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sabato 6 giugno 2015

Lacertilia - Crashing Into the Future

#PER CHI AMA: Psych Stoner, Kyuss, 13th Floor Elevator 
I Lacertilia sono un quintetto che proviene da Cardiff, Galles, che dopo pregresse esperienze, ha deciso di riunire le forze per esprimere al meglio il proprio background musicale. Dalle informazioni disponibili, questo 'Crashing Into the Future' sembra essere il loro primo EP e devo dire che è un gran bel lavoro. Immaginate di prendere The Stooges, Kyuss, The 13th Floor Elevators, Pentagram e otterrete un mix esplosivo, pieno di groove, psichedelia e passaggi funky che vi ammalieranno istantaneamente. La copertina dell'album richiama molto chiaramente il movimento psichedelico, con una vallata e l'immancabile fiume che vi scorre in mezzo, il tutto sotto lo sguardo vigile dell'occhio-sole. I colori acidi completano il tutto, formando un quadro che rispecchia perfettamente lo spirito dei Lacertilia. "Do Something" è un brano di quelli furbetti, nel senso che grazie ad un riff easy di chitarra si fa amare sin da subito, dove peraltro, il quintetto da prova di una certa padronanza tecnica grazie a un sapiente utilizzo di sonorità perfette per il genere. Chitarre importanti ricche di fuzz, ma non quello iper saturo alla Ufomammut per capirci, bensì molto più vicine allo stile anni '70. Batteria e basso si divertono come dei bambini a condurre la danza ed aumentare le vibrazioni funky che ben si sposano con il timbro del vocalist, che deve avere gran stima dell'Ozzy dei tempi migliori. Lo stacco a metà brano si fa condurre dal riff distorto di basso, un botto di psichedelia fatto da chitarre liquide e slide, poi tutto riprende sulla falsa riga del riff iniziale per poi distruggere la nostra lucidità mentale con un finale doom da manuale. Un brano complesso e allo stesso tempo arrangiato in modo prevedibile, ma super godibile. "We Are the Flood" è una traccia riflessiva, intima e spirituale, merito dell'intro dalle sfumature etniche ed ancestrali. Percussioni e batteria creano quel tappeto ritmico che pulsa a ritmo del battico cardiaco e la nostra mentre si sincronizza subito con il mood della canzone. Il brano poi decolla con l'apertura delle chitarre che innalzano un muro granitico e resistente alle ondate di groove generato dal duetto batteria/basso. Nel frattempo un leggero solo di chitarra si insinua nel nostro inconscio e continua a ripetersi, diventando la litania di un ancestrale canto celebrativo. Il vocalist si inserisce facilmente nell'atmosfera più oscura degli altri brani, dimostrando flessibilità ed estro creativo. I Lacertilia pur strizzando troppo l'occhiolino ai Truckfighters, riescono a venirne fuori abbastanza bene anche con la title track. Tecnicamente ineccepibile, cosi come gli arrangiamenti e il classico break doom/psichedelico, ma niente di più. La band alla fine ha prodotto un gran bell'EP, basterebbe che i loro excursus stoner fossero meno ovvi e il mix sarebbe perfetto. L'onda psichedelica ormai sta invadendo il mondo, se i Lacertilia sfruttassero al meglio il loro lato funky, potrebbero aver trovato la carta vincente. (Michele Montanari)

Voto: 75

Ok, qua si decide di giocare proprio a carte scoperte: a partire dal nome, per continuare con l’artwork che reinterpreta l’occhio di Sauron in salsa psych, tutto concorre a permettere di individuare con un grado minimo di approssimazione la musica contenuta in questo disco (un po’ piú di un EP, un po’ meno di un album) d’esordio della band gallese, sorta di supergruppo formato da cinque musicisti provenienti da altri act di area contigua, come Witches Drum, Thorun e Akb'al. Quando l’abito fa decisamente il monaco, dunque. Quello che troverete in queste cinque tracce è un classicissimo coacervo di stoner, metal e space rock fatto di riff grooveggianti, suoni saturi e vocals muscolose in grado di soddisfare tutti fan del genere. I nomi di riferimento sono quelli, dai Black Sabbath ai Kyuss con tutto quello che ci sta in mezzo, passando per i 13th Floor Elevator, e gli altri metteteceli voi, non sbagliereste. La tiratissima title track apre il lavoro senza concedere un attimo di respiro e mette subito in chiaro le cose con chitarre “desertiche”, ritmiche forsennate e una voce davvero importante. Ognuno degli altri quattro pezzi ha la sua dignità, cercando soluzioni interessanti in termini di arrangiamento, integrando ottimamente riff di basso distorto ("Abstract Reality"), blues dall’incedere sciamanico ("We Are the Flood") rarefazioni space in cui la chitarra si permette divagazioni lisergiche ("Do Something") e riffoni schiacciasassi con rallentamenti di stampo quasi doom (la conclusiva “Tryin' To Do A Good Thing”). Il lavoro è molto ben confezionato, con una produzione potente e pulita allo stesso tempo, e i cinque hanno dalla loro tecnica ed esperienza sufficiente per sapere come si scrive e si suona del gran bello stoner rock. Una menzione d’obbligo per l’ottimo vocalist, potente, grintoso e carismatico, merce sempre più rara al giorno d’oggi. Se siete alla ricerca dell’ultima moda musicale, o se vi aspettate anche solo un po’ di innovazione e sorprese, non cominciate neppure ad ascoltarli, ma se tutto quello che chiedete ad un disco rock è quella piacevole sensazione di solidità, i Lacertilia vi regaleranno tante mezz’ore di puro godimento. (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 75

Tuliterä - Tulikaste

#PER CHI AMA: Progressive/Space Rock, Ozric Tentacles
Una spada nel bel mezzo della galassia mi ha fatto presagire al solito progetto viking power. Fortunatamente ho preso un bel granchio. I Tuliterä infatti sono una realtà non cosi facile da delineare musicalmente. Prendete "Percolator", la opening track come esempio lapalissiano: la traccia apre con suoni ambient che lentamente cedono a digressioni space rock in un pezzo in cui i bassi fanno vibrare letteralmente i muri della mia casa. Suoni suadenti, delicati per carità, ma capisco che qualcosa prima o poi deflagrerà nel mio impianto hi-fi. Non tarda infatti di molto quello squarcio nello spazio interstellare ad opera di una robustissima ritmica di matrice djent. "Alpha Blade" si scatena con una dinamica cavalcata nello spazio profondo con le chitarre, dal piglio progressive, a roteare vorticosamente, intrecciandosi con gli onnipresenti synth. La natura strumentale del lavoro non si avverte in alcun modo, complici le innumerevoli trovate effettistiche che sostituiscono la presenza di un vocalist. Con "Jagat", si spinge ancor più a fondo la manetta del gas: immaginate quei film in cui le astronavi, alla velocità della luce, viaggiano all'interno di quei tunnel multicolore. "Jagat" è questo, velocità supersoniche e ipertecniche, che dimostrano l'eccelsa qualità tecnica del quartetto di Helsinki. Superata la Cintura di Orione, si arriva al placido porto di "Firedew", ove tutto appare più tranquillo ma dove in realtà Vesa e Hannu, le due asce, si inseguono con melodiche linee di chitarra, accompagnate dal basso pulsante di Tommi Nissinen e dal drumming preciso di Tommi Tolonen. È il verso di una balena quello che si sente nell'incipit di "Cetus", song che offre un reiterata ritmica di fondo su cui ben presto una delle due chitarre prenderà il sopravvento, guidandoci nella breve residua durata del brano. "Voidborn" ha un intro ambientale, un mutante psichedelico, sulla stregua dei Pink Floyd più recenti, che vede comunque sempre in prima linea l'armonico suono delle 6-corde e soprattutto i synth che vengono doppiati addirittura dall'inebriante melodia di un sitar e di un tambura, a cura di Jaire, guest in questa lunga song. "Star Rodeo", non fosse altro per i synth space rock, potrebbe stare tranquillamente su un qualche album speed metal: un saliscendi ubriacante di chitarre spinte a velocità 3C, che superano la Teoria della Relatività di Einstein. "All-Seeing Delirium" nei suoi 14 minuti ci da modo di conoscere un nuovo mondo extraterreste, fatto di soffuse luci e stravaganti colori che probabilmente sulla Terra non esistono; i suoni sono liquidi e inquietanti, anche se da un certo punto in poi della traccia, saranno solo in grado di trasmettermi tranquillità. Non so se sia un buco nero o altro, quello che si materializza nella conclusiva "Menticide": i suoni e la luce vengono infatti risucchiati all'interno di un ipnotico e oscuro centro magnetico che alla fine lascerà soltanto il buio cosmico. È forse questa la musica del lontano pianeta K-PAX? A voi il compito di scoprirlo... (Francesco Scarci)

venerdì 5 giugno 2015

Lehnen - Reaching Over Ice And Waves

#PER CHI AMA: Post Rock/Ambient
Che ci fanno due americani a Vienna? Scopriamolo con 'Reaching Over Ice and Waves', nuovo album dei post rockers Lehnen. Iniziamo la nostra carrellata da “Immer Fremd” ove un sussurro di parole scomposte turba i sensi. Vorrei ascoltare, ma l’impronta della mano di questa strumentalità, fa ambientare le mie velleità. L’ascolto è ipnotico. Vorrei raccontare, ma spezzo la ragione in frammenti cristallizzati che si propagano come pezzi di vetro su pareti insonorizzate. Metallo e diamanti soffiano da questo esordio soffuso, in cui l’ambient si mescola alla personalità degli autori. Il pezzo suona come un graffio che lascia sospesi i timpani in attesa d’altro. Altro che troviamo in “ How’s the Tieres?”. Ottoni metallicamente affannati da un’ipossia lisergica che preda. È un reiterare lisergico di chitarre che scavano un circolo di riff virtuosi. Denti serrati. Attesa. Alcova forgiata per chi è vergine di sonorità acustiche violentate. Scosse fulminee e dilatate tra questo fuoco che incendia e raffredda. Dopo tre colpi elettrici che chiudono, debbo cedere alla malia di “Horsetooth”. Non mi bussate. Non mi parlate. Non mi chiedete. Il diniego apparente, sarà quell’avere sfiorante, leggero, audace, volubile, intriso di sangue e di sound. Ascoltate dopo aver acceso candele al buio che fanno vibrare la vostra aria nottambula. Le distorsioni di “Nightdrive, Mile High”, tracciano una via sconnessa a mezz’aria tra il vissuto ed il vivere. Sospensioni sonore che ricamano il sentire come tatuaggi che si sceglie di fare o di immaginare. Ora preparatevi ad una guerra. Sono mitragliate sensuali, incessanti. Sono ripetizioni armate, sparate a salve. Ad una guerra, in fondo non si è mai pronti. “Isolation”. Ecco che non c’è guerra a fuoco, ma c’è battaglia tra voi e quello che volete sentire. Se non siete centrati, perderete l’equilibrio. Non solo voi, ma anche io abbisogno d’un respiro, profondo. Il mio respiro però sa di abissi mentre mando on air “Away”. Non penso. Lascio la traccia al suo scorrere. Osservo una Londra nostalgica cosi come nostalgica è la suadente voce di Joel Boyd. Ed il Tamigi fa da padrone nel convogliare pretese, suoni e immagini occultate in musica. “Estes”. “TCK”. “Grey Like Travel”. Epilogo variegato di corde accordate indipendenti dai legni. Sorti benevole ed ispirate in questa triade che voglio accorpare, poiché mescolata odora di atmosfera disegnata in una notte d’estate. Luci accese e poi spente d’improvviso. È materica ed eterea la musica che propaga dal primo all’ultimo pezzo dell’album. Qualsiasi sia il vostro contesto, abbassate le luci. Garantisco ossimori che sanno di ghiaccio bollente. (Silvia Comencini)

(Self - 2015)
Voto: 75

mercoledì 3 giugno 2015

Unsolved Problems of Noise – L’Ombra delle Formiche

#PER CHI AMA: Jazz-core/Noise/Postrock
“Un formicaio. Accumulo e trasformazione. Così tante vite che si portano dietro la propria ombra. La loro dipendenza biologica è tanto più complessa quanto più numerosi sono gli esseri presenti”. Sono molto felice di poter parlare di questo magnifico disco, un piccolo culto personale e una delle cose migliori che la nostra penisola abbia espresso in termini di Jazzcore e postrock strumentale dalle forti tinte noise. David Avanzini (basso e sax), Matteo Orlandi (chitarra e basso) e Mattia Prando (batteria) arrivano da Genova e squassano il panorama musicale con un disco che è un vero e proprio capolavoro di potenza, tecnica e inventiva senza compromessi. Il disco si presenta benissimo, nella sua elegante confezione cartonata, impreziosita dalle splendide illustrazioni di Valentina Fenoglio, ed è, in definitiva, un concept ispirato al formicaio come sistema vivente. La musica degli Unsolved Problems of Noise (UPON) è difficilmente catalogabile in un genere ben preciso, di certo la perizia strumentale dei tre gli permette di scivolare tra i generi senza soffermarsi su nessuno in particolare, e oscilla tra il math rigoroso e il free jazz più audace con uguale intensità ed efficacia. Il lavoro si apre con il reading di un brano angosciante di “Un Oscuro Scrutare”, di P.K.Dick, angoscia resa alla perfezione dalle rasoiate chitarristiche del primo brano “Formicazione (Parte I)”, caratterizzato dalla ritmica quadrata in puro stile Shellac. Con “Formicazione (Parte II)” il clima cambia radicalmente e si fa folle e destrutturato. Dick ritorna nel titolo della terza traccia, “Le Pecore Elettriche Sognano gli Androidi?”, dove semplici e ripetitive frasi di sax si stagliano su di una ritmica incalzante e sempre più free. Con “Dromofobia”, anch’essa divisa in due spezzoni, siamo invece dalle parti di un postrock strumentale e fortemente chitarristico, tra arpeggi acustici e bordate metalcore, sempre però sorrette da una ritmica pulsante e mai banale. A rendere il tutto ancora più eccitante e incatalogabile ci pensa il terzetto di brani posti in chiusura, “L’Ultimo Grido in Fatto di Silenzio”, “Il Diavolo A4” e “All Jazz Hera” (menzione d’obbligo per i titoli), che sparigliano ulteriormente le carte in tavola, muovendosi senza soluzione di continuità tra assalti schizofrenici, sax infuocati, rutilanti passaggi free-jazz e cambi di ritmo improvvisi. Un piccolo grande capolavoro da ascoltare e riascoltare senza stancarsi mai. Attendiamo con trepidazione un seguito e nel frattempo, ascoltiamo con piacere Avanzini e Orlandi impegnati nel loro nuovo progetto Minimal Whale, recensito tempo a suo tempo su queste pagine. Magnifici. (Mauro Catena)

(Snowdonia/Tesladischi - 2012)
Voto: 85

martedì 2 giugno 2015

Try Redemption - Hollow Be Thy Name

#FOR FANS OF: Death Metal, Morbid Angel, Bloodbath
Man, this one was almost there. The fourth release from the Arizona-based Death Metal crew was really working up to a potential top-spot on the Year-End Best-Of lists based on what was on display in the first six tracks here which featured some utterly spectacular Death Metal that seemed to mix the technicality and ferociousness present in prime-era Morbid Angel with the blasting intensity and brutality featured in early Bloodbath, which resulting in a stand-out release. Then the last half drops that in favor of a series of Metalcore-influenced riffs, choppy rhythms and clean vocals that come off more like emo-core screaming which completely clashes against the more traditional elements. That there’s more than enough of those traditional, full-on Death Metal material throughout this section when those vocals are not present proves that there’s more than enough material here to stay as a full-on act throughout the course of its running time but that influx of sub-standard material in the second half really lowers this one considerably. Still, the first half here is absolutely stellar Death Metal and if the screaming clean vocals are removed on the second half this one is immensely enjoyable. ‘Flesh Pound’ gets this started with fine riffing, complex leads and a dynamic balance between furious driving rhythms and fine melodic mid-tempo arrangements for a stand-out and intense opener, while ‘Parasite and the Vaccine’ is similar if just swapping the technicality for more intensity. ‘Beaten’ certainly lives up to the name with a healthy beat-down of solid riffs and pounding rhythms with a little more concentration on melody here for another solid track. The utterly blistering ‘Deception Scheme’ offers vicious, charging riff-work and blaring rhythms alongside brutal drumming blasts full of intense chugging patterns with plenty of stellar leads and savage energy throughout for a fantastic highlight, much like ‘Asphyxiation’ which just overwhelms with intense riffs and more battering drum-work. Still, the album’s best track, ‘Left for Death’ features rattling drumming and frenetic riff-work blazing with scorching melodic leads charging alongside a series of intense rhythms full of energy and intensity, leaving this one quite impressive. ‘We Are Legion’ would’ve been up there with it had it dropped the curious decision for a melancholic break-down section with lilting guitars and clean vocals, but the rest of the track is all about their technicality on display with complex leads, furious rhythms and no shortage of technically-precise arrangements all given that speed and intensity apparent on the rest of the album’s tracks. The first dud on the album, ‘Perish At Mass’ only feels that way due to a higher degree of inclusion of the lame emo-core vocals against the track which conflict mightily with the pounding drumming, complex leads and furious tempos crashing around it and makes it stick out even worse than it originally did the previous track causing this one to feel wholly out-of-place. ‘Penumbra’ takes that even further with the blazing drum-beats, chugging riff-work and preponderance of Metalcore riffing leads throughout with simple melodies, memorable rhythms and accessible grooves clash wildly against the chugging riff-work and unrelenting drumming leading into the final half for another troublesome effort. ‘Umbra’ is a little troubling as light, acoustic guitar strumming and gentle melodies with melancholic rhythms and retrospective moods swarming through ambient passages that would’ve worked well as an outro before the moody vocals and light atmosphere continue through the final half for a somewhat decent if misplaced track in the running order. Proper outro ‘Antumbra’ attempts to rectify this with a more solid assortment of crushing Death Metal rhythms and technical arrangements but again comes through with the Metalcore rhythms as the dynamic drumming and scorching leads for a let-down to end this on. Overall, this one would’ve been an absolutely phenomenal effort had it stuck with being a straight Death Metal release without infusing the ridiculous Metalcore and emo-core on the record. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 80

Veristi - Musta Sielu

#PER CHI AMA: Death Gothic, Tristania, Dismal Euphony, Nightwish, Trail of Tears
Sebbene attivi sin dal 2003 in quel di Vaasa, piccola cittadina finlandese dell'Ostrobotnia, i Veristi giungono soltanto nel 2015 al loro debut ufficiale, un EP di cinque pezzi, che va ad aggiungersi, nella loro discografia, accanto a due demo. 'Musta Sielu' farà sicuramente la gioia di coloro che apprezzano il death metal goticheggiante che tanto andava di moda qualche anno fa con Tristania, Theatre of Tragedy e Trail of Tears, giusto per darvi qualche riferimento. Aspettatevi quindi accanto ad ariose melodie e ritmiche selvagge, growling oscuri e le immancabili vocals femminili, che peraltro dovrebbero entrambe essere opera della medesima persona, la dolce donzella Satu Huhtala. L'apertura di "Kapea Polku" riflette esattamente gli stilemi del genere, con corpose chitarre su cui si instillano le keys di Ossi Peltoniemi. Poi ecco il classico duettare a livello vocale, l'infinita lotta del male contro il bene, con le eteree vocals di Satu che conferiscono un approccio quasi sinfonico alla proposta dei Veristi. "Piru Rivien Välissä" ha un piglio quasi black; ci pensano comunque le tastiere e le melodie delle 6-corde a stemperarne la furia; ovviamente l'ingresso nella veste più soave di Satu, rende il tutto molto più accessibile anche a livello ritmico, con le keys che ora si fanno più malinconiche. "Sarastus" mi ha ricordato il sound di una band olandese, di cui ho perso le tracce da un bel po', i Gandillion, ma per chi non li conoscesse, il nome Nightwish potrebbe tornarvi utile a farvi una idea ben più chiara: sound assai melodico, ritmato, su cui si stagliano le female vocals (attenzione che rischiano di stancare alla lunga), e quando la bella cantante finlandese urla come una forsennata (stile Angela Gossow), anche le ritmiche pestano maggiormente sull'acceleratore. Un nostalgico pianoforte e la voce di Satu aprono "Sanoja Rakkaudesta", la traccia più ruffiana tra le cinque, che per quanto metta in luce un buon impianto ritmico e solistico, si conferma forse la song meno originale del lotto. Un bel basso stile Iron Maiden, apre "Syvien Vesien Äärellä", la traccia più rock di 'Musta Sielu': una ritmica tirata, vocals graffianti, una bella dose di groove, notevoli arrangiamenti e un ottimo finale roboante (stile primi Dismal Euphony) completano un disco piacevole, senza grandi pretese, se non quella di farsi conoscere ad un pubblico più vasto. Ora è il caso di rimboccarsi le maniche e andare in cerca di una propria identità ben più definita. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 70

lunedì 1 giugno 2015

Nerv - Vergentis In Senium

#PER CHI AMA: Mathcore, Postcore, The Dillinger Escape Plan, Converge
Immaginate un album lineare, con ritornelli definiti, tempo in quattro e accordi catchy. Ecco: ora buttate tutto nel cesso, perché il primo full-lenght del quartetto francese Nerv è l’esatto opposto. Solo sette brani, ma talmente densi da lasciare il fiato corto al termine dei 40 minuti di durata. La forma canzone dei singoli pezzi è masticata e rimasticata più volte, fino a lasciare una struttura flessibile, dinamica, che raramente si spreca in reprise di ritornelli o strofe. Il tempo stesso diventa un gioco per i Nerv che tagliano, spezzano, aggiungono, dilatano, modificano ogni battuta fino alla completa destabilizzazione del pezzo (la splendida opening “Cathars”, “Martyr”). Velocità e rabbia, distorsione e inquietudine, follia e assenza di equilibrio. Le coordinate del quartetto sono quelle del math-core e del post-core, ma c’è di più dei già noti The Dillinger Escape Plan. È una musica più matura, se vogliamo, oscura e violenta, ai limiti della schizofrenia, che se disdegna la melodia in maniera metodica – sono le dissonanze e le progressioni di accordi inusuali a farla da padrone in 'Vergentis In Senium' –, non rifiuta invece influenze più tipicamente math-metal (“Tortures”) e lucidissimi momenti sperimentali di follia (sentite il sassofono tagliente del capolavoro “Savonarole” o l’inquietante chiusura acustica di “Suffer”). La voce, rabbiosa, ruvida e disturbata, può forse essere l’unica nota noiosa sulla lunga distanza, ma è questione di un attimo, persi come si è a seguire l’intera band in questo incubo sonoro solo apparentemente senza capo e coda. Un disco difficile, una grande prova tecnica e di composizione, perfettamente prodotto e confezionato: un gioiello per chi ha voglia di ascoltare qualcosa di nuovo. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2015)
Voto: 75

Lorø - S/t

#PER CHI AMA: Drone/Noise/Math, Helmet, Zu
Devo ammettere che pensavo di aver già visto ogni sorta di artwork per un cd, dalle bare ai cofanetti in legno, dai libri agli origami, ma quello dei patavini Lorø si mostra come uno dei più eleganti. Difficile spiegarne l'essenza: una lastra di plastica trasparente avvitata su un supporto dalla grafica serigrafata, il tutto decorato con la scritta LORØ in oro. Visto che anche l'occhio vuole la sua parte, concedo già mezzo punto in più solo per questa diavoleria, peccato poi che per estrarre il cd dalla custodia, si debba bestemmiare in sette lingue, ma son dettagli. Il self-title album della band veneta, prodotto addirittura da cinque etichette indipendenti (credo sia un record), rappresenta il debutto per il trio di quest'oggi. Nove i brani a disposizione, che irrompono con il disturbante sonoro di "Pollock", traccia dal piglio math/noise assai vicina anche al nintendocore, che dichiara che il percorso avantgarde-sperimentale dell'ensemble, sarà tutto fuorché accessibile. Difficile affibbiare un'etichetta ben precisa alla musica dei Lorø, vi basti sapere che il disco è strumentale e lungo i suoi 48 minuti, sarà alquanto facile passare dal sound di "tooliana" memoria di "Thalia", in cui psichedelici synth ci accompagnano a sprazzi lungo il suo liquido defluire, a fraseggi jazz, noise o math rock. Torniamo a "Thalia", il cui rifferama è abbastanza complesso, risentendo di influssi orientaleggianti e richiami alla System of a Down, solcando nel finale anche il mare del rumore. "A Trick Named God" è una lunga song elucubrante, che si muove tra riffoni al limite del doom, idiosincrasici passaggi noise, energiche cavalcate cinematiche ed un dilatato spazio drone, il tutto guidato dalla maestria effettistica di Mattia Bonafini. Con "High Five", sembra di aver a che fare con un'altra band, uno di quei complessi che riempiono jazz club o lounge bar: il clima è rilassato, almeno fino a quando il riffing distorto di Riccardo Zulato aumenta in profondità, mentre il lavoro delirante ai synth, accresce la follia distorsiva dei nostri. Ancora noise/drone con "Ø", un'accozzaglia di rumori e ambientazioni angoscianti create dal suono di un didjeridoo, che tuttavia non trova il mio pieno consenso. Skippo alla successiva "At Mortem", una traccia in apparenza normale, quasi rock, in cui la sezione ritmica acquista in abrasività col crescere del brano, e i suoni sembrano quelli di un trapano che vuole penetrare la calotta cranica. Fortunatamente un break ambient ne interrompe il supplizio, concedendo un attimo di tregua prima della claustrofobica chiusura affidata all'elettronica e a deliziose melodie di sottofondo. Forse è il suono di un allarme quello che brevemente si palesa in "Clown’s Love Ritual”, il pezzo più lineare del cd, ma anche quello più tribale, grazie all'eccelsa performance dietro alle pelli di Alessandro Bonini. L'improvvisazione si cela comunque dietro ogni angolo, pertanto mai abbassare la guardia con questo power trio di Padova. "Faster, Louder & Better" accentua il riffing vetriolico dell'act italico, già sottolineato in precedenza, agendo anche sulla velocità, con una cavalcata che gronda in termini di groove. Come dicevo però, ecco che i Lorø deviano ancora una volta dalla strada maestra arrivando ad imbastire un finale schizofrenico. Centrifugato dai suoni catatonici di questa inusuale band, che trova alcuni punti di contatto con gli Zu e gli Helmet, arrivo alla conclusiva "To Whom it May Concern", frase che utilizzo molto spesso nei documenti di lavoro e che qui invece segna la fine di un impervio viaggio musicale che non sarà cosi semplice intraprendere. Di idee ce ne sono un'infinità, starà ai Lorø provare a renderle più abbordabili se vorranno far breccia tra un pubblico più vasto. Assai coraggiosi. (Francesco Scarci) 

(Red Sounds Records/In the Bottle Records/Cave Canem DIY/
DIO)))Drone/Icore Produzioni - 2015)
Voto: 75

sabato 30 maggio 2015

Ad Nauseam - Nihil Quam Vacuitas Ordinatum Est

#PER CHI AMA: Black/Death, Deathspell Omega, Gorguts, Ulcerate
Avviso ai naviganti: 'Nihil Quam Vacuitas Ordinatum Est' non è l'album più semplice da digerire. Sicuramente agli amanti di sonorità alla Deathspell Omega, Ulcerate o, guardando in casa nostra, Ephel Duath, verrà l'acquolina in bocca nel sapere che i vicentini Ad Nauseam si rifanno alle band qui sopra citate, però ribadisco, nulla di cosi lineare da essere apprezzato al primo ascolto. Servono infatti parecchie sedute per entrare in contatto col mood cerebrale del debut album della band di Schio, che irrompe velenosa con "My Buried Dream", song che palesa fin da subito le malefiche intenzioni dell'act italico. Musicalmente vicini alle schizofrenie musicali degli artisti già citati, gli Ad Nauseam, ci investono con scorbutici riff di chitarra che si muovono zigzagando tra saliscendi impetuosi, rarefatte atmosfere, break acustici e chi ne ha più ne metta, in un isterico collage musicale, che non lascia scampo. Non finisce nemmeno il primo brano che è già incollato al suo culo "Key to Timeless Laws", traccia ancor più aspra e dissonante nella sua schizoide andatura, che delinea nelle sue note, una maggiore propensione verso il death metal più plumbeo (Immolation) e in cui la voce iniqua di Andrea P. diventa ancor più spaventosa. Per chi volesse trovare altri punti di contatto con la band nostrana, ecco che la furia tempestosa dei Portal o la delirante sublimazione degli Aevangelist, potrebbero essere utili a focalizzare ulteriormente la proposta degli Ad Nauseam. Band che prosegue col deliziarci con strazianti e taglienti riff di chitarra anche ne "La Maison Diev", song nervosa, altalenante, in cui l'arcobaleno di colori che ha da offrire, varia dal nero al grigio chiaro in un ventaglio bicolore, che trova, per lo meno in un paio di occasioni, alcuni inquietanti attimi di quiete e un paio di inebrianti assoli conclusivi, in cui la ritmica sembra addirittura evocare i Morbid Angel. Spaventosi, non c'è che dire. La matrice sonora su cui poggia il sound degli Ad Nauseam, delinea una abilità tecnica davvero notevole e anche una notevole creatività artistica, anche se non appare ancora un vero e proprio marchio di fabbrica; troppo concentrati i nostri a rivedere e rinverdire la musica delle band preferite. "Into the Void Eye" è una infernale cavalcata dal finale a sorpresa che la collega a "Terror Haze" che tra divergenti proprietà soniche e mefitiche ambientazioni, non si distanzia poi di molto dalle precedenti tracce, se non per tentare la strada del mid-tempo, grazie ad un incedere dall'aura malsana e un break centrale che strizza l'occhiolino anche a melmose sonorità sludge/post metal. Si va verso il finale e "Lost in the Antiverse" e "The Black Veil of Original Flaw" hanno il compito di intrattenerci prima del gran finale. Mentre la prima è una convulsa traccia che viaggia su ritmi sincopati, la seconda sembra essere la song più melodica del lotto, se cosi si può definire, o forse quella più accessibile, aprendosi ad altre stravaganti e stralunate soluzioni che a livello ritmico, chiamano in causa i Deathspell Omega. Dicevamo del gran finale, "Superimposing Mere Will and Sheer Need" è infatti un muro inerpicabile di 11 minuti che sintetizzano l'iper articolata proposta musicale degli Ad Nauseam, tra vorticose calate agli inferi, growling vocals, doom funereo, stridenti chitarre e soffocanti loop ipnotici, che ci consegnano una band già parecchio matura, che deve solo trovare il modo di trovare una strada propria da percorrere fino in fondo... (Francesco Scarci)

Voto: 75

Il moniker richiamante gli Ulcerate ("Ad Nauseam" è una delle tracce più famose della band neozelandese, contenuta in 'Of Fracture and Failure') presagisce quasi nella totalità ciò che dovremmo aspettarci. Il combo vicentino colpisce in modo più che positivo con questo debut album dopo il cambio di nome e relativo correttivo nel genere proposto. Colpisce subito l'occulto artwork di Manuel Tinemans (Necros Christos, Saturnalia Temple, Pentacle) stampato su un cartoncino ruvido su sfondo antracite, ma a far da padrone in questo 'Nihil Quam Vacuitas Ordinatum Est' è un altissimo livello tecnico che si impregna di sonorità cupe a tratti dissonanti, supportate da serrati blast beats, senza adombrare chirurgiche armonizzazioni di basso (“La Maison Diev”). La produzione, volutamente dinamica, rende le tracce opache e con una minore potenza sonora, ma a mio parere, questa scelta completamente homemade, rende il tutto più vivo e salva dalla goffa pesantezza e linearità di una produzione lucida e brillante. Questo lavoro degli Ad Nauseam, nonostante necessiti di ulteriore personalità, non è il techno death metal classico che cerca di emulare i grandi nomi del passato ma una evoluzione che segue la scia dei già sopracitati Ulcerate, aggiungendo una vena maligna riconducibile a gruppi come Deathspell Omega o Aosoth (“My Buried Dream”). Le tracce spiccano per il loro elevato livello compositivo, regalando una certa sorpresa per il risultato ottenuto per cui il gruppo riesce a regalare una nuova speranza nel nostro malvagio Paese in cui si arranca per sopravvivere musicalmente (e non). (Kent)

Voto: 80
(Lavadome Records - 2015)

https://www.facebook.com/adnauseamofficial

venerdì 29 maggio 2015

When Reasons Collapse - Dark Passengers

#PER CHI AMA: Deathcore, The Black Dahlia Murder
Uno dei trend del momento, o meglio, degli ultimi anni, sembra essere quello di “imbastardire” il death metal (più classico a volte, altre volte più techno death) con il metalcore di chiara matrice statunitense. Ne è un classico esempio questo lavoro intitolato 'Dark Passengers' del quintetto francese dei When Reasons Collapse. Mi trovo qui ad analizzare il debut album della band, che conta tra le fila anche la tostissima vocalist Cristina; sfido chiunque, ad un primo ascolto e senza sbirciare il booklet, a capire che il growl che ci viene sparato in faccia, è prodotto da una voce femminile. La formazione si completa con le classiche due chitarre, basso e batteria; faccio subito i miei complimenti a tutti i musicisti che sfoderano una prestazione pregna di tecnica ma allo stesso tempo capaci di creare passaggi dalla pesantezza immane. Il CD è composto da 11 tracce compresa un'intro strumentale in apertura, che mettono subito le cose in chiaro per quanto riguarda la proposta musicale offerta dal quintetto: musica veloce, senza troppi slanci melodici, che rispetta i canoni del metalcore classico, con intermezzi rallentati e davvero heavy, che invitano al più scatenato degli headbanging. Doppia cassa in abbondanza, chitarre accordate bassissime e linee di basso killer, il tutto condito da un pregevole gusto musicale, che evita di far cadere il prodotto nella tamarraggine assoluta; altri prodotti, fidatevi, non hanno questo meritevole pregio. Da sottolineare positivamente il lavoro di produzione del CD, che sparato a volumi “seri”, mostra il meglio di sé, senza distorsioni, con gli strumenti belli cristallini che evitano il tanto odiato effetto “pastone”. Di tutto rispetto anche il lavoro dell'artwork, con un bel libretto e i testi leggibili. Tirando le somme, un buon prodotto, che potrebbe tranquillamente essere pubblicato da una major, anche se personalmente ritengo il genere proposto un po' troppo saturo al momento, con conseguente difficoltà per i gruppi indipendenti di trovare il giusto spazio che meriterebbero (ma è anche per questo che esiste “Il Pozzo”). L'unico difetto che ho trovato lungo i ripetuti ascolti è quello dell'effetto “monolite”, ma nel senso peggiore del termine; 40 minuti non sono molti, ma rischiano di diventare eterni se le canzoni sono poco varie e il metronomo si sposta di alcuni bpm da una traccia all'altra. Una maggiore varietà nelle composizioni, sopratutto negli incipit delle canzoni, gioverebbe all'ascolto. Nonostante tutto, da segnalare assolutamente come tracce di rilievo: “No Time for Regrets”, “When Reasons Collapse”, “Come to Me” e “Bitterness and Grief”, che rendono bene l'idea della qualità proposta dal quintetto. Presenti su Facebook con una pagina ben curata, provate a scoprire questi ragazzi francesi: voi non ve ne pentirete di sicuro, qualche problemino potrebbero piuttosto averlo i vostri timpani. Potenti. (Claudio Catena)

(Self - 2015)
Voto: 75

giovedì 28 maggio 2015

This Empty Flow - Nowafter

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Dark Sperimentale, Radiohead
Nati nel 1994, dalle ceneri degli storici doomster finlandesi Thergothon, i This Empty Flow hanno avuto vita breve se pensiamo che già nel 1997 venne posta fine al progetto. Un vero peccato, dato che in soli tre anni di attività i This Empty Flow hanno saputo comunque scrivere delle pagine di importanza non marginale all'interno del vasto panorama musicale underground e con una classe così unica che oggi il loro nome ha lasciato il segno. La formazione, composta inizialmente dagli ex-Thergothon Jori Sjöroos (voce/chitarra) e Niko Sirkiä (tastiere), fu presto affiancata dal bassista Aku-Tuomas e nel marzo del 1996 debuttò per la nostrana Avantgarde Music con 'Magenta Skycode', un album stupendo che a causa di una scarsa promozione passò purtroppo "in sordina" e non ottenne così l'attenzione che avrebbe meritato. Il successivo 'Three Empty Boys' non ebbe sorti migliori e fu pubblicato dalla Plastic Passion solo nel 1999, quando il gruppo era ormai sciolto. Questa raccolta, uscita per l'italiana Eibon Records nel 2001, racchiude sei brani fino ad allora inediti, cinque già contenuti nel secondo album 'Three Empty Boys' e tre tratti da 'Useless and Empty Songs', un cd-r realizzato nel 2000 sempre dalla Plastic Passion nella limitatissima quantità di 111 copie. Il cd si apre con le sei registrazioni inedite (ultime composizioni del gruppo risalenti all'estate del 1997), che oscillano tra sonorità alla Radiohead e sfumature trip-hop; ne sono un esempio il bellissimo brano d'apertura "Je(n!)i Force", in cui violino e chitarra accompagnano l'incedere lento e ritmato del pezzo e "Marmite", inframmezzata da insolite parti rappate. Dopo gli accenni psichedelici di "Stilton" è la volta delle melodie dilatate di "Shoreditch", tra le quali affiora lo spettro dei Pink Floyd e dove timidi arpeggi di chitarra sostengono la vocals sommesse di Jori. In "And also the Drops", rifacimento del brano "Drops", emerge un gusto pop accostabile ai primi Suede, mentre in "Ashby-de-la-Zouch" i toni gravi e drammatici degli strumenti a fiato si diffondono tra una voce sospesa e i riverberi di liquidi synth. Con "One Song of Solitude" l'influenza The Cure si fa abbastanza evidente e ci trascina in uno stato di abbandonica e piacevole malinconia, sensazione che ci avvolge anche in "Angel's Playground" e in "Dubby", dove le melodie struggenti della chitarra colorano i nostri pensieri delle sfumature più cupe. Fragili, malinconici e toccanti, i settanta minuti di musica contenuti all'interno di 'Nowafter', sono il testamento di una band che ha avuto poca fortuna nella sua breve carriera, rendiamo allora un giusto tributo ai This Empty Flow, facendo nostra questa bellissima raccolta e non dimenticandoci di loro. (Roberto Alba)

(Eibon Records - 2001)
Voto: 85

Tezza F. - The Guardian Rises, Part 1

#FOR FANS OF: Power/Prog Metal
Rummaging through underground power metal acts is like treading on thin ice. You may discover a hidden gem such as I have with the likes of Fogalord and Dragon Guardian - or you may end up subjecting yourself to 45 minutes of dull and badly-produced drek like Skylark. Fortunately, Italy's one-man band, Tezza F, is one of the latter. Though having never heard his first full-length album, the quality of metal on show for this EP is nothing if not promising. Yes, you heard! A one-man power metal band! This minimal form definitely benefits the outcome of this release. It's clear that Fil Tezza, its sole member, is playing things by his own rules, whilst totally relishing and savouring every note. This is a man who loves what he does - and what he does best is worship the Falconers and Vision Divines that went before him; using these influences to create his own brand of melodic power metal. The production is admittedly superb. It's hard to fathom how major mainstream acts like Metallica are still struggling to secure a decent sound quality when humble artists such as Tezza can achieve such a crystal clear timbre on their meagre budget. The drums are crisp, the guitars are full and rounded, the leads are clear and the vocals sit comfortably at the forefront. Tezza understands how an EP should be structured. There is no wasted space here, just a well thought-out tracklist consisting of original material. Even the 2-minute introductory title-track feels necessary and substantial - its declamatory tones paving the way for the bombast to follow. "The Sign of the Holy Cross" may not have been the best choice of opener considering its march-like tempo. The soaring hymn "Jolly Roger", or the galloping "Wildfire" would fare better. But the brevity of this EP allows all tracks to be highlighted in their own right. With the addition of some quirky compositional devices (the growled vocals in particular were a lovely additional element) Tezza F has proved that he has major potential in the Italian power metal scene. 'The Guardian Rises, Part 1' is the correct way to push your band's name forward whilst remaining stylistically loyal. Well done, sir! (Larry Best)

(Heart of Steel Records - 2015)
Voto: 85