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sabato 17 agosto 2013

Face Down - The Long Lost Future

#PER CHI AMA: Thrash, Stoner, Pantera, Blind Dog, Alabama Thunderpussy
Mettiamola così: se i Pantera esistessero ancora, se Darrell e soci avessero seguito la deriva southern di Phil Anselmo ben raccontata nei Down, probabilmente oggi suonerebbero come i Face Down. Il quartetto francese, al loro primo full-lenght dopo un EP del 2010, mette insieme una forte dose di thrash metal vecchio stile con una punta di stoner rock: non aspettatevi certo le derive psichedeliche alla Kyuss, né quelle rock'n'roll di Fu Manchu o Queens of the Stone Age. Qui c'è velocità, distorsione metal, doppia cassa in abbondanza; il riffing è serrato e ben costruito, la ritmica mai scontata (finalmente un batterista davvero interessante per presenza e originalità) e i solos hanno spesso quel sapore blues che ha fatto la fortuna dell'ultimo compianto Dimebag. Dovendo dare delle coordinate più vicine, potrei citare gli Alabama Thunderpussy e i purtroppo poco noti Blind Dog, con quella mistura sempre equilibrata tra violenza sudista e blues. A contribuire con forza alla deriva stoner è senz'altro la voce: urlata ma senza mai cadere nel growl, sempre appoggiata su una melodia che ricorda l'intonazione di Jon Garcia. I brani scorrono veloci e potenti e, a parte due episodi di soli due minuti (l'acustica strumentale "Under the Sun", la velocissima sfuriata hardcore "Kiss of Death" e la brevissima parentesi di "Evil Blues"), tutti i brani hanno durate superiori ai quattro o cinque minuti, a riprova di un metal non strettamente citazionista del solo thrash dei Pantera. Sono molti i brani simbolo del gruppo, che dà quindi prova di idee chiare per tutta la durata dell'album: "Smoke Coat" è un vero laboratorio di riff sul mid-tempo, "Only Human", "N°1 Must Die" e "Blow Away the Dust" sono tre veri pugni in faccia, peraltro consecutivi, per velocità e potenza. Mi chiedo solo, pensando al futuro del quartetto: cosa succederebbe ai Face Down se abbandonassero ancora un po' la loro anima thrash a favore di atmosfere più ispirate e desertiche, di un riffing più lento e cadenzato? Può davvero essere questa una strada possibile per la fusione di due generi che hanno sempre avuto più di un punto di contatto tra loro? (Stefano Torregrossa)

domenica 23 giugno 2013

Electric Taurus - Veneralia

#PER CHI AMA: Stoner Doom, Clutch, Led Zeppelin, Orange Goblin, Monster Magnet
C'è una sola cosa che rimpiango degli anni '70: che non avessero a disposizione le tecnologie moderne di registrazione e missaggio. Certo, il suono un po' distante e quasi per nulla on-your-face fa anche parte del fascino di quegli anni: ma è innegabile che per orecchie abituate alle produzioni e ai volumi di oggi, certi dischi di quarant'anni fa lascino l'amaro in bocca. Poi, per fortuna, arrivano gruppi come gli Electric Taurus, che ripescano a piene mani il meglio di Led Zeppelin, Grandfunk Railroad e Black Sabbath per miscelarli con un certo stoner doom di oggi (gli ultimi Clutch, ma anche Orange Goblin e Sleep): e il miracolo di ascoltare gli anni '70 con i suoni di oggi si avvera. C'è più heavy blues che doom, intendiamoci: la batteria è più spesso veloce che lenta, ma le chitarre sono violente al punto giusto e annegate nel fuzz, il basso (un po' troppo pulito, forse) fa il suo lavoro e la voce scivola ogni tanto nelle melodie hard-rock di vecchia scuola – ma in generale il mix che ne esce è di tutto rispetto. La componente settantiana emerge prepotente in certi brani ("New Moon", "Magic Eye", "Mountains"), ma c'è spazio anche per lo stoner di "Two Gods/Caput Algol" e per una lunga parentesi psichedelica (l'unica del brano) in "Mescalina/If/At The Edge of Earth". Stona invece "Prelude to the Madness", con parti doom uscite dall'inferno alternate un po' troppo forzatamente a schitarrate acustiche stile pezzi-peggiori-dei-Monster-Magnet. In definitiva un buon lavoro, quello degli Electric Taurus, peraltro confezionato in un packaging gradevolissimo con un'inquietante illustrazione di copertina. Se cercate l'originalità, qui non ce n'è molta. Ma se siete nostalgici dell'heavy blues dei tempi andati suonato con l'oscurità dello stoner doom di oggi, e se volete ascoltare un bel prodottino tutto italiano, questo disco fa per voi.(Stefano Torregrossa)

(Moonlight Records, 2012)
Voto: 65

http://electrictaurus.bandcamp.com/

Sixthminor - Wireframe

#PER CHI AMA: Industrial, Post-rock, Tortoise, OSI, 65DaysOfStatic
Diciamocela tutta: il post-rock sta cominciando a rompere i coglioni. C'è sempre la solita chitarrina col delay, le solite parti dilatate seguite da quelle più pesanti, al massimo qualcuno ci infila dentro una tastiera per fare ambient o un giro di basso appena più convincente. Poi esce roba come questo "Wireframe" dei Sixthminor (duo napoletano al debutto, ma ci sono voluti sei anni di lavoro) e, sorpresa sorpresa, riesco ancora a sorprendermi: e sorprendermi parecchio. C'è il post rock, certo, ma solo nella struttura dei brani e in generale nella costruzione dell'intero disco: tutto il resto è molto, molto di più di quello che siete abituati ad ascoltare. Nessun suono, anche se costruito con strumenti classici (chitarra, basso, batteria) resta tale: ogni nota, ogni suono, ogni battito e ogni arpeggio sono curati con perizia maniacale, filtrati attraverso strumenti digitali e miscelati con un'elettronica di rara intelligenza e pulizia. Le tracce ritmiche acustiche si fondono con le drum machine ("Blackwood"), le chitarre distorte emergono violente su labirinti di synth ("Etif"), il basso dubstep taglia tutte le frequenze prima di aprirsi su un segmento ambient di grande atmosfera. Ascoltate "Frozen", che salta da un estremo all'altro regalando melodia e spazialità anche quando viaggia su partiture ritmiche industrial. O "Hexagone", che sembra Skrillex che suona gli OSI che suonano i Ministry. L'impressione in effetti è che il disco si chiami "Wireframe" perché – proprio come i relativi modelli 3D permettono di guardare dentro e attraverso l'oggetto – i Sixthminor riescono, in qualche modo, a vedere dentro e soprattutto oltre un genere che sta per terminare le sue cartucce buone. Prendono il meglio del post-rock, lo frullano con l'elettronica del nuovo millennio e ne tirano fuori un lavoro originale e maturo. Consigliatissimo. (Stefano Torregrossa)

(Megaphone Records, 2013)
Voto: 75

http://www.sixthminor.com/

domenica 26 maggio 2013

Never Void (Nvrvd) - Coma

PER CHI AMA: Sludge, Hardcore, Metal, Converge, Gojira
I NVRVD (noti anche come "Never Void") sono un trio tedesco, ormai al terzo full-lenght album, che si muove nelle coordinate comprese tra l'hardcore metal, i suoni ruvidi e grezzi tipici dello sludge metal e qualche accenno di post. L'impressione al primo ascolto di "Coma" è di sporcizia, cattiveria, ruvidità: l'album è rumoroso, violento, a tratti persino brutale, con ogni strumento quasi costantemente on-your-face. Nei rari silenzi tra un segmento e l'altro dei brani non mancano fischi, feedback e urla, quasi a non voler lasciar respiro all'ascoltatore. Ogni strumento ha la sua specifica posizione e un ruolo ben definito: il basso è ben distinto, le chitarre hanno distorsioni profonde, la batteria è aperta quanto basta e la voce urla come se non ci fosse un domani – a testimonianza tra l'altro di una produzione ben fatta, seppur sporcata da suoni tipicamente sludge. L'album segue apparentemente due filoni contemporaneamente. Da una parte i brani come "Impartial Eyes" (giocata tra blast-beat e aperture), "We are" (con le strofe cantate da un folle predicatore e i ritornelli corali) o "No Heaven", canzoni dure e pure, dove hardcore metal, lo sludge e persino una punta di metal tecnico alla Gojira giungono a perfetta sublimazione; dall'altra parte non mancano esperimenti post-metal come nell'opening track "Oberohe" – tre minuti di cupezza strumentale che esplodono in un violentissimo segmento hardcore – o nell'evocativa "An Echo to Your Unbeliefs", giocata su chitarre distanti, lunghi delay ed atmosfere doom. "Coma" è stato registrato nell'area di Oberohe in Germania (da cui il titolo del brano), una delle meno popolate della nazione: il silenzio, la solitudine, l'oscurità dei boschi incontaminati hanno senz'altro condizionato i segmenti più post-metal del disco. Ma la parte più violenta, quella no: si percepisce chiaramente quanto sia radicata nelle ossa di NVRVD, quanto sia spontanea e immediata, quasi naturale. Ecco: la spontaneità – pur nella complessità di alcuni passaggi strumentali – è senz'altro la chiave di volta di questo disco, in grado di garantire quasi mezz'ora di brutalità hardcore, riffing vecchia scuola, sonorità sludge e una punta di sperimentazione post. (Stefano Torregrossa)

(Hummus Records, 2013)
Voto:70

https://www.facebook.com/NVRVD

giovedì 9 maggio 2013

Sleepmakeswaves - …And Then They Remixed Everything

#PER CHI AMA: Electro-ambient, 65DaysOfStatic, Nine Inch Nails di "Ghosts"
Immaginate di prendere un capolavoro del post-rock strumentale (con i soliti ingredienti: parti veloci e parti lente, una spruzzata di linea melodica, l'assenza della voce, le atmosfere dilatate) e metterlo nelle mani di nove artisti dell'elettronica internazionale. È quello che succede con "…And Then They Remixed Everything", versione elettronica di "…And So We Destroyed Everything", primo full lenght del quartetto australiano Sleepmakeswaves. Se l'album originale era stato osannato dalla critica e premiato da tour internazionali di spalla a grandi nomi del genere, questo remix non poteva che essere altrettanto interessante. Mettiamola così: se vi è piaciuta la colonna sonora di "The Social Network" (scritta e suonata dai due geni Trent Reznor e da Atticus Ross, che peraltro hanno anche vinto un Oscar nel 2011), questo "…And Then They Remixed Everything" ne è di fatto una naturale continuazione. Le sorprese, quando le teste dietro ad un disco sono addirittura nove (dieci, se vogliamo considerare il contributo iniziale degli Sleepmakeswaves), non mancano. Spiccano senz'altro "In Limbs & Joints" (non a caso remixato addirittura da Rosetta), per le atmosfere da spazio siderale di synth e tastiere e la opening track "Our Times is Short" dei grandissimi 65DaysOfStatic, brano che non sfigurerebbe nemmeno in uno dei "Ghosts" dei Nine Inch Nails. Non manca l'elettro-funky – che ricorda certi Beastie Boys dei tempi andati – nelle percussioni e organi di "Voices In The Forest" di Klue. C'è l'elettronica liquida da club nel remix di Kyson di "We Like You When You Are Ankward", ci sono i suoni 8-bit da videogioco coin-op in "Hello Chip Mountain" (mixato da un altro grande dell'ambiente: Ten Thousand Free Men & Their Families vs. SMV). Ci sono i 18 minuti abbondanti dello straordinario finale onirico di "After They Destroyed Everything" nel remix di AM Frequencies, che chiudono l'album lasciando l'ascoltatore in uno stato di grazia interrotto solo da due inserti minimal di batterie elettroniche. Un gran bel disco: eccellente se ascoltato come contraltare elettronico dell'originale "…And So We Destroyed Everything", ma validissimo anche come opera a sé stante, per la ricchezza di suoni, spunti, idee, atmosfere e ambienti. (Stefano Torregrossa)

Noluntas - Noluntas Divina

#PER CHI AMA: Dark Ambient, Electro-black, Kraftwerk
Mettiamola così: se tra qualche centinaio di anni esisteranno ancora le droghe sintetiche, probabilmente i nostri eredi useranno questa musica per ispirare i loro viaggi psichici. In un certo senso, "Noluntas Divina" è già un viaggio in sé e per sé: quarantacinque minuti di volo allucinato a occhi chiusi nelle più oscure vastità dello spazio, attraversando regioni di disperata solitudine, memorie e ricordi d'infanzia, silenzi senza pace. Più che un disco, una vera e propria colonna sonora. Il viaggio muove dalle atmosfere rarefatte di "Intro" ai lunghi respiri di "Starfall of the Lost Faces", fino alla sensazione di aver perso completamente un riferimento, una stella polare, una direzione, nella lunghissima title-track che chiude l'album. A metà del disco, per un motivo che non riesco ad individuare, c'è "Concealed": una traccia costruita quasi banalmente con percussioni, cori orchestrali, nitriti di cavalli, pianti di bimbi e voci che declamano brani di un'opera teatrale: un brano talmente scontato e "terrestre" da sembrare scritto da mani diverse e che, per l'eccessivo contrasto che esercita rispetto alle altre quattro tracce, ha più l'effetto del riempitivo improvvisato che della song voluta, pensata e curata al pari delle altre. Il lavoro sui suoni di "Noluntas Divina" è talmente accurato da rasentare la follia: nessun rumore è lasciato a se stesso, nessuna nota è casuale, nessuna frequenza è stata trattata con scarsa attenzione. L'intero disco è una lezione di purezza minimale e immaginazione, un viaggio allucinato nel più gelido e soffocante degli spazi siderali. Un disco quasi perfetto, macchiato purtroppo da quell'unica traccia che sembra sfuggita dal concept, come un fiore sbagliato in un perfetto mazzo di rose rosse. (Stefano Torregrossa)

mercoledì 1 maggio 2013

Schematics for Gravity - Schematics for Gravity

#PER CHI AMA: Post-rock, Post-metal, Pelican, Rosetta, Cult of Luna
Capisco benissimo le difficoltà a livello compositivo delle band che amano suonare post-rock o post-metal. Bisogna essere originali ed ossessivi allo stesso tempo; bisogna dimostrare una certa tecnica senza però sembrare dei fissati del virtuosismo; bisogna creare la giusta atmosfera senza sembrare troppo mollaccioni; bisogna saper esplodere al momento giusto, concedere il giusto respiro, mantenere il controllo del brano senza per questo rinchiuderlo in strutture troppo ripetitive. Un lavoraccio che gli Schematics For Gravity svolgono discretamente senza però eccellere. Intendiamoci: l'EP omonimo del quintetto svedese si lascia ascoltare, eccome. Diciamo pure che se qualcuno mi chiedesse: "Consigliami un bel disco di post-metal, per me è un genere nuovo", potrei valutare l'inserimento di questo disco nell'elenco, anche di fianco a nomi più grandi. Ma ad orecchie più allenate, a chi mangia Pelican a colazione e fa merenda con i Cult of Luna, il lavoro degli Schematics For Gravity non potrà che apparire poco interessante. Tre brani, venticinque minuti, con partenze e chiusure dei pezzi sempre molto interessanti: bellissimo l'arpeggio iniziale in "The Art of Taming Waves", altrettanto ispirato il finale strumentale di "An Entire Ocean Under Scarred Skin" (in realtà l'intera canzone è il vero punto massimo del disco), straordinariamente aggressivo l'inizio di "Antithesis to Bliss". Ma è nel centro delle composizioni che gli Schematics For Gravity appaiono più deboli: la voce del cantante permette assai poche variazioni sul tema e, sebbene dal punto di vista dell'ascolto le chitarre si presentino sempre da vere protagoniste, è innegabile una certa carenza di originalità nel modo di suonare e una certa ossessività di alcuni riff, che può far parte del genere. In sostanza: un buon lavoro, una produzione più che ottima, ma di certo gli Schematics For Gravity non hanno creato una pietra miliare del post-metal. (Stefano Torregrossa)

giovedì 18 aprile 2013

No Consequence - IO

#PER CHI AMA: Math,Tesseract, The Dillinger Escape Plan, Periphery
Proprio quando uno crede che nel math si sia già ascoltato quasi tutto (immaginandone gli estremi lento-veloce come Meshuggah-The Dillinger Escape Plan e in mezzo Tesseract, Textures, Periphery e compagnia), ecco che arrivano i No Consequence con "IO", uno di quegli album che ti fa dire: avrei voluto esserci mentre lo scrivevano. Il disco è un assoluto concentrato di furioso caos tenuto a forza in una gabbia, in continua tensione tra tutti i possibili sotto-generi del metal che vi vengono in mente. C'è il death tecnico, l'hardcore velocissimo, i riff ispirati al nu-metal dei primi 2000, le aperture melodiche, le atmosfere oppressive del post-metal. Ci sono – strano ma vero – ritornelli catchy che vi si piantano in testa e urla rabbiose dalle profondità più oscure, ci sono un pizzico di elettronica e persino qualche chitarra acustica. C'è il blast-beat del brutal grind e il math-metal più assurdo degli ultimi tempi, che vi obbligherà senza successo a cercare di contare un quattro quarti per più di due battute. La prova di tanta abbondanza? Il disco dura “appena” 46 minuti: ma con una tale concentrazione e varietà di atmosfere e arrangiamenti, che vi sfido ad ascoltarlo per intero e dire: "Così corto?". L'opening track "So Close to Nowhere" non lascia scampo: personalmente uno dei brani migliori dell'album, con un intro assolutamente memorabile. Altro capolavoro è "Bury the Dept", capace di alternare riffing serratissimi e ampi bridge melodici dai colori malinconici, per poi fondere insieme arpeggi, distorsioni, melodie e urla in uno straordinario finale. "What is Dead May Never Day", in un solo minuto di canzone, è una lezione di matematica applicata alla ritmica, con un riff talmente efficace che è quasi un peccato non averci scritto un intero brano. Il disco pecca forse di spontaneità? Può darsi. Ma dopotutto, non è né thrash metal vecchio stampo, né rock'n'roll da ragazzini sbarbati. “IO” è la quintessenza del metal di questo millennio: farà parte, voglio augurarmi, di quella musica che ascolteranno i figli dei metallari di oggi, pensando a questo decennio come a quelli che sono per noi gli anni '70. (Stefano Torregrossa)

(Basick Records)
Voto: 75

http://noconsequence.co.uk/

lunedì 15 aprile 2013

Romero - Take The Potion

#PER CHI AMA: Stoner Doom, Kyuss, Sleep, Baroness
La domanda all'ascolto di ogni nuovo disco del genere è sempre la stessa: c'è ancora spazio per l'originalità nello stoner-rock? Ecco la mia risposta: non so e non m'importa. Mi sono persuaso negli anni che lo scopo dello stoner/doom sia sempre stato un altro: il viaggio, più o meno personale, nel quale si coinvolge l'ascoltatore. Oggi come oggi, diciamoci la verità, non c'è più bisogno di vivere nel deserto per suonare dell'ottimo stoner rock: è questa la lezione imparata dai Romero, terzetto stoner/sludge con base in Wisconsin, al loro debutto con "Take the Potion". Il disco è distribuito gratuitamente online, accompagnato da un progetto su Kickstarter (che ha già raggiunto la quota richiesta) per produrre un certo numero di vinili. I fans, a seconda del tipo di sostegno dato, hanno ricevuto gadget straordinari (magliette o poster, ovvio, ma anche flaconi di pozione in stile voodoo, live performance dedicate o lezioni private col batterista), a riprova che i Romero sanno bene come muoversi nel mercato musicale moderno. Sette brani, quaranta minuti: qua e là spuntano, come detto, i Black Sabbath e i Kyuss – ma anche gli Sleep, i riff violenti degli Alabama Thunderpussy, l'anima blues, il doom vecchio stampo, le atmosfere space, lo sludge dei Baroness. Niente di nuovo, dite? Può darsi: ma un niente-di-nuovo nel complesso ben suonato e costruito. I Romero miscelano tutti gli ingredienti a loro disposizione in una produzione più che interessante, anche se forse appena carente di personalità: un viaggio ben fatto – che funziona alla grande dopo un paio di cannoni, ma offre molti piacevoli spunti anche da sobri. Nessuna canzone emerge più delle altre: ma fischietterete le strofe corali di "Compliments & Cocktails" per un bel po', godrete dell'esplosione dopo i primi tre minuti della lentissima "Couch Lock" e senz'altro vi perderete nei sette minuti abbondanti di "Distraction Tree". Peccato solo per l'eccessivo uso, qua e là, del caro vecchio terzinato alla Kyuss: non serve più il deserto per fare stoner, e questo si è capito. Ma non serve nemmeno cadere per forza nella vecchia ritmica rimbalzante che è già stato il successo di Jon Garcia e soci.(Stefano Torregrossa)

(Grindcore Karaoke)
Voto: 70

http://www.romeroisloud.com

Aidan - The Relation Between Brain and Behaviour

#PER CHI AMA: Post-metal strumentale, Drone, Cult Of Luna
Prima ancora di sapere qualcosa sugli Aidan, premo play e ascolto il loro debutto, "The Relation Between Brain and Behaviour". Non mi aspetto nulla di più di post-metal – qualunque cosa questa etichetta voglia dire oggi, dopo essere stata applicata indifferentemente sia ai Melvins che ai Pelican, tanto per dire. Il lavoro è ispirato ad uno dei casi più famosi della neurologia statunitense: nel 1823, il giovane operaio ferroviario Phineas Gage restò orribilmente ferito sul lavoro: una barra di ferro gli penetrò nella testa, perforando completamente il lobo frontale sinistro. Il caso, studiato approfonditamente dal dottor Harlow, è iscritto negli annali della medicina. I titoli delle tracce ne raccontano le vicende, l'incidente, le successive analisi, la morte e la sepoltura al cimitero di San Francisco. Sette brani completamente strumentali, in grado di passare con facilità dall'orchestrazione elettronica della cupa intro, "Lebanon, 1823" all'altalenante "Left Frontal Lobe" in costante tensione tra accelerazione e lentezza doom; dall'ispiratissima "No Longer Gage" all'altro capolavoro dell'album, "Pulse 60 and Regular", tanto serrata all'inizio quanto inquietante nel lungo bridge centrale di chitarra. Il tutto è condito dal suono sporco tipico dello sludge, che differenzia gli Aidan di diverse misure rispetto, ad esempio, ai colleghi Cult of Luna o ai Karma To Burn. Ma ecco la prima delle due sorprese di questo lavoro: pur essendo strumentale, pur essendo ispirato ad altri grandi del genere, "The Relation Between Brain and Behaviour" traspira personalità da tutti i pori. È un disco che si ascolta piacevolmente dall'inizio alla fine, è suonato senza inutili tecnicismi ma con precisione, gusto e presenza, ed è prodotto in maniera eccellente e con grande cura ed equilibrio nei suoni (ascoltatevi il finale di "Lone Mountain": capolavoro). La seconda sorpresa? Gli Aidan sono tre ragazzi di Padova. Sì, avete letto bene: Padova.(Stefano Torregrossa)

martedì 26 marzo 2013

Obsidian Kingdom - Mantiis

#PER CHI AMA:  Post-metal, Progressive, Porcupine Tree, Opeth, The Gathering,
Il quintetto spagnolo corre un bel rischio con questo "Mantiis": poco più di 45 minuti in cui generi e atmosfere diversissimi si fondono in un continuum senza interruzioni. Da qui a creare un insipido collage di stili il passo è brevissimo: ma gli Obsidian Kingdom restano sempre in equilibrio sul filo, senza cadere mai nell'eccessiva giustapposizione di parti separate ma, d'altra parte, senza mai brillare di esplosiva originalità. Già dal digipack curatissimo graficamente emerge comunque una notevole attenzione ai dettagli: se sulla copertina cartonata campeggia una mostruosa mantide antropomorfa, l'interno ricorda invece vecchi trattati di entomologia e botanica, con illustrazioni in bianco e nero, foto oscure e, ovviamente, tutti i testi dell'album. Il concept è in realtà un'unica canzone, divisa in quattordici tracce – o quattordici "morsi", come spiega bene il sottotitolo – che esplorano altrettante diverse emozioni: si va dalle atmosfere rarefatte e oniriche di "Not Yet Five" e "Fingers in Anguish" alla serenità oscura di "The Nurse" o "Genteel to Mention" (con chiari riferimenti agli ultimi Opeth, soprattutto negli utilizzi delle tastiere e delle chitarre acustiche), dalla violenza distorta di "Cinnamon Balls", "Endless Wall" e "Ball Room" fino alle sperimentazioni pseudo-jazz di "Last of the Light" o della parte conclusiva di "Awake until Dawn". Il gran finale, "And Then It Was", si arrampica su atmosfere strumentali death per poi chiudere con oltre un minuto di disturbanti suoni elettrici. I brani scorrono fluidamente uno dopo l'altro, trascinando l'ascoltatore in territori sempre nuovi ma costruiti senza banalità. Ogni canzone è di fatto un episodio a sé stante, dotato di propria dignità se ascoltato separatamente: ma è inserito nel continuum dell'album che acquista forza e vigore, come una tappa consapevole e mai forzata di un viaggio negli istinti, nelle emozioni e nei ricordi. Dal punto di vista tecnico la band non è sempre convincente: ho trovato appena discreta la sezione ritmica, con basso e batteria poco propositivi e originali. Migliori invece le chitarre e le tastiere – soprattutto per l'attenzione ai suoni –, e più che buona la voce di Rider G. Omega (i nomi d'arte dei cinque spagnoli sono straordinari, per inciso), capace di melodie interessanti e ben interpretate così come di growl oscuri e violenti. La scarsa originalità della ritmica, combinata con un riffing purtroppo non sempre convincente, sono l'unico neo di questo album: i brani più duri e distorti, paradossalmente, risultano meno efficaci rispetto a quelli melodici e d'atmosfera, costruiti su chitarre acustiche e tastiere, che sono la vera chicca del disco. (Stefano Torregrossa)

mercoledì 27 febbraio 2013

Tardive Dyskinesia - Static Apathy in Fast Forward

#PER CHI AMA: Math/Djent, Meshuggah, Textures, Tesseract
Quando penso alla musica greca, mi vengono in mente piatti rotti, cembali e balli grotteschi. La sorpresa nell'ascoltare questo quintetto ellenico al loro terzo album, quindi, è stata grandissima: un mix perfetto tra la poliritmia della scuola dei Meshuggah e le atmosfere più elaborate dei Textures o dei Tesseract, con l'aggiunta di un tocco personale che ho trovato davvero interessante. C'è energia, c'è molta tecnica, c'è groove, c'è velocità, ci sono ampie parti strumentali e la produzione è di ottimo livello. Rispetto ai Meshuggah, tuttavia, ci sono delle armi in più: la maggiore varietà nelle scelte di bpm dei brani, i colori della voce dell'ottimo Manthos (che non disdegna alcuni interventi melodici e in certi cori ricorda alcuni interventi orchestrali degli Strapping Young Lad) e i suoni delle chitarre, senz'altro più caldi e meno digitali del quintetto svedese. Il disco si apre con "Empty Frames", una delle mie preferite dell'album: l'intro è un capolavoro di poliritmica, una vera dichiarazione d'intenti riguardo lo stile dell'intero disco. "The Chase Home", dopo tre minuti di pattern variopinto, chiude con un riff violentissimo. "Smells Like Fraud" lascia spazio ad un cantato più melodico, che ritroviamo anche nei ritornelli di "Time Turns Planets", sorretta però da un riffing intelligente e perfettamente costruito. "Prehistoric Man" è costruita su riff a singhiozzo che pulsano come una ferita aperta, fino all'esplosione dello splendido assolo centrale e all'evocativa parte melodica finale. C'è tempo per prendere fiato con "Indicator", dove un sax si arrampica per scale impossibili su accordi distorti di chitarra. "Circling Around the Unknown" e "We, the Cancer" giocano entrambe sul contrasto tra ritmiche veloci e progressioni melodiche. La canzone più breve del disco, "Failed Document" è un intenso esercizio ritmico costruito sulle terzine che preannuncia il gran finale con "Limiting the Universe": quasi sette minuti in cui i Tardive Dyskinesia raccontano al meglio tutto ciò che sanno fare, spaziando da parti dissonanti a riffing veloci, senza tralasciare ritornelli melodici corali e un finale ambient in stile Tesseract. Un disco ben fatto, che dimostra pienamente la lucidità e le idee chiare dei Tardive Dyskinesia, che hanno saputo prendere il meglio del math metal e colorarlo con un'ampia varietà di interventi personali. (Stefano Torregrossa)

lunedì 11 febbraio 2013

Three Steps to the Ocean - Scents

PER CHI AMA: Post-Metal, Karma To Burn, Loose, Pelican
Sfornare un disco strumentale credibile non è facile: ci vuole poco a scadere nella noia, e ancor meno a ripetere gli stessi passi dei più illustri colleghi, che del post-metal senza voce, hanno fatto il loro marchio di fabbrica. Il quartetto milanese dei Three Steps to the Ocean ci prova con questo "Scents", terzo lavoro in studio dopo un EP del 2007 e un full-lenght accolto con discreto successo due anni dopo. Gli ingredienti sono quelli che già conosciamo bene, niente di nuovo: l'alternanza di rabbia e malinconia, le chitarre stratificate, le tastiere oniriche, il pathos e l'atmosfera liquida, qualche crescendo ben orchestrato e una spolverata di elettronica qua e là. Il tutto è suonato con perizia, senza inutili virtuosismi e senza un’apparente soluzione di continuità tra i brani, che scorrono uniformi e compatti come un unico viaggio di poco più di mezz'ora (scelta intelligente, la sintesi, per un genere difficile come quello strumentale). Il disco si apre con "Hyenas", tanto furiosa nell'iniziale riff di basso distorto – unico momento davvero memorabile del disco – quanto epica ed eterea nel finale. "Zilco" procede in punta di piedi per i primi due minuti e mezzo, per poi esplodere di disperazione urlata dall'unica voce del disco (è Federico Pagani dei Diskynesia). I primi dubbi arrivano con "Cobram", che dopo sei minuti un po' confusi, mi lascia con l'amara sensazione di canzone-riempitivo senza grossa personalità. "Rodleen" viene salvata da un intelligente inserto di batteria elettronica, ma il disco torna a deludere con l'ossessiva "Collider", che chiude il disco: oltre otto minuti dove i Three Steps ripetono forse una volta di troppo la ricetta "malinconia-rabbia-malinconia" già ascoltata nei venti minuti precedenti. Stimo chi affronta con coraggio e ostinazione una strada complicata come quella del post-metal strumentale. I Three Steps to the Ocean suonano bene e compongono benino, sono una realtà nostrana decisamente atipica e vanno supportati anche per la scelta di pubblicare un album col sistema del name-your-price ("Scents" si scarica dal loro sito, il prezzo lo stabilisce l'ascoltatore). Non me la sento di dire che sono noiosi, intendiamoci: il punto è che l'ascolto di "Scent" richiede davvero molta concentrazione per essere apprezzato: l'eccessiva omogeneità tra i brani rischia di trasformarlo in semplice colonna sonora di sottofondo, che dimenticherete dopo pochi minuti. (Stefano Torregrossa)