cd uscito lo scorso febbraio sotto l'etichetta lusitana Ethereal Soundworks; andiamo quindi ad ascoltare le dieci tracce contenute nel semplice, ma curato jewel case. Dalle foto del loro profilo facebook si nota che gli elementi del gruppo non sono dei giovani sprovveduti, sicuramente hanno qualche anno di esperienza passato in diverse formazioni. Subito si nota l'utilizzo di suoni molto puliti, cristallini che bene si sposano con l'angelica voce della cantante, leggermente impreziosita da un riverbero aggiunto in post produzione. Il pezzo di apertura è "Ancient Ruins" che racchiude in sé tutto il background della band ed è caratterizzato da suoni puliti, ricchi di riverbero e infinita profondità. Cori eterei accompagnano il cantato e una ritmica veloce, ma mai invasiva, trascina il brano rendendolo dinamico e piacevole all'ascolto. "Until the Morning Comes" mostra il lato più rock della band, con un riff di chitarra dal suono quasi noise e una sezione ritmica classica e senza tanti fronzoli. Gli stessi arrangiamenti non esplorano nuovi orizzonti, ma nel complesso il tocco della band permette di dare una propria identità al brano. "Soul Deserts" invece è una traccia molto introspettiva, che prende a piene mani dal vasto scenario dark degli anni '80-'90, introducendo anche una linea di flauto, che mette in mostra un attaccamento alla vena folk da parte della band. Tutto sommato una band interessante, che va controtendenza senza farsi particolarmente influenzare dalle mode del momento, che vede gruppi più giovani spaziare nel pop, mirando puramente al riscontro del pubblico. Magari a discapito del proprio piacere di suonare e comporre. (Michele Montanari)

(Ethereal Soundworks - 2014)
Voto: 75 

Cult of Vampyrism – Aporia

#PER CHI AMA: Doom esoterico, Shape of Despair, Christian Death, Pazuzu
Uscito nel 2013 per la Mercy Despise Records, il nuovo lavoro del combo italico Cult of Vampyrism racchiude immagini molto suggestive, tinte di romanticismo gotico decadente di ottima fattura. L'opera, suonata interamente dal leader Trismegisto, è uno scrigno dorato di atmosfere cupe, gelide e cristalline devote al verbo del doom esoterico e magistralmente virate a una forma di dark wave che in Italia, per fortuna, continua a produrre musica unica di alto spessore. 'Aporia' è lanciato in orbita dalla presenza vocale di Morgenstern, una dea luciferina che incarna le doti migliori della scena dark rock, ricordando il mito di Gitane Demone intrecciato alla grazia di Elena Alice Fossi dei Kirlian Camera (vedi l'esperimento di fine album "Something Special for You" che sfiora sonorità ambient dark wave tanto care ai KC) e, se permettete il paragone, alla libertà canora che si era vista solo nei migliori Disciplinatha (cult band per eccellenza!) - che come in questo caso alterna voce maschile (Trimegisto) e femminile (Morgenstern), lingua inglese e italiana (a volte anche il latino...), recitato e canto in un verbo tanto teatrale che fa risultare il tutto veramente bello e fuori dal tempo. L'album porta al suo interno il seme mistico di band come gli Esoteric, in qualche caso ricorda gli Atrocity più sinfonici, i Lacrimosa e il gothic sound dei Christian Death più eterei, che non rinuncia a brevi ma efficaci virate vintage nella concezione prog di band come gli Hammers of Misfortune e che mantiene costante i contatti con il suono dell'infinito di matrice funeral doom di casa Shape of Despair. In questo contesto, il secondo lavoro dei Cult of Vampyrism rende l'idea di come si possa creare musica intelligente anche in Italia, con un volto marcatamente underground e dal respiro internazionale. Un suono unidirezionale composto da tante influenze, fatto per creare atmosfere buie piene di romanticismo, dall'umore decadente ma costruttivo e molto vitale nelle sue composizioni, elaborate come fossero una performance teatrale (di vaga memoria Pazuzu), intenso e ragionato dove la tecnica è a supporto del risultato da ottenere e nulla è lasciato alla schiavitù del virtuosismo. Dalle lande più oscure dell'anima, una calda iniezione di vitalità inaspettata. Ottimo album da valutare attentamente in un panorama italico eternamente vuoto, statico e omologato. Da ascoltare senza limiti! (Bob Stoner)

(Mercy Despise Records - 2013)
Voto: 80

mercoledì 20 agosto 2014

Schemata Theory - Dry Lung Rhetoric

#PER CHI AMA: Heavy/Progressive, Metallica
Per fortuna quest'estate disgraziata (meteorologicamente parlando), mi ha quantomeno portato sulla scrivania dei bei prodotti da ascoltare e analizzare: uno di questi è senza ombra di dubbio il full lenght degli Schemata Theory, gruppo inglese che gode già di una discreta fama e che da quanto mi risulta, è già alle prese con il successore di questo 'Dry Lung Rhetoric' datato 2012. Informandomi qua e là, ho letto che i componenti del gruppo si sentirebbero influenzati da mostri sacri quali Metallica e Dream Theater; personalmente ritengo che la loro musica sia influenzata molto meno di quanto ne possano essere i vari membri e questo lo trovo assolutamente positivo. Soprattutto perché il progetto sta in piedi da solo e cammina con gambe forti sulla propria strada, godendo di musicisti ben dotati sotto il punto di vista tecnico e compositivo. Mi riesce anche difficile etichettare rigidamente la musica proposta, perché si tratta di un sound in continua evoluzione lungo i minuti del disco, ma sempre ben strutturato e ben calibrato. Si tocca il metal classico, ma anche lo sludge, il post metal ed il progressive. Le canzoni sono piacevoli, non c'è che dire; la varietà di tipologie di vocals proposte è poi davvero ampia, cosi come le chitarre che, sempre belle quadrate, scolpiscono riffoni degni di nota. Non vorrei tralasciare infine l'affiatatissima sezione ritmica che si fa sentire, eccome. Tutto in questo cd sembra filare in modo scorrevole, tanto che la fine arriva troppo in fretta e sono costretto a ripigiare il play per un altro ascolto. Forse, un tocco più “aperto” nella scelta dei suoni avrebbe giovato a tutto l'insieme, perché in alcuni punti trovo il suono della batteria un po' troppo chiuso e “caldo” per il genere proposto, ma stiamo parlando veramente di inezie. Sugli scudi, in assoluto, la tripletta iniziale con l'intro strumentale “A Dark Dawn”, “Perish or Prevail” e “Drones”; ma il vero capolavoro arriva con “Crisis Unveiled”, vera e propria tempesta sonora dalla quale si vorrebbe essere investiti ogni qual volta possibile. Graditissima sorpresa per quel che mi riguarda, gruppo dal notevole potenziale, a mio parere espresso ancora solo in parte; e se questi sono i risultati, ben vengano altri nuovi lavori della band. E speriamo poi, il prima possibile. (Claudio Catena)

(ABAF Records - 2012)
Voto: 75

Islands - S/t

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna, *Shels
Una delle cose che più mi fa incazzare è quando una band fantastica come quella che sto per recensire, non viene notata da nessuna etichetta e una release come quella degli australiani Islands, finisca per passare totalmente inosservata anche dagli addetti ai lavori, soprattutto a causa di un'uscita unicamente digitale. In questo caso, al Pozzo abbiamo voluto fare uno strappo alla regola proprio per poter dare valore ad una release davvero interessante in un ambito a dir poco intasato ultimamente come quello del post metal. 'Islands' è un lavoroche consta di 5 pezzi che avanzano lenti e carichi di groove. I punti di riferimento? Gli onnipresenti Cult of Luna, ormai vera e propria istituzione per il genere, tanto da aver a mio avviso surclassato gli ormai disciolti Isis, gli sperimentalismi dei The Ocean e la rigida integrità dei Neurosis. Gli Islands partono da questo sound, offrendo uno spaccato di desolati paesaggi invernali e arricchendolo di qualche orpello tipico di quegli australiani, popolo da sempre ricco di idee innovative. E cosi dopo l'iniziale “Golden Path”, i nostri si mettono a giocare con i riverberi di “Hand Built View”, song che si muove tra il post rock/metal e il progressive, offrendo splendide melodie, qualche bel chitarrone pesante, vocals tra il growl e lo screaming e un'ascendente progressione di suoni e colori, in uno sbarluccichio di emozioni che esaltano la prova di questi ragazzi. Non so se queste mie parole bastino per convincere in primis le etichette, poi chi legge, che abbiamo a che fare con una band dotata di enorme talento che può veramente rivoluzionare un genere. “Clouds Mistaken for Smoke” è una traccia strumentale di dieci minuti che vive di splendide ambientazioni post rock prima di ruggire con eccelse linee di chitarra in un ipnotico viaggio che per certi versi mi ha ricordato le ultime cose degli *Shels miscelati con le melodie dei Ne Obliviscaris. Spettacolari. “March” è il brano più oscuro dei cinque, ma anche il più corto e forse quello che meno riflette i contenuti fin qui uditi, che si fa ricordare solo per l'utilizzo pulito della voce e poco più. Arriviamo ai 13 minuti finali di “I, Destroyer” e ancora gli Island possono dirsi bravi nell'aver riscritto e ampliato i limiti che questo genere ha ancora da offrire, in una song corrosiva, ma comunque pregna di malinconia e dotata di un'accattivante componente progressive/post-hardcore. Inutile ribadire la grandiosità dei suoni contenuti in questo album omonimo, non potete fare altro che collegarvi alla loro pagina bandcamp e scaricarvi (peraltro gratuitamente) il loro lavoro e se anche voi lo apprezzerete come il sottoscritto, beh potreste anche lasciare la vostra offerta per stimolarne la messa su cd. Sarebbe un delitto ignorarli. (Francesco Scarci)

(Self - 2013)
Voto: 85

Heaven's Scum - It All Ends in Pain

#PER CHI AMA: Swedish Death, Dark Tranquillity, Arch Enemy 
Da oggi, il Lussemburgo non sarà più solo la nazione famosa per lo sviluppato settore bancario o siderurgico, ma anche la patria che ha dato i natali a questi melo-brutal deathsters che rispondono al nome di Heaven's Scum. Il quartetto di Differdange, formatosi nel 2011, esordisce a tre anni dalla sua fondazione, con questo 'It All Ends in Pain', album che in realtà di brutale ha forse solo la voce. "Never Wanted", la prima song dopo l'intro apripista, infatti si muove infatti su sonorità oserei dire Swedish, strizzando l'occhiolino a Dark Tranquillity o ad Arch Enemy, senza mai travalicare i confini del brutale. Diciamo che quello che penalizza al primo ascolto il debut album dei nostri (ma accadrà ahimè anche dopo svariati), è ascrivibile ad un cattivo bilanciamento in termini di equalizzazione del suono, con le growling vocals di Bigben Canyon, sempre troppo in primo piano a seppellire quasi del tutto il roboante incedere strumentale dei nostri, a tratti ovattato nella sua peccaminosa pulizia. Questo si rivela come una vera tragedia per l'esito finale, perché si fatica a gustare il riffing graffiante dell'act mittleuropeo, o qualche arpeggio dal vago sapore progressive. Tra le song, vi segnalerei "Love" per quel suo approccio più rock oriented. "Dr. Lecter's Passion" ha delle buone linee melodiche, peccato solo che a sconvolgerne ancora una volta il risultato conclusivo, ci sia il vocione di Bigben che, se ben modulato, a mio avviso potrebbe invece regalare ottimi risultati, soprattutto nella sua veste più sporca o urlata, proprio come accade in questa song, la migliore del lotto, e in "Enemy" la classica ballad heavy, in cui si può godere di una versione più intimista del vocalist del Granducato. Con le successive tracce i nostri tornano in pista, tenendo però il pedale dell'acceleratore schiacciato ma mai fino a fondo scala, muovendosi piuttosto su mid-tempo assai ritmati. Con "Blood Covered Dawn" è tempo di un'altra ballad prima della thrashettona "Inferno" (d'altro canto con quel titolo, che ci si poteva aspettare), che vanta un discreto arpeggio centrale. Un'altra ballad (ora si esagera però) è "I Don't Know", quattro minuti e mezzo che spezzano il ritmo un po' a singhiozzo che il disco è andato acquisendo e che verrà nuovamente spezzato dalla semi ballad "The Fallen Hero". Insomma, 'It All Ends in Pain' ha evidentemente più ombre che luci, tocca ora agli Heaven's Scum aggiustare qualcuna delle loro lampadine e darci un prodotto decisamente superiore. Mi raccomando, la prossima volta non si soprassiederà su questi errori che in un debut album hanno tutto il diritto di stare. (Francesco Scarci)

(Self - 2014) 
Voto: 60 

domenica 10 agosto 2014

Icosa - The Skies Are Ours

#PER CHI AMA: Djent Progressive, Tesseract, Meshuggah, Tool
Se due su tre membri della band hanno chitarre a 7 e 8 corde, voi a che genere pensate? Facile no, al djent. Ecco quindi già vagamente (ed erroneamente) circoscritto l'ambito in cui si muovono i notevoli Icosa, ensemble proveniente da Londra. Amanti di Meshuggah e dei primi Tesseract fatevi avanti, avrete di che ingozzarvi con le cervellotiche linee di chitarra del duo formato da Tom Tattersall e Stacey Douglas, con il primo anche vocalist e con Jack Ashley a completare l'esplosivo terzetto, dietro una farneticante batteria. "Ermangulatr" si presenta timida, ma a poco a poco cresce, fino a che non salgono in cattedra i chitarroni ultra tecnici delle due asce e le vocals urlate del bravo Tom. La song innalza splendidi muri di suoni arzigogolati ma sempre assai melodici che si alternano a paurosi stop'n go e a belle sfuriate death, senza tralasciare ipnotiche ambientazioni e fughe math, in una sorta di connubio tra i Tesseract più incazzati e i più meditativi Between the Buried and Me, il tutto improvvisato come nella migliore jam session. I territori esplorati con la successiva title track - part 1 - ci conducono in mondi ancor più bizzarri, in cui forse risiedono i The Mars Volta, il folletto Devin Townsend ma anche qualche deathster incallito. La voce di Tom si dirige verso toni più malati, mentre le ritmiche degli Icosa si spingono verso un suono ancor più stravagante, dotato di ritmiche sghembe dall'effetto asfissiante, che si muovono impazzite dalla cuffia destra a quella sinistra e viceversa. La psicosi degli Icosa mi entra nel cervello e con la title track - part 2 - i nostri non fanno altro che darmi il colpo di grazia con uno schizoide sound baritonale, che partendo dai più classici Meshuggah e Tool, trova modo di sfogarsi in divagazioni rock settantiane (King Crimson), merito anche del vocalist che va in cerca di vocalizzi meno estremi e più "cantabili". Con "Trepidation" gli Icosa chiudono egregiamente il loro EP, 'The Skies Are Ours', divertendosi con sonorità inizialmente mid-tempo, ma che cedono ben presto il passo ad un sound evoluto, iperbolico e totalmente imprevedibile, che ha modo di palesare a 360° tutti i pregi dell'act londinese, dall'eccezionale tecnica e padronanza strumentale, al favoloso gusto per le melodie e alla grande capacità di coniugare insieme queste incredibili doti. Per il momento, la mia votazione si limita a un 80, ma per il semplice motivo che ho potuto godere solamente di 22 minuti di musica; inoltre, meglio partire sempre dal basso se si vogliono raggiungere vette stellari. (Francesco Scarci)

(Self - 2014) 
Voto: 80