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venerdì 27 luglio 2018

Immelmann - The Turn

#PER CHI AMA: Alternative/Post Metal, Isolation Process
Quando le scorribande notturne mi portano ad ascoltare band che non conosco a discapito di concerti che sicuramente mi piacerebbero, spero sempre di non dover pentirmene e affogare quindi il dispiacere al bancone del bar. Con gli Immelmann la serata è andata alla grande, sono bastate poche note per capire subito che davanti avevo una band cazzuta nonostante la situazione intima e minimalista. Il giovane quintetto è di Vicenza e debutta con 'The Turn', album che racchiude sei brani confezionati a regola d'arte, un perfetto mix di alternative e post metal che richiama alla mente sonorità nord europee. La band prende probabilmente il proprio nome dalla virata di Immelmann, una manovra acrobatica (turn appunto) inventata dall'omonimo aviatore tedesco. "Dive" apre in maniera lieve con un loop di drum machine e arpeggi di chitarra, il sottofondo perfetto per il tragitto che ci accompagnerà alla rampa di lancio del vostro quadrimotore diretto nello spazio profondo. Suoni moderni, volutamenti freddi ed evocativi grazie al sapiente uso di effetti, una profondità di campo che le vostre orecchie apprezzeranno quanto il vostro cervello. Nel frattempo il pezzo cresce con l'entrata della sezione ritmica e spicca il volo con l'accensione delle distorsioni che fanno da kick down, schiacciandoci sul sedile di guida. Il pezzo scorre molto bene fino alla chiusura, dove la band lascia fluire la propria energia prorompente per un finale che ci lascia senza fiato. "Greedia" parte con più slancio e ricorda i Katatonia di 'The Great Cold Distance', la sezione ritmica coinvolge con la sua asimmetria, mentre lunghe note di chitarra accorciano progressivamente le distanze per arrivare al crescendo e all'inevitabile deflagrazione. Qui la complessità aumenta e ci incatena in un turbine ad alta tensione grazie anche ai pattern di batteria e al cantato che si fa più profondo e torbido, poi l'entrata delle distorsioni rilassa i nostri nervi per un attimo, ma non c'è tregua con il brano a svincolarsi in altre direzioni melodiche e le ritmiche proiettate verso un'appagante conclusione. Il viaggio si fa sempre più interessante e si arriva ad "A Song of Misery", che si fa apprezzare per la complessa musicalità che forgia un brano oscuro e potente, caratteristiche che gli Immelmann sanno sfruttare al meglio, comunicando le emozioni in maniera profonda e mai banale. Si chiude con "Be" che pur essendo l'ultima traccia, non ha nulla da invidiare alle altre canzoni anzi, grazie all'ottimo lavoro di registrazione/mix/mastering che ricorda band quali Isolation Process e Boil, ci avvolge come una nebulosa di pura energia e ci conduce al di là del tempo e dello spazio per un viaggio epico intergalattico. Semplicemente la colonna sonora perfetta per un capolavoro del cinema come 'Interstellar'. Lavori come 'The Turn' sono estasianti, confermano che la scena musicale italica è ricca di talento e musicisti che sanno dare il meglio nonostante non possano essere (ancora) dei professionisti. Se nel prossimo lavoro gli Immelmann metteranno un po' più grinta e un tocco di rabbia, ci troveremo davanti ad una delle band più promettenti della scena underground nazionale. Nel frattempo 'The Turn' è già uno dei miei dieci dischi preferiti di questo 2018. (Michele Montanari)

lunedì 23 aprile 2018

Seether - Poison the Parish

#PER CHI AMA: Post Grunge
Poderosi riffoni presocratici, un cavernicolo e puntualissimo contrappunto di batteria, nei buchi qualche bridge di basso per conferire epos ("Stoke the Fire"), il rauco gracidare di ordinanza furbescamente alternato a passionevoli sdolcinerie eroinofile. Un ascolto coatto del settimo frondosissimo (quindici canzoni) album (non così tanto) fragorosamente abbattuto soltanto qualche mese addietro da parte dei celebri taglialegna di Pretoria, indurrà senz'altro quella medesima sensazione di pesantezza gastrica mista a sonnolenza e sporadica flatulenza solitamente generati dalla cassoeula che faceva la vostra bisnonna di Olgiate Comasco, sia conferita pace all'animaccia sua. Ascoltate questo disco a basso volume, malamente stravaccati su un divano sfondato di vellutino, mentre osservate con inaspettato interesse l'interno delle vostre palpebre. Con l'eccezione di un paio di scarsamente convinte escursioni nel buon vecchio nu-sbraitone (nel finale del singolo "Nothing Left") le canzoni vi appariranno niente male ma sostanzialmente indistinguibili, proprio come gli ingredienti della cassoueula che faceva la vostra b.d.O.C.s.c.p.a.a.s.. (Alberto Calorosi)

(Spinefarm - 2017)
Voto: 55

http://seether.com/

martedì 3 aprile 2018

Roommates - Fake

#PER CHI AMA: Post Grunge/Hard Rock
Un southern voluminoso ma ispido, senz'altro devoto studioso di storia antica (Lynyrd Skynyrd, qualcuno si ricorda ancora gli Atlanta Rhythm Section?), sì, ma analogamente prossimo al più recente nichilismo alcaloide germinato in quel di Seattle nel primo lustro dei novanta (ritroverete la disperata profondità di suono degli ultimi Alice in Chains di Staley nelle due canzoni che aprono l'EP, "Light" e "Blow Away"; quando parte "Fakin' Good Manners" non riuscirete a non canticchiarci sopra "Nothingman" dei Pearl Jam) ma anche a un certo highway-punk americano metà ottanta ("Black Man Guardian") e a cert'altro sofficissimo e confortevolissimo face-between-your-tits-rock ("Empty Love"). Osserverete che la copertina unisce (neanche troppo) curiosamente un'estetica biker-rock a un logo eminentemente death metal. Chissà poi perché! (Alberto Calorosi)

(Nadir Music - 2017)
Voto: 65

https://www.facebook.com/RoommatesRock

mercoledì 21 febbraio 2018

Omza - Otto Maddox Zen Academy

#PER CHI AMA: Hard Rock/Post Grunge
Gli OMZA sono in cinque e sono di Trieste, una band giovane, matura e con un sound che convince e ammaglia sin dai primi minuti di rotazione del loro nuovo album 'Otto Maddox Zen Academy'. Ma andiamo con ordine. La band bazzica l'underground da qualche tempo anche se con nomi diversi e quest'album non fa che raccogliere i brani scritti finora e pubblicati da Brigante Records e Vollmer Industries. Il digipack è del tipo extra lusso, due ante in cartonato super pesante ed un booklet a ben sedici pagine con un artwork pulito e moderno dai toni scuri e netti. Le tracce sono nove e sono un vero e proprio excursus musicale tra rock, punk e pop, fusi tra loro in maniera convincente e dirompente. In "Birds", la opening track ha l'appeal prettamente rock venato di suoni british, dove i riff di chitarra fanno da spina dorsale alla traccia, ed insieme all'ottimo lavoro di batteria di basso, regalano un groove potente e filante. Accelerazioni, break, assoli e quant'altro in poco più di tre minuti e mezzo, in una canzone che racchiude gli OMZA e ne fa da manifesto musicale. "Motivational #1" è meno ammiccante, i toni si tingono di scuro e i pattern si fanno apprezzare per la loro dinamicità. Il vocalist ha un ruolo determinante come in tutti i brani, grazie alla sua timbrica sospesa tra Pierpaolo Capovilla ed Ozzy, che s'incastra perfettamente nel sound dei nostri e li rende riconoscibili dopo pochi secondi. Ottima anche la pronuncia, fondamentale se si vuole avere un appeal internazionale come quello cercato dalla band triestina. I testi invece non si spingono mai oltre al pop, peccato perchè avrebbero dato maggior spessore ad una produzione già di per sé molto buona. L'energià prorompente della band continua in "Time Machine", altro brano profondamente british rock che ricorda i vecchi Radiohead, ma meno sperimentali. Si fa apprezzare il break che rallenta e incupisce il pezzo che non vuole essere che una bella ballata spensierata, con bei riff di chitarra e arrangiamenti puliti. L'album chiude con un tributo al Duca Bianco e lo fa rivisitando un classico come "Moonage Daydream": il pezzo è sicuramente piacevole grazie ai suoni che dopo quarant'anni hanno fatto passi da gigante, ma si sente la mancanza di un tocco di glitter, quel qualcosa che ti fa scattare la scimmia e ti dice che il confronto con l'originale è stato superato con successo. Gli OMZA sono una band che lavora bene sui pezzi e produce bella musica, mettendoci pathos e sudore della fronte. Alla fine 'Otto Maddox Zen Academy' è sicuramente un buon album che andrebbe ascoltato dal vivo per poter meglio apprezzare quella chimica che dovrebbe crearsi tra band e pubblico, quella che non passa attraverso le cuffie o gli speakers. (Michele Montanari)

(Brigante Records/Vollmer Industries - 2017)
Voto: 75

https://omza.bandcamp.com/album/otto-maddox-zen-academy

giovedì 8 febbraio 2018

Harmonic Generator - Heart Flesh Skull Bones

#PER CHI AMA: Grunge/Glam, Alice in Chains
Reggisen-ballatonze tardo-hair-metallare più (i Tesla con le dita nella presa di "I Feel Fine") o meno folkeggianti (i Bon Jovi dal parrucchiere di "By Your Side") di chiara derivazione zeppeliniana (il glam n' roll IV-zeppeliniano "Dance on Your Grave") intersecate a (opportunamente ammorbidite) istanze grungey (gli Alice in Chains che ascoltano 'Physical Graffiti' sull'ottovolante di "Lamb and Lion") ed estemporanee virate heavy/power (lo Ian Astbury con le adenoidi di "The End"). Il secondo album dei Generatori di Armoniche transalpini (il nome proverrebbe però da un vecchio singolo degli australiani Datsuns), in realtà un concept (quadri)tematico di settantaefottutamenteuno minuti spalmato su quattro ep in tre anni, seppur identitario, mette comunque in mostra una certa istrionica disinvoltura nel manipolare i sottogeneri in questione. Ma la produzione, solitamente appropriata nei numerosi momenti hair/glam, risulta eccessivamente nitida quando ci s'inzacchera nel grunge/comediavolo/nu-grunge. Per bilanciare, ascoltate questo disco a tutto volume con due boccali da birra sulle orecchie. E levatevi dalla faccia quell'espressione idiota. (Alberto Calorosi)

sabato 3 febbraio 2018

Kayleth - Colossus

#PER CHI AMA: Stoner/Space Rock, Monster Magnet, Cathedral, Kyuss
Continua con il nuovissimo 'Colossus', il concept sci-fi dei veronesi Kayleth, ormai di casa da anni qui nel Pozzo dei Dannati. Il secondo lavoro, sempre edito dall'Argonauta Records, ha da offrire sessanta minuti di sonorità space/stoner, che non sono certo la più facile delle scampagnate da fare, soprattutto se ci sono ben 12 pezzi da affrontare. Si parte con "Lost in the Swamp" dove, accanto alla consueta ritmica ribassatissima, fanno capolino i synth ispirati del bravo Michele Montanari, mentre la voce di Enrico Gastaldo si muove sempre in bilico tra il buon Chris Cornell e qualcosa degli svedesi Lingua. Da sottolineare la preziosa performance alla sei corde di Massimo Dalla Valle, a districarsi tra riffoni pesantissimi e brillanti assoli. Bel pezzo, l'ideale biglietto da visita per questa nuova release del combo veronese. Si prosegue con "Forgive" e la sostanza non cambia: ottimo e vario il rifferama, abbinato all'imprescindibile componente eterea dei synth, e la voce di Enrico che questa volta cerca modulazioni vocali alla Kurt Cobain. "Ignorant Song" è un bel tributo agli esordi dei Black Sabbath, in grado di sprigionare una dose di energia sufficiente a scatenare un bel pogo. Diavolo, da quanto non se ne vedono. E allora lanciamoci via veloci ad assaporare la tribalità della title track (bravo a tal proposito Daniele Pedrollo dietro le pelli), una song più lenta ed oscura, in cui sottolineerei ancora il lavoro ritmico (le linee di basso di Alessandro Zanetti rilasciano traccianti da paura) e solistico dei nostri. "So Distant" è breve, veloce, uno schiaffone in faccia tra riff tonanti e l'elettronica ubriacante dei synth, con il frontman che canta principalmente su un tappeto ritmico sostenuto dal solo incessante battere del drummer. Forse un modo per cercare un contatto con gli alieni, quello proposto invece dal cibernetico inizio affidato a "Mankind's Glory", song ipnotica che evoca un che degli esordi dei Cathedral, in una song dal forte potere magmatico. Al giro di boa, ecco il lisergico inizio di "The Spectator" (dove io ci sento un che dei Pink Floyd uniti ai Linkin' Park, sarò pazzo?) pronto ben presto a lasciare il posto al più pesante stoner tipico della band italica. Altra mazzata in volto e siamo giunti a "Solitude", altra perla che vede nuovamente nella band di Lee Dorrian e soci (ma che affonda le proprie radici nel suono desertico dei Kyuss), i propri riferimenti musicali in una scalata musicale da brividi. Si conferma la bontà del songwriting, la produzione cristallina amplifica inevitabilmente la resa sonora ed una potenza che non resta a questo punto che assaporare anche dal vivo. Si arriva nel frattempo alla più lenta e ritmata "Pitchy Mantra", più litanica delle precedenti, ma essendo collocata più in fondo alla scaletta, sembra aver meno da dire. E questa è probabilmente la debolezza di un disco che negli ultimi suoi pezzi, pare smarrire la verve dei primi brani, anche se "The Angry Man" ritrova smalto e brillantezza, nella sapiente coniugazione di psichedelia e blues rock. "The Escape" è il penultimo pezzo del cd, e il vocalist sembra voler provare altre soluzioni vocali (Soundgarden) che si stagliano su di una matrice ritmica costruita egregiamente dai cinque musicisti veneti, in una traccia che mostra ulteriori sperimentalismi sonori al suo interno. In chiusura troviamo "Oracle", traccia più soffice e seducente delle altre che conferma quanto di buono fatto fino ad oggi dai Kayleth. Con un paio di pezzi in meno mi sa tanto che 'Colossus' me lo sarei goduto al meglio, da tener ben presente per la prossima volta. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2018)
Voto: 80

venerdì 22 dicembre 2017

NØEN - Caraibi

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Post Grunge, Nirvana
I NØEN vengono da una terra unica al mondo per la sua amena ed essenziale bellezza, dove dominano il paesaggio vigne a perdita d’occhio ed il sangue di antiche battaglie impregna ancora il terreno. È questa l’atmosfera che ha ispirato 'Caraibi', un disco d’esordio pieno di malinconia e rabbia, una prova che il rock può ancora regalare emozioni e fare bene all’anima. Sembra proprio sia questo ciò che il frontman Mattia Leoni vuole trasmettere nei suoi testi. Si tratta di sfoghi, pensieri, idee che non trovano manifestazione perché non esprimibili in un discorso oppure che non hanno la forza di rendersi reali perché troppo fragili nella loro pura magnificenza. Una difesa è quella dei NØEN, un fortino costruito con mattoni, sacchi di sabbia e lamiera, materiale preso in prestito da band come i Nirvana, gli Interpol e i Joy Division, impreziosito da una poetica che richiama i Verdena e il primo Vasco Brondi. 'Caraibi' inizia con “Hotel”, personalmente mio pezzo preferito dell’opera, un’implorazione ma anche uno sfogo di energie che esibisce la sua necessarietà con fierezza. La batteria di Federico Zocca è costante ed insistente, le chitarre sono dilatate in lunghissimi accordi distorti ed il basso di Stefano Melchiori sostiene con forza la struttura del pezzo, decorata con rugginosi sintetizzatori sottocutanei. Il giro armonico a tratti pare rassicurante a tratti pare invece sospeso, ne risulta uno strano effetto di trance e assuefazione. Completa lo scenario l’appassionata linea vocale con le sue distese e trascinate parole che sembrano tracciare delle lunghe scie bianche nel cielo. Un verso fra tutti “Fammi male, prova a insistere”. I brani scorrono piacevolmente grazie anche alla coproduzione di Enrico Bellaro, determinante nel suo ruolo di stregone del suono: i synth, gli effetti vocali e le scelte di arrangiamento, riescono ad esaltare la varietà delle composizioni aggiungendo sempre un elemento interessante ad ogni traccia. Due pezzi in particolare mi hanno colpito, “Mai’s” e “Vento”, dove le chitarre si scatenano e la rabbia esce prepotente. L’influenza dei Verdena è importante, i ragazzi avranno sicuramente ascoltato e amato 'Il Suicidio del Samurai', come, d’altronde, chi scrive. Ma solo di rabbia non si tratta, in “Mai’s” è apprezzabile una raffinata vena blues, opera di Davide Marotta (già membro della band stoner veronese Atomic Mold) che ha contribuito ai brani con le sue pirotecniche evoluzioni chitarristiche. A ben guardare, altri musicisti hanno partecipato alle registrazioni, in particolare Massimo Manticò alla chitarra in “Sola” ed Elena Ciccarelli al violino nello struggente pezzo di chiusura “Contro le Onde” che, come un paracadute, addolcisce la fine dei veementi assalti e dei tersi pomeriggi assolati di 'Caraibi'. I NØEN ci hanno regalato un disco d'esordio originale ed essenziale, seppur si percepisca una parte di personalità ancora nascosta che la band non ha ancora espresso e che sta cercando in tutti i modi di far emergere. Si vedono le potenzialità per riuscire a produrre musica ancor più particolare ed io sono certo che le verdeggianti valli di Sona con il loro retaggio di guerra, religione e storia, saprà guidare i ragazzi verso mete soniche lontane ed inesplorate. Nel mentre, ringraziamo per l’ottimo 'Caraibi' che consiglio di godersi in un momento di relax, a lume di candela ed abbinato ad una bozza di Custoza. (Matteo Baldi)

(Röcken Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/noenbandvr/

sabato 2 dicembre 2017

Mallory - Sonora R.F. Part II

#PER CHI AMA: Rock, The Doors
Si prosegue con l'analisi della discografia dei Mallory: dopo aver recensito '2' e 'Sonora R.F. Part I', non potevo farmi mancare anche l'ultima fatica della band francese, 'Sonora R.F. Part II'. Come già detto, il quartetto parigino ha un'innata capacità di fondere blues, grunge e atmosfere eteree che rapiscono l'ascoltatore e lo fanno accomodare su una vecchia poltrona di pelle, ormai distrutta dal tempo, ma che conosci in ogni sua imperfezione. L'album contiene dieci brani in un digipack con la stessa grafica del 'Part I', ma a colori invertiti. All'interno sono riportati i testi, sia in inglese che in francese, come i Mallory ci hanno già abituato in passato. "Riot" è il brano che ha la responsabilità di aprire il nuovo album e lo fa con tanta energia, con il tutto che ricorda i vecchi Pearl Jam, con riff aggressivi che si abbattono con energia come una tempesta su un paesaggio quieto ed inerme. La ritmica è sostenuta, batteria e basso si spellano mani e dita per scaricare più rabbia possibile, mentre il cantato ruggisce con la sua timbrica graffiante ed esperta. Un concentrato di headbanging che dà poco respiro, a parte qualche break, ma poi i nostri riprendono le loro progressioni ed esplodono esausti nel finale. Un brano che sembra essere nato in un qualche scantinato di Seattle e non a Parigi. "So Wet" torna alle radici blues della band, il ritmo rallenta e i suoni si fanno di soffice velluto scarlatto che accompagnano perfettamente questa ballata malinconica e sensuale. Immaginatevi un locale buio, deserto se non per un'oscura figura seduta di fronte al palco che vede una ballerina esibirsi in una danza provocatoria, tra fumo di sigaretta e bicchieri di gin scolati per anestetizzare l'anima. Il vocalist accompagna perfettamente la melodia che si districa tra fraseggi classici, ma ben arrangiati e dai suoni perfetti. In alcuni punti si ha l'impressione di sentire i The Doors più passionali e meno lisergici, anche se i quattro musicisti transalpini hanno quella marcia in più che gli permette di giocare sugli arrangiamenti e fare la differenza. "Vertige" reintroduce il cantato in francese che si sposa perfettamente con la parte strumentale e colora un brano bipolare, con un inizio lento e struggente che inganna, facendoci pensare all'ennesima ballata. In realtà appena si percepisce il crescendo, i Mallory pestano sul pedale distorsore e apriti cielo, ritorna quell'energia e quella rabbia che si riflettono in una valanga di decibel. Ancora una volta la sezione ritmica ha un ruolo determinante, il basso viaggia veloce senza perdere un filo di groove, mentre il batterista può destreggiarsi in pattern goduriosi che portano l'ascoltatore a trasformare ogni superficie disponibile in una batteria e immedesimarsi con il maestro delle bacchette che sta dietro le pelli dei Mallory. La breve entrata del synth fa l'occhiolino agli arpeggiatori tanto amati dai The Who, la conferma che le cose semplici vanno fatte in maniera impeccabile per essere convincenti. 'Sonora R.F. Part 2' è un altro capolavoro targato Mallory, una band che non segue le mode e scrive la musica che gli batte nel petto, sempre vera e convincente. Arte unita ad una dose di pazzia che porta sul palco una rappresentazione equilibrata di musica e teatralità, non è da tutti sapersi muovere tra generi così diversi e con cotanta eleganza. Chapeau mon ami. (Michele Montanari)

domenica 15 ottobre 2017

Next Step - Legacy

#PER CHI AMA: Alternative/Hard Rock, Alter Bridge
I Next Step sono un quartetto di Madrid che ha debuttato il 17 Marzo di quest'anno con l'album 'Legacy' per la label Rock Estatal Records. La band nasce però nove anni fa, quando i quattro elementi erano adolescenti ed il progetto era suonare cover divertendosi senza pensare troppo al futuro. Dopo qualche anno però, come spesso accade, la voglia di scrivere pezzi propri diventa forte e nel 2011 autoproducono il primo EP che riscuote un buon successo. Seguono due singoli, tra cui "Eternal", da cui è stato tratto un video che ha regalato visibilità ai Next Step che nel frattempo sono cresciuti musicalmente e non solo. 'Legacy' ha quindi la grande responsabilità di proiettarli verso la fama e notorietà oppure di affondarli e farli cadere nel dimenticatoio. La line-up ha subito nel frattempo vari cambiamenti ma il frontman Guillermo e la chitarrista Irene hanno mantenuto saldo il loro ruolo di mente e cuore del progetto. Il primo degli undici brani contenuti nel jewel case è "Wounds Become Scards", un brano convincente che si muove tra sonorità alternative/hard rock dalla ritmica pulsante e dotato di riff potenti. L'arrangiamento è ben fatto e ne scaturisce un brano solido e bilanciato tra allunghi e break dove non manca l'assolo di chitarra a coronare il tutto. La somiglianza con band del calibro di Alter Bridge e Black Stone Cherry è innegabile e ci fa capire l'amore della band spagnola per il filone rock americano. "Echos of a Life" si tinge di nero e tira fuori il lato più tenebroso del quartetto che si lancia in atmosfere post-grunge alla Puddle of Mudd e Creed, con il vocalist che dimostra il suo alto livello artistico. Guillermo infatti si destreggia benissimo grazie ad una buona estensione vocale e una timbrica fresca e grintosa in grado di trasmettere al meglio l'energia del brano. La sezione ritmica svolge appieno il suo ruolo regalando pattern coinvolgenti e allunghi che danno respiro alla canzone che può elevarsi verso l'alto fuggendo dalle atmosfere opprimenti. 'Legacy' rispolvera le radici hard rock della band di Madrid con passaggi acustici di chitarra che si alternano ad un ritornello graffiante e orecchiabile. Come detto prima, il lavoro di arrangiamento è ben fatto e l'utilizzo di accorgimenti come doppie voci non fa che confermare le impressioni iniziali su questo album. Irene si destreggia con stile e cognizione di causa con assoli da manuale che si sposano perfettamente con la sezione ritmica dell'eclettico frontman. Infine, la bonus track "Eternal" si merita di chiudere questo full length grazie al ruolo decisivo che ha avuto nel consolidare la posizione della band nella scena rock spagnola. La qualità audio del cd è molto buona ed insieme ad un mix in stile americano ci regalano un album che vale la pena di ascoltare, a conferma che il duro lavoro spesso ripaga. Anche se bisogna aver pazienza e dedizione. (Michele Montanari)


(Rock Estatal Records - 2017)
Voto: 80

domenica 17 settembre 2017

One Eyed Jack - What'm I Getting High

#PER CHI AMA: Post Grunge, Alice in Chains
Se vi state (carverianamente) domandando di cosa si stia sballando il buon vecchio Jack lo Sguercio quando suona questo 'What'm I Getting High', a mettere le cose in chiaro ci pensa la affilata linea di chitarra assolutamente "goodmotorfinger" nei primissimi secondi dell'introduttiva "Primetime". Nel prosieguo, l'album incede con granitica lentezza, aggirandosi rispettosamente tra i (numerosi) fantasmi di Seattle. Tanti momenti di scuola Staleyniana ("Washyall", "Dog Fight", quasi tutta "Shitting Blood"), compresa la melancolica ballata mad-stagionale "Soon Back Home", tanto distante dagli Alice in Chains quanto il Nostro dalla realtà, nella seconda strafattissima metà degli anni '90. Fungono da estemporaneo contrappeso il tiro (s)groove di "Sgrunt" e l'abbrivio inaspettatamente new-w. di "Drama Shit". Produzione devota ai riferimenti musicali e al loro tempo, ma a tratti eccessivamente affogata ("Little Junior Finally Grew a Beard", per esempio). One Eyed Jack, il fante di picche, è anche il titolo dell'unico film diretto da Marlon Brando e il nome del casinò-bordello dove fu verosimilmente adescata Laura Palmer la notte del suo assassinio ne 'I Segreti di Twin Peaks' (non serviva neanche stare a specificarvelo). Nel caso ve lo steste (carverianamente) domandando. (Alberto Calorosi)

Voto: 65

Ok, passi il termine post grunge anche se in realtà non l'ho mai capito, passi il ponte con la scena di Seattle ammettendolo solo in piccola percentuale ma non mi si tirino in ballo i grandi nomi che la resero grande come Soundgarden o Alice in Chains che proprio il paragone non ci sta. 'What'm I Getting High On?' è un buon album dai risvolti vintage, prodotto uscito per il coraggioso collettivo FIL 1933 group, con buoni risultati e con discreta originalità se si guardano i trend rock del momento, con un pizzico di psichedelia che non guasta ma senza la rabbia che ha portato il sound di Seattle a creare una generazione di mitiche band disadattate. Quindi, bisogna guardare il combo bresciano da una prospettiva diversa. Le uniche band dell'epoca in questione che, per attitudine sonora possiamo accostare al gruppo lombardo, sono gli Smashing Pumpkins agli arbori e in parte i primi Afghan Whings, quelli meno famosi e passati inosservati per tanto tempo. La prospettiva giusta è da ricercare nella musica che precedette il movimento grunge, tutte quelle rock band che volevano creare alla fine degli anni ottanta/inizio novanta, qualcosa di nuovo, spostandosi dal solito rigurgito punk, fuggendo dalla new wave ed evitando il metal, band come i Mega City Four, i Dag Nasty, i primissimi The Flamming Lips, Catherine Wheel o Band of Susans, tutte band strabilianti ma poco comprese perché i tempi non erano ancora maturi per la loro venuta. Quindi, osservati da questa angolatura, gli One Eyed Jack, hanno un motivo serio di esistere e di essere apprezzati per il coraggio della loro proposta fuori dal tempo, radicale e originale, un attitudine tra hard rock, leggera psichedelia e rock alternativo, riveduta e corretta in termini odierni. Bravi musicisti e soprattutto coraggiosi a presentare un album simile a dispetto dei paraorecchie che ci sono in giro oggi. Interessanti, trasversali, prodotti egregiamente e non annoiano mai; anche se qualche brano potrà risultare derivativo ma nel totale sono molto carini all'ascolto. Niente rivoluzioni, solo un occhio intelligente al passato, un gran bel disco di rock alternativo e la voglia vera di fare musica senza condizionamenti modaioli. "Primetime", "Little Junior Finally Grew a Beard" e "Drama Shit" i brani più rappresentativi. Fatevi coinvolgere! (Bob Stoner)


Voto: 70

domenica 25 giugno 2017

Steam Morrisler - Odds & Ends

#PER CHI AMA: Glam Rock, Motley Crue, Aerosmith
Un'altra band arriva da oltralpe, dalla sempre più prolifica terra dei nostri cugini galletti. Si tratta questa volta dei Steam Morrisler a proporci il loro EP di debutto, 'Odds & Ends', che include quattro pezzi all'insegna di un rock che sa tingersi di pop ma anche di stoner psichedelico. Se la opener "Red Voodoo Babe" riesce a strizzare l'occhiolino ad un certo rock'n roll anni '70 che chiama in causa gli Aerosmith, riletti ovviamente in una chiave contemporanea, la successiva e mia preferita "Under Acid Elephants", mette in scena i riferimenti psych stoner del quartetto di Parigi. Pur non proponendo certo musica originalissima, gli Steam Morrisler hanno da offrire una proposta godibilissima che in questa seconda song evoca, nel suo azzeccatissimo andamento tribale, anche un che degli Alice in Chains. "Hoodoo Tale (How The Devil May Care)" è una traccia dall'andamento strano: inizia fiabescamente quasi fosse la colonna sonora di "Fantasilandia", per poi muoversi con un andamento un po' psicotico tra voci pazzoidi, sonorità imprevedibili, stacchi rock'n roll e riffoni più pesanti. A chiudere il dischetto arriva "Heroin Jenny", forse il brano meno azzeccato dei quattro, che ricorda quanto i nostri siano anche legati al glam rock americano di Motley Crue e soci. Lavoro divertente per una ventina di minuti votati al rock'n roll. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)
Voto: 65

http://www.steammorrisler.com/

lunedì 1 maggio 2017

CRNKSHFT - S/t

#FOR FANS OF: Heavy/Hard Rock/Post-Grunge, Alice in Chains, Pantera
I’ve to admit that my first impression of CRNKSHFT wasn’t the best. Not only because of the no-vowels all-caps stupid-looking monicker, my inability to guess the correct pronunciation (“Crankshift”? “Crunkshift”?), or the album cover, which reminds me too much of something that Five Finger Death Punch would come up with, but also the fact that they mention groups like Shinedown, Godsmack, and other butt rock bands I totally despise as influences. But some people say you don’t have to judge a book by its cover, or a band by the way they chose to present themselves, and CRNKSHFT manage to overcome my prejudices, most of them created and developed by years of liking to talk a lot about things I don’t like, with their debut EP. Not sounding that much like the aforementioned bands, or at least not in the way I use to remember them, this Canadian group delivers four songs of good “modern” hard rock, with heavy guitars and catchy choruses. Instrumentally, they sometimes remind me of the rockier Metallica, and the vocals sound in-between Alice In Chains and the typical post-grunge “clean growls”. Without being mindblowing in any shape of form, I never wanted to skip any of this songs while I was listening to them, which is a lot more than what I can say about any fucking Puddle of Mudd song. If I had to pick a favorite, “Breaking The Silence” would’ve been played to death at Mtv, and the catchyness of “Tears Me Apart” is really hard to miss. The mixing and production are great, very professional without sounding overproduced. There are some things to improve, obviously: CRNKSHFT don’t seem very interested in taking many risks, with the songs being a little samey-sounding in repeated listens. And sometimes they come as a little over-dramatic, although their subtly socially conscious lyrics makes it a little more palatable than with other bands of the same style. Overall, CRNKSHFT’s self-titled debut EP is a pleasant surprise. I’d recommend it to anybody who likes any of the aforementioned bands. And if you don’t like them, you can listen to it and rock some tunes without any guilt. (Martín Álvarez Cirillo)

(Self - 2017)
Score: 70

https://soundcloud.com/crnkshft

mercoledì 8 marzo 2017

The Red Barons – Together

#PER CHI AMA: Rock/Blues/Post Grunge
Uscita un po' acerba quella di 'Together' dei transalpina The Red Barons che, nonostante la bella e facoltosa voce di Oriane si perde nei meandri del già sentito, non proprio originale ma sempre vivo classic rock, fatto con passione e impegno. Capiamoci, a creare il misfatto non è l'incapacità dei musicisti ma una produzione sommaria, che non appaga la verve dei musicisti, attempata e senza mordente, che rincorre atmosfere air metal anni ottanta, quando la band avrebbe bisogno di entrare in un ambiente molto caldo, retrò e vibrante stile Blues Pills (guardatevi la performance live su TV7 FR, sulla loro pagina facebook), come nella bella e intrigante "Brunch", dallo stile esotico e introverso dove Oriane si mette veramente in mostra, sfiorando le vette di una Skin in perfetta forma. Dietro ad ogni album c'è sempre un lavoro enorme, anche se capita a volte, soprattutto nelle produzioni di questo tipo, che per svariati motivi vengano offuscate le buone idee e le capacità, non si centrino le giuste sonorità, snaturando poi musiche che hanno bisogno di un suono reale e naturale, con un tocco vintage, dinamico e moderno. Il contesto sonoro creato dal quartetto francese ha delle potenzialità, giostrato in una costante atmosfera post grunge con influenze rock blues, e caratterizzato da una voce sublime che potrebbe essere paragonata, in taluni momenti, anche alla mitica voce dei primi irraggiungibili Pentangle dell'omonimo album del 1968, cosi ipnotica, intensa e calda. Quello che stona in questo lavoro uscito sotto la guida della Dooweet Agency è, come già detto, la gelida interpretazione del suono della band, che non entra mai in sintonia con la voce, nemmeno nello stacco in levare sulle ali di una Patty Smith d'annata. La preparazione è buona, i generi da cui attingono i nostri sono parecchi, molte le idee anche se da focalizzare, il groove, di estrema importanza in una band con queste caratteristiche, c'è ma non è esposto con il dovuto maniacale senso dell'esibizionismo. L'esperimento in campo metal della conclusiva "The Life" mette poi in risalto i limiti di una band che deve ancora crearsi una vera identità. Guidati da una voce così carismatica, nei momenti più ipnotici, si vede nitida all'orizzonte la potenzialità di riuscita e il bersaglio sembra a portata di mano con una semplice e leggera opera di affinamento del suono. Grandi le potenzialità dunque, ma penalizzate da una produzione non eccezionale. Comunque vada, vi suggerisco di ascoltare quest'album, alcune song non suonano affatto male. (Bob Stoner)

(Self - 2016)
Voto: 65

https://www.facebook.com/trbarons

sabato 4 marzo 2017

Stellar Temple - Domestic Monster

#PER CHI AMA: Post Grunge, Alice in Chains
La scena rock francese si è arricchita di una nuova band alla fine del 2013, quando Thomas e David, già militanti in altre formazioni, decidono che è il momento di dare scacco alla noia e rispolverare il vecchio rock anni '80-90 alla ZZ Top e Billy Idol, fondendo hard rock, stoner e un po' di blues in questi Stellar Temple. I due amici recuperano quindi altri due elementi e il quartetto è pronto per scrivere il primo album, 'Domestic Monster', uscito a Maggio dell'anno scorso per la New Deal Music. I brani sono dieci e mantengono la promessa di voler riproporre la musica di trent'anni fa vestita a festa col chiodo della domenica e catene annesse. Il digipack è ben fatto con cartoncino pesante che dà un senso di qualità, mentre nella grafica predomina il rosso e ci svela qual è l'animale domestico protagonista dell'album. "Overture" apre senza tanti convenevoli, come una bella testata sul naso al primo stronzo che ti taglia la strada, con il mood piacevolmente thrash metal con riff belli taglienti. Interessante la ritmica stoppata che insieme a basso e chitarre, sembrano imbrigliare una potenza inaudita che deve essere tenuta a bada per non travolgere tutto e tutti. "Fucking Miles Away" è la naturale evoluzione del brano precedente, dove finalmente la band si può sfogare in allunghi veloci e arrangiamenti potenti quanto melodici. Trova posto anche un brevissimo stacco di basso distorto che fa da starter in una gara di cani da corsa con la bava alla bocca per quanto sia incontenibile la voglia di correre. Il vocalist mette in chiaro di che pasta è fatto, gran timbrica, perfetta, anche nella pronuncia inglese, bravissimo a destreggiarsi in questo brano hard rock. A questo punto i Stellar Temple lasciano per un po' la loro parte da bravi ragazzacci e si addentrano in atmosfere morbose che ricordano il grunge oscuro dei Soundgarden anni '90. I beat si abbassano e le chitarre si affidano a giri armonici che ci scaraventano sulle rive del Mississipi mentre il sole soffocante ci fa colare il sudore sugli occhi. Nonostante il brano suoni un po' old school, la band francese si affida a suoni meno vintage per forgiare un sound potente e granitico. Anche "Rumors" ha lo stesso feeling, forse più simile agli Alice in Chains, pure troppo in certi momenti. Il cantante si lancia in fraseggi ruvidi e potenti mentre gli altri strumenti puntano su linee melodiche e ritmiche costanti. Immancabile l'assolo di chitarra finale che racchiude anni i di rock genuino senza tanti fronzoli, se non qualche sample elettronico nella coda che chiude il pezzo. Non posso non menzionare "Helly Days", altro brano ben fatto che si porta dietro contaminazioni orientali probabilmente proposte solo nella versione studio, ma apprezzabili ed equilibrate. Lo stop centrale è potente e propone un mix di suoni moderni e di altri tempi, dimostrando la voglia degli Stellar Temple di fare qualcosa di diverso e personale. Devo dire che aspettandomi uno dei soliti gruppi rock con grosse influenze stoner, mi sono sorpreso a scoprire una band assai brava e con vedute più ampie. Dopo anni di attività ci sono ancora musicisti che si mettono in gioco e sudano sangue per confezionare un album di spessore come questo 'Domestic Monster'. Complimenti e chapeau! (Michele Montanari)

(New Deal Music - 2016)
Voto: 85

lunedì 20 febbraio 2017

Houstones - S/t

#PER CHI AMA: Post Grunge/Alternative Rock
'Houstones' inizia con il frammento di una telefonata che potrebbe essere una comunicazione da oltreoceano, fosse il prefisso di Seattle non ci meraviglieremmo. L’attacco del primo brano, "Smile", dall’omonimo disco degli Houstones, suona proprio come quelle band che fecero irruzione nella scena musicale a partire dai primi anni novanta: chitarra-basso-batteria ad accompagnare testi cantati con piglio rabbioso. Gli Houstones sono un trio italo-svizzero che suona come una band americana degli anni novanta. Che lo sappiano fare anche bene lo si capisce subito e nel secondo brano, "7 Seconds to 8", i semi del grunge germogliano in una canzone che potrebbe essere davvero stata scritta da qualche gruppo della costa nord-ovest degli States. L’urgenza e la rabbia del disco sono caricate nelle prime tre canzoni e servono sicuramente a scuotere l’ascoltatore per portarlo in territori più meditativi a partire dal quarto pezzo, intitolato "Popular Star (A Popstar is A)" per proseguire con "Monster", introdotto da interferenze elettriche che aprono gli spazi a chitarre slide. La sesta traccia, "Room" parte lenta, appoggiandosi ad un riff di chitarra suonata con l’effetto phaser, crescendo poi nella sua esecuzione carica di rabbia e noise. Se ci fermassimo dopo l’ascolto dei primi sei pezzi, l’ironica dicitura “Best Before 1999” riportata all’interno del digipack, sarebbe pienamente rispettata. Il disco invece prosegue e nelle ultime due tracce, le coordinate musicali cambiano decisamente, con il risultato di spiazzare i puristi del genere alternative-grunge-stoner. L’intro di "Apode" rivela un certo mood orchestrale mentre la conclusiva "Coming to Save the World as Bill Murray Does" è un bel brano dal piglio cantautorale accompagnato da un sax. Sarà interessante scoprire se questi sono elementi di novità nel percorso musicale della band oppure esperimenti più simili a delle outtake. (Massimiliano Paganini)

(DreaminGorilla Rec/Old Bicycle Rec - 2016)
Voto: 70

https://houstones.bandcamp.com/album/houstones

venerdì 20 gennaio 2017

Queen Elephantine – Kala

#PER CHI AMA: Psych/Stoner
La cosa che non si può negare a questa ottima band, ora stabilitasi a Providence in US ma in passato residente ad Hong Kong, è la capacità di sconfinare facilmente e in maniera sofisticata e contorta tra lo stoner, la psichedelia, l'avanguardia ed il post rock. Con queste premesse, il disco in questione, uscito nel 2016, sembra non stimolare un granchè. Potrebbe rientrare in un calderone inflazionato di nomi, senza risultare in nessun modo una novità e la vostra potrebbe essere una considerazione esatta, ma per fortuna, vi dovrete ricredere in fretta. Vi dovrete ricredere perchè, ascoltando il nuovo album dei Queen Elephantine, con un titolo ispirato alla divinità orientale Kala, scoprirete che esiste ancora chi riesce a sfornare ottima musica, comunicativa ed originale, pur rimescolando vecchie carte da gioco. Prendete il pathos degli OM ed il loro misticismo, unitelo ai deliri compositivi dei June of 44 di 'Four Great Points', create un parallelo compositivo con il sound astratto, avanguardistico e cacofonico del geniale 'Deceit' dei This Heat, la spinta alternativa e desertica dei Fatso Jetson, il passo lento e pesante degli Earth, il doom sonico e rumoroso dei Fister di 'Bronsonic' e qualche scorribanda in territori kraut/psych rock e avrete l'esatta equazione che vi dà una vaga idea di cosa si nasconda nella quinta uscita ufficiale di questa particolarissima band. L'album è pane per i soli palati più fini, dato che va in contrasto con ogni canone di stoner rock da cassetta, pertanto ci si deve avvicinare a cuor sereno e mente libera da preconcetti di genere. Fatevi trafiggere dall'iniziale "Quartered", memore di un suono grunge dilaniato e rallentato a dismisura; amate il paranoico, folle e infinito grand canyon di "Quartz", lasciatevi poi cadere nel psicotico, sabbioso, noise/blues di "Ox", e fatevi rapire dal sentore etnico delle percussioni di "Onyx" (brano splendido!) ed il suo anarchico composto sonoro, acido e contorto, oppure, perdertevi nel vortice scuro di "Deep Blue", in gloria agli Ulan Bator post ogni cosa. Per finire inoltratevi nel vuoto cosmico dei dieci e più minuti di "Throne of the Void in the Hundred Petal Lotus", il doom visto con gli occhi degli Slint. Tante cose, tanti suoni e concetti hanno costruito questo album pieno di ambizione e meritevole di tanto rispetto, un collettivo di intelligenti musicisti pronti ad accendere ancora una volta, la fiamma dell' heavy psichedelico, rivisto e ridisegnato con nuovi colori e forme. Un album di confine che non convincerà tutti ma coloro che lo apprezzeranno, lo ameranno alla follia, come il sottoscritto. Il santo graal dello stoner rock è nascosto in questo album! Non fatevelo scappare! (Bob Stoner)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 85

https://queenelephantine.bandcamp.com/album/kala

martedì 6 dicembre 2016

Wolve - Lazare

#PER CHI AMA: Alternative/Progressive Rock, Riverside, A Perfect Circle
È un trio parigino quello dei Wolve che, non fosse stato per una cover cd cosi alternativa, avrei probabilmente etichettato come black metal per una certa assonanza col nome di alcune band estreme. Invece la grafica non tradisce il contenuto di 'Lazare', un EP di 18 minuti di musica dotata di un'anima, ed in grado di smuovere anche l'anima di chi li ascolta. Si parte col battito soffuso e sognante della title track, che evidenzia quelli che sono i punti di contatto della band francese, in primis i polacchi Riverside e gli inglesi Porcupine Tree, rimanendo dunque nell'ambito di un intimista rock progressivo che tributa anche Peter Gabriel. Un sound che convince per quel suo incedere affidato quasi esclusivamente a batteria e basso, con la voce di Julien Sournac a supporto di una ritmica loquace e gli squarci di chitarra elettrica relegati nella seconda parte del brano, decisamente più energica, ma anche più sperimentale, con intermezzi dal sapore etnico. "Porcelain", peraltro titolo di una famosissima song di Moby, ha i contorni di una ballad, con quella combinazione rilassante di basso, synth e vocals malinconiche, e con qualche richiamo ad un che degli A Perfect Circle. Un breve intermezzo noise rock ed è il momento di "Far", ultima tappa di questo breve lavoro, una traccia grintosa votata ad un certo stoner (per le ritmiche più pesanti) e psych grunge (per l'abbinata voce-basso in stile Alice in Chains) che chiude l'EP, che mostra una prestazione convincente del trio transalpino. Ben fatto, ora sarà bene concentrarsi per dare un seguito all'osannato album di debutto, 'Sleepwalker', che vi invito ad andarvi ad ascoltare. Niente male affatto. (Francesco Scarci)

(Fuzz Fuzz Records - 2016)
Voto: 70

https://wolvemusic.bandcamp.com/

venerdì 14 ottobre 2016

Das Röckt - Odile

#PER CHI AMA: Stoner Rock/Post Grunge
Il grunge dopo la sua prima fase esplosiva non ha avuto vita facile negli anni a seguire. La sua sopravvivenza è stata graziata dalla sua capacità di evolversi e intersecarsi con realtà parallele come il metal e la psichedelia che in parte erano già nel suo DNA, di fondersi con lo stoner rock e usare la spinta di certo punk/hardcore meno estremo, questo per garantirsi un futuro dignitoso. Il caso degli svizzeri Das Röckt è da manuale in quanto riescono a fondere al meglio e con ottimi risultati, la musica degli ultimi Queens of the Stone Age con il buon vecchio stoner della band di culto dei Lowrider, passando per il supergruppo Wellwater Conspiracy e gli intramontabili Sixty Watt Shaman, dando vita ad uno speciale connubio di potenza e orecchiabilità, inaspettato e coinvolgente. I primi quattro brani volano veloci, trascinati da riff centratissimi alternati a fasce di musica psichedelica venata di sfumature hardcore, dal taglio melodico ma sempre molto abrasivo (il brano d'apertura, "Run Your Course Crazy Star", è memorabile). Una certa psichedelia pesante e claustrofobica, etichetta i brani con quell'intensità sonora che caratterizza gli ultimi più orecchiabili album dei Mastodon ("Where's the Acid Party") svanendo immediatamente dopo, per immergersi in un indie rock alternativo radiofonico di sicuro impatto con il brano "My Meat Car", spiazzante creatura a metà tra 7Zuma7, Therapy? e i primi And You Will Know Us by the Trail of Dead. Brani di ottima fattura e tanta cura in fase di produzione, belli i suoni, mentre la copertina dovrebbe a parer mio riflettere maggiormente il lato pesante e tagliente della band, anche se, bisogna ammetterlo, si nota nella sua grafica così originale, una certa voglia di fuggire dai soliti cliché omologanti del genere pseudo stoner/rock psichedelico contemporaneo. Quaranta minuti di musica potente e fantasiosa che accomuna gusti differenti in ambito rock, dove il grunge acido degli Stone Temple Pilots e il metal dei The Almighty, incontra il sound alternativo e trascinante degli Arctic Monkeys, suonato come se a farlo fossero gli Apollonia, gli At the Soundown o addirittura i More Than Life. Voi potreste dire che è un frullato di musica troppo esagerato, che un miscuglio così non può portare a niente, tuttavia, credetemi senza indugio quando vi dico che sin dal primo ascolto, dalla prima nota, vi convincerete dell'esatto contrario. Questa band elvetica ha superato il confine, ha centrato in pieno il bersaglio, creando un piccolo gioiellino con questo album, inventando un'esplosiva, originalissima e godibilissima miscela di pesante rock intelligente, abrasivo, adulto e fantasioso, distante dalla solita routine. Una band tutta da osannare! Ascoltatevi il trittico conclusivo costituito da "1981", "Georgia O'Kneefe" e "Spinning Glass" e ditemi come vi siete sentiti dopo averlo fatto...meravigliati? Un disco esemplare. (Bob Stoner)

(Cold Smoke Records - 2015)
Voto: 90

martedì 20 settembre 2016

Compass & Knife – The Setting of the Old Sun

#PER CHI AMA: Post Rock, Mogwai
Ok, mi arrendo. Alzo le braccia, abbasso la testa e confesso: non so davvero cosa scrivere di un disco di questo genere. Non che non sappia cosa scrivere in assoluto, ma non so bene che scrivere di nuovo e che non abbia già fatto molte altre volte. I Compass & Knife sono un trio di Tacoma, nello stato di Washington, e suonano rock strumentale. Non userei il termine post rock, che per me ha accezioni ben diverse, se non fosse che così facciamo prima e ci capiamo: i C&K sono un trio post rock che sul finire dello scorso anno ha pubblicato questo loro secondo lavoro che ha riscosso reazioni molto positive su diverse webzine oltreoceano. 'The Setting of the Old Sun' è un bel disco? Oggettivamente, si. È ben suonato, ben registrato, non dura un’eternità e anzi riesce a fare della sintesi uno dei suoi punti di forza. Mette in fila otto tracce piacevoli e accattivanti, che puntano tutto sulla melodia e un impatto piuttosto energico, con le consuete alternanze tra vuoti e pieni che non esagerano né in un senso né nell’altro. 'The Setting of the Old Sun' è un disco originale? Per quel che vale, no. E difficilmente potrebbe esserlo, tanto è ben ancorato a modelli di riferimento saldi e riconoscibili, dai Mogwai ai God is an Astronaut, anche se non li ricalca mai in modo pedissequo, cercando piuttosto di fondere gli stili in una proposta coerente. In questo senso, credo che l’esperimento tentato con due brani cantati – sorta di shoegaze sognante - "Transconsciousness" e "Our Home is Nothing but a Memory" - sia non solo perfettamente riuscito ma che possa rappresentare la direzione per il futuro. 'The Setting of the Old Sun' è un disco che ascolterò a lungo? Difficile dirlo adesso, ma credo abbia le carte in regola per resistere alla prova del tempo. E adesso abbasso le braccia, alzo la testa, e accetto la sentenza. (Mauro Catena)

mercoledì 16 dicembre 2015

Appollonia – Dull Parade

#PER CHI AMA: Postcore/Post Grunge/Psichedelia
Ci arriva con un sensibile ritardo questo splendido quarto album, pubblicato nel 2014, dalla band transalpina degli Appollonia, act proveniente da Bordeaux e attivo fin dal 2005. La maestria accumulata in anni di note e sudore, si sente tutta e si mostra alla grande nella sapiente modalità compositiva del trio, nella classica veste rocciosa di basso, chitarra e batteria. Una scrittura musicale completa, capace di creare un potente heavy/rock dalle tinte forti e psichedeliche alla stessa maniera, una vena metal moderna e revisionista come potrebbe essere considerata quella degli ultimi album dei mitici Mastodon, anche se qui la componente progressive è meno evidente e lascia posto ad una vena di pesante rock coperta di delicate e allucinate escursioni in tinta post-core. In realtà gli Appollonia, che già avevo avuto piacere di recensire nel buon precedente album, mostrano un ulteriore passo in avanti, affilando le proprie armi in un sound corposo, suonato divinamente, che non esaspera mai le sue influenze, e che alla fine risulterà potentissimo e intricato al punto giusto, mescolando egregi granitici riff metallici e cori hardcore con una cadenza post grunge devota al suono di certi lavori degli ultimi Alice in Chains. Una punta di leggerezza che caratterizza tutti i brani, ricavata da una verve indie/neo prog/psichedelica molto cara ai visionari Mercury Rev e ai polacchi Riverside. Il risultato è inspiegabile per una band con un simile impatto e la resa dei brani è impressionante. La solidità delle composizioni e la bellezza delle parti cantate a più voci è a dir poco perfetta, affascinante, orecchiabile, in grado di dare un valore aggiunto inestimabile, un'originalità incantevole senza l'obbligo di dover per forza suonare come qualcosa di nuovo. Lo scorrere dei brani è fluido, coinvolgente ed anche la scelta di trascinare l'ascoltatore in una scaletta che parte dalle tracce più potenti per finire dolcemente sulle ultime due tracce, "Anelace" e "Welsh Rarebit", animate da un puro spirito rock più moderato e psichedelico, è simbolo di padronanza estetica e maturità compositiva ormai raggiunta, vicina alla totale perfezione. La cosa sconvolgente è che dietro ad un album del genere ci sia poi un'ottima produzione indipendente e che ancora dopo dieci anni di attività, una band simile non sia stata acclamata dalla scena musicale internazionale. La Francia si dimostra ancora una volta fabbrica eccezionale di talenti musicali e gli Appollonia meritano tutta la nostra ammirazione e il massimo supporto. Album da sogno! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 90