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mercoledì 16 febbraio 2022

Thumos - The Republic

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale
I Thumos sono una misteriosa creatura di cui non ho trovato troppe informazioni. Certo la Bibbia Metal Archive dice che sono americani, si sono formati nel 2018, ma poi non si sa quanti e quali membri costituiscano la band, o di quale città siano realmente originari. Dopo una serie infinita di demo, split, EP e compilation, il gruppo nordamericano arriva finalmente in questo 2022 al tanto agognato full length d'esordio. 'The Republic' è un lavoro di dieci pezzi dediti ad un post metal che supera l'ora di durata. La sua peculiarità? È interamente strumentale, sebbene il disco voglia essere una sorta di rappresentazione musicale de 'La Repubblica', l'opera filosofica in forma di dialogo, del filosofo greco Platone, la quale ebbe una enorme influenza nella storia del pensiero occidentale. Quantomeno stravagante. Il disco si apre con i toni cupi di "The Unjust" che rivela subito la direzione musicale intrapresa dai nostri. Le chitarre infatti sono quelle tipiche del post metal, tuttavia le ambientazioni tendono a farsi, nel corso del pezzo, estremamente rarefatte e paranoiche, complici una serie di rallentamenti dal mood asfissiante. Un filo più tirata "The Ring", dove comunque mi preme sottolineare il piacere nella band di produrre break in cui affidare lo stage ad un singolo strumento. Accadeva con la batteria sul finire del primo brano, accade qui con largo spazio concesso alla chitarra e da qui ripartire con un piglio costantemente in bilico tra post e doom, profumato anche da derive progressive e da qualche accelerazione che ammicca al black. Il disco non è proprio facilissimo da digerire, però non appare alle mie orecchie scontato come tanti altri lavori che ho ascoltato in ambito post, forse per questa capacità di variare il tempo, di inferocire la componente ritmica, cosi come di renderla più mansueta in altri frangenti come accade nella più delicata e melodica "The Virtues" che potrebbe ricollegarsi al IV libro di Platone e alle virtù in esso citate, la sapienza, il coraggio e la temperanza. Più tortuosa invece "The Psyche", d'altro canto con un tema del genere era lecito aspettarsi qualcosa di simile. Si tratta di un brano pesante che si muove su una ritmica lenta e ossessiva, caratterizzata da giri di chitarra sparsi qua e là alquanto bizzarri e da un incedere comunque pachidermico nella sua seconda metà. Si arriva intanto a "The Forms" e al suo sconfortante incipit che evolve in un pezzo che per certi versi mi ha evocato lo spettro dei Cult of Luna di 'Somewhere Along the Highway', quelli più glaciali e desolanti, sebbene le tastiere provino a smorzare i toni e a sopperire all'assenza di un vocalist. "The Ship" è il brano più corto del disco che attacca con un rutilante incedere ritmico. Bordate di piatti e rullante, chitarre super distorte vicine più al death metal che al post, ed una serie di schiaffi in faccia ben assestati. L'oscura "The Cave" non mi lascia alcun dubbio sul fatto che affronti "Il Mito della Caverna", una delle più conosciute allegorie del filosofo greco. Il pezzo è fondamentalmente orientato sulla falsariga dei precendenti almeno fino a quando, poco prima di metà brano, divampa la miccia di un black furibondo che ci accompagnerà, tra rallentamenti e accelerazioni improvvise, fino al termine. "The Regimens" è un'altra song che parte da toni pacati ma con una linea di chitarra un po' più sghemba rispetto alle precedenti. Anche qui il break di batteria non tarderà a materializzarsi, quasi il battito ritmico di un cuore in mezzo al petto, comunque ostico e nevrotico. Un delicato arpeggio apre "The Just", che mi ha colpito per la sua intrinseca malinconia dettata probabilmente dall'utilizzo degli archi che donano una certa solennità a quello che è il pezzo più evocativo del disco, quello che ammicca anche maggiormente al post rock, quello meno originale ma che forse riesce più a toccare la componente emotiva di chi ascolta. In chiusura "The Spindle", la traccia più lunga del lotto, quella che attacca anche in modo più minaccioso con delle chitarre multistratificate che non lasciano presagire a nulla di buono, quasi un black norvegese di altri tempi. In realtà non ci troveremo di fronte a nulla di cosi spaventoso o feroce, sebbene il drumming ogni tanto sembri voler aumentare i giri del motore, ma da qui alla fine ci sarà spazio per qualche accenno di accelerazione, qualche sporadico blast beat e poco altro che si concretizzerà in un pianoforte che chiude delicatamente un disco inaspettato, intrigante e complicato. (Francesco Scarci)

(Snow Wolf Records - 2022)
Voto: 75

https://thumos.bandcamp.com/album/the-republic

domenica 9 gennaio 2022

Dawn of a Dark Age - Le Forche Caudine 321 a​.​C. - 2021 d​.​C.

#PER CHI AMA: Black/Folk/Avantgarde
Con l'intento di tributare nuovamente le proprie origini sannite, come già fatto peraltro ne 'La Tavola Osca', Vittorio Sabelli torna con un nuovo capitolo della saga Dawn of a Dark Age, intitolato 'Le Forche Caudine 321 a​.​C. - 2021 d​.​C.'. Ovviamente, la citazione storica riporta alla battaglia delle Forche Caudine in cui i Sanniti, sotto l'egida di Gaio Ponzio, sconfissero i Romani, imponendo poi loro la prova mortificante di passare sotto gli omonimi gioghi. Tre i brani a disposizione dei nostri per narrare quegli eventi e farne anche un parallelismo storico con la nostra era. Qui supportati da un esteso numero di ospiti a suonare ogni tipo di strumento inimmaginabile (zampogne, mandoloncello, darbuka, tamburello, vibrafono, archi e fiati vari, flicorno, conchiglie), i Dawn of a Dark Age propongono, attraverso una sorta di narrazione storica fatta di dialoghi, cori e quant'altro, il loro classico sound a cavallo tra black, folk e sperimentazioni varie. Il disco apre con "Excerpt 1 (Scene 3 -7)", un brano di black atmosferico, in cui a mettersi subito in luce è il clarinetto di Vittorio che ne accompagna anche la voce narrante (sempre di grande impatto). Il brano è un susseguirsi di movimenti, tra black, partiture folk e attimi di grande epicità, laddove il tremolo picking si prende la scena. Il lavoro prosegue con "Le Forche Caudine - Atto I": si sentono i cavalli sopraggiungere, chiudo gli occhi e provo ad immaginare la scena che i suoni e le cupe melodie dei fiati, provano a descrivere. Mi sento proiettato indietro nel tempo, una chitarra acustica dà il la alla musica con una lunga parte introduttiva che fino al settimo minuto si manterrà esclusivamente strumentale, proponendo sin qui un sound mediterraneo suonato con tutti gli strumenti a disposizione del collettivo. Si palesano poi le vocals con lo screaming caustico di Emanuele Prandoni a riportare gli eventi storici, mentre il sound in sottofondo ci conduce a luoghi lontani nello spazio e nel tempo. La voce di Emanuele viene poi soppiantata dalla narrazione di Vittorio e il tutto acquista ancora più veridicità storica quasi il mastermind molisano si trasformi in una sorta di Alberto Angela del metal. Lunghe parti ritmate vengono affiancate da tratti folklorici in un'alternanza tra frammenti atmosferici, momenti di narrazione e scorribande black, a cui aggiungerei addirittura derive jazz poco prima del diciannovesimo minuto, dove la perizia tecnica della band si miscela con la pura poesia musicale guidata da un eccellente assolo di clarinetto, per un finale da brividi. Dopo gli oltre 21 minuti dell'atto I, ecco "Le Forche Caudine - Atto II", poco meno di 17 minuti di sonorità estreme, avanguardistiche, heavy (ascoltatevi l'assolo in apertura di brano), tradizionali, jazzy, prog rock, classiche, post-black, orchestrali, mediorientali, a condensare quasi tutto lo scibile musicale, in un brano ad altissima intensità ed elevato spessore artistico, che rischierà di piacere, a largo spettro, sia agli amanti dei Jethro Tull che a quelli dei Wolves in the Throne Room. Gioiellino. (Francesco Scarci)

martedì 14 dicembre 2021

Cepheide - Les Échappées

#PER CHI AMA: Depressive/Blackaze
I Cepheide sono una one-man-band che seguo sin dal primo demo, 'De Silence Et De Suie', peraltro recensito proprio su queste stesse pagine nei primi giorni del 2015, e a seguire abbiamo scritto anche degli altri album dell'act parigino. Ho sempre apprezzato lo stile depressive black del buon Gaetan Juif (qui alias Joseph Apsarah), il mastermind dietro a questo moniker, che abbiamo già avuto modo di incontrare anche con Baume e Scaphandre. Il musicista francese, dopo l'ultima uscita in compagnia dei Time Lurker, torna con il nuovo 'Les Échappées' e quel suo sound black multiforme, a tratti disperato (soprattutto a livello vocale) che in questo platter mostra a mio avviso una progressione sonora interessante. Il genere ovviamente rimane quello di sempre con scariche impazzite di carattere post black, lanciate a tutta velocità ma sempre contraddistinte da un'apprezzabile dose di melodia quasi si trattasse di una versione invasata dei Windir, con quello screaming sgraziato che tuttavia ha sempre il suo perchè, se inserito in un contesto musicale come questo. Preparatevi dunque ad assalti all'arma bianca come quello dell'opener "Le Sang" o della successiva e più atmosferica "L'oubli", che per lo meno mostra una serie di break onirici che interrompono quel tormentato maelstrom ritmico che spesso vede inglobarci mentalmente e dal quale si fa davvero tanta fatica ad uscirne intatti. Non so infatti se esista un segreto per non venire sgretolati dal vertiginoso sound di Mr. Gaetan, tante e tortuose sono le ritmiche dentro le quali il polistrumentista transalpino sembra volutamente farci perdere. È decisamente più esotico, direi mediterraneo, l'incipit di "L'ivresse" (dal quale è stato estratto anche uno psicotico video) che per un paio di minuti sembra addirittura cullarci in un più protetto flusso sonoro. Anche il proseguio del brano in realtà non è cosi schizofrenico come i primi due pezzi, e prosegue in modo più o meno normale per altri 90 secondi, prima che si apra un'altra voragine dove finire inevitabilmente inghiottiti dalle ritmiche lanciate a velocità doppie o triple della luce, spaventoso! Soprattutto perchè non ho la sensazione di venire schiacciato dai ritmi infernali dettati dall'ultratecnico strumentista, semmai mi sento parte della sua idea, un'idea che mi avvinghia, mi ingloba nelle sue strutturate e destrutturate armonie, dissonanze e melodie tra black, epic e blackgaze, come quello che mi ipnotizza nella celestiale e un po' "alcestiana" (ma anche doomish) "Les Larmes". Il disco mi piace: sebbene si tratti di un lavoro alquanto estremo, devo ammettere che il risultato conclusivo sia davvero ispirato, originale e accattivante e potrebbe addirittura piacere a chi a sonorità cosi estreme non si è mai avvicinato. Certo, non tutte le tracce sono sullo stesso livello, forse "Les Cris" è quella più criptica, che meno mi convince forse perchè la più caotica e che meno mi tocca i sensi. La chiusura è poi affidata a "La Nausée", il brano più lungo del lotto e quello che meglio riassume la poliedrica proposta musicale dell'artista francese tra passaggi oscuri, fraseggi black prog e vocals sperimentali che mi fanno pensare a grandi prospettive per il futuro dell'imprevedibile Joseph Apsarah. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2021)
Voto: 77
 

lunedì 6 dicembre 2021

Hope Drone - Husk

#PER CHI AMA: Post Black/Sludge
Dopo un silenzio durato poco più di due anni, tornano gli australiani Hope Drone con un EP nuovo di zecca, uscito esclusivamente in formato digitale, che peccato. 'Husk' serve però a tastare il polso del quartetto di Brisbane, dopo quest'ultimo periodo alquanto complicato. Quattro i pezzi a disposizione dei nostri per saggiarne lo stato di forma e devo ammettere che l'incipit affidato a "Inexorable" fuga immediatamente ogni dubbio sul fatto che i nostri siano pimpanti più che mai con il loro classico vortice sonoro che ingloba nelle proprie note post black e post rock, il tutto immerso in uno strato melmoso, quello dello sludge ovviamente. E il risultato è davvero avvincente con suoni grossi, violenti, melodici, catartici e appassionanti nel loro incedere veemente. La successiva title track parte su di una base percussiva ipnotica, a cui pian piano si aggiungeranno gli altri strumenti, per ultima la voce, in un crescendo sonoro ed emozionale da brividi, quasi fossimo sull'orlo del precipizio, con la testa che gira a causa delle vertigini, e la musica è rappresentata da un ritmo marziale pronto a deflagrare in qualsiasi momento, ma comunque fin qui a rendere tesa e surreale un'atmosfera che rimarrà tuttavia tale per tutti i suoi sette minuti e mezzo di durata. Devastante invece "Existere", quasi a volersi rifare della mancata devastazione nel secondo brano. E i nostri ci riescono alla grande con un blast beat furente interrotto qua e là da break atmosferici o da rallentamenti al cardiopalmo, il tutto cosi intriso di malinconia che mi fa disperare nell'anima. Chiusura invece affidata alla lunga "Dwell", oltre 10 minuti di sonorità che ammiccano inequivocabilmente a post metal e sludge, con una spaventosa parte centrale apice di un black metal roboante ed evocativo, prima di un dronico e spettrale finale che ci conferma quanto gli Hope Drone siano realmente in palla. Notevoli. (Francesco Scarci)

giovedì 9 settembre 2021

White Ward - Debemur Morti

#PER CHI AMA: Post Black Sperimentale
La Debemur Morti ha affidato l'arduo compito agli ucraini White Ward di celebrare con una loro uscita discografica, la duecentesima uscita dell'etichetta francese. Autori di due eccellenti album negli ultimi quattro anni, i sei ucraini rilasciano questo 'Debemur Morti', che affida alla title track in testa all'EP la missione di aprire le danze del qui presente. E la compagine conferma sin dai primi secondi le proprie qualità con quelle trame di piano e sax che avevo amato alla follia in due brani di 'Futility Report', ossia "Deviant Shapes" e "Stillborn Knowledge". Proprio da quelle sonorità nascono e crescono le melodie dell'act di Odessa che nei nove minuti dell'opener, ha modo di abbracciare black metal, sonorità progressive di scuola Ne Obliviscaris (anche a livello vocale) e suggestivi mondi sperimentali di scuola Ulver, per una song che potrebbe affiancarsi per bellezza e intensità, alle due canzoni sopra citate. E poi attenzione alla guest star dietro al microfono, ossia Lars Nedland (Borknagar, Solefald) che sfodera una prova strepitosa che innalza ulteriormente il livello qualitativo di un pezzo che ha ancora modo di lanciarsi in una portentosa ed epica cavalcata conclusiva che peraltro carica ancor di più di aspettative la successiva "Embers". Da applausi comunque. Ancora pianoforte e sax a braccetto per i primi quattro minuti della seconda traccia, con forti richiami che mi conducono a 'Blood Inside' degli Ulver, prima che sciabolate di post-black nudo e crudo vengano propagate in modo più o meno intermittente nei restanti quattro giri di orologio di una release che ha il solo difetto di durare troppo poco. (Francesco Scarci)

giovedì 8 luglio 2021

Felled - The Intimated Earth

#FOR FANS OF: Atmospheric Black/Folk
Felled is an interesting project founded in Oregon in 2014. The band was born from the ashes of Moss of Moonlight, a project previously located in Washington, where Jenn Gruningen and Cavan Wagner sang about a hypothetic independent Cascadian land. Felled, now relocated to Oregon, has become a four-piece band, and continues similar conceptual paths, but with a broader connection to nature and paganism. Felled combines black metal with some neo-folk influences, which is not an unknown combination in that area of the country. These neofolk influences usually come in the form of melancholic melodies, making this sort of bands to have a certain somber atmosphere.

In its seven years of existence, Felled hasn´t been particularly prolific, releasing a demo in 2017 only, but the band has finally signed a deal with the respected underground label Transcending Obscurity Records, and releasing in these days the debut album 'The Intimate Earth'. As soon as the album begins with the first track "Ember Dream", we have a clear picture of how Felled sounds. Aggressive rasped vocals domain accompanied along the song by guitars with a raw tone, yet melodic when its needed. The pace varies constantly between fast and slower sections, creating an interesting piece of music. But what stands out is generous use of the violin, an instrument I personally love and that has a brilliant participation in this album. Tiffany’s mournful melodies add the expected neo-folk touch to Felled’s music, not sounding straightforwardly depressing, but with this melancholic tone that a genre like neo-folk usually has. The second track "Fire Season on the Outer Rim" follows similar patterns, even though it adds a greater contrast between the heaviest parts and the calmer ones, including some short atmospheric and folk interludes, which serve as a bridge between the different sections of the song. The addition of occasional clean female vocals, usually done by Jenn, with the help in the backing vocals by Tiffany, also enriches the compositions, which are tastefully composed and executed. As mentioned, the mixture between the raw guitars, which include also melodic riffs, and the violin, create a truly hypnotic atmosphere, which makes you feel the profound connection to nature, specially to the vast and beautiful landscapes that can be found in Oregon and Washington states. The album contains only five songs, but their length is quite long as they have an average of almost seven minutes. This length usually works well with this genre as the compositions need time to expand and create the wanted absorbing atmosphere. Its hard to pick a favourite song, but the album closer "The Salt Binding" is a wonderful way to close this excellent debut. The feeling is strong in this track as the melodies are truly outstanding. The mournful beauty of the riffs is captivating, the violin is as beautiful as you can expect, but the novelty here is related to a more presence of clean female vocals in the first half, which gives a truly unique touch to this song. They sound like a farewell song sung in the middle of distant forest. Moreover, when they are combined with the raspy vocals in the heavier second half of the song, they sound like a storm suddenly appearing in the horizon. This is indeed a classy song to leave the listener totally satisfied with this album.

In conclusion, 'The Intimate Earth' is the remarkable debut album by Felled, which has created a quite emotional release full of great melodies, where the violin has a predominant role, though the rest of instruments, and obviously the excellent vocals, help to create a very recommendable album. (Alain González Artola)


martedì 11 maggio 2021

Cold Cell - The Greater Evil

#PER CHI AMA: Black/Doom, Blut Aus Nord
Li avevo recensiti nel 2017 ai tempi di 'Those' quando erano parte del roster Czar of Bullets. Torna oggi il sestetto di Basilea dei Cold Cell, freschi di un nuovo contratto con la Les Acteurs de l'Ombre Productions, e un album, 'The Greater Evil', più freddo che mai. Sono sette le tracce che compongono questa quarta ambiziosa opera del combo elvetico, per un album che si apre con le inquietanti e litaniche vocals di "Scapegoat Season", che dopo un delicato avvio, cede il passo ad un black teso, a tratti atmosferico, e nel finale, votato completamente al post black, in una song che vede come guest alla voce Frederyk Rotter (Zatokrev e Crown). Ecco come si presentano i Cold Cell con 'The Greater Evil', un disco cupo, ipnotico, malvagio, stralunato, come l'acustica discordante in apertura di "Those", che riprende il titolo dell'album precedente e ci trascina in un vortice di suoni tribali e foschi che evocano gli ultimi Schammasch, chissà se è complice la presenza dietro le pelli del batterista Azrael, membro degli stessi. È il turno di "Open Wound", un pezzo non originalissimo ma che comunque induce un certo senso di angoscia, amplificato dalle brillanti vocals disperate di S e da un'effettistica in sottofondo che crea una sensazione di inquietudine. Il disco è tuttavia interessante e ha ancora una serie consistente di cartucce da sparare: dalle vertiginose e incandescenti ritmiche di "Arnoured in Pride" alle disperate e criptiche sonorità di “Greatest of all Species”, un pezzo che mostra più di un richiamo ai Primordial come intensità ed emozionalità, un mid-tempo ragionato e al contempo un po' fuori dagli schemi nella linea melodica che ne guida il pattern ritmico. Con "Back into the Ocean", ci si muove tra black, doom e influenze avanguardistiche, soprattutto esplicate nell'uso di clean vocals evocative che s'incrociano, in un splendido e atmosferico sottofondo percussivo, con la componente più straziante del bravo frontman. A chiudere, ecco "No Escape" che si dipana attraverso un lungo incipit tra glaciali paesaggi desolati e prosegue con furibonde accelerazioni black che chiamano in causa anche i Blut Aus Nord e Akhlys, in un lavoro alla fine riuscitissimo e consigliatissimo, che chiude allo stesso modo di come aveva iniziato. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2021)
Voto: 75

https://ladlo.bandcamp.com/album/the-greater-evil

venerdì 16 aprile 2021

Caelestra - Black Widow Nebula

#PER CHI AMA: Post Black/Melo Death
È un death black dal forte impatto emotivo quello della one-man-band britannica Caelestra che nel debut 'Black Widow Nebula' ci delizia con sette pezzi e poco più di mezz'ora di sonorità estasianti. La musica di Frank Harper, polistrumentista di Bristol, scivolano via che è un piacere a partire dalla stratosferica opening track "Solaris", che evidenzia tutte le qualità dell'artista inglese, che tra post black e oniriche parti atmosferiche, screaming e sofisticate clean vocals, mi dice che quello che ho fra le mani è uno degli album più interessanti dell'ultimo anno. Nella prima parte di "The Astral Sea" siamo nei paraggi di un prog metal delicato e soffuso, nella seconda più vicini alle sonorità cinematiche dei Fallujah, in un pezzo a dir poco celestiale. Ma l'apice a mio avviso lo tocchiamo in "Cassiopeia", cosi ricca di groove che permette al mastermind di oggi di scrollarsi definitivamente di dosso la scomoda etichetta black. "In Utero" è un intermezzo ambient noise che ci introduce ad "Everglow", dove ad aspettarci c'è un'altra intro vocale davvero spettacolare, ricca di malinconia e che evidenzia ancora le sorprendenti qualità vocali del frontman, con parole dapprima sussurrate alla musica che va via via crescendo in intensità senza mai realmente minacciare di sfociare in una vera baraonda sonora. Arriva ahimè troppo presto l'atto conclusivo di 'Black Widow Nebula' affidato a "Caelum", emozionante nel suo incipit atmosferico, più tormentato nella sua grinta black che si affianca a fantastiche melodie progressive di scuola Opeth, che chiudono in modo esaltante questo sorprendente lavoro dei Caelestra, band da ora in poi, da tenere assolutamente nei vostri radar. (Francesco Scarci)

lunedì 12 aprile 2021

Mur - Truth

#PER CHI AMA: Post Black/Post Hardcore/Experimental
Recensiti proprio dal sottoscritto un paio d'anni fa in occasione del debut 'Brutalism', i parigini Mur tornano con un EP nuovo di zecca intitolato 'Truth'. Cinque brani, di cui una cover dei Talk Talk, per una mezz'ora abbondante di suoni che combinano post-black con il post-hardcore, ma non solo. L'eccelso stato di forma del sestetto francese è confermato dal roboante pezzo d'apertura, "Inner Hole", che ci stritola con suoni davvero corrosivi, che hanno il pregio di sfoderare un break elettronico che rompe quella furia primigenia, comunque pregna di melodia, che contraddistingue il brano. Un pezzo pervaso da un senso di impotenza e forte malinconia tipici del post-hardcore, proposti con l'irruenza di un black dai tratti sperimentali, ormai marchio di fabbrica delle produzioni Les Acteur de l'Ombre Productions. Il finale è a dir poco devastante, miscelando suoni estremi dai più svariati ambiti musicali, a confermare le ottime doti dei sei musicisti. Che i suoni non siano troppo scontati ce lo conferma anche la successiva "Suicide Summer" con la sua ritmica psicotica e irrefrenabile, un rullo compressore impazzito in grado di asfaltare ogni cosa si ponga sulla sua strada. Il black schizoide dei Mur trova la sua massina espressioni in balzani synth che coniugano estremismi black con il mathcore, scatenati suoni elettronici, screaming efferati, cavalcate poderose, break inaspettati e deflagrazioni caotiche altrettanto imprevedibili, quasi geniali. Al pari quasi dell'inizio di "Epiphany", che sfodera chitarre assai strambe, percussioni tribali, harsh vocals, suoni contaminati da un'alternative rock e altre sonorità più o meno stravaganti per una proposta di questo tipo, che comunque ha un suo filo logico che ci conduce alla cover "Such a Shame", un brano che francamente amo. Ecco, la riproposizione della song dei Talk Talk è quasi irriconoscibile, fatto salvo nel coro dove compare chiara l'ndimenticata melodia del brano. Altrove regna il caos sovrano, un caos calmo, un caos controllato, ma comunque un caos nell'accezione figurata della sua definizione, disordine o disorientamento tumultuoso, una confusione senza uguali, soprattutto laddove credo ci sia una sorta di assolo conclusivo controverso e delirante. In chiusura di 'Truth', ecco gli ultimi dieci minuti strumentali della title track. Intro affidato ad un lungo giro di synth che ci porta direttamente al krautrock teutonico degli anni '70. Break ambient di 90 secondi tra il terzo e il quarto minuto e poi una seconda parte assurda di sonorità synthwave, prog, sperimentali, che ci confermano quanto i Mur siano davvero pazzi, stralunati ma tremendamente fighi. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2021)
Voto: 80

https://ladlo.bandcamp.com/album/truth

martedì 23 marzo 2021

Wesenwille - II: A Material God

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Deathspell Omega, Ulcerate
La Les Acteurs de l'Ombre Productions sembra non sbagliare un colpo. Li seguo fin dalla loro prima release e non ricordo di essere praticamente mai sceso sotto una larghissima sufficienza con nessuna delle band recensite, e io non sono proprio uno di manica larga. Oggi mi ritrovo sulla scrivania gli olandesi Wesenwille - che piacere peraltro vedere un altro strappo alla regola considerata la linea dell'etichetta votata prettamente alla transalpinità - e la loro seconda fatica intitolata 'II: A Material God'. Non conoscevo il duo originario di Utrecht, mi duole ammetterlo, ma ancora una volta la label di Champtoceaux ha beccato in pieno gli artisti su cui puntare. Il genere proposto dai due loschi individui (i classici con una decina di band sulle spalle, tra cui Apotelesma e Grafjammer) non si discosta poi di molto da quanto solitamente offerto dalla LADLO Productions, essendo un black sperimentale fatto di disarmoniche galoppate in stile Deathspell Omega che si combinano con derive più emozionali, come quelle che si riscontrano a metà dell'opening track "The Descent", una traccia che fino a quel momento ci aveva sbranato con ritmi infernali e che poi rallenta vertiginosamente entrando in anfratti più intimistici, da cui ripartire ovviamente più incazzati che mai. Accanto a ritmiche incendiarie, c'è da dire che i due musicisti palesano idee azzeccatissime e personalità da vendere, ed era lecito aspettarselo visto che non stiamo certo parlando di due pivellini. La band ha questo modo di presentarsi con vertiginose scorribande sonore, vocals al vetriolo che parlano di decadentismo della società, ci shakerano nel loro personale frullatore sonoro (penso alla debordante violenza di "Opulent Black Smog"), per poi concederci spettacolari intrugli sonori vicini quasi ad un black progressivo, splendido a tal proposito l'assolo qui. E la ricetta sembra funzionare alla perfezione anche nelle successive tracce, dove si viene investiti da elucubranti riff di chitarra che potrebbero evocare anche i conterranei Dodecahedron, e "Burial ad Sanctos" ne è un esempio calzante. Emerge da questa stessa song anche una certa componente doomish che viene spazzata via da sgretolanti stilettate di chitarra che mostrano, qualora fosse ancora necessario, le eccelse capacità esecutive del distinto R. Schmidt (date un'occhiata alla sua foto e pensate un po' se questo tizio cosi elegante, possa concepire un sound cosi devastante). Fatto sta che i Wesenwille hanno uno stile convincente che continua a propagarsi anche più avanti durante l'ascolto senza soffrire alcun calo di tensione e attenzione ma anzi, acuendo quella voglia di scoprire cosa di insano e deflagrante, i nostri avranno ancora da proporci. Si perchè "Inertia" è un treno impazzito, scuola Ulcerate, che potrebbe esclusivamente fermarsi per un deragliamento delle sue acuminate chitarre che urlano come coyote nel deserto, la notte. "Ritual" è un pezzo strumentale che rinuncia alla sua melodica brutalità solo quando il tremolo picking delle chitarre si prende interamente la scena. Con la title track si torna a correre come degli indemoniati, e il detto senza colpo ferire non credo possa proprio applicarsi ai due mostruosi musicisti orange. Tecnica purissima che si infrange contro la barbarie della proposta dei Wesenwille, stemperata solo da atmosferici rallentamenti doom che sembrano apparentemente allentare quella difforme tensione creata dai nostri. Con "Ruin" abbiamo una versione più meditabonda della musica dei due schizofrenici musicisti olandesi, mentre con la conclusiva "The Introversion of Sacrifice", ci concediamo un addio con i fiocchi, ossia una sezione ritmica di violenza e dissonanza senza precedenti che ci danno il colpo del definitivo KO. 'II: A Material God' è un album sicuramente importante, ma decisamente non per tutti, nemmeno per molti, ma se vi entrerà nella testa, beh probabilmente sarà complicato toglierselo per un bel po' di tempo. Bravi. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2021)
Voto: 79

https://ladlo.bandcamp.com/album/ii-a-material-god

lunedì 22 marzo 2021

Farer - Nomad

#PER CHI AMA: Doom/Sludge/Post Core
Quattro brani per portarci all'Inferno senza ritorno. Ecco cosa ci propongono gli olandesi Farer con il loro debut 'Nomad'. Mi fa sorridere che si parli di EP, quando la lunghezza media dei brani viaggia sui 13 minuti fatti di un sound claustrofobico e malato, cosi come si presenta l'opener "Phanes", che con le sue urla stridenti e i suoi suoni glaciali, riesce a congelarci il sangue nelle vene. La musica che ci propone il trio dei Paesi Bassi, che vede in formazione due bassisti e nessun chitarrista, propone un causticissimo sound che miscela post metal, doom e hardcore, non disdegnando qualche divagazione in territori post rock. I suoni siderali, melmosi e angoscianti, potrebbero ricordare gli Amenra della prima ora, quelli più violenti ed ancorati alla tradizione hardcore, anche se verso il nono minuto del brano, emergono forti le influenze più recenti ed intimiste della band belga. La dronica cupezza sonora emerge palese nelle pulsanti note introduttive di "Asulon", che mostra come i nostri debbano sempre carburare per 2/3 giri di orologio prima di partire con la loro proposta sonora. E quindi ecco il classico minimalistico prologo in cui accanto a mezzo accordo ripetuto alla noia, esce finalmente una voce umana, calda e decadente. Lentamente la musica cresce e con essa ritornano le harsh vocals di uno dei due vocalist, mentre i bassi in sottofondo creano atmosfere intriganti al limite della psichedelia, con l'irruenza dello stoner e la profondità del doom, il tutto avvolto da un sound ai confini estremi della catarsi che ci accompagnerà fino alla conclusione di questo delirante pezzo. Con "Moros" le cose sembrano farsi un po' più abbordabili, proponendo i nostri un post metal dai tratti più commestibili e morbidi ma comunque assai particolari, che ci immergono in un nuovo trip dal quale sarà complicato uscirne immuni. La song scivola via tra sonorità molto delicate in cui ampio spazio viene concesso al lavoro delle percussioni e a strani effetti noise in background che serviranno a dare il via libera a violente deflagrazioni post hardcore, condite da una notevole linea melodica che a questo punto mi sorprende sapere costruita solo dai bassi. Fighi, non c'è che dire. Anche nella conclusiva "Elpis", dove i tre tulipani si concedono divagazioni shoegaze accanto a quelle inconfondibili note doom/noise/post core che delineano già con assoluta originalità, la spiccata personalità di questi tre stravaganti musicisti orange. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2020)
Voto: 75

https://farer.bandcamp.com/album/monad

sabato 6 marzo 2021

Jours Pâles - Éclosion

#PER CHI AMA: Heavy/Black
Formatisi solo nel 2020, i Jours Pâles non sono certo degli sprovveduti, includendo tra le proprie fila membri o ex di Gloson, Uada, Aorlhac, Shining e Asphodèle. E proprio dal mastermind di quest'ultimi, Spellbound e da un disco fatalità intitolato proprio 'Jours Pâles', nasce la band di oggi. Nonostante la compagine comprenda musicisti svedesi, statunitensi e francesi poi, come ormai da protocollo Les Acteur de l'Ombre Productions, la scelta per il cantato è ricaduta sulla lingua francese. Per il resto la formazione è davvero parecchio recente ed 'Éclosion' rappresenta il loro debutto assoluto. Nove brani per 50 minuti di musica davvero convincente che si allontana almeno inizialmente dai soliti clichè di devastazione post-black dell'etichetta transalpina per offrire un sound più educato, che irrompe con le malinconiche melodie di "Illunés". Dicevo educato perchè il cantato è pulito almeno per la maggior parte del tempo, le ritmiche lineari, il riffing sembra un mix tra Dark Tranquillity e Novembre, ma sono soprattutto le melodie affidate ai solismi finali (la lead è affidata a Sylvain Bégot dei Monolithe) che fanno subito breccia nel mio cuore. La successiva "Aux Confins du Silence" mostra invece un altro lato della medaglia dei nostri che sfoderano qui un cantato più aggressivo, una linea di chitarra più ruvida e nervosa ma comunque melodica. Il ritmo è più frenetico, tipicamente black, ma le chitarre soliste fanno ancora una volta la differenza, dando un tocco di epicità e melodia al risultato finale. Apertura arpeggiata per "Ma Dysthymie, Sa Vastitude"con spoken words in accompagnamento. Poi un bel riff di chitarra squarcia l'aria qui più oscura e pesante. E poi via tutti gli altri strumenti con un lavoro al basso eccezionale (bravo Christian Larsson!) cosi come fantasioso il drumming di Phalène. Il pezzo va a progredire a livello ritmico con un funambolico finale con acuti di chitarra e voci taglienti. Ma è sempre quell'alone di malinconia ad aleggiare attorno all'intero lavoro a fare la differenza e rendere la proposta dei nostri più intrigante. "Le Chant du Cygne" è più compassata nella sua andatura, mostrando a livello chitarristico più di un'analogia con i Novembre degli esordi anche se nella parte centrale scorgo più di un riferimento a 'Seventh Son of a Seventh Son' degli Iron Maiden, si avete letto bene, questo a testimoniare le qualità di una band che in pochi secondi arriva a regalarci una ferocissima scorribanda black ed uno splendido finale in tremolo picking. "Eclamé" vede la partecipazione al microfono di Ondine Dupont voce dei Silhouette, il che ci consegna una versione più sperimentale dei Jours Pâles, anche se il sound dei nostri è in costante movimento con il black che incontra l'heavy e il dark si miscela al depressive. Lo stesso genere che si respira nella parte iniziale della title track prima che i nostri ci delizino ancora con giri post-black venati di punk, ma è comunque un grondare di melodia, malinconia, parti acustiche e altre avanguardistiche. I quattro musicisti non si fermano davanti a nulla, sciorinando suoni imprevedibili e tenebrosi come quelli contenuti nella tempestosa, ipnotica ma trememndamente melodica "Suivant l'Astre". Ma le sorprese non sono affatto finite in quanto "Des Jours à Rallonge" ha da presentarci l'ultima ospitata del disco, manco fossimo a Sanremo, con David Lomidze dei Psychonaut 4, che presta la sua tragica voce (anche lui in francese sebbene sia russo) a regalare gli ultimi minuti di grandissima qualità (ma soprattutto emozionalità) per un lavoro davvero notevole a cui manca solo la degna chiusura, affidata alla criptica electro-ambient della strumentale "C2H6O", un pezzo che dopo un inizio atmosferico, ha ancora il fiato per l'ultimo graffio post-black. Sublimi. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2021)
Voto: 80

https://ladlo.bandcamp.com/album/closion

domenica 21 febbraio 2021

Voyage in Solitude - Through the Mist with Courage and Sorrow

#PER CHI AMA: Depressive Black, Deafheaven
I Voyage in Solitude sono l'ennesima dimostrazione che il metal non ha confini e si possa suonare a tutte le latitudini e longitudini. Si perchè la one-man-band di oggi è originaria dei Nuovi Territori di Hong Kong e il polistrumentista che si cela dietro al monicker, Derrick Lin, ci propone un black che oscilla tra l'atmosferico e il depressive. Le atmosfere si gustano proprio all'inizio di questo 'Through the Mist with Courage and Sorrow', primo full length della band dopo tre EP e materiale vario, con la lunga apertura strumentale affidata alle magiche melodie di "Veil of Mist". Con la lunga "Dark Mist" la proposta del mastermind hongkonghese inizia a prendere più forma, delineandosi appunto come un depressive black, dalle tinte fosche e cupe, al pari dello screaming del vocalist. La prima parte del pezzo viaggia su coordinate stilistiche davvero atmosferiche, con una linea di chitarra evocativa in quel suo tremolo picking che potrebbe quasi fuorviarci e farci propendere ad un post rock. Il finale vede l'appesantirsi della sezione ritmica senza tuttavia mai trascendere in fatto di velocità, fatto salvo per la furia post-black affidata all'ultimo minuto e mezzo del brano. "Incoming Transmission" ha un preambolo nuovamente ambient, in cui una chitarra acustica s'intreccia con suoni di synth. Ma è solo una sorta di intro ad un pezzo più andante, nel quale l'artista esprime attraverso la malinconia della linea melodica e delle sue harsh vocals, la solitudine, l'impotenza e la frustazione della gente della città in cui vive, dopo un biennio davvero complicato per Hong Kong. E questo dissapore per la società emerge forte e sconsolato dalle note del brano, in cui il musicista ha modo di combinare al black eterei suoni post rock in lunghe fughe strumentali. I pezzi si susseguono, viaggiando peraltro su durate abbastanza consistenti: "Reign", nel suo torbido incedere, sfiora i nove minuti e lo fa combinando chitarre tremolanti con un drumming al limite del post-black, mentre la voce di Derrick, forse troppo nelle retrovie tipico delle produzioni molto underground, distoglie l'attenzione da quelle melodie che inneggiano qui più che altrove ai Deafheaven. Il risultato è davvero buono, forse una produzione più pulita avrebbe giovato ulteriormente, ma siamo agli inizi, quindi mi aspetto grandi cose in futuro da Mr. Lin. Ancora un intro acustico con la dolce (si avete letto bene) "Memories", un pezzo strumentale che potrebbe fare da ponte tra la prima parte e la seconda del cd, in cui lasciar vagare la vostra mente mentre guardate la cover dell'album. Qui è ancora la componente post-rock a dominare, sebbene il drumming nella seconda metà si faccia più convulso e alla fine dirompente. "Despair" prosegue sulla medesima linea tracciata dalle precendenti song: inizio timido, acustico e poi con l'ingresso dello screaming di Derrick, ecco che le chitarre si fanno più "burzumiane". Ma attenzione, perchè questo pezzo riserva una novità proprio a livello vocale con l'utilizzo del pulito in una sorta di coro, a mostrare le enormi potenzialità a disposizione della band asiatica. L'emozionalità che trasuda 'Through the Mist with Courage and Sorrow' va comunque sottolineata come vero punto di forza dell'album che si chiude con "In Between", un pezzo ove è lo shoegaze a dettare legge tra chiaroscuri di chitarra, magnifiche e sognanti melodie, un cupo pessimismo cosmico ed una gran dose di malinconia che mi fanno enormemente apprezzare la sublime proposta dei Voyage in Solitude. Bene cosi! (Francesco Scarci)

(Self - 2020)
Voto: 77 

giovedì 18 febbraio 2021

Blurr Thrower - Les Voûtes

#PER CHI AMA: Cascadian Black
Trittico di uscite davvero interessanti in questo primo scorcio di 2021 in casa Les Acteurs de L’Ombre Productions. Partiamo la nostra analisi dai parigini Blurr Thrower e dal debut su lunga distanza, 'Les Voûtes', dopo l'EP uscito nel 2018. Come spesso accade in casa LADLO, ci troviamo al cospetto di una one-man-band votata ad un black primigenio, nervoso, a tratti schizoide. Queste le prime sensazioni dopo esser stato investito dalla furia necrotizzante di "Cachot", la traccia d'apertura di questo lavoro, che per oltre dodici minuti frusta, percuote, scudiscia, flagella con sferzate ritmiche sparate a tutta velocità, con un sound che sale sulla pelle, e poi ci va pure sotto con maestria e malvagità. Il black dei Blurr Thrower è senza ombra di dubbio malefico, guardando ad influenze statunitensi per ciò che concerne l'approccio cascadiano, e penso in primis agli Ash Borer e ai Wolves in the Throne Room. Fortunatamente, non è tutta una tirata da fare in totale assenza d'ossigeno, altrimenti mi sarei visto morto già verso il terzo minuto. Il misterioso mastermind che si cela dietro a questo monicker ci concede infatti una lunga pausa ambient a metà brano, prima di tornare alla fustigazione ritmica, alle percosse e alle scudisciate citate in apertura. L'urticante voce e le rasoiate chitarristiche completano un quadro che avevamo già avuto modo di osservare e apprezzare nel precedente 'Les Avatars du Vibe'. Con la seconda "Germes Vermeils", song che vede la partecipazione dietro al microfono di Gaetan Juif (Baume, Cepheide, Scaphandre giusto per citarne alcuni), il fluido musicale si fa ancor più venefico per quanto un intro quasi post rock, mi avesse fuorviato un pochino. Ma la traccia, nel suo tempestoso manifestarsi, si rivela ben più melodica dell'opener, anche perchè dotata di una vena più tormentata e malinconica, con una batteria che più tonante non si può e in sottofondo uno strano bagliore elettronico a ingannare i sensi e affliggere l'anima. Il lungo finale dronico è la ciliegina sulla torta ma anche preludio della terza "Fanes", che si muove su simili coordinate stilistiche in quello che sembra essere un incubo ad occhi aperti, di cui "Fanes" ne è appunto colonna sonora. Quarto e ultimo pezzo affidato ai dodici minuti di "Amnios", con il drumming ipnotico e militaresco, scuola Altar of Plagues, in apertura a prendersi la scena, prima di una nuova tempesta ritmica che si abbatte furiosa sulle nostre teste, martoriandoci a dovere per lunghi tratti e lasciandoci alla fine agonizzanti in un ultimo frangente atmosferico. Ottimo comeback discografico questo 'Les Voûtes' per l'act francese, che vede fare un balzello in avanti rispetto al debutto, ma che necessita tuttavia ancora una limatura nell'intento di acquisire una personalità ben più definita. La strada intrapresa è comunque quella giusta. Penetranti. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2021)
Voto: 74

https://ladlo.bandcamp.com/album/les-vo-tes

giovedì 19 novembre 2020

End of Mankind - Antérieur à la Lumière

#PER CHI AMA: Black/Thrash
Credo che in Francia il covid abbia avuto un impatto importante in termini di stimolazione della forma artistica musicale. Sono infatti cosi tante le release uscite in questo periodo dal territorio transalpino che credo di averne perso ormai il conto. Gli ultimi nella mia lista arrivati in ordine di tempo e ora sulla mia scrivania, sono questi End of Mankind, un nome un programma di questi tempi. La band, originaria della capitale, giunge con 'Antérieur à la Lumière' al secondo lavoro, un disco che consta di nove pezzi, di cui l'incipit è un'intro declamata in lingua francese. È solo con la seconda "Temporary Flesh Suit" che i nostri iniziano infatti a far sul serio con una miscela mortifera di black, thrash e post-hardcore, che potremo semplicemente definire come post-black. Tuttavia il pezzo, a fronte di una ritmica bella possente (a tratti quasi punk, scuola Motorhead), delle vocals che si barcamenano tra uno screaming spietato e urlacci hardcore, palesa anche straordinarie aperture melodiche cosi come break atmosferici che completano a tutto tondo una proposta intrigante, che non rifugge nemmeno certe aperture malinconiche davvero azzeccate. E la furia black divampa ancor più possente anche in "La Peste Dansante" in una cavalcata di ordinaria amministrazione che combina acuminati riff black con un più pesante riffing di natura thrash metal in un vortice sonoro completato da copiose frustate blast beat e vocalizzi al vetriolo. Sia ben chiaro, anche gli End of Mankind non inventano nulla di nuovo, ma quello che propongono è davvero ben fatto, calibrato al punto giusto, la ricercatezza sonora e gli arrangiamenti, tutto calza a pennello, in una seconda parte da applausi. E si continua con un sound invischiato nel sinfonico con "Outrenoir" che mi evoca un che dei vecchi Anorexia Nervosa. È una sensazione che rimane però solo una manciata di secondi perchè i nostri si ributtano a capofitto con un un black che tra accelerazioni e brusche frenate, ha modo di chiamare in causa anche Dimmu Borgir, Old Man's Child e Gorgoroth. Mini intermezzo acustico di ristoro e poi via con la mortifera "Golgotha", una scheggia di violenza disumana sparata ai mille all'ora con ammiccamenti questa volta alla scena black svedese, Unanimated in testa. Ma la band è abilissima nel dosare violenza e parti atmosferiche, ed ecco infatti che in un batter di ciglia, il quintetto parigino cambia ancora registro e lo farà ancora per un paio di volte da qui al termine di un brano che comunque non arriva ai tre minuti e mezzo di durata. Questo dimostra la grande capacità della compagine francese di saper variare enormemente in brevissimi frangenti di tempo. Inizio acustico per "Opponent Deity", un esempio palese di come si possa ancora suonare post-black oggi dopo che ormai tutto è stato fatto negli ultimi 10 anni, unendo la furia del black con l'irruenza del thrash ma soprattutto con la sperimentazione visto l'utilizzo di un sax jazzato a completare in modo delizioso una traccia multiforme. C'è ancora comunque spazio alle sorprese con le epiche e tonanti melodie della devastante "Step Towards Oblivion" a strappare gli ultimi applausi di una release davvero avvincente che vede completare il suo ultimo vagito con la conclusiva "Le Boël", un pezzo strumentale che chiude in modo suadente una release ben suonata ma prima di tutto, ben pensata. Chapeau! (Francesco Scarci)

(Mallevs Records - 2020)
Voto: 78

https://endofmankind.bandcamp.com/

lunedì 16 novembre 2020

Váthos - Underwater

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
La Romania ci ha preso gusto a sfornare band di una certa rilevanza artistica: dopo il glorioso passato ove sono cresciuto a base di vampiri e Negură Bunget, ecco che in un mese arrivano tra le mie mani prima i Katharos XIII e ora questi Váthos, band originaria di Bucarest, all'esordio assoluto con questo 'Underwater'. La proposta del quintetto rumeno è all'insegna di un black melodico che fin dalla opener "Ruins of Corrosion" sottolinea una certa capacità da parte dei nostri di saper variare il proprio pattern ritmico grazie ad aperture acustiche e linee di chitarra piuttosto melodiche. Pur non essendo di fronte a nessuna grossa novità in ambito musicale, concedo un ascolto attento ai pezzi: "The Suicide" ha un incipit che sa molto di post metal scuola Cult of Luna, poi squarci rabbiosi di chitarre e uno screaming efferato (migliorabile francamente), fanno il resto, sebbene la song si mantenga in territori molto più compassati e anche più interessanti rispetto alla traccia d'apertura, con aperture che di black sanno ben poco cosi intrise da una malinconia spiazzante. Altrettanto disorientante è poi quel break centrale un po' visionario che spezza in due il brano con una certa efficacia, in grado di catturare ancora il mio interesse, visto e considerato che nella seconda parte una voce pulita raddoppi quella gracchiante di inizio brano. Poi è solo un turbinio sonoro. Ancor più delicata "Curse of Apathy" che sembra accompagnarci in territori shoegaze e di seguito in un black atmosferico che pur non aggiungendo nulla ad innumerevoli altre recenti uscite, riesce comunque a catalizzare la mia attenzione, soprattutto in un finale arrembante che sembra godere anche di influenze post-hardcore, il che non mi dispiace affatto, per quel suo traboccare malinconia da ogni sua nota. In "Corrupted Mind" mi sembra di aver a che fare con un'altra band visto un attacco che sa più di thrash metal che altro, il che mi disorienta un pochino. Ci pensano poi le linee melodiche a ripristinare il tutto sebbene quel riffone granitico torni ripetutamente nel corso di un brano che mi ha lasciato francamente con l'amaro in bocca. Con "Shape of... " si torna nei paraggi di un post rock onirico fatto di chitarre tremolanti che evolvono nuovamente in quel black atmosferico apprezzato in apertura, che nelle parti più tirate risottolinea il background thrash dei nostri, mentre nei momenti acustici trasmette una certa drammaticità di fondo che permea comunque l'intera release. Diciamo che le idee ci sono, forse non ancora indirizzate nel modo adeguato, ma stiamo parlando comunque di una giovane band all'esordio e che quindi ha tutto il diritto di poter sbagliare. "Hold My Breath" ripropone un canovaccio abbastanza simile ma ancora una volta faccio fatica a digerire quel cantato caustico di Radu che deve sistemare anche certi guaiti anche nella sua forma più pulita. Il pezzo però non mi convince a 360°, data una ripetitività di fondo asfissiante e passo oltre, a "Sanctimonius Beliefs", song più pulita e dinamica, con il pulito del cantante subito in primo piano accompagnato da un riffing semplice ma efficace che in concomitanza dello screaming, diventa invece più sporco e bastardo. Ancora un break acustico (su cui avrei evitato di cantare in quel modo) e la song scivola con un ultimo slancio in tremolo picking fino a "Flower of Death" che chiude con gli ultimi arpeggi in tipico stile post rock, seguiti da un riffing di scuola Katatonia (era 'Brave Murder Day') che mi portano a concludere che 'Underwater' sia un platter interessante, forse ancora con qualche sbavatura ed un pizzico di immaturità a suo carico, ma che lascia intravedere ampi margini di miglioramento per il futuro. Ci conto ragazzi. (Francesco Scarci)

domenica 15 novembre 2020

Griffon - ὸ θεός ὸ βασιλεύς

#PER CHI AMA: Black/Death, Windir
Devo ammettere che quel titolo in greco mi aveva tratto in inganno, pensando che i Griffon fossero originari appunto della Grecia. Mi sembrava effettivamente strano che la Les Acteurs de l'Ombre Productions andasse a pescare fuori dalle mura amiche, ma vedendo i più recenti precedenti, pensavo fosse l'ennesima eccezione. I Griffon arrivano invece da Parigi e sono un quintetto di personaggi noti nella scena, visto che tra le fila si annidano membri di Moonreich, Grind-O-Matic, Neptrecus e A/Oratos. Fatte le dovute presentazioni, sappiate che 'ὸ θεός ὸ βασιλεύς' rappresenta il loro secondo lavoro, un esempio di efferato ma melodico black death. Il disco si apre con le spoken word di "Damaskos" e da li decolla con il suo vorticoso black metal, interrotto solo da un break acustico ove voci declamatorie si prendono la scena. Il pathos è elevato e contribuisce a distrarci per una decina di secondi dall'acuminata ritmica dei nostri, in grado di regalare comunque una cavalcata davvero ferale da qui alla fine, dove vorrei sottolineare gli azzeccatissimi arrangiamenti. La tempesta sonora ovviamente non si placa qui, ma prosegue anche con la dinamitarda "L’Ost Capétien" che, a parte segnalarsi per un attacco frontale da paura, si lascia apprezzare soprattutto per una forta vena orchestrale, una buona linea melodica ed un altro bel break acustico. "Regicide" è decisamente più compassata, con un inquietante incipit che lascia il posto ad un'andatura più ritmata, spoken words in francese, inserti melodici di scuola Pensees Nocturnes e altre varie scorribande chitarristiche in un brano decisamente altalenante. Ma questi sono i Griffon, ho già imparato ad apprezzarli per quello che sono con la loro capacità di fare male con quelle chitarre taglienti, con uno screaming costantemente lancinante ed una violenza in genere tarpata nella sua efferatezza da intermezzi acustici, rallentamenti parossistici e riprese ancor più violente. Ne è un esempio lampante "Les Plaies Du Trône", un pezzo che cavalca sonorità post black devastanti nella sua seconda metà, la cui sgaloppata mi ha ricordato qualcosa dei Windir. Delicati tocchi di pianoforte aprono invece "Abomination" e per pochi istanti mi godo una splendida melodia classica che stempera quella violenza da cui siamo stati investiti fino a pochi secondi fa. Il pezzo è apparentemente più contenuto nella furia distensiva, ovviamente stiamo parlando di poco più di un paio di giri di orologio prima che i nostri tornino a macinare alla grande granitici riff sparati al fulmicotone. Ma credo avrete già imparato a conoscere l'imprevedibilità dei cinque parigini, ed ecco quindi tocchi di pianoforte, porzioni corali e ripartenze deraglianti. Interessante poi come "My Soul Is Among The Lions" spenda i suoi primi 60 secondi a giochicchiare con le chitarre prima di lanciarsi in un solenne pezzo di black sinfonico dotato di splendide linee melodiche, forse il mio pezzo preferito. Un intermezzo ambient ci conduce alla conclusiva "Apotheosis", gli ultimi cinque minuti di un album convincente e coinvolgente, che non fanno altro che confermare la qualità sopra la media dell'ennesima band proveniente dalla vicina Francia. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2020)
Voto: 76

https://ladlo.bandcamp.com/album/--2

domenica 18 ottobre 2020

Váthos - Underwater

#PER CHI AMA: Black/Death
Direttamente dalla capitale rumena, ecco arrivare i Váthos, giovane e promettente band in giro da solo tre anni, che con questo 'Underwater' raggiunge la prima tappa della carriera, ossia il debutto. Il genere proposto dai cinque di Bucharest è un black melodico che vede saltuarie accelerazioni nel post-black ma altrettante divagazioni sul versante death e post-rock. Quindi possiamo far conoscenza col quintetto di quest'oggi partendo dall'opener "Ruins of Corrosion", una song che lascia intravere le buone potenzialità della compagine rumena, ma ancora qualche lacuna sia in fase compositiva che sotto l'aspetto di personalità/originalità. La band parte subito bene con una buona linea melodica che però tende a perdersi laddove i nostri provano ad accelerare un pochino di più, mentre sembrano rendere al meglio in territori più ragionati, dove peraltro emergono le idee migliori. La prima traccia quindi scivola via in un riffing alla lunga stancante che solo nel finale vede qualche significativa variazione al tema. "The Suicide" la trovo decisamente più ispirata, con le chitarre delle tre (dico tre) asce a disegnare malinconiche melodie sulle quali si staglia la voce in screaming di Radu. L'intensità emotiva tuttavia non lascia scampo e presto s'incunea nell'anima generando un certo feedback depressive che mi colpisce davvero tanto, complice anche la voce del frontman che abbandona il suo stile urlato per dedicarsi ad un pulito più convincente. E le clean vocals tornano immediatamente anche in "Curse of Apathy", un altro buon pezzo che palesa le buone qualità del quintetto, ma non ancora cosi eccelse. Mi spiego meglio, se da un lato il tremolo picking, cosi come le parti arpeggiate di scuola post rock, generamo sempre quel feeling emotivo in grado di chiudere la bocca dello stomaco, dall'altro la potenza emozionale sembra perdersi nei momenti in cui i nostri provano a premere sull'acceleratore per mostrare il loro lato più rude, non è necessario. Ed infatti è un peccato, perchè in questo modo rendono l'ascolto di 'Underwater' molto più altalenante anche a livello di interesse. Lo stesso accade per dire con un brano come "Corrupted Mind", una sgaloppata death/thrash che non c'entra davvero granchè con quanto ascoltato sino ad ora e che francamente mi ha fatto un po' storcere la bocca. Un po' meglio con "Shape of…": classica introduzione riverberata, un po' di bordello per un paio di minuti almeno fino a quando la band ci regala ancora pregevoli attimi di atmosfera cosi come pure successivi riferimenti a post-punk e shoegaze che rendono interessante l'ascolto. Arpeggi ancora in apertura con "Hold My Breath" con tanto di ausilio di voce pulita che presto lascerà il posto alle harsh vocals del cantante, mentre le chitarre tornano implacabili a tracciare riff affilati come lame di rasoi, fondamentalmente senza aver nulla da dire. È però ancora una volta sulla componente melodica che torno a fermarmi e a sottolineare come la band dia il meglio di sè quando rallenta e offre frangenti più emotivamente interessanti. Nell'ennesima sgroppata finale invece, meglio lasciar perdere. Con "Sanctimonious Belief" ci avviamo verso il finale del cd, dove manca ancora all'appello "Flower of Death". Il primo è un discreto pezzo di black melodico dotato del classico break acustico centrale e di tremolante coda finale. La seconda traccia sembra prendere in prestito dal post rock le tipiche atmosfere oniriche, per poi proseguire con sonorità che paiono strizzare l'occhiolino agli Agalloch più primordiali. Interessante tentativo di imitazione degli originali che rimangono inevitabilmente in vetta all'Olimpo del genere, mentre i Váthos hanno ancora un bel po' di strada da percorrere per poter emergere e trovare la propria identità. (Francesco Scarci)

(Loud Rage Music - 2020)
Voto: 68

https://loudragemusic.bandcamp.com/album/vathos-underwater

sabato 10 ottobre 2020

Hyperborean Skies - Severances

#PER CHI AMA: Blackgaze, Agalloch
Altra creatura solista proveniente dagli States, questa volta da Oklahoma City. Si tratta degli Hyperborean Skies, guidati sin dal 2013 dal factotum Ben Stire, un altro che in fatto di progetti vanta anche Black Eyed Children, Annihilating Eden, Drowned Dead e Half-Light. Insomma Ben non riesce certo a stare con le mani in mano e dopo aver pubblicato un Lp nel 2017, un split album con gli Endless Voyage X nel 2018, eccolo tornare quest'anno con un trittico di song a dire che la band è viva e vegeta. Tre brani quindi per questo EP intitolato 'Severances', che apre con "Departing Song", un pezzo che ci introduce al mondo spirituale degli Hyperborean Skies, che apre a facili ed inevitabili accostamenti ad Agalloch e compagnia. Certo non siamo di fronte alla classe della compagine ormai sciolta di Portland, però qualche soluzione interessante nel black mid-tempo del polistrumentista americano ci sarebbe anche. Nulla da far gridare al miracolo però la vena black progressive del mastermind di quest'oggi è quanto meno da apprezzare. Le melodie ancestrali, lo splendido break atmosferico che spezza a metà il brano tra un inizio più tranquillo ed una seconda parte più tirata, lasciano intravedere le buone potenzialità del bravo Ben, capace peraltro di deliziarci con un bell'assolo conclusivo di stampo prog rock. Forse ancor meglio nella seconda "Wistful Wanders (Redux)", dove il latrato scream della voce, lascia posto ad un cantato (non eccelso a dire il vero) più orientato al versante shoegaze, accompagnato anche da una musicalità adeguata, che ci mostra un altro lato della medaglia di questa realtà statunitense. Le malinconiche linee di tremolo picking garantiscono poi un risultato emotivamente coinvolgente che non lascerà del tutto impassibili davanti alla proposta di oggi. Certo, sembra mancare un po' di spinta, una maggiore verve e originalità ma Ben sembra essere sulla strada giusta. Certo "Hold this Light" in chiusura è più un pezzo ambient che nulla aggiunge a quanto fatto finora e forse mi lascia un po' con l'amaro in bocca, in quanto mi aspettavo qualcosina in più anzichè una semplice outro. Attendiamo comunque fiduciosi nuove release in un immediato futuro. (Francesco Scarci)

domenica 27 settembre 2020

In Cauda Venenum - G.O.H.E.

#PER CHI AMA: Symph/Post Black
Incontrati già in occasione del loro omonimo debut album e nello split in compagnia di Heir e Spectrale, fanno il loro ritorno sulle scene gli In Cauda Venenum con il secondo lavoro, 'G.O.H.E.', il cui acronimo non mi è ancora dato di sapere. La nuova release del trio transalpino evolve ulteriormente, attraverso le sue due tracce, in un flusso profondo di post black dalle forti venature post rock. Questo quanto si evince dal flyer informativo della label, un po' meno dalle note iniziali della deflagrante "Malédiction", che apre il disco con i suoi 22 minuti di musica possente, tonante poi per quelle sue inequivocabili ascendenze sinfonico-orchestrali che rappresentano verosimilmente la vera novità dei nostri in questo 2020. La traccia è davvero notevole proprio per i suoi traccianti black permeati di grande melodia e poi da quelle sublimi atmosfere che ne ammorbidiscono una ritmica impastata e comunque furiosa, spezzettata qua e là da ottimi passaggi tastieristici, rallentamenti improvvisi e giri di violoncello, come quello che si registra al minuto 13.40, che ci catapulta immediatamente in una lounge room. Tutto questo sottolinea una rinnovata vena sperimentale da parte di Ictus, N.K.L.S. e Raphaël Verguin, i tre musicisti che compongono la line-up degli In Cauda Venenum. La seconda parte della song viaggia su questi binari più sperimentali (fatto salvo lo screaming onnipresente) in una sorta di sound che potrebbe essere accostabile a quello degli ucraini White Ward. La seconda traccia si affida ai quasi 22 minuti di musica di "Délivrance", un pezzo che costitutisce la naturale prosecuzione del primo brano tra ritmiche strutturate, break acustici in cui compaiono spoken words, frangenti ambient, pomposi momenti sinfonici, solenni momenti affidati agli archi (stile Ne Obliviscaris - ascoltate anche qui il fatidico tredicesimo minuto) in un turbillon emotivo davvero entusiasmante, che non concede comunque adito a pensare ad un ammorbidimento del sound dei nostri (viste le arrembanti ritmiche post-black che popolano anche questo secondo gioiello). Penso piuttosto che al solito, la Les Acteurse de l'Ombre Productions ci abbia visto giusto nel mettere a suo tempo sotto contratto questi estrosi musicisti, per cui vi invito caldamente a dargli un'occasione, non ci sarà nulla di cui pentirsi. (Francesco Scarci)

(LADLO Prod - 2020)
Voto: 82

https://www.facebook.com/incdvnnm/