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martedì 7 aprile 2015

Corbeaux - Hit the Head

#PER CHI AMA: Post-rock/Alternative, Cult of Luna, Pelican, The Ocean 
Primo: il disco è masterizzato dal grande Magnus Lindberg, l’uomo dietro i Cult of Luna – e si sente. Secondo: il packaging è piacevole e curato, pur mancando di un booklet. Terzo: è post-rock strumentale, d’accordo, ma il quartetto francese al primo full lenght (dopo un EP nel 2011 e uno split CD nel 2012) sprizza personalità da tutti i pori. Si sente l’influenza di Cult of Luna e Pelican, ma ci sono anche i The Ocean, qualcosa di Mogwai e molto altro ancora. I Corbeaux suonano da dio, curando le dinamiche con grazia ma senza disdegnare distorsioni sporche e suoni grezzi: il disco è suonato davvero, è molto analogico e caldo sia nei suoni che nella tecnica. Apre le danze “Cran d’Arret” – l’unico brano, con “Ezimpurkor”, a superare i 7 minuti – con un riff dispari che condurrà lungo tutta la canzone. Il brano prima esplode, e poi definitivamente deflagra intorno ai 3 min in uno splendido bridge in controtempo con un inquietante bending di chitarra: da antologia, uno dei momenti migliori del disco. “La Bagarre” mi ha ricordato in certi passaggi gli Helmet più noise nei giochi delle chitarre e nella batteria tiratissima. “7th Avenue” si muove eterea ed inquietante tra arpeggio e tastiere, evocando abbandonati paesaggi post-urbani come in una perfetta colonna sonora. Con “Sur Un Fil” si torna alle ritmiche aggressive che mi hanno ricordato alcuni lavori Pelican: il basso (sentite che suono, perfetto!) in primo piano tiene il tempo per tutta la prima parte, per poi lasciare spazio alle oscure pennellate di chitarre nel resto del brano. Splendidi gli scambi forte/piano in “Where Is Dave”, che presto evolve in un ambient ispiratissimo fino alla reprise finale. Conclude il disco “Ezimpurkor”, l’altro gioiello di 'Hit the Head': è il brano più lungo, e i Corbeaux ne approfittano per riassumere un po’ tutta la loro visione: diversi livelli, emozioni, velocità, riff, atmosfere – tutto è mescolato in un brano schizofrenico e a tratti ipnotico (come nel lungo bridge intorno ai 5 min), e contiene l’unica parte cantata dell’intero lavoro: una disperata melodia urlata che si staglia come una perla nel nero mare strumentale del disco: la chiusura ideale di un cerchio. Un bel lavoro, premiato da una produzione praticamente perfetta, scritto e suonato con gusto, precisione, eleganza e idee. Non c’è nulla di spaventosamente innovativo, intendiamoci: ma se questo non è il futuro del post-rock, è senz’altro una delle migliori visioni sul suo presente. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 80

mercoledì 25 marzo 2015

Arcade Messiah - S/t

#PER CHI AMA: Progressive Post-rock, Porcupine Tree
Questo non è un disco post-rock: è un disco prog-metal – o al limite prog-alternative – senza cantante. Solo vedendolo in questa luce è possibile coglierne la vera direzione. Dietro a tutto c’è un uomo solo: l’iperprolifico John Bassett, frontman dei KingBathmat, al suo debutto solista con un lavoro che lui stesso definisce “oscuro e apocalittico”. Al centro di tutto ci sono le due chitarre: una costruisce ritmiche mai banali, spesso su tempi dispari e incostanti; l’altra dipinge quasi costantemente assoli o arpeggi che diventano melodie, non sempre memorabili ma di grande effetto. Basso e batteria sono i due strumenti forse meno rifiniti: più che buoni nel complesso – ma specialmente la batteria, pur fantasiosa e indovinata, soffre di un suono fin troppo digitale e innaturale. L’evolversi dei brani segue la tradizione del post-metal, pur assestandosi su una abbordabilissima durata media di circa 5 minuti per brano: segmenti più ispirati, spesso costruiti su indovinati arpeggi e linee melodiche (la dolce e brevissima “Aftermath”, o la lunga introduzione di “Roman Resolution”), che presto esplodono in riff più pesanti e distorti (sentite che botta di metal “Traumascope” o l’oscura “Everybody Eating Everyone Else”), raddoppi di batteria e architetture più complesse; qualche linea di tastiera (soprattutto archi) fa da legante qua e là e aggiunge colore alle parti. C’è una certa ossessione nella ripetizione dei fraseggi, sui quali di battuta in battuta si aggiungono note, strumenti, dettagli: il risultato è pesante, apocalittico, curato nella progressione geometrica del suono sia prima che dopo l’esplosione del brano. “Your Best Line of Defence is Obscurity” è il capolavoro del disco (che segue l’opening “Sun Exile”, a mio avviso il pezzo più debole). L’ingresso sottile e arpeggiato ricorda – come parecchie altre parti più tranquille di “Arcade Messiah” – alcuni lavori dei Porcupine Tree; l’evoluzione è in una melodia di chitarre davvero memorabile, che trasporta di livello in livello fino allo splendido finale, con quei controtempi di batteria ad arricchire un pattern già superlativo. 'Arcade Messiah' è in definitiva un lavoro dove è facile percepire la maturità di Bassett, musicista e compositore navigato. Se cercate il post-rock intelligentoide e analogico dei Mogwai o dei Karma to Burn, questo disco non fa per voi; se cercate il gelido prog-metal ipertecnico fine a se stesso stile Liquid Tension Experiment, lasciate perdere. Se invece volete uno splendido punto di incontro tra i due generi, ascoltate 'Arcade Messiah' e non ne rimarrete delusi. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 80

domenica 22 marzo 2015

☉ - L'Effondras

#PER CHI AMA: Post rock strumentale, Ahkmed, 35007, Mogwai, Pink Floyd
Forza, ripetiamolo insieme ancora una volta: il post-rock strumentale ha rotto le palle. La musica che cresce e cala per tutto il disco, i brani infinitamente lunghi, quel piglio intelligentoide e intellettuale, l’autoerotismo musicale e soprattutto il grande nemico per eccellenza di questo genere: la noia, inesorabile, che vi assale dopo i primi 50 secondi di ascolto. Beh, iniziate pure a ricredervi: perché il trio francese L’Effondras (ma il loro nome in realtà è un punto con un cerchio intorno, simbolo del sole: non a caso, sul pack c’è un leone che divora il sole), con questo debut omonimo, ha realizzato un gioiello come non ne ascoltavo da tantissimo tempo. Sette brani per più di 70 minuti, con quattro pezzi ben oltre i 10 minuti, sono un bel po’ di roba da ascoltare: ma arriverete in fondo chiedendone ancora, e ancora, e ancora. I L’Effondras pescano a piene mani dalla tradizione post-rock più moderna (mi sono venuti in mente i Mogwai o alcuni lavori dei 35007), ma condiscono il lavoro con suoni curatissimi, sporchi senza essere mai davvero distorti, dannatamente emozionali, che mi hanno ricordato gli Ahkmed di Chicxulub. Ma c’è di più: “La Fille aux Yeux Orange” indugia su un riff che sa di folk/blues americano; la splendida “L’Ane Rouge” sembra suonata dai Pink Floyd di Barrett (lo sentite lo slide e l’indovinatissima ritmica sui timpani?). Alcuni passaggi di “L’Aure des Comètes” hanno il gusto settantiano dello space-rock degli Hawkwind e – nella reprise – il fascino noise dei Sonic Youth più groovy. Si sente che i quattro suonano davvero: l’attenzione alla dinamica è spaventosa. I brani si gonfiano e poi spariscono; le chitarre costruiscono arpeggi delicatissimi, si fermano e poi ripartono; esce il delay, entra un leggero distorsore; la batteria (vero capolavoro dell’album: tecnica, scrittura e registrazione) suona prepotentemente in faccia per poi nascondersi tra giochi sottili di piatti e rullante. L’equilibrio tra tecnica e sentimento del trio è pazzesco: nessuno sfoggio tecnico a sé stante, nessun onanismo strumentale, persino negli oltre 22 minuti della doppia “Caput Corvi” (Part I e Part II) non c’è una nota in più, un passaggio superfluo, un’esagerazione. Ascoltare 'L’Effondras' è come respirare: il fiato va e viene, a volte è più veloce, a volte più profondo, a volte lo si trattiene aspettando l’esplosione – ma tutto scorre naturalmente, senza sforzi. E non ci si annoia mai. Aggiungete una produzione perfetta (assai migliore di tanta robaccia professionale che capita di ascoltare oggi) ed un packaging pulito ma evocativo, e la ricetta è completa. Il mio nuovo gruppo preferito, da ascoltare. (Stefano Torregrossa)

(Dur et Doux - 2014)
Voto: 90

lunedì 2 febbraio 2015

Beyond the Dust - Khepri

#PER CHI AMA: Prog/Metalcore, Mathcore, Periphery, Tesseract, Dream Theater
Capiamoci subito: essere originali in questo genere è davvero dura. Se urli su lenti poliritmi ossessivi ricordi i Meshuggah; se fai pezzi iperveloci sembri i The Dillinger Escape Plan; se ci metti la melodia fai il verso ai Periphery o ai Dream Theater dei tempi migliori; se aggiungi un po’ di atmosfere sintetiche ecco i Tesseract. In mezzo a questi ipotetici estremi, trovano il loro habitat naturale i Beyond the Dust, quattro parigini al primo full lenght dopo un EP datato 2011. Chiamarlo habitat naturale forse è riduttivo: i Beyond the Dust, in questo crogiolo di tecnica e songwriting estremo, ci sguazzano proprio. C’è proprio tutto quello che serve: ci sono i riff granitici con leggero tono orientaleggiante su tempi tagliati e sincopati (“After the Light” o la splendida “Zero”); ci sono le inquietanti intro di voci campionate, effetti e batteria elettronica (“Rise”); c’è un’attenzione maniacale alla melodia, anche e soprattutto dove non te l’aspetti (“Clarity”: sei minuti e mezzo di puro capolavoro, sempre in tensione tra melodia catchy e riffing spietato, con aperture improvvise e cavalcate brutali, interamente giocata su intelligentissimi fraseggi di chitarre a diverse ottava di distanza). 'Khepri' si chiude con una lunga suite divisa in tre parti (in realtà, sembrano più tre canzoni diverse con il solo titolo in comune): “The Edge of Earth and Sea”, delle durata totale di oltre 20 minuti, che rappresenta la summa totale della visione dei Beyond the Dust. Ci sono arpeggi acustici che ricordano Dream Theater e Opeth, potenti cavalcate metalcore, abbondanti tastiere, assoli stile Petrucci e poliritmi in palm-mute stile Meshuggah. La voce, in piena tradizione metalcore, alterna scream e cantato – non potentissimo, ammettiamolo, ma sempre intonato e raramente banale – permettendo un’ampia varietà all’interno del lavoro. Il songwriting non è certo estremo come altri grandi del genere: c’è parecchio 4/4, intendiamoci. Poliritmi, cambi di tempo e terzine sono spesso nascosti dentro passaggi inaspettati o brevi interludi strumentali (sentite “Silence and Sorrow”, con le sue strofe solo apparentemente regolari e i bridge destabilizzanti): ma stanno bene così, sono dosati con perizia e rendono l’ascolto dell’intero disco un piacere per le orecchie più che una sfida per il cervello. Uno dei lavori migliori dell’ultimo anno. (Stefano Torregrossa)

(Dooweet Records - 2014)
Voto: 85

sabato 31 gennaio 2015

I Watch Mountains Grow - The Ancient

#PER CHI AMA: Progressive Metalcore/Avantgarde
Ascolto questo primo full-lenght degli austriaci I Watch Mountains Grow, e non posso fare a meno di pensare: questi sono dei fottuti schizofrenici. 'The Ancient' è una sorta di frullatore primordiale, in cui il quintetto viennese vomita tutto quello che ha divorato: tracciare una lista di riferimenti musicali sarebbe quasi impossibile. Il disco si apre con “Syria”: un minuto di pianoforte inquietante che esplode in una violenta sequenza di riff, bridge senza capo né coda, dove la voce di Ben G! urla e gorgoglia di puro malessere. C’è una certa vena punk negli I Watch Mountains Grow e “No Hard Feelings Dude” e la title-track “The Ancient” lo dimostrano: batteria in quattro, cori urlati, melodie deviate – una versione malata e sotto adrenalina dei Black Flag. Ma non è finita: preparatevi ad agitare l’accendino sul ritornello strappamutande di “How is the Thing Called, That's Left When Friendships End?”. Non c’è tempo per respirare: “That Moment When You Can't Find a Lighter” e “…And Footsteps of a Spaceman” vi catapulteranno in una cosa a metà tra Meshuggah e Black Dahlia Murder, con una punta di percussioni jungle e testo rappato. C’è la brutalità dei Cannibal Corpse alternata a ritornelloni prog-metalcore (“In Conflict!”), c’è l’atmosfera rarefatta ed inquietante delle tastiere ispirate (“Of Wind and Water…”, “All Those Moments Will Be Lost in Time, Like Tears in Rain”), c’è persino un brano quasi-pop con voce femminile (“Tribute To Humanity”) e una ballad romantica acustica (“We Start at the End and Stop at the Beginning “). La ricetta che si ritrova più spesso è quella del metalcore (così spesso che le parti si assomigliano un po’ tutte tra loro): ritornelli corali e melodici da mani alzate infilati in canzoni violente condite da growl, scream e stop-and-go di batteria. Ma non è tutto qui, neanche per sogno: se c’è una cosa che gli I Watch Mountains Grow sono capaci di fare è sorprendere, con stile. È un disco difficile da ascoltare, non si può negare: manca un filo conduttore omogeneo e, forse, è questa la vera forza (e paradossalmente, il vero punto debole) di 'The Ancient'. (Stefano Torregrossa) 

(Self - 2014)

mercoledì 10 dicembre 2014

Endname - Demetra

#PER CHI AMA: Post-metal, Doom, Ambient
Un disco concettualmente diviso a metà: due lunghe tracce da una parte, due dall’altra, come suonate da band differenti (sono quattro tracce, ma è un full-lenght vero e proprio: l’intero lavoro dura quasi 45 minuti). I russi Endname sono in grado di mescolare ingredienti estremamente diversi in un unico flow strumentale che, strano ma vero, fila via dritto come un missile. 'Demetra' si apre con “Duplication of the World”: pesante e ossessiva, delirante nei tempi dispari, carica di intensità doom. A seguire “Union”: la traccia più complessa, dove distorsioni e ritmiche si inseguono per quasi 12 minuti di oscurità e groove, tra crescendo e calando di pulsazioni metalliche e sonorità nerissime. Ce ne sarebbe abbastanza per fare un EP, catalogabile banalmente come post-metal strumentale. Ma gli Endname osano di più e si avventurano in territori completamente diversi. La seconda parte del lavoro si apre con una lunghissima (17 minuti) suite ambient, “Forest”. Emerge il lato riflessivo e inquieto del terzetto di Mosca: campioni elettronici, suoni sottili, lunghi respiri del vento. La foresta è buia e avvolta nella nebbia, siamo soli nell’oscurità e qualcosa di terrificante sta per accadere. È “DOTW RX”: come un mostro che emerge dalla notte, gli 8 minuti della traccia di chiusura sono sconvolgenti e folli: dissonanze, lunghe cavalcate noise, disturbi elettronici. Pazzia pura, come nelle malate dimensioni alternative pensate da H.P. Lovecraft: si perde il senso del ritmo con la batteria completamente sfalsata, che accelera e rallenta ignorando il percorso degli altri strumenti per esplodere in un finale rumoroso e disturbante. Pur penalizzato qua e là da una produzione non sempre all’altezza della situazione, questo 'Demetra' è proprio un bel lavoro: rompe le regole del post-metal proponendo un ascolto complesso, difficile, denso di dettagli, stili, riferimenti. Un disco per pochi. (Stefano Torregrossa)

(Slow Burn Records - 2014)
Voto: 75

sabato 22 novembre 2014

Beak - Let Time Begin

#PER CHI AMA: Post-metal, Sludge, Isis, The Ocean
Ogni volta che ascolto un disco post-metal mi faccio la stessa domanda: ma il post-metal ha ancora qualcosa da dire? Se ce l’ha, i Beak potrebbero essere un interessante punto di vista. Di buono in questo primo full-lenght del quartetto di Chicago c’è molto. Anzitutto gli arrangiamenti estremamente personali: sentite lo sviluppo meraviglioso della lunghissima “Into The Light”, la curiosa apertura in maggiore nel refrain di “Light Outside”, o la deriva noise di “Carry A Fire”. C’è un innovativo pizzico di electro-rock (“The Breath Of Universe”) grazie ad un attento utilizzo dei synth. Non ci sono brani lunghissimi e inaffrontabili (tolti i 7 minuti della già citata “Into The Light”, la maggior parte dei pezzi gira intorno ai 4.30) che, in un’epoca di post-metal spesso autoreferenziale e ripetitivo, può essere un indice di qualità. C’è tutto quello che vi aspettereste da una band del genere: le atmosfere che cambiano, le chitarre che crescono e calano, gli arpeggi alla Opeth e le cavalcate alla Cult Of Luna, i break strumentali. C’è persino un packaging da antologia, curatissimo in ogni dettaglio. Purtroppo, il disco non è privo di difetti: il primo è la piattezza dello screaming di Chris Eichenseer. Le chitarre hanno un bel da fare a tenere alto il tono dei brani (con ottimi risultati), ma la voce risulta terribilmente noiosa già dalla seconda traccia in avanti. Il secondo grande difetto è una registrazione di qualità bassissima che, purtroppo, non rende giustizia al lavoro: immagino che la scelta sia stata intenzionale (non saprei spiegarla altrimenti), probabilmente per una certa affezione alla ruvidità della scena sludge. Ciononostante, il post-metal è un genere delicato che merita un’attenzione ai suoni non indifferente; una produzione potente, precisa e misurata che, in questo 'Let Time Begin', non c’è. Un disco che poteva essere (quasi) indimenticabile ma che, purtroppo, farete fatica a capire fino in fondo. (Stefano Torregrossa)

(SomeOddPilot - 2014)
Voto: 70

mercoledì 12 novembre 2014

Jackknife Seizure - Time Of The Trilobites

#PER CHI AMA: Groove Metal, Soundgarden
I Jackknife Seizure sono un interessante quartetto di Londra attivo dal 2010, salito agli onori dei metallari grazie alla vincita dell'ultimo “London Metal 2 The Masses” e uno show live al “Bloodstock Festival” la scorsa estate. Questo 'Time Of The Trilobites' è il loro debutto: quattro brani registrati perfettamente – la qualità audio è davvero straordinaria, per essere un EP – che pescano il meglio dalla scena rock-metal degli anni ’90 (Soundgarden soprattutto, sia nella struttura delle canzoni che negli arrangiamenti, e qualcosa dei primissimi Pantera di 'Cowboys from Hell') per tritarli in un metal sbarazzino di ispirazione decisamente più moderna. Evidenti gli echi agli Alice In Chains nel primo minuto di “Wanker (Means You’re a Cunt)”; c’è anche qualcosa degli ultimi Mastodon (ma non certo nei suoni: qui è tutto limpido e definito) nell’incedere dispari di “Mechanical Mosquito”. Il riffing è tagliente e preciso, accompagnato da una sezione ritmica mai eccessiva – non aspettatevi fraseggi brutali e blastbeat al fulmicotone: i Jackknife Seizure prediligono la melodia alla durezza, e gli interventi metal sono misuratissimi (qualche cavalcata di doppia cassa; un paio di accelerazioni interessanti; e più in generale suoni, distorsioni ed equalizzazioni). Su tutto questo, la voce pulita e potente di Gerry, costruisce melodie ben fatte di chiara ispirazione cornelliana. Un EP ottimamente prodotto, che dura una manciata di minuti (solo 25) e scorre via liscio come l’olio. Vale l’ascolto se siete nostalgici del bel rock-metal di una ventina di anni fa e se non siete abituati a brutalità death o ai suoni sporchi dello sludge. Sarà interessante ascoltare i Jackknife Seizure alla prova ufficiale del primo full-lenght. (Stefano Torregrossa)

mercoledì 8 ottobre 2014

Deconstructing Sequence - Access Code

#PER CHI AMA: Progressive Death-metal, Avantgarde, Industrial
Due tracce da circa 8 minuti ciascuna. Un artwork da fantascienza vintage, con una gigantesca nave squadrata che incombe sul pianeta Terra, su un cielo rosso sangue. Una strumentazione (chitarra, basso e batteria, ma anche synth e programming) che promette grandi cose e una produzione di prima classe. Non da ultimo, l’esperienza di un precedente EP ('Year One', 2013) e gli anni di militanza nei polacchi Northwail. L’opera si apre con la celebre frase “My god: it’s full of stars…” da '2001: Odissea nello Spazio'. È il primo verso di molti, lungo tutto il lavoro, a raccontare un concept: la metafora del viaggio nella gelida desolazione dell’universo come viaggio nella disperazione interiore. Le coordinate musicali dei Deconstructing Sequence, invece, sono più complicate da tracciare: ci sono elementi degli Arcturus più sperimentali, degli Emperor, di Ayreon, persino dei Gojira. Ma è tutto modellato in un’ottica talmente personale che il risultato supera la semplice somma algebrica delle parti. “A Habitable World is Found” mette subito tonnellate di carne al fuoco: c’è il riffing prog intelligente e furioso (ascoltate la splendida intro), ci sono le cavalcate death di doppia cassa e blast beat, le aperture sinfoniche di synth, gli inquietanti arpeggi di chitarra pulita, la decostruzione ritmica del math metal e persino un accenno di industrial in alcuni passaggi più elettronici. La seguente “We Have The Access Code” apre con un piccolo capolavoro di batteria, che sfocia con rabbia in una canzone veloce, oscura e violenta. Mentre i testi raccontano di una nave persa nello spazio che l’equipaggio, disperato, continua a pilotare verso il nulla, la canzone implode in sé stessa, diventando un lento e melanconico respiro dell’universo; salvo poi tornare ad evolvere in un prog-death da antologia fino all’esplosivo finale. Le voci contribuiscono a dare colore e personalità alle diverse parti del brano: growl e harsh da un parte, spoken-words con effetto radio dall’altro, piccoli e misuratissimi gli accenni melodici. L’impressione – resa splendidamente – è quella di un continuo e disperato dialogo tra la terra e la nave, o tra la nave e lo spazio stesso. Tanta personalità creativa e un tale livello di forza narrativa di musica e testi sono davvero rare in una band emergente. Resta da vedere se, alla prova del primo full-lenght, sapranno mantenere le ottime premesse di questo piccolo gioiello del metal contemporaneo. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 80

venerdì 3 ottobre 2014

Grace Disgraced - Enthrallment Traced

#PER CHI AMA: Technical death metal, primi Death, Carcass, Morbid Angel
Dalla Russia con furore: i Grace Disgraced sono un potente quartetto di Mosca, che hanno debuttato con questo densissimo full-lenght 'Enthrallment Traced'. L’album è una sorta di concentrato del meglio del thrash-death anni ’90 (Death, Carcass, Morbid Angel), arricchito da una spaventosa attenzione alle ritmiche e alla tecnica. Niente è lasciato al caso, nessuna scelta è banale: i tempi cambiano spessissimo, i riff si inseguono in continuazione tra cambi repentini e accelerazioni, il tutto condito da tempi dispari, sfuriate di doppia cassa e la rinuncia quasi totale alla forma canzone tradizionale (strofa-ritornello-strofa-assolo e così via: ascoltate la opening “Prophecy Of Somnambulist”). E non parliamo di veloci pillole hardcore: la maggior parte dei brani supera i 6 minuti, e la finale “Orchids Of The Fallen Empire” sfiora addirittura gli 8 minuti di lunghezza. Una vera sfida, per un genere abituato a pezzi ben più sintetici. Il primo applauso va senz’altro al granitico Andrew Ischenko alle pelli: in certi passaggi mi ha ricordato il Paul Bostaph dei tempi d’oro, per la capacità di colorare in maniera sempre diversa ogni rullata e per l’ottima gestione di tempi sincopati, stop-and-go ritmici e spietati blast-beat. Ascoltate “To Autumn” o “Adzhimushkai”, con le improvvise accelerazioni, le pause e le cavalcate ossessive di doppia cassa. Il secondo applauso è invece per le capacità vocali della cantante: Polina Berezko, bionda e apparentemente innocua, gorgoglia e ringhia per tutta la durata del disco. È un cantato perfettamente allineato con i canoni del genere e più che sbalorditivo per una ragazza ma, personalmente, il suo ruggito piatto e invariabile alla lunga stona con l’enorme varietà musicale e ritmica proposta dal resto della band. 'Enthrallment Traced' è comunque un disco d’esordio di cui essere fieri: produzione, testi, artwork, arrangiamenti e tecnica musicale sono di altissimo livello. È perfetto per i nostalgici del thrash-death e per gli amanti del metal tecnico e brutale degli anni ’90: ma se cercate originalità, forse questo non è il disco adatto. I Grace Disgraced sono giovani: sarà un piacere scoprire se la loro evoluzione li porterà a soluzioni più personali e innovative. (Stefano Torregrossa)

(More Hate Productions - 2012)
Voto: 65

mercoledì 1 ottobre 2014

Byzanthian Neckbeard - From The Clutches Of Oblivion

#PER CHI AMA: Doom Stoner metal, Iron Monkey, Electric Wizard, Shape Of Despair
C’è un teschio spiritato e barbuto sulla copertina bianchissima di questo 'From The Clutches Of Oblivion'. E nonostante la pulizia del packaging (digipack in edizione limitata), il debutto dei Byzanthian Neckbeard è sporco, grezzo e oscuro come poche altre cose sentite ultimamente. Il quartetto arriva da una sperduta isola britannica nella Manica, dove praticamente tutti allevano una razza pregiata di bovini. Curioso quindi, che da un luogo così verde, bucolico e tradizionalista arrivino questi quattro giganti barbuti, che suonano con accordature letteralmente sottoterra e parlano di cadaveri, occultismo, fine del mondo e allucinazioni. Lo stile si rifà ai grandi del doom metal / sludge britannico: Electric Wizard, Iron Monkey e in parte Orange Goblin. Riff serratissimi (splendide l’opening “Doppleganger” e l’intera “The Ganch”), arrangiamenti intelligenti che mi hanno ricordato certi Paradise Lost, bpm quasi sempre lenti e ossessivi (“Plant of Doom”) salvo poche, misuratissime sfuriate. La voce ha molto in comune con gli Shape Of Despair: un pesantissimo growl di impronta death, che rende tutto ancora più oscuro. Un lavoro che meriterebbe un voto altissimo, se non fosse per due piccoli difetti. Il primo: pur in alcune scelte stilistiche originali (in certi incastri basso/chitarra, ad esempio, o in alcuni repentini cambi di tempo), il disco non aggiunge nulla di veramente nuovo a quanto non abbiano già detto band più illustri. Il secondo: l’unico strumento davvero equalizzato bene è il basso – bello, rotondo, presentissimo, distorto al punto giusto: ascoltatevi l’intro di “Indoctrinate The Priestess”. Tutto il resto poteva essere reso meglio: le chitarre mancano forse un po’ nelle frequenze più basse nonostante l’accordatura, e la batteria a tratti è addirittura ridicola (ascoltatevi i piatti: poca coda, suoni taglienti, poco adatti ad un genere come questo). C’è da concedere ai Byzanthian Neckbeard il beneficio del debut-album: se la linea resta questa, sono certo che il prossimo disco sarà un capolavoro assoluto. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 70

giovedì 11 settembre 2014

Numbers - Three

#PER CHI AMA: Progressive, Metalcore, Post-metal, Periphery, Protest The Hero
Si chiama 'Three', ma questo lavoro dei Numbers (da Seattle) è in realtà il loro vero debutto come full-lenght, dopo due EP. Carne al fuoco ce n’è parecchia, fornita soprattutto da voci e tastiere, suonate entrambe dal frontman Kyle Bishop. La voce passa dagli harsh vocals (gestiti in modo per nulla banale) del metalcore ad interessanti costruzioni melodiche – timbro pulitissimo, fantasia, melodie catchy quanto basta, ottima tecnica soprattutto nel registro più alto. Le tastiere (onnipresenti nei brani e in quasi tutti gli intro e gli outro) insistono particolarmente su costruzioni di pianoforte e strings, limitando gli inserti industrial, di synth e drums elettroniche a pochissimi episodi. Il risultato è particolarissimo: un pianoforte che arpeggia su riff appena spruzzati di math e sfuriate di doppia cassa, dona un colore completamente diverso al brano. Non pensate quindi ad un clone di Fear Factory e Pitchshifter: l’atmosfera generale è tutt’altro che cupa e oppressiva, e le scelte stilistiche sono decisamente più orientate alla melodia prog e al postcore moderno che al metal pesante. I tredici brani passano velocemente, rivelando l’intensa personalità del quartetto di Seattle e l’omogeneità del loro stile pur nel mash-up di generi. Si passa da pezzi più melodici (“Thruth Bender”, “Recreate”) con ritornelli indovinatissimi a violenti episodi metalcore (“Sicken”, “Shortly Broken”), senza mai perdere il filo. Capolavoro assoluto resta “Undertow”: oltre 11 minuti di brano in cui i Numbers lasciano il giusto spazio a ciascuno degli strumentisti, costruendo un’architettura sonora a cavallo tra ambient, prog, jazz e metal, che lascia senza fiato dal primo all’ultimo minuto. Il disco chiude con un altro piccolo gioiello, “Ghost in the Room” – penalizzata forse dalla posizione nella tracklist – in costante tensione tra Protest The Hero, elettronica e con un inserto jazz da antologia. Batteria, basso e chitarra svolgono un buon lavoro, intendiamoci, pur senza nulla di particolarmente originale. Ma senza tutta questa tastiera “classica” – che darà senz’altro fastidio ai puristi del metal – e le incredibili capacità vocali e melodiche di Bishop, temo che i Numbers sarebbero solo un gruppo come tanti altri. Bravi e originali. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 75

giovedì 3 aprile 2014

Aeris - Temple

#PER CHI AMA: Post metal strumentale, Jazz-metal, Math 
Il grande difetto del post metal strumentale (e di qualunque post-genere senza cantato, per inciso), l’ho già detto in passato, è la noia: anche un appassionato, di fronte a minutaggi infiniti di chitarra-basso-batteria che si ripetono fino all’ossessione con il solito trucchetto del veloce-lento-veloce, rischia lo sbadiglio automatico già a metà del primo ascolto. Fortunatamente, non è il caso di questo 'Temple' dei francesi Aeris: il quartetto d’oltralpe concentra in soli 28 minuti (avete letto bene: 28 minuti, quasi un record) una tale quantità di generi, sottogeneri e influenze da lasciare sbigottiti. Il lavoro è diviso in tre movimenti, per un totale di sette tracce. La opening track “Fire Theme” e la successiva “Rising Light” ruotano attorno ad un tema di memoria meshugghiana, condito da una potentissima sezione ritmica e una partitura di chitarra sulle note più alte che non può non ricordare i più famosi Gojira, anch’essi francesi. Incastonato tra le due tracce, il piccolo gioiello “Hidden Sun”, giocato su atmosfere drone (Sunn-O))) e Boris) di echi, feedback e violenza pronta ad esplodere. Le seguenti “Richard”, “Horizon” e “Robot” (tutte parti del secondo movimento), si spostano invece in territori più jazz-metal: gli strumenti sperimentano ritmiche meno aggressive ma altrettanto estreme nella costruzione, scale fusion e suoni tutt’altro che banali, dando prova della grande tecnica del quartetto d’oltralpe. Chiude il disco “Captain Blood”, vero capolavoro dell’album, capace di evocare le atmosfere dei primi King Crimson ripassati nel tritacarne del metal moderno: l’ossessività delle linee melodiche e la follia appena trattenuta degli assoli fanno da contraltare ad una sezione ritmica incredibilmente precisa e potente. Un parola anche sull’artwork, vera nota stonata del lavoro: la pur bravissima illustratrice Clémence Bourdaud non ha, a mio parere, uno stile coerente con quello della band, preferendo un tratto cartoon che, nonostante il soggetto inquietante (un vecchio prete, un cerbiatto, una donna col volto coperto e un piranha in una boccia), non riesce a rendere l’oscurità e il disagio della musica al suo interno. Non è un disco per tutti, non è un sottofondo da ascensore o da supermercato. 'Temple' è un album che richiede concentrazione, attento ascolto e predisposizione – anche e soprattutto perché dura (intelligentemente, direi) meno del solito. È un inno alla sperimentazione e alla creatività, in un genere che troppo spesso sforna mediocrità scopiazzate e dischi che si dimenticano al primo ascolto. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2013) 
Voto: 80 

mercoledì 19 marzo 2014

Enos - Chapter I

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Stoner/Sludge, Space rock, Orange Goblin, Baroness, Sleep 
Si intuisce che c’è più del solito disco in questo 'Chapter 1' degli Enos solo guardando il packaging: schemi di costruzione di razzi spaziali, un bel fumetto free – come il disco, d’altra parte: tutto in free download –, e una tracklist che racconta già una storia: quella di una scimmia, Enos, che negli anni ’60 fu addestrata dalla NASA e lanciata nello spazio come test per i futuri viaggi dello shuttle. Enos tornò a casa, nella vita reale: la band inglese, invece, immagina che da qualche parte la scimmia si perda nello spazio e ritorni sulla Terra, sì, ma ormai trasformata in qualcos’altro. Musicalmente gli Enos pescano a piene mani elementi dello stoner/sludge psichedelico di oltreoceano (c’è qualcosa dei Kyuss, certo, ma anche di Sleep, Baroness, Hawkwind) mantenendo comunque un certo piglio British (Orange Goblin, persino Pink Floyd a tratti) soprattutto nei suoni, nella struttura delle canzoni e nel mood generale. Cinque tracce per 35 minuti: si va dai potenti riff stoner di “Launch” alle atmosfere space guidate dalla chitarra acustica di “In Space”, ma c’è spazio anche per la psichedelia floydiana di “Floating” e per l’oscurità doom delle inquietanti “Transform” e “Back To Earth”, che chiude il disco con tre minuti abbondanti di un riff ossessivo che non dimenticherete facilmente. I quattro Enos si muovono con personalità e sicurezza pur essendo un debut album: si percepiscono le influenze già citate, ma ben miscelate e interpretate con gusto e presenza. Bella la voce quasi costantemente in delay (mi ricorda i Sons Of Otis), bello il taglio blues di molti soli, belli i misuratissimi interventi di soundscapes di tastiere. Volete un difetto? Alcuni suoni, il rullante in particolare, sono forse un po’ troppo lo-fi persino per un genere che ha fatto della produzione sporca e grezza un marchio di fabbrica. Ma “Chapter 1” degli Enos resta davvero un bel lavoro, pieno di idee e ben suonato: se non bastasse, lo ripeto, l’album è pure in free download. Da avere. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2010) 
Voto: 75 

sabato 15 marzo 2014

Ewok - No Time

#PER CHI AMA: Electro Music
Il trio sloveno degli Ewok, con il loro primo full-lenght 'No Time', dimostra ancora una volta quanto l’etichetta “musica elettronica” voglia dire tutto e niente: qui non ci sono il groove dei Propellerheads, i suoni industriali dei Nine Inch Nails, gli arrangiamenti dei 65daysofstatic, il minimalismo di James Blake; non c’è nulla di dubstep, drum’n’bass o ambient. Cosa resta? Poco o nulla in realtà: il risultato è un disco che può forse funzionare in certi club dell’est Europa per scatenarsi dopo mezzo litro di vodka, un insieme di musichette goderecce da party di serie zeta, con quell’atmosfera da festa tardo-adolescenziale mentre i genitori sono fuori casa. Il basso e la batteria, che dovrebbero essere cuore pulsante del big-beat (ascoltatevi Fatboy Slim o Chemical Brothers, giganti del genere), negli Ewok hanno una personalità quasi inesistente. Vengono premiati di gran lunga i synth anni ’80 – noiosi già dalla terza traccia – e la voce, sempre a cavallo tra melodie new wave e hip-hop da dilettanti. Il premio di peggior componente va senz’altro a Milan Jerkic (voce), che esagera con gli “yeah!”, i “c’mon!” e gli “hey” trasformando anche le poche tracce appena interessanti ("Don’t Stop, Mr. Pacman") in una specie di ridicolo ballo di gruppo. Gli Ewok strappano un 55 solo per l’artwork del disco (la copertina è raccapricciante, ma il layout interno è ben fatto) e perché, dopotutto, è il loro esordio: mi piace credere che sapranno migliorarsi. (Stefano Torregrossa)

(Kapa Records - 2013)
Voto: 55

giovedì 24 ottobre 2013

Distorted Memory - The Eternal Return

#PER CHI AMA: Dark/Gothic EBM, Aggrotech, Elettronica
Dietro ai Distorted Memory c'è il canadese Jeremy Pillipow, iperprolifico e talentuoso guru dell'elettronica oscura e di ispirazione gotica e dark. I precedenti lavori ("Swallowing the Sun" del 2011 ma soprattutto "Temple of the Black Star" del 2012) erano già stati accolti con grande favore da pubblico e critica per l'innata capacità di unire l'avanguardia elettronica di ispirazione tedesca al trance/hip-hop, senza tralasciare inserti tribali, sonorità darkwave e ritmiche spiccatamente da dancefloor; il tutto condito da voci e liriche oscure, sussurrate e occulte. Il passo successivo nel percorso dei Distorted Memory, perfettamente in linea con i precedenti lavori, è questo "The Eternal Return": nove brani di elettronica ricca ma mai eccessivamente barocca, su cui Jeremy canta come se recitasse formule sabbatiche per invocare demoni. Sotto di lui, synth e bassi sintetici si inseguono per creare melodie (quasi) sempre interessanti, come negli splendidi brani "Throwing Stones" o "White Light/Dark Hope". Non mancano pezzi ballabilissimi (in "Back Away" o nel singolo "Lose Control" – complice il clap di mani che tiene il tempo– non posso fare a meno di immaginare due streghe da sabbath con le maschere dei Daft Punk) o curiose sperimentazioni (come nell'intro di chitarra acustica su "Fall"). Però attenzione: se siete abituati ad un'elettronica più spinta, nei canoni del dubstep o dell'industrial moderno, farete fatica ad ascoltare questo lavoro dei Distorted Memory: a parte i già citati brani da dancefloor, quasi tutto il disco è costruito sul mid-tempo, il beat perfetto per tessere le atmosfere oscure e disturbanti ricercate dai Distorted Memory. In più, batterie e synth sono di chiara ispirazione dark-wave anni '80 e '90: se rischiano di deludere gli ascoltatori più orientati all'elettronica del nuovo millennio, non potranno che far innamorare i nostalgici. (Stefano Torregrossa)

lunedì 7 ottobre 2013

Throne - Avoid The Light

#PER CHI AMA: Sludge, Stoner-doom, Spiritual Beggars, Weedeater, EyeHateGod
L'artwork di questo primo full-lenght degli italianissimi Throne prepara già al peggio: esoterismo, oscurità e magia nera si fondono per vestire un digipack ben curato. Musicalmente parlando, il quintetto si muove nelle coordinate dello sludgecore di ispirazione sudista, parecchio condito da elementi punk e metal (per intenderci: più EyeHateGod e Weedeater che Baroness) e arricchito da una voce potente come poche se ne sentono ultimamente. La medaglia d'oro per la performance va infatti alla voce di Samu: roca, profonda, violenta e oscura, dà il vero colore all'interno di ogni singolo pezzo e personalità all'intero lavoro. Ottima la prova di tutti gli altri; forse appena sottotono la batteria, che non ama grandi fantasie ma predilige il colpo sicuro e ben piazzato. C'è davvero poca luce in questo album: i riffing di chitarra sono a tratti oscuri e ridondanti fino all'ossessione ("Prefer To Die" – sentite che arpeggio in apertura, roba di prima classe –, "Black Crow", "Forsaken"), a tratti violenti e veloci accompagnati da un drumming di ispirazione hardcore ("Buried Alive", "3 Days Of Rain"); c'è qualcosa dello stoner di scuola Down e Spiritual Beggars ("Smoke-Screen", "God Sent Me To Kill You": saltate a 3:47 e gustatevi il riff più indimenticabile dell'intero lavoro). Ma c'è poco citazionismo in "Avoid The Light", tutt'altro traspare la volontà personale dei Throne, che hanno senz'altro le idee molto chiare sulla musica che vogliono proporre. Per fortuna, i Throne non cadono nel trucco di infilare qua e là delle tracce di rumori giusto per dire "Toh, facciamo pure la pissichedelia": il giochino sta iniziando a stufare. I cinque prediligono, insomma, la via dura: ogni singola traccia è un pugno in faccia all'ascoltatore, diretto, ben piazzato e senza scampo, che vi lascerà un livido per parecchio tempo.(Stefano Torregrossa)

giovedì 5 settembre 2013

Sofy Major – Idolize

#PER CHI AMA: Noise, Hardcore, Sludge, Melvins, primi Mastodon, Unsane, Dozer
I transalpini Sofy Major dopo varie vicissitudini mettono in campo questo loro nuovo lavoro contornato da tanta ambizione e sotto l'ala protettrice di Dave Curran (Unsane, Pigs). L'ottima qualità del lavoro si sente al primo ascolto: i nostri si muovono a proprio agio fondendo hardcore, stoner rock e sludge in un magma sonoro ricco di richiami anni '90. Sarà la parentela geografica, ma ricordano molto per un certo modo di vedere, la musica estrema dei Treponem Pal, non a caso si sente distante chilometri che sono francesi. Il trio esaspera bene le sue influenze e tutto suona quadrato e nitido passando dalle sonorità di certo alternative alla Jesus Lizard fino ai succitati Unsane con un tocco noise di scuola retrò, stile Helmet. Tutto questo rende il disco molto dinamico e nervoso, una forma sonora in continua apprensione, tra sfuriate punk di nuova generazione e rumore dalle tinte alternative. L'intero lavoro supera i quaranta minuti e si concede anche una apertura al noise ambient molto bella e inserita nella scaletta nel punto giusto dopo i primi tre brani suonati all'arma bianca. La seconda parte di "UMPPK" suona come un brano scarnificato degli One Dimensional Men di un tempo, sormontato ad un brano degli stoner rockers svedesi Dozer. Non del tutto originale ma ben fatto, cosi come la successiva "Slow and Painful" che sembra nata da un abuso di musica stoner. Si stacca leggermente dagli stereotipi stoner "Coffee Hammam" e il brano sperimentale "Seb". Il brano "Platini" riporta il punk alternativo in casa Sofy Major, ma la formula stoner/hardcore/noise li seguirà fino alla fine (la chiusura del disco è assegnata a "Power of their Voice" cover dei Portobello's Bones) dando conferma e anche una certa stabilità all'intero disco. In totale un buon percorso sonoro, forse un po' carente di personalità in alcune parti e non sempre originale, ma ben orchestrato e ben suonato... Da ascoltare... Un lavoro ben fatto! (Bob Stoner)

(Solar Flare - 2013)
Voto: 70

Un disco che trasuda volontà e personalità da tutte le parti, a partire dalla sua genesi. Il trio francese, dopo un paio di release minori e un full lenght nel 2010, si era trasferito a New York City per lavorare al nuovo disco presso i Translator Studio di Brooklyn. Peccato che, lo scorso ottobre, l'uragano Sandy abbia raso al suolo l'intero studio di registrazione e tutto il lavoro fatto dai Sofy Major: fortunatamente, grazie all'aiuto di Dave Currane (Unsane, Pigs) e della scena locale, hanno rimesso insieme i pezzi e messo in stampa questo "Idolize". Volontà e personalità, dicevamo: perché non è facile fondere insieme con successo il suono dello sludge con la violenza del post-hardcore, la follia noise dei Melvins con i Mastodon e i Tool, e inondare il tutto di fuzz e di riff memorabili. Non è facile proporre un crossover di influenze ed uscirne comunque a testa alta, con uno stile che resta originale e personale pur nel citazionismo (a volte esagerato: l'inizio di "Comment" assomiglia un po' troppo a "Gardenia" dei Kyuss, per dire). I Sofy Major sanno come muoversi bene in questo territorio pericoloso e poco definito ai confini tra lo sludge, l'hardocore e il noise. Tolta l'atmosferica "UMPKK Pt. 1" e la sperimentale "Seb" che sembra uscita dritta dritta dall'ultimo disco dei Melvins, "Idolize" si muove su ritmi veloci e potenti, dando prova di grande perizia tecnica (le prime note di "Aucune Importance" mi hanno fatto quasi pensare all'ennesimo disco math), di capacità compositive per una volta davvero originali ("Bbbbreak", la disturbante "Platini"), di idee chiare anche quando il riffing si avvicina più alle cadenze doom ("Steven The Slow", la parte centrale di "Coffee Hammam"). Aggiungete una produzione impeccabile nel rendere il calore e la violenza del genere, e avete la ricetta di un disco che girerà parecchio nelle vostre orecchie. (Stefano Torregrossa)

(Solar Flare - 2013)
Voto: 75

http://sofymajor.bandcamp.com/album/idolize

sabato 31 agosto 2013

Autism - The Crawling Chaos

#PER CHI AMA: Post-metal, Post-rock strumentale, Cult Of Luna
Non è una novità, per le band ascrivibili al genere post-qualcosa-strumentale, usare spoken words qua e là nel disco. Ma l'idea degli Autism per questo concept è davvero efficace: la voce narrante, dalla prima all'ultima delle sette canzoni che compongono il disco, legge frammenti del racconto "The Crawling Chaos" del compianto Howard Phillips Lovecraft. La musica diventa quindi colonna sonora perfettamente integrata nella lettura del racconto e il lavoro si trasforma in una sorta di audiolibro musicale, dove parole e suoni contribuiscono a creare un'atmosfera oscura e surreale. Le coordinate musicali di "The Crawling Chaos" non sono nulla di originale, anzi, peccano spesso di ripetitività: le chitarre comandano e guidano tutti gli strumenti, costruendo architetture decisamente metal – senza tralasciare inserti più prog ("Maelstrom", "Concealment"), parecchi spazi melodici più vicini al post-rock ("Radiant Waters") e sperimentazioni sonore interessanti ("Savant Syndrome"). Su questo tessuto si intreccia una sezione ritmica non indimenticabile che, tuttavia, risulta più che sufficiente all'economia del disco – nulla di suonato, intendiamoci: Autism è in realtà un solo project di un musicista lituano, costruito con chitarre e Protools. Se fosse tutto qui, "The Crawling Chaos" sarebbe un disco non certo epico, ma sicuramente più che presentabile. C'è però un problema: come dichiarato dallo stesso Autism in più di una intervista, "non importa che ogni nota sia perfetta. Se c'è un piccolo errore, lo lascio. Questi errori aggiungono un elemento umano". Verissimo. Ma quasi tutto il disco pecca di timing, soprattutto nella prima parte: le chitarre sono sempre appena troppo avanti o appena troppo indietro rispetto al click, creando spesso un tremendo effetto rimbalzo che non può non infastidire un ascoltatore medio. Considerato che il disco è costruito in digitale, un errore del genere è davvero gravissimo. Un peccato, perché le idee ci sono, così come la tecnica sufficiente a realizzarle: sarebbero bastati una cura maggiore e un piccolo lavoro di rifinitura per ottenere un disco molto migliore. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2012)
Voto: 55

http://autism.bandcamp.com/

In the Guise of Men - Ink

#PER CHI AMA: PER CHI AMA: Math, Djent, Periphery, Killswitch Engage, Meshuggah
I quattro francesi dietro al moniker In the Guise of Men devono essere dei dannati perfezionisti: attivi dal 2005, dopo un demo del 2006 sono stati in silenzio per quasi sei anni prima di sfornare l'EP "Ink", sei tracce che sembrano muoversi nelle coordinate del nuovo metal tardo-adolescenziale e cerebrale stile Periphery, Killswitch Engage e compagnia. C'è però un problema di aspettative, se vogliamo, o forse di maturità della band. Ascoltate il primo minuto di "Suicide Shop", l'opening track: pura follia matematica, cassa e riffing pressanti, un cantato potente e non scontato – tutti presupposti per un gran disco. Ecco, non fatevi troppe illusioni: a parte la bella "Drowner", i bridge di "Dog to Man Transposition" e qualche passaggio in "Blue Lethe", il resto del disco è un pastone poco chiaro di melodie banali e riff che dimenticherete prestissimo. L'impressione generale è che nelle parti strumentali la scrittura sia più libera e incisiva, ma quando si tratta di costruire un tessuto di base per la voce, gli In the Guise of Men mollino un po' la corda. Non ho sentito nulla di memorabile se non – purtroppo – dei ritornelli talmente pop da lasciarmi senza parole; e se pure la voce è potente e urlata per almeno metà disco, continua troppo spesso a ricadere nella melodia poco originale, di quelle che ai concerti fanno venire voglia di sventolare un accendino sopra la testa. C'è del buono, intendiamoci, considerato che è di fatto il primo disco della band e che, probabilmente, il margine di miglioramento è ancora tanto. Se siete alle prime armi col math, può essere un disco interessante: ma se avete già ascoltato abbastanza poliritmi nella vostra vita, Ink non durerà molto nel vostro lettore cd.(Stefano Torregrossa)

(Dooweet Records - 2013)
Voto: 60

http://www.intheguiseofmen.com/