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sabato 2 aprile 2022

Old Sea and Mother Serpent - Chthonic

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Quattro brani per oltre settanta minuti di musica, mica male, anche se la montagna da scalare non è certo di quelle cosi semplici e banali. 'Chthonic' rappresenta l'opera prima dei moscoviti Old Sea and Mother Serpent che nel 2012 rilasciavano questo mastodontico lavoro autoprodotto (la versione nelle mie mani è il digipack del 2013), per poi lasciarsi un tempo di gestazione per il successivo 'Plutonian' di ben nove anni. La proposta del duo è all'insegna di uno stoner doom che dire solido e compatto, potrebbe suonare quasi eufemistico. Il lavoro apre con la sporca e sludgy "She of the Black Scale" che per 18 minuti risuonerà con il suo tribale tambureggiare, accompagnato da una voce graffiante e da chitarre belle possenti. Quello che potrebbe far impressione è il relegare ad un paio di righe la descrizione di siffatta mole musicale visto che fondamentalmente il pezzo, a parte un assolo di notevole impatto melodico nella parte centrale, ha ben poco altro da raccontare. E se volete questo rischia di essere anche il limite delle restanti canzoni, ossia presentare durate infinite ma poi, a fini pratici, non contribuire a regalare nulla di cosi interessante e originale. Ci riprovano i nostri con la successiva "The Haunt", ed un inizio ritmato al limite della ridondanza sonica. Qui ritroviamo voci registrate in sottofondo, una serie di cambi di tempo che sembrano più una lezione di avvicinamento ad un genere comunque ostico e poi finalmente ricompaiono le vocals, forse l'elemento più positivo dei nostri, visto che la batteria troppo affidata ai piatti, finisce per stizzirmi dopo otto giri di orologio. Qui infatti un duplice psichedelico assolo rabbonisce i miei sensi e mi consente il proseguimento dell'ascolto. Dei quattro brani, il picco più alto da scalare è quello però rappresentato dagli oltre 28 minuti di "Demons of the Sun", fatto di pendici sabbiose ove sprofondare pericolosamente nella matrice doomish dei nostri. La traccia più lunga ma anche quella più veloce da descrivere, vista la natura malmostosa e ampollosa del pezzo, soprattutto nel suo lunghissimo finale dronico, inutile lasciatemi aggiungere. In chiusura ecco la strumentale "Moraydance" che sembra essere anche il pezzo più vivace del disco, non fosse altro che dura poco più di cinque minuti che ci consentono di tornare a respirare aria pura dopo le impervie salite dei primi tre brani. (Francesco Scarci)

(Pestis Insaniae - 2013)
Voto: 62

https://osams.bandcamp.com/album/chthonic

lunedì 21 marzo 2022

Gloomy Sunday - Introduction To The Apocalypse

#PER CHI AMA: Sludge, Eyehategod
La scena di Gothenburg ce la ricordiamo un po' tutti per band del calibro di In Flames e Dark Tranquillity, giusto per fare due nomi a caso, eppure nel sottobosco della cittadina svedese, si nascondono anche altre realtà che con il genere dei due colossi citati, hanno ben poco a che fare. I Gloomy Sunday in 'Introduction To The Apocalypse' ci propongono infatti uno sludge doom di scuola americana. Le danze si aprono con le spoken words di "Let Sleeping Corpses Lie" a cui segue un riffing marcescente (dotato tuttavia di un certo groove) accompagnato da una voce bella caustica, per una proposta che potrebbe evocare gli Eyehategod, deprivati della classe di quest'ultimi ahimè. La band scandinava prova a metterci del suo tra cambi di tempo repentini, rallentamenti doomish ed improvvise riaccelerazioni, ma la proposta puzza di vecchio e stantio, peraltro con una registrazione a tratti casalinga. Provo a skippare alla successiva "The Bastards Won't Let Me Die" ed un'altra riproposizione cinematografica (almeno suppongo) apre il brano tra un riffing scarno, sporco e bastardo, quasi quanto la voce del frontman Jari Kuittinen. I brani nel loro incedere tra l'incazzato e il melmoso, evidenziano retaggi hardcore che tuttavia faticano a sollevare le sorti di un lavoro che vede gli unici spunti interessanti nell'assolo psichedelico della title track o in quello più psicotico e hard rock della successiva "Bad Trip Life". In chiusura "Cracking Up" dà l'ultima spallata ad un lavoro con non troppe velleità da palesare e che rischia di non interessare nemmeno ai fan del genere. (Francesco Scarci)

Gangrened - We Are Nothing

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Risale ad un anno fa (era l'aprile del 2021) l'ultima release dei finlandesi Gangrened intitolata 'Deadly Algorithm' che rappresenta il debutto su lunga distanza per la band originaria della terra dei mille laghi. Tuttavia, oggi ci apprestiamo a recensire un lavoro rilasciato ben più indietro nel tempo, quel 'We Are Nothing', uscito sul finire del 2014 per la Bad Road Records. Il quartetto finnico ci presenta un trittico di pezzi per 25 minuti di musica tondi tondi (niente male per un EP) all'insegna di un melmoso sound che parte dai lunghi riverberi iniziali della soffocante "Lung Remover", con quel suo doom claustrofobico a metà strada tra funeral e sludge, tanto per capirsi. Quindi preparatevi ad un incedere lento e pesante tra harsh vocals, riffoni flemmatici come un bradipo nano e atmosfere plumbee da giorno dei morti. Insomma, nulla di nuovo all'orizzonte in un paese come la Finlandia dove band quali Skepticism, Shape of Despair e Thergothon sono stati grandi precursori del genere. E gli oltre 12 minuti dell'opening track sono difficili da digestire se non siete dei grandi fan di questo stile musicale che in taluni passaggi mi ha evocato anche un che dei primissimi My Dying Bride. Spoken words aprono la seconda "Them", una song più graffiante per quel che concerne la porzione vocale, quasi prossima all'hardcore, mentre la musicalità della band si perde in un riffing capestro che non apporta nulla ad un genere che penso sia stato ormai perlustrato in lungo e in largo. La seconda parte della song peraltro si trasforma in un attacco frontale all'arma bianca che ha ben poco da mostrare di cosi rilevante. In chiusura "Kontti", nei suoi quattro minuti scarsi, ci dà l'ultima caustica botta di questo insulso lavoro sebbene mi metta una certa curiosità nell'ascoltare la nuova release, annunciata da più parti come più sperimentale rispetto a questo lavoro. Dategli un ascolto e fatemi sapere. (Francesco Scarci)

(Bad Road Records - 2014)
Voto: 58

https://gangrened.bandcamp.com/album/we-are-nothing 

mercoledì 9 marzo 2022

Crawl - 30 Year Suicide

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Ancora suoni marcescenti, un altro 7" con cui giochicchiare nel mio giradischi, un'altra band dagli US e un'altra manciata di pezzi marchiati Bad Road Records. Questo giro ce ne andiamo ad Atlanta a conoscere i Crawl e il loro '30 Year Suicide' del 2017. Dicevo della marcescenza della proposta e il side A del dischetto propone la funerea "Pornography of Grief": ritmica doomish, lenta e ossessiva, sorretta da uno screaming bestiale per un sound minimalista almeno fino a quando a scoccare la freccia è un brillante assolo che rende il tutto quasi più accattivante e digeribile. Sul lato B, la title track e una chitarra super riverberata apre un'altra indolente discesa negli inferi, con il Caronte di turno (e una voce qui dalle sembianze gutturali) a guidarci nel viaggio. Il tutto è davvero flemmatico e poco avvincente a essere onesti, fino al quinto minuto quando finalmente la ritmica aumenta il passo quasi a deflagrare, ma siamo ormai a poco più di un minuto dalla fine. Troppo tardi e un'occasione sprecata, considerata l'esigua (11 minuti) durata del disco. (Francesco Scarci)

Fistula - Ignorant Weapon

#PER CHI AMA: Sludge/Hardcore, EyeHateGod
Adoro i 7", hanno quell'aspetto cosi vintage che mi riportano indietro di 40 anni quando mettevo i miei primi vinili sul giradischi, quanta nostalgia. E anche se quello dei Fistula è un EP uscito nel 2015, perchè non soffermarsi a parlarne un attimo? I nostri sono una band originaria dell'Ohio (da non confondere con gli omonimi del Missouri) con un quantitativo infinito di lavori nella propria discografia. 'Ignorant Weapon' potrebbe essere un sunto del loro sound, con quattro pezzi (di cui due cover) caustici come l'odio, all'insegna di uno sludge crust hardcore feroce, dotato di un muro di chitarre che mi ha quasi evocato i primi lavori degli Entombed. E l'essenzialità dei quattro brani e delle song coverizzate ("Destroy the Handicapped" dei Fang e "I Love Nothing" dei punkers GG Allin & Antiseen) tratteggiano le caratteristiche del quintetto statunitense. Chitarre dritte e marcescenti ed un sound nudo e crudo, si scagliano contro l'ascoltatore in "Wood Glue" con piglio devastante e voce abrasiva. La cover dei Fang è una melmosa traccia di poco più di un minuto e mezzo che lascerà il posto all'incipit doomeggiante di "This is Sodom, Not L.A.", prima che si trasformi in un arrembante song punk hardcore. Non ci pensano troppo a spaccare culi, anche se a metà pezzo compaiono delle spoken word che rendono il tutto un po' caotico e impastato. In chiusura "I Love Nothing", pezzo corrosivo e tagliente contraddistinto da chitarre belle gonfie e potenti ma mai veloci. Insomma per chi ama questo genere di sonorità e a voglia di un oggetto da collezione, dateci un ascolto. (Francesco Scarci)

(Bad Road Records/Patac Records - 2015)
Voto: 64

https://patacrecords.bandcamp.com/album/ignorant-weapon

venerdì 4 marzo 2022

Monolithic - Frantic Calm

#PER CHI AMA: Death/Hardcore
Se l'idea di una traiettoria musicale che scaturisce dagli sbaciucchiamenti death grind dei Napalm Death di 'Scum' (ad esempio in "Nemesis") per giungere al deathcore peace-n-love dei Converge (udibile in "Payback") con tanto di doom-lentone da slinguazzata sul divanetto mentre il doppelganger di Chuck Palahniuk mastica i vostri intestini ("No Way Out"?), magari transitando attraverso metanfetamiche cavalcate analog-hardcore (i quasi 200 bpm di "Into Dust") e ipervoltaiche tempeste psych-jam stile tool-divorati-da-un-branco-di-cinghiali-klingoniani (la sorprendente "Cry Out"), possa stimolare a dovere i vostri nauseabondi gangli necrotici, allora questo secondo album pubblicato dalla band composta da due jötunn al basso e alla chitarra e un kråken alla batteria, potrebbe avere su di voi lo stesso effetto piacevolmente anestetizzante del gigantesco Uomo della pubblicità di Marshmallow sulla mente di Ray Stantz. Ascoltate questo disco violentissimo, increduli del fatto che due membri della band su tre, abbiano conseguito una laurea in musica classica e jazz presso il conservatorio di Trondheim. Un posto dove a questo punto vi sconsiglio di mettere piede. (Alberto Calorosi)

(Stickman Records - 2015)
Voto: 70

http://kennethkapstad.no/

domenica 2 gennaio 2022

No God Only Teeth - Placenta

#PER CHI AMA: Post Hardcore/Post Metal
Mamma, quanta tensione nelle note introduttive di questo 'Placenta', opera prima dei teutonici No God Only Teeth. La band originaria di Amburgo, che lo scorso anno si era fatta notare col demo omonimo, trova nella Narshardaa Records il partner perfetto per rilasciare questo lavoro. Sette pezzi per poco più di 48 minuti di musica a metà strada tra hardcore, post metal e sludge. Al primo, probabilmente, l'avvicinerei per quel cantato acidissimo ad opera di una sprezzante cantante (tal F.). Al post metal l'accosterei invece per quel riffing di scuola Neurosis/Cult of Luna, mentre per quel che concerne lo sludge, beh sentitevi le asfissianti atmosfere di "Raffer" per capirne qualcosa di più. Il disco apre tuttavia in modo granitico con la lunga "Gegenlicht", un percorso emozionalmente ondivago tra richiami post hardcore, dilatazioni post metal e un oscurissimo finale al limite del doom. Fantastica l'apertura atmosferica di "Safer", peccato poi mi convinca meno l'attacco di batteria e voce, graffiante ma un filino sgraziata, manco fosse un gatto a cui gli si è pestata la coda. Meglio i nostri nei frangenti più compassati, in cui la band evidenzia anche una certa vena malinconica, pur mantenendo una solidità a livello ritmico. Più ancorata al passato e pertanto più piattina "Stockholm", che oltre ad offrire un interessante break chitarristico, ha ben poco altro di esaltante. E intanto la voce della frontwoman inizia a stancare per una certa staticità a livello canoro. Inquietante l'incipit vocale di "15.37.12", una song di somma violenza (quasi black) alternata a più riprese ad un riffing più ponderato in cui, il suono costantemente pastoso, fatica a mettere in luce la performance strumentale. Un peccato perchè il marasma sonora penalizza la riuscita del brano. Ancora furore e devastazione con la successiva "Bethune", dove mi rendo conto che inizio a non sopportare più la performance vocale della cantante e la tentazione è quella di spingermi quanto prima verso la fine del disco. Rimangono infatti un altro paio di pezzi a rapporto: la già citata "Raffer", che si muove tra bordate hardcore e mortiferi rallentamenti sludge, e la bonus track, "Matters", con un riffing a tratti malinconico alternato ad un più sconclusionato rifferama quasi di scuola Pantera, da rivedere. Insomma, le basi ci sono, dovrebbero essere convogliate un pochino meglio. (Francesco Scarci)

lunedì 6 dicembre 2021

Hope Drone - Husk

#PER CHI AMA: Post Black/Sludge
Dopo un silenzio durato poco più di due anni, tornano gli australiani Hope Drone con un EP nuovo di zecca, uscito esclusivamente in formato digitale, che peccato. 'Husk' serve però a tastare il polso del quartetto di Brisbane, dopo quest'ultimo periodo alquanto complicato. Quattro i pezzi a disposizione dei nostri per saggiarne lo stato di forma e devo ammettere che l'incipit affidato a "Inexorable" fuga immediatamente ogni dubbio sul fatto che i nostri siano pimpanti più che mai con il loro classico vortice sonoro che ingloba nelle proprie note post black e post rock, il tutto immerso in uno strato melmoso, quello dello sludge ovviamente. E il risultato è davvero avvincente con suoni grossi, violenti, melodici, catartici e appassionanti nel loro incedere veemente. La successiva title track parte su di una base percussiva ipnotica, a cui pian piano si aggiungeranno gli altri strumenti, per ultima la voce, in un crescendo sonoro ed emozionale da brividi, quasi fossimo sull'orlo del precipizio, con la testa che gira a causa delle vertigini, e la musica è rappresentata da un ritmo marziale pronto a deflagrare in qualsiasi momento, ma comunque fin qui a rendere tesa e surreale un'atmosfera che rimarrà tuttavia tale per tutti i suoi sette minuti e mezzo di durata. Devastante invece "Existere", quasi a volersi rifare della mancata devastazione nel secondo brano. E i nostri ci riescono alla grande con un blast beat furente interrotto qua e là da break atmosferici o da rallentamenti al cardiopalmo, il tutto cosi intriso di malinconia che mi fa disperare nell'anima. Chiusura invece affidata alla lunga "Dwell", oltre 10 minuti di sonorità che ammiccano inequivocabilmente a post metal e sludge, con una spaventosa parte centrale apice di un black metal roboante ed evocativo, prima di un dronico e spettrale finale che ci conferma quanto gli Hope Drone siano realmente in palla. Notevoli. (Francesco Scarci)

lunedì 22 novembre 2021

Dying Hydra - Of Lowly Origin

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal, Neurosis
Adoro la mitologia greca e qui sembra essercene parecchia visti i riferimenti all'Idra nel moniker dei nostri, citando il mostro leggendario dal corpo di serpente in grado di uccidere un uomo con il solo respiro, con il suo sangue o al solo contatto con le sue orme. Alla stregua di quella creatura infernale, il sound dei danesi Dying Hydra sembra in realtà più affine a quello di un serpente costrittore alla luce dei contenuti sludgy di questo 'Of Lowly Origin', opera prima sulla lunga distanza, per il terzetto di Copenaghen, che deve essere cresciuto a botte di pane e Neurosis. Si perchè l'opener del side A del vinile (una versione in cd non esiste ancora), "Earliest Root", mette in mostra le qualità del combo danese che si muove appunto tra gli anfratti oscuri a cavallo tra sludge e post metal. Aspettatevi quindi dei pachidermici chitarroni su cui poggiano le vocals roche dei due cantanti, Lars Pontoppidan e Patrick Fragtrup, peraltro anche le due asce della band. La proposta, come ovvio che sia, è melmosa quanto basta nel suo incedere monolitico, con una buona dose di melodia che si esprime attraverso ricercati break atmosferici che spezzano quei riffoni caustici che popolano il disco. Il lato A della release è interessante in tutti e tre i suoi pezzi, in particolar modo però mi soffermerei sulla lunga "Rootborn" che per nove minuti abbondanti si difende con un sound possente attraverso un mid-tempo che, dove riesce, prova a rallentare il suo ritmo riducendo la densità delle note e contestualmente aumentando un senso di inquietudine interiore, soprattutto quando si palesa un parlato pulito. Il side B del vinile ci regala qualche altro spunto degno di interesse: la flemmatica ma intensa "Species Adrift" con quel suo drumming ossessivo, quasi paranoico, stabilizzato da un paio di break strumentali. "Ashed Eyes" continua sulla medesima falsariga ritmica con una continuità musicale che desta qualche difficoltà a percepire lo stacco tra il primo e il secondo brano. Ecco, forse qui qualcosa inizia a scricchiolare, perchè sembra che il terzetto arrivi verso il fondo in apnea, con la sensazione quasi di aver terminato le idee. "Undergrowth" prova a riprendersi la mia fiducia con una maggior ricercatezza sonora e con più spazio concesso alla parte strumentale dei nostri tra litaniche melodie orientaleggiante, roboanti giri di chitarra e frangenti più claustrofobici. La versione digitale del disco include infine una bonus track, "Cry of the Colossus" che ci consegna altri sei giri di orologio di sonorità oscure che chiamano in causa i maestri di sempre del genere. La release alla fine è interessante, ma c'è ancora parecchio da lavorare per emergere da quel calderone sempre più stipato da band che vogliono emulare Scott Kelly e compagni. (Francesco Scarci)

venerdì 5 novembre 2021

Biöcide - Inhibiting the Sludge Tomb

#PER CHI AMA: Death/Thrash
Dalla splendida Galway, Irlanda, città dagli innumerevoli pub e locali vari, ecco arrivare a noi i Biöcide con il loro debut 'Inhibiting the Sludge Tomb'. Il terzetto irlandese ci sbatte in faccia tutta la propria rabbia già dall'iniziale "Crystallised Decay", un pezzo che mostra come i nostri possano far sentire nella propria caustica ritmica, echi dei Carcass di metà anni '90. Ecco come circoscriverei il genere a cui accostare questo baldo trio di ragazzotti che sprigiona una buona energia dalla propria proposta, ovviamente non risultando particolarmente originale, ma comunque lasciandosi piacevolmente ascoltare. Le tracce scivolano via tutte lisce come l'olio, tra indiavolate sgroppate di chitarra, cambi di tempo, growling vocals graffianti e qualche orpello chitarristico che non guasta mai, cosi come gli esimi colleghi inglesi sanno certamente fare. I pezzi corrono uno dietro l'altro, dalla successiva e sporca "Crawling in Chaos" fino alla conclusiva e marcescente title track a cavallo tra death e sludge, passando attraverso la sputacchiosa (e capirete il perchè ascoltandola) "Doctrines Plague", un pezzo che esordisce con un giro di basso che cederà il passo ad un più spigoloso e dissonante giro di chitarra. Qualche discreta intuizione all'interno di questi quattro brani sembrerebbe esserci, ora bisogna rimboccarsi le maniche per apparire più personali. (Francesco Scarci)

martedì 20 luglio 2021

Hellamor / Red Stone Chapel - Major League Heavy-Rock

#PER CHI AMA: Stoner/Southern Rock
Si dice che l'unione fa la forza. Il fatto che le due band teutoniche, Hellamor e Red Stone Chapel, oltre a condividere più volte il palco, abbiano deciso di far uscire uno split album insieme, potrebbe fare al caso nostro per testimoniare quel detto iniziale, vedremo. Quattro pezzi per entrambe le band per dimostrare di che pasta sono fatte queste due realtà che francamente non conoscevo prima di oggi. Si parte dagli Hellamor, band originaria di Heidelberg, con all'attivo un full length, tre EP e ora anche questo split. La proposta dei nostri è un stoner sludge, come certificato dall'opener "Fallen Saint", un pezzo che evidenzia i pochi punti di forza nei nostri in un riffing compatto (sostenuto dalla voce piattina di Ralf) ma troppo ridondante nei suoi giri di chitarra che dopo tre minuti avrebbe potuto anche terminare li e invece prosegue per successivi tre min e 40. I richiami a Cathedral, Black Label Society ma pure ad altri alfieri della scuola heavy thrash (forse i Pantera?), sono più che evidenti soprattutto nella seconda e più psichedelica "Hourglass", ma non parliamo di certo di miracolo musicale. "I Can Hear It" infatti non fa che confermare l'attitudine rock'n roll dei nostri, che palesemente non s'inventano nulla di nuovo, ma anzi sembrano chiamare in causa a livello ritmico, i Metallica di 'Load', in una sorta di proposta garage rock da sbadigli. Ci riprovano con la più ritmata "Never Taught Me", un pezzo più sporco e forse per questo più vero. Andiamo avanti per capire se i Red Stone Chapel possono essere in grado di rovesciare l'esito di questo claudicante 'Major League Heavy-Rock'. A differenza dei primi, la band di Marburg sembra ammiccare in "The Paper King, ad un sound più southern rock, parecchio esaltante quando il sestetto decide di pestare sull'acceleratore. Qui i nostri diventano ben più convincenti dei loro compagni di avventura, sfoderando una voce rabbiosa dotata di maggiore carisma rispetto a quella di Ralf degli Hellamor e anche il sound si fa più ruvido e cattivo (vuoi forse per la presenza di ben tre chitarristi). La prova è sin da subito decisamente più convincente anche alla luce di un cambio nei tempi, stile ed atmosfera. E la cosa viene confermata fortunatamente anche dalla stravagante blues rock song intitolata "Progress in Work", che palesa per lo meno quanto sia grossa la personalità di questi tizi e quanto siano altrettanto grosse le palle di questi omoni nel mettere in musica la loro proposta spaghetti western tra vocalizzi psicotici, riff pesanti e begli assoli. La band non si ferma qui, visto che in "Genius Junction", registrata live al Subkultur di Hannover, ci spara in faccia un hard rock bello robusto che ha comunque il pregio di delineare la potenza espressa dal vivo dai nostri. Anche la conclusiva "Thieves in the Attic" è stata registrata nella medesima sede e ci mostra, sebbene tutti i limiti del caso legati ad una registrazione che forse non rende giustizia, una band comunque interessante sotto molteplici aspetti, trasudante groove dai ogni poro, grazie ad un sound cosi coinvolgente da scomodarmi per intensità un paragone con "She Sells Sanctuary" dei The Cult. Alla fine della fiera, avevo ragione, l'unione fa la forza visto che gli Hellamor li avrei schiantati al suolo se non ci fossero stati i Red Stone Chapel a salvare le loro pelli o palle che siano. Uno split che rende giustizia al nome dei Red Stone Chapel, la vera scoperta di quest'oggi. (Francesco Scarci)

domenica 11 luglio 2021

Crowbar - Lifesblood For The Downtrodden

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Sembra ormai evidente che da anni le ultime tendenze musicali riguardino la riscoperta, la rivalutazione e reinterpretazione di quel doom ossessivo tanto caro a Black Sabbath, Trouble, Melvins e via dicendo. È solo una constatazione introduttiva per presentare questo lavoro dei Crowbar, band che di certo non scopriamo ora. I nostri infatti, percorrono questa strada da oltre trent'anni, in maniera del tutto personale e soprattutto con ottimi risultati e riscontri di critica. Se poi ci fosse qualcuno che non conosce questi ragazzoni di New Orleans, ecco che, come sempre, sono qui per darvi ulteriori delucidazioni. La band si è formata a cavallo tra gli anni ’80-’90, debuttando nel ’92 con 'Obedience Through Suffering' e arrivando ai giorni nostri attraverso undici buoni e controversi album. Freschi di contratto con la Candlelight Records, i quattro omoni americani nel 2005 rilasciavano, a distanza di quattro anni dal precedente 'Sonic Excess in its Purest Form', questo 'Lifesblood for the Downtrodden', prodotto da Warren Riker (Down) e Rex Brown (Pantera, Down), lavoro che riprendeva al meglio le peculiarità della band. La musica, un doom-sludge metal, riprende tutte le caratteristiche degli album precedenti, le fonde e le porta all’estremo, nell’intento di frastornare l’ascoltatore. L’incedere è, come sempre, inesorabile e asfissiante; in questo i Crowbar sono dei veri maestri. Hanno infatti la capacità innata di ammaliarci con momenti melliflui, per poi torturarci con riffoni belli pesanti e diretti sui nostri musi. La prestazione vocale di Kirk Windstein è come sempre angosciante, carica di emozioni cupe e malate in linea col sound oscuro e maledetto della band. Gli 11 brani che compongono questa fatica, ci consegnano un’immagine matura e consapevole dei propri mezzi dei Crowbar, formato 2005, capace di stupirci e stordirci ancora una volta. Una citazione a parte merita la conclusiva “Lifesblood”, che lungo i suoi sette minuti, riesce a conferire quel pathos struggente che sarebbe sicuramente mancato all’intero lavoro. (Francesco Scarci)

(Candlelight Records - 2005)
Voto: 74

https://www.facebook.com/crowbarmusic

domenica 13 giugno 2021

Cult Of Occult - Ruin/Black Sea

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Da Lione ecco tornare i Cult of Occult, duo che avevo avuto modo di conoscere nel 2015 in occasione della logorante uscita di 'Five Degrees of Insanity'. Dopo allora i nostri hanno rilasciato un altro album, 'Anti Life', ed un paio di split, prima che questo 'Ruin/Black Sea' vedesse la luce. Francamente non capisco però perchè venga definito un EP dal sito Metal Archives, trattandosi di un due pezzi di oltre 40 minuti di musica. Un altro bel mattone da affrontare tutto di un fiato quindi, preparatevi al peggio. Il titolo del disco racchiude poi anche quello dei due brani che lo compongono, "Ruin" e "Black Sea" appunto. Si parte con il primo, e quasi tre minuti spesi solo per assemblare il giusto riff con il quale dare il via alle danze. Poi è un lento incanalarsi verso le viscere dell'Inferno in un brano lento, pesante e tortuoso,dove il nostro Caronte è rappresentato dalla voce del frontman che ci accompagna in un'ambientazione poco invitante, all'insegna di uno sludge doom claustrofobico da incubo. Lo sottolineavo già sei anni fa, ma il sound dei Cult of Occult si conferma ostico e mortifero, con ben poco spazio concesso alla melodia, che si percepisce finalmente al decimo minuto attraverso un giro di chitarra che cattura la mia attenzione mentre l'andatura marziale dei nostri prosegue imperterrita a scavare avvallamenti di riff quasi impercorribili. I due transalpini si giocano poi la carta del riffing minimalista verso il quindicesimo minuto, e l'atmosfera si fa ancor più priva di ossigeno e l'ossessione musicale spinge le nostre menti allo sbandamento totale verso funeree derive autodistruttive, nel finale suffragate da urla che sembrano provenire da uno dei gironi danteschi de 'La Divina Commedia'. Non è un ascolto per deboli di spirito e carattere, ve lo premetto, servono nervi saldi e forza d'animo per affrontare questi lunghissimi e plumbei minuti che ci conducono al secondo capitolo di questo lavoro. È il momento di "Black Sea" infatti, un altro monolitico pezzo, precedentemente incluso nello split con i tedeschi Grim Van Doom. Le dinamiche sono le medesime della prima traccia ossia un rodaggio iniziale alla ricerca del giusto riff e su quello imbastire poi una sorta di monologo chitarristico tra trame desolanti e catartiche che ci condurranno con un pizzico di melodia in più, fino al termine dei suoi lunghissimi 22 minuti di durata. Interessante scoprire infine che la versione in cassetta di 'Ruin' contiene invece il remix della stessa, intitolata "nuiRe", un brano all'insegna della disperazione più totale che potrete ascoltare sul sito bandcamp dei nostri. Insomma quella dei Cult of Occult non è certo una delle proposte più semplici da assimilare, però se vi sentite abbastanza forti di cuore per farlo, potrebbe essere un'esperienza quasi al limite del sovrannaturale. (Francesco Scarci)

sabato 15 maggio 2021

Ba'al - Ellipsism

#PER CHI AMA: Black/Sludge, Inter Arma
Gli inglesi Ba'al non sono una band come le altre. Il sound del loro debut 'Ellipsism' (quello sulla lunga distanza intendo, visti già due precedenti EP all'attivo) è un concentrato di black sludge malinconico, caratterizzato dalle lunghe durate dei suoi brani. Il quintetto di Sheffield ci attacca subito con l'acidità black di "Long Live", un brano impostato sin da subito su ritmi forsennati e vocals caustiche, che vede poi una lunga parte atmosferica a cavallo fra terzo e sesto minuto, in cui i nostri sembrano concederci la pausa ideale prima di attaccarci con una proposta questa volta più melmosa e strisciante, che ci presenta l'anima sludgy dell'ensemble britannico. La seconda "An Orchestra of Flies" riparte da qui, da ritmi più lenti e fangosi per accelerare paurosamente verso il secondo minuto con una ritmica serrata che va alternandosi con la vena sludge propinata dai cinque musicisti. Non una proposta semplice da digerire, lo metto subito in chiaro, però quello dei Ba'al è un suono sicuramente intrigante che negli oltre 60 minuti del disco, avrà diverse cose da mettere nero su bianco. Dalle angoscianti sonorità della seconda traccia ci spostiamo a "Jouska", previo un breve break strumentale (ne troveremo altri due nel corso dell'ascolto di 'Ellipsism'), una song dall'incipit oscuro e da un'andatura più ritmata, che comunque non rinuncia alle harsh vocals di Joe Stamps (il cantante degli Hecate Enthroned) e ad una buona dose di melodia che comunque caratterizza l'intero lavoro. Con "Tarred and Feathered" la band sembra affiancare alla componente black una buona dose di death metal nella corposità delle chitarre e in vocals che rimpallano tra urla blackish e vocals gutturali. La traccia è bella tesa e tende a sfociare nel corso delle sue spirali infernali in ambientazioni fumose. Con "Father, the Sea, the Moon" i nostri cambiano ancora i propri connotati con un approccio lento, profondo ma dotato di ottime orchestrazioni e di una serie di sorprese a livello chitarristico che mi disorientano e catturano. L'anima dei Ba'al rimane però quella di sempre, votata ad una oscurità intransigente che si muove tra rutilanti ritmiche e accelerazioni improvvise, stop'n go governate dallo screaming efferato del frontman inglese. In chiusura l'ultima sorpresa di 'Ellipsism',"Rosalia", la traccia più lunga del disco (oltre 12 minuti) che ci consegna l'anima struggente ed intimista dei Ba'al, in una evoluzione sonora che parte dal gentile arpeggio iniziale, per poi proseguire attraverso malinconiche linee di chitarra e decollare con sonorità prese in prestito dal post metal, da un suono pesante ma comunque emozionalmente convincente, in cui a brillare è la presenza della viola di Richard Spencer, che arricchisce di un ulteriore elemento la proposta sonora di questi interessantissimi Ba'al. (Francesco Scarci)

lunedì 3 maggio 2021

Kavrila – Rituals III

#PER CHI AMA: Sludge/Hardcore/Noise
La band di Amburgo chiude il suo cerchio magico con l'uscita della terza opera di una personale trilogia intitolata 'Rituals', I, II e III. A mio parere i tre EP dovrebbero essere ascoltati insieme ed in sequenza temporale, anche se devo ammettere che questo terzo disco è quello più intenso, il meglio riuscito. A stento si riesce a classificare la loro musica e con immenso piacere d'ascolto mi affaccio al loro universo sonoro, un condensato di vari stili che spesso in rete viene imbrigliato, frettolosamente, tra le fila del genere sludge. Nel fantasioso uso delle chitarre che amalgama influenze punk, hard rock e new wave, vi troviamo anche i concetti compositivi dei primi Unwound e un sostrato hardcore alla Coalesce molto evidente. Assieme alle interessanti chitarre e ad un'incalzante presenza ritmica che si trova a suo agio, tra timbriche e costruzioni fantasiose, vicine allo stile dei Fugazi, troviamo un cantato notevole, assai aggressivo ed ossessivo, un attacco sonico di tutto rispetto che mostra una particolare vena d'originalità, devota a certe ruvide cadenze di Helmettiana memoria. Il periodo di riferimento verso la band americana è quello di 'Born Annoying' per quanto riguarda la componente noise, mentre per la tensione contenuta nei brani, il paragone va tra le note di band nervose sullo stile degli RFT, con un'urgenza espressiva drammatica simile ai Treponem Pale di 'Aggravation' nelle parto slow-mid tempo con una predilizione per gli aspetti più nevrotici di certo post punk alla Gang of Four del primo periodo, non di poco conto. Se teniamo conto che il suono non è volutamente così pesante come si usa di solito nello sludge (scelta di produzione vincente sotto tutti i punti di vista), che i brani sono comunque una mazzata nello stomaco dal primo all'ultimo minuto, che vantano una grossa orecchiabilità unita ad un nervosismo latente ed una tendenza al depressivo di moderna scuola black, alla Psychonaut 4, i quattro pezzi di questo 'Rituals III' risultano un collage al fulmicotone di emozioni estreme impressionante. La tensione e l'urgenza espressiva si fanno sentire alla grande, con tutta la potenza necessaria, con un estremismo sonoro controllato e mirato, che rende la band teutonica degna di una credibilità enorme. Un mix sonico che esplora i sentimenti umani dell'angoscia e della rabbia, che difficilmente con una parola si riesce a descrivere. Forse, il modo più giusto per capire il combo tedesco, è quello di osservare le splendide grigie copertine dei loro album, accompagnati dalla loro musica sparata ad alto volume e rigorosamente in solitudine, perchè, per amare opere così introspettive ed estreme, è richiesta un'attenzione particolare. Non siamo di fronte al solito disco sludgecore, hardcore o quant'altro, per ascoltare questo EP serve molta attenzione e un'anima molto ricettiva, il solo inizio, l'evoluzione della composizione ed il grido ripetuto nel finale di "Elysium", il brano che chiude il disco, basta per far capire cosa si nasconde dietro la musica di questo interessante ed originale quartetto. Ascolto consigliato, album splendido. (Bob Stoner)

(Narshardaa Records - 2021)
Voto: 78

https://kavrila.bandcamp.com/album/rituals-iii

domenica 4 aprile 2021

Collectif Eptagon – A​.​va​.​lon

#PER CHI AMA: Suoni sperimentali
Il collettivo transalpino Eptagon, presenta la sua scuderia di collaboratori con una raccolta, in forma di doppio album, che per metà è finalizzata a raccogliere fondi destinati al Metallion store, uno dei pochi negozi di dischi rimasti fedeli alla causa della musica estrema e underground locale di Grenoble. Devo ammettere che è difficile giudicare un album così variegato, ben prodotto e dalle esposizioni sonore tanto colorate e diversificate tra loro, quindi, dovrò fare i complimenti all'associazione, alla qualità dei progetti tutti rigorosamente originari di Grenoble, ed infine un augurio che tutto questo materiale, registrato in un 2020 da dimenticare, con tutta il suo carico di energia espresso in un anno così buio, siano di buon auspicio a tutte le band per un futuro pieno di soddisfazioni. Dicevamo che l'album è variegato, essendo diviso tra stili e composizioni diverse tra loro, ma accomunato da una sorta di filo conduttore, qual è l'appartenenza underground di queste realtà sotterranee, un posto ideale dove far convivere death, black, sludge, post ed alternative, tecnico, d'atmosfera o aggressivo esso sia, con il dark jazz, la musica elettronica, il progressive e l'ambient, il tutto distinto e separato in singole pillole sonore di egregia qualità strumentale, esecutiva e di produzione. Nessuna sorta di lacuna nel suo lungo ascolto, suoni eccellenti, dinamica a mille e professionalità a go go. Da constatare e lodare che, per essere una compilation, la scaletta dei brani fila via che è un piacere, anche per chi predilige lavori più complicati. Il suo insieme si snoda proprio con la fluida progressione di un album ben ragionato e frutto di tanta passione, che si mostra con forza nella qualità d'esecuzione espressa dalle tante compagini qui presenti. Diciassette brani di carattere, che prediligono varie forme di metal nelle prime cinque canzoni, dal death dei Kisin, al doom rock dei Faith in Agony, al grind degli Epitaph, al prog death dei Demenssed fino agli sperimentalismi estremi dei Jambalaya Window. La sesta "Arashi" (Robusutà) crea una sorta di frattura nella trama dell'intero lavoro con un sound strumentale ammiccante ai giapponesi Mono. Da qui in poi, le sonorità prenderanno direzioni diverse, fatta eccezione per un ritorno di fiamma decisamente più metallico nel brano live dei Liquid Flesh. Un brano che, con la sua matrice ultra pesante e tecnica, si pone come apripista all'avanguardia jazz, dal gusto Zorn e oltre, degli Anti-Douleur ("Beyrouth"), per esporsi in territori più sperimentali ed oscuri, frastagliati e sofisticati. Elettronica, drone music, jazz sperimentale, ambient noir, noise, alternative elettro e via via, la personalità mutevole di questa raccolta di brani vive proprio dei suoi continui contrasti e cambiamenti, che si muovono in paesaggi estremi con una fluidità d'ascolto eccezionale. Volutamente non voglio proclamare quale brano e quale ensemble valga di più di altri presenti nella compilation (anche se, e vi chiedo perdono, devo dire che la voce di Madie dei Faith in Agony è davvero splendida), ma sarebbe un errore imperdonabile da parte mia e da chiunque ami la musica indipendente, underground e alternativa, voler giudicare, rinunciando ad un ascolto travolgente, libero, senza porsi troppe domande sul chi stia suonando meglio cosa. Rinnovo i complimenti a tutti i musicisti che hanno preso parte a questo progetto così ben strutturato. Esorto il collettivo Ep.ta.gon a non mollare la presa ora, e vista la qualità della carne sul fuoco, non possiamo aspettarci altro che pranzi reali con realtà musicali cosi variegate come queste. Una compilation da ascoltare tutta d'un fiato, a volume alto ma soprattutto a mente apertissima. (Bob Stoner)

lunedì 22 marzo 2021

Farer - Nomad

#PER CHI AMA: Doom/Sludge/Post Core
Quattro brani per portarci all'Inferno senza ritorno. Ecco cosa ci propongono gli olandesi Farer con il loro debut 'Nomad'. Mi fa sorridere che si parli di EP, quando la lunghezza media dei brani viaggia sui 13 minuti fatti di un sound claustrofobico e malato, cosi come si presenta l'opener "Phanes", che con le sue urla stridenti e i suoi suoni glaciali, riesce a congelarci il sangue nelle vene. La musica che ci propone il trio dei Paesi Bassi, che vede in formazione due bassisti e nessun chitarrista, propone un causticissimo sound che miscela post metal, doom e hardcore, non disdegnando qualche divagazione in territori post rock. I suoni siderali, melmosi e angoscianti, potrebbero ricordare gli Amenra della prima ora, quelli più violenti ed ancorati alla tradizione hardcore, anche se verso il nono minuto del brano, emergono forti le influenze più recenti ed intimiste della band belga. La dronica cupezza sonora emerge palese nelle pulsanti note introduttive di "Asulon", che mostra come i nostri debbano sempre carburare per 2/3 giri di orologio prima di partire con la loro proposta sonora. E quindi ecco il classico minimalistico prologo in cui accanto a mezzo accordo ripetuto alla noia, esce finalmente una voce umana, calda e decadente. Lentamente la musica cresce e con essa ritornano le harsh vocals di uno dei due vocalist, mentre i bassi in sottofondo creano atmosfere intriganti al limite della psichedelia, con l'irruenza dello stoner e la profondità del doom, il tutto avvolto da un sound ai confini estremi della catarsi che ci accompagnerà fino alla conclusione di questo delirante pezzo. Con "Moros" le cose sembrano farsi un po' più abbordabili, proponendo i nostri un post metal dai tratti più commestibili e morbidi ma comunque assai particolari, che ci immergono in un nuovo trip dal quale sarà complicato uscirne immuni. La song scivola via tra sonorità molto delicate in cui ampio spazio viene concesso al lavoro delle percussioni e a strani effetti noise in background che serviranno a dare il via libera a violente deflagrazioni post hardcore, condite da una notevole linea melodica che a questo punto mi sorprende sapere costruita solo dai bassi. Fighi, non c'è che dire. Anche nella conclusiva "Elpis", dove i tre tulipani si concedono divagazioni shoegaze accanto a quelle inconfondibili note doom/noise/post core che delineano già con assoluta originalità, la spiccata personalità di questi tre stravaganti musicisti orange. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2020)
Voto: 75

https://farer.bandcamp.com/album/monad

mercoledì 17 marzo 2021

Halter - Omnipresence of Rat Race [2020 Reissue]

#PER CHI AMA: Death/Doom
Quella di oggi è una release che abbiamo già recensito qui sulle pagine del Pozzo. Era il 2013 e 'Omnipresence of Rat Race' dei russi Halter usciva per la MFL Records, proponendo un sound all'insegna di un sound cupo tra un doom claustrofobico e qualche sfuriata di canonico death metal. Nel 2020 la Wroth Emitter Productions ha pensato di riesumare quel lavoro e aggiungervi ben quattro tracce anche se l'ultima, "Zone of Alienation 2020", è una rivisitazione della vecchia song contenuta nell'album originale. Per ciò che concerne invece i nuovi brani, per i vecchi vi invito invece di andarvi a rileggere la vecchia recensione, diciamo che proseguono sulla falsariga di quanto ascoltato in precedenza, sciorinando un doom persistente e dai tratti vintage soprattutto nella linea delle chitarra e in un growl decisamente soffocato. Questo quanto ascoltato in "Water Through My Fingers", visto che "Wintry Day" si pone come un incedere ipnotico, una lunga marcetta ansiogena che trova dei punti di interesse in uno splendido assolo centrale, che strizza l'occhiolino al rock settantiano, per poi tornare a quel delirante avanzare che se ascoltato a più riprese rischia di invogliare il suicidio. "Blank" in realtà sono 20 secondi di vuoto, mentre la già citata "Zone of Alienation 2020" è stata rimasterizzata in una tonalità più ribassata con il sound più pulito e attualizzato che rendono giustizia ad una song che nella sua versione primigenia forse mancava di una maggiore verve. Insomma questa Reissue è un bel modo per apprezzare il debut album del quintetto di Yaroslavl, qui con contenuti extra che portano la durata dell'album a sfiorare i 70 minuti. Ostici comunque. (Francesco Scarci)

mercoledì 3 marzo 2021

Wojtek - Does This Dream Slow Down, Until It Stops?

#PER CHI AMA: Sludge/Noise, Converge
I Wojtek prendono il loro nome dall’orso, adottato dall’esercito polacco, che aiutò a trasportare casse di munizioni per la battaglia di Cassino durante la Seconda Guerra Mondiale e, curiosamente, lo condividono con un paio di band indie pop scozzesi (pare che dopo la guerra l’orso abbia trascorso la sua vecchiaia nello zoo di Edimburgo), che però, come vedremo, non corrono certo il rischio di essere confuse per il quintetto padovano. Giunti alla terza uscita in meno di un anno e mezzo, da quando cioè la band è nata dalle ceneri degli ottimi Lorø, i Wojtek continuano il loro percorso in direzione di uno sludge feroce e potentissimo, nel solco di mostri sacri quali Converge, Neuroris e Meshuggah. Ed è il caso di parlare di percorso, perchè questo EP di quattro brani (per meno di venti minuti) mostra decisi segni di evoluzione di un linguaggio che, per quanto ben definito nei suoi riferimenti cardinali, risulta meno brutale dei primi due episodi, più ragionato e personale, come se i vari elementi che caratterizzavano il suono senza compromessi degli esordi, avessero avuto il tempo di sedimentarsi. E quindi la struttura complessa dell’iniziale, splendida, "Catacomb", così come ad esempio le incursioni drone-noise di "Rednetrab" o la coda di "Desensitized", mostrano incoraggianti segnali di una maturazione che forse non è ancora giunta a compimento, ma che lascia intravedere un’interessante “via europea” per un linguaggio altrimenti già ben codificato. Come già il precedente 'Hymn for the Leftovers' (recensito su queste stesse pagine), anche questo 'Does This Dream Slow Down, Until It Stops?' esce in una versione fisica molto curata, in questo caso una musicassetta dal packaging decisamente accattivante. (Mauro Catena)

(Shove Records/Teschio Dischi/Fresh Outbreak Records/Ripcord Records/Violence In The Veins - 2021)
Voto: 76

https://wojtek3522.bandcamp.com/album/does-this-dream-slow-down-until-it-stops

Black Sun Brotherhood – God & Beast

#PER CHI AMA: Black/Death
Partiamo subito col dire che l'album di debutto dei norvegesi Black Sun Brotherhood non è di facile classificazione, avendo una struttura omogenea ma variegata, libera di muoversi tra le molteplici fonti d'ispirazione a cui la band attinge naturalmente, senza che l'esito dei brani, in quanto ad originalità e stile, venga screditato o tacciato di plagio. Nella stesura delle canzoni si sentono influenze dei Celtic Frost, in particolare dall'album 'Monotheist' per l'oscurità del sound, degli High on Fire per i tratti più sludge e corposi, i Venom di 'Resurrection' per la malignità espressa e gli Illnath per la pulizia e potenza del suono, con echi infine di Unleashed in lontananza. La band scandinava suona un death/black metal che pur portando i retaggi classici come bagaglio, riesce comunque a saltare gli schemi, grazie ad una sezione ritmica potente e pulsante ma soprattutto, grazie a riff di chitarra serrati e travolgenti, uniti ad una interpretazione vocale diabolica ed infernale. Il salmodiare a pieni polmoni ricorda quello di Thomas Gabriel Fischer, anche se qui il frontman si mostra più grave, diretto e monotono, ai confini con certi modi di cantare in puro stile hardcore, quasi una forma di recitato potente, che non sfocia mai in un vero e proprio cantato. Devo ammettere che ciò non guasta alla musica e anche se potrebbe risultare a volte un po' statico, considerata l'idea di celebrazione rituale sempre presente in sottofondo e le tematiche infernali dai toni satanisti di cui trattano le composizioni, questo tipo di approccio vocale risulta essere a tutti gli effetti l'ideale soluzione canora per questo tipo di sound. Il suono è energico e si muove all'interno del disco con abilità, tra dinamiche doom di matrice sabbathiana rivisitate in chiave moderna ("Leviathan") pesanti e ossessive unite ad un mix di tenaci riff thrash old school che non disdegnano suoni duri ed elaborati di nuova generazione (vedi alcune sonorità di chitarra vagamente vicine ai Gojira). Qualcosa di indefinito tra metal progressivo ed un suono vorticoso e psichedelico simile a quello presente nel brano "Ugly Truth" dell'album 'Louder Than Love' dei Soundgarden meno famosi, lo troviamo invece nella strumentale "Sol Invictus". Tanti riferimenti diversi tra loro, solo per cercare di spiegare la complessità della proposta musicale in questione. Anche gli intro e le parti d'atmosfera, come la sequenza dei brani o il ricercato uso di effetti sulla voce, sono ben progettati, mirati a dare fluidità ad un disco cupo e pesante, di grande impatto, veloce, travolgente e sinistramente intenso, decisamente saturo di magma oscuro. Alla fine degli undici brani, l'ascolto risulta così interessante che i 42 minuti circa di durata volano in scioltezza e presumo sia anche grazie ad una produzione di alto livello che rende gradevole il disco in tutte le sue parti senza mai scadere o risultare obsoleto. In definitiva, possiamo affermare di essere di fronte ad un buon album che farà la felicità di molti fan del metal estremo, violento ed oscuro ma dal suono sempre chiaro, definito e ricercato. Un disco 'God & Beast', che al netto delle dure tematiche trattate, che possono comprensibilmente, non essere condivise da tutti, deve essere ascoltato obbligatoriamente senza pregiudizi di sorta, poichè merita sicuramente un'ampia attenzione da tutti gli amanti del metal più estremo. (Bob Stoner)

(Metal Blast Records - 2020)
Voto: 74

https://www.facebook.com/blacksunbrotherhoodnorway