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martedì 31 ottobre 2017

Frank Sinutre – The Boy Who Believed He Could Fly

#PER CHI AMA: Funk Electro Dance, Offlaga Disco Pax, Brian Eno
I Frank Sinutre sono una vecchia conoscenza del panorama italiano che da tempo solca l'alternativa musicale del bel paese. Tornano nel 2017 con un album nuovo (il terzo), 'The Boy Who Believed He Could Fly', ed una proposta fresca e ben fatta. Siamo nei paraggi della musica sintetica, elettronica e che strizza l'occhiolino alla elettro/dance senza vergogna (vedi il funk plastificato di "Sunset with Sunrise") e cerca sempre lo spiraglio per riuscire a creare un pop che per certi aspetti si dica intellettuale. Tra vocoder alla Daft Punk, atmosfere sospese alla Air ed il gusto da classifica dei Subsonica, i Frank Sinutre provano la via del pop di classe a 360°, contornato da atmosfere soffici e suadenti, come nel brano "Credeva di Volare", particolare e giustamente critico nei confronti del vivere sempre più limitato imposto dalla società attuale, unico brano cantato peraltro in lingua madre da Cranch (in veste di ospite) che si ricollega per incanto al Tricarico più tagliente. La forza comunque del disco va ricercata anche in una cura maniacale dei suoni, un'ottima produzione, un gusto per il digitale esasperato che ricollega il duo Pavanelli/Menghinez alla migliore tradizione dance internazionale alternativa, alla lounge music riflessiva e d'ambiente. Undici brani creativi in un universo musicale che offre mille sbocchi sonori, in un mondo, quello del digitale che permette di arrivare ovunque (leggasi anche Ultimae Records). Ottima è la rivisitazione finale in versione minimal/ambient strumentale di "Credeva di Volare", con una splendida vena sperimentale, suoni rubati ai vecchi videogame dal bar di paese di una volta, ritmica ridotta all'osso e ambienti sonori astratti, dal lontano e futurista sentore etnico. Un disco gradevole, moderato che non carica né banalizza troppo il suono, anche se i sedici minuti del brano conclusivo, meritano una riflessione sulla vera natura e sulla via perseguibile dalla band in futuro. (Bob Stoner)

giovedì 12 ottobre 2017

Disco-Nected - Vision/Division

#PER CHI AMA: Alternative Rock
Esce in questi giorni il secondo EP dei parigini Disco-Nected, 'Vision/Division' dopo il positivo 'Family Affair' uscito nel 2015. Il genere proposto dal power trio transalpino è piuttosto trasversale, riuscendo a convogliare nel proprio sound influenze derivanti da Foo Fighters, Pantera, Incubus, Kings Of Leon e Biffy Clyro, in una proposta certamente carica di grande energia. Lo si evince immediatamente col rifferama rabbioso ma stracolmo di groove di "Here to Stay", che accompagna la voce calda e ammiccante di Aziz Bentot in una song breve, melodica ed efficace quanto basta per catturare la mia attenzione. Nessuna invenzione particolare, zero orpelli stilistici, solo tanta voglia di divertire ed intrattenere i fan con melodie ficcanti, come accade nella seconda "Unity", traccia che strizza l'occhiolino anche ai System of a Down. Un riffone incazzato apre "Dead Inside", un'altra song da hit parade, che ha le qualità per intrattenere il pubblico con una ritmica più controllata e un cantato che per tecnica ricorda il frontman dei SOAD. Dicevo, non siamo al cospetto di chissà quale innovazione musicale, ma il dischetto si lascia ascoltare piacevolmente, complici anche tutti quei chorus che popolano l'EP. Ecco, avrei evitato la ballad della quarta traccia, "Waves and Lies", una palla da laccio emostatico al braccio che mi spinge a skippare all'ultima "The Wolf Returns", una song che mi spinge ad un headbanging sfrenato e che sancisce la conclusione di un lavoro che probabilmente non ha grandi aspettative se non far conoscere il proprio alternative rock ad un pubblico più vasto. Coraggio. (Francesco Scarci)

martedì 7 febbraio 2017

Penfield - Parallaxi5

#PER CHI AMA: Electro/Prog Rock/Jazz
Al primo ascolto di questo secondo full length degli svizzeri Penfield, c’è da sentirsi disorientati. Dentro 'Parallaxi5' c’è un po’ di tutto: fusion, lounge, prog rock settantiano alla Pink Floyd, funky, dub, elettronica asciutta come nella moda contemporanea, post-rock nella gestione dei crescendo. Eppure – per strano che sembri – c’è una coerenza di fondo che è innegabile. I Penfield hanno le idee chiare, eccome, anche quando mescolano insieme generi solo apparentemente distanti tra loro. “Rosen” è l’apertura strumentale (in realtà, solo in tre degli otto pezzi appare la voce: il resto sono spoken words campionate) che muove le sue basi da una cassa reversed sulla quale si alternano soli di sax e chitarra che non possono non ricordare il David Gilmoure di 'Echoes'. C’è del funky nella seguente “La Physique Anarchique”, tinto di prog da un interessante partitura di moog, appena prima di approdare in territori più soft-jazz, dove resterà fino ai quasi 13 (lunghissimi) minuti di durata, lasciando peraltro il dovuto spazio all’improvvisazione degli strumentisti. La voce teatrale dell’ospite Walther Gallay guida “Apax 34 002”, che ha il sapore dei King Crimson di 'Islands' frullati da James Blake; ed è sempre Robert Fripp o persino Brian Eno a fare eco nella dilatatissima “Abyss”. MC Xela rappa su “Fashioned Wonderland” ed è subito r&b da club d’alta classe, in stile Fun Lovin Criminals (ma immaginateli mentre sorseggiano champagne, anziché tequila). C’è giusto il tempo per la veloce elettronica ballabile di “DNA”, ed ecco che anche Capitaine Etc. rappa su “L’Anonyme” – ma il brano è inquieto, più riff-based (ma è il moog a svolgere il grosso del lavoro), decisamente più rock prog dei precedenti. Chiude una stranissima “Les Sentiers Goudronnés”, col suo arpeggio quasi scolastico che apre a territori dub conditi da delay sul rullante, basso in sedicesimi e organo in levare. Difetti? Ce ne sono, beninteso. Troppi mid-tempo, forse. Alcuni brani troppo prolissi, ma senza manierismi fini a se stessi. Passaggi non indimenticabili (anche per l’assenza di vocals) e, in generale, un genere che non può essere ascoltato con leggerezza. Solo al secondo o terzo ascolto di 'Parallaxi5 'diventa più chiara la definizione che i Penfield danno del loro genere: cinematic prog o new prog. Una colonna sonora solida, colorata, organica, suonata e registrata impeccabilmente. Non un sottofondo da ascensore o supermercato, intendiamoci – una colonna sonora vera, parte integrante di ciò che vediamo. (Stefano Torregrossa)

sabato 10 ottobre 2015

Abraxas - Totem

#PER CHI AMA: Funk-pop/Indie
Gi Abraxas sono il frutto di una lunga avventura musicale di quattro amici d'infanzia parigini: Tino Gelli, Jonas Landman, Solal Toumayan e Leon Vidal. Il loro nome è un omaggio allo storico album di Santana e tra le loro influenze citano Pink Floyd e i King Crimson degli anni '70 ma anche Late Of The Pier e Of Montreal. Tanti e tali riferimenti producono uno stile difficilmente definibile, una sorta di mix tra pop, new wave, synth pop e funk, se non che gli Abraxas stessi si sono premurati di battezzarlo "protodancepop", il che, devo ammettere, rende bene l’idea di quello che fanno. Dopo che, nel 2011, esordivano con l’album autoprodotto 'Warthog', sorta di concept sulla vita di un facocero, esce quest’anno il loro primo EP per l’etichetta Samla Music. Totem dispiega in modo efficace, nell’arco di 5 brani peculiari, quella che è la proposta musicale del quartetto, che passa con leggerezza ed ironia su una quarantina d’anni di musica, senza soffermarsi o dilungarsi su nessun genere in particolare. I primi due brani, “Deep Down in the Middle of Shanghai” e “Guatemala”, a dispetto dei titoli che rimandano a luoghi e suggestioni esotiche, sembrano una perfetta sintesi tra il fulminante esordio dei connazionali Phoenix e l’ultimo acclamato lavoro dei Daft Punk, con le stesse atmosfere danzerecce, le chitarre funkeggianti e una certa idea di leggerezza. “Democratie” si veste invece di brume indie, mentre “Kayak” è un piccolo gioiello in grado di coniugare, all’interno di una struttura inusuale, un’invidiabile levità di tocco e certe atmosfere da tardi Pink Floyd. Gli Abraxas si muovono con personalità alla ricerca della pop song perfetta, e nel frattempo propongono un dischetto molto curato, nei suoni tanto quanto nella confezione, in grado di regalare una ventina di minuti di disimpegno per nulla vuoto e stupido. E non è affatto poco. (Mauro Catena)

(Samla Music - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/abraxasofficial

domenica 28 giugno 2015

Ophite – Basic Mistakes

#PER CHI AMA: Blues Grunge Rock
Sono giovani e carini, risultano freschi e dinamici, vengono direttamente da Parigi ma sono multietnici e trendy e suonano un pop intelligente pieno di colori e variegate influenze. Il funk, il rock, il britpop e un certo tipo di hip hop, suonato veramente, con attitudine artistica e non esclusivamente commerciale. Ricordano la freschezza dei primi Texas e la verve di Martina Topley-Bird nelle atmosfere cool ed energiche, un soffio di riot girl alla Sleater Kinney, le indimenticabili Elastica e il blues rock spinto dal fascino retrò anni '90 dei The Duke Spirit. Un ingorgo di suoni che ruotano nell'ellisse del sistema solare del pop di buona fattura, ben suonato e ben calibrato, fatto appunto per il semplice piacere di essere ascoltato. Basso e voce danno un supporto eccezionale a tutte le sei tracce del cd ma anche la batteria e le evoluzioni chitarristiche, suonano deliziose con le sonorità che resero grandi i 4 Non Blondes e Alanis Morrissette negli anni '90. Un vero e proprio tuffo nel passato con un'ottica di ristrutturazione moderna ed efficace dai suoni pieni, centrati e filtrati a dovere. Ottimi suoni che vanno d'amore e accordo con le sonorità dei The Roots del capolavoro 'The Seed'. Una band atipica per il mondo odierno ma tutt'altro che scontata, se le venisse data una produzione d'alta classe e una visibilità adeguata, sicuramente ne aumenterebbero le possibilità di riuscita commerciale. Una musica inventata e ragionata per essere apprezzata sotto tutti i punti di vista. Magari non risulteranno del tutto originali ma sicuramente la proposta è molto buona e convincente, con una vocalist di tutto rispetto (ascoltate l'acustica "My Pretty Columbine" per rendervi conto delle sue qualità!) e una composizione talmente gustosa e di qualità da fare invidia a molti, anche nei richiami reggae alla Police di "Phoenician Sailors". Un EP ben riuscito e di gran classe. Questa giovane band ha tutte le carte in regola per crescere a dismisura e questi primi sei brani autoprodotti sono da ascoltare a timpani spiegati! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 75

sabato 6 giugno 2015

Lacertilia - Crashing Into the Future

#PER CHI AMA: Psych Stoner, Kyuss, 13th Floor Elevator 
I Lacertilia sono un quintetto che proviene da Cardiff, Galles, che dopo pregresse esperienze, ha deciso di riunire le forze per esprimere al meglio il proprio background musicale. Dalle informazioni disponibili, questo 'Crashing Into the Future' sembra essere il loro primo EP e devo dire che è un gran bel lavoro. Immaginate di prendere The Stooges, Kyuss, The 13th Floor Elevators, Pentagram e otterrete un mix esplosivo, pieno di groove, psichedelia e passaggi funky che vi ammalieranno istantaneamente. La copertina dell'album richiama molto chiaramente il movimento psichedelico, con una vallata e l'immancabile fiume che vi scorre in mezzo, il tutto sotto lo sguardo vigile dell'occhio-sole. I colori acidi completano il tutto, formando un quadro che rispecchia perfettamente lo spirito dei Lacertilia. "Do Something" è un brano di quelli furbetti, nel senso che grazie ad un riff easy di chitarra si fa amare sin da subito, dove peraltro, il quintetto da prova di una certa padronanza tecnica grazie a un sapiente utilizzo di sonorità perfette per il genere. Chitarre importanti ricche di fuzz, ma non quello iper saturo alla Ufomammut per capirci, bensì molto più vicine allo stile anni '70. Batteria e basso si divertono come dei bambini a condurre la danza ed aumentare le vibrazioni funky che ben si sposano con il timbro del vocalist, che deve avere gran stima dell'Ozzy dei tempi migliori. Lo stacco a metà brano si fa condurre dal riff distorto di basso, un botto di psichedelia fatto da chitarre liquide e slide, poi tutto riprende sulla falsa riga del riff iniziale per poi distruggere la nostra lucidità mentale con un finale doom da manuale. Un brano complesso e allo stesso tempo arrangiato in modo prevedibile, ma super godibile. "We Are the Flood" è una traccia riflessiva, intima e spirituale, merito dell'intro dalle sfumature etniche ed ancestrali. Percussioni e batteria creano quel tappeto ritmico che pulsa a ritmo del battico cardiaco e la nostra mentre si sincronizza subito con il mood della canzone. Il brano poi decolla con l'apertura delle chitarre che innalzano un muro granitico e resistente alle ondate di groove generato dal duetto batteria/basso. Nel frattempo un leggero solo di chitarra si insinua nel nostro inconscio e continua a ripetersi, diventando la litania di un ancestrale canto celebrativo. Il vocalist si inserisce facilmente nell'atmosfera più oscura degli altri brani, dimostrando flessibilità ed estro creativo. I Lacertilia pur strizzando troppo l'occhiolino ai Truckfighters, riescono a venirne fuori abbastanza bene anche con la title track. Tecnicamente ineccepibile, cosi come gli arrangiamenti e il classico break doom/psichedelico, ma niente di più. La band alla fine ha prodotto un gran bell'EP, basterebbe che i loro excursus stoner fossero meno ovvi e il mix sarebbe perfetto. L'onda psichedelica ormai sta invadendo il mondo, se i Lacertilia sfruttassero al meglio il loro lato funky, potrebbero aver trovato la carta vincente. (Michele Montanari)

Voto: 75

Ok, qua si decide di giocare proprio a carte scoperte: a partire dal nome, per continuare con l’artwork che reinterpreta l’occhio di Sauron in salsa psych, tutto concorre a permettere di individuare con un grado minimo di approssimazione la musica contenuta in questo disco (un po’ piú di un EP, un po’ meno di un album) d’esordio della band gallese, sorta di supergruppo formato da cinque musicisti provenienti da altri act di area contigua, come Witches Drum, Thorun e Akb'al. Quando l’abito fa decisamente il monaco, dunque. Quello che troverete in queste cinque tracce è un classicissimo coacervo di stoner, metal e space rock fatto di riff grooveggianti, suoni saturi e vocals muscolose in grado di soddisfare tutti fan del genere. I nomi di riferimento sono quelli, dai Black Sabbath ai Kyuss con tutto quello che ci sta in mezzo, passando per i 13th Floor Elevator, e gli altri metteteceli voi, non sbagliereste. La tiratissima title track apre il lavoro senza concedere un attimo di respiro e mette subito in chiaro le cose con chitarre “desertiche”, ritmiche forsennate e una voce davvero importante. Ognuno degli altri quattro pezzi ha la sua dignità, cercando soluzioni interessanti in termini di arrangiamento, integrando ottimamente riff di basso distorto ("Abstract Reality"), blues dall’incedere sciamanico ("We Are the Flood") rarefazioni space in cui la chitarra si permette divagazioni lisergiche ("Do Something") e riffoni schiacciasassi con rallentamenti di stampo quasi doom (la conclusiva “Tryin' To Do A Good Thing”). Il lavoro è molto ben confezionato, con una produzione potente e pulita allo stesso tempo, e i cinque hanno dalla loro tecnica ed esperienza sufficiente per sapere come si scrive e si suona del gran bello stoner rock. Una menzione d’obbligo per l’ottimo vocalist, potente, grintoso e carismatico, merce sempre più rara al giorno d’oggi. Se siete alla ricerca dell’ultima moda musicale, o se vi aspettate anche solo un po’ di innovazione e sorprese, non cominciate neppure ad ascoltarli, ma se tutto quello che chiedete ad un disco rock è quella piacevole sensazione di solidità, i Lacertilia vi regaleranno tante mezz’ore di puro godimento. (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 75

domenica 9 febbraio 2014

Pryapisme - Rococo Holocaust

BACK IN TIME:

#PER CHI AMA: Crossover, Steve Vai, Mr Bungle, Mike Patton, John Zorn, Boredoms
Togliere la voce di Mike Patton da tutti i suoi progetti strampalati, paralleli ai Faith no More, mantenendone le idee musicali, aggiungere un tocco di Bubblegum music, un soffio di techno commerciale, una dose di schizoide noise metal, tanto spirito progressive, uno spesso strato di jazz e fusion, una gogliardia di memoria Zappiana, del buon funk, l'estro dei Naked City e la follia di Zorn. Tutto questo non basta per descrivere il progetto degenerato in follia di questa band transalpina al secondo album autoprodotto. Così ci troviamo di fronte raffiche di metal violentissime che si scaricano su tessuti rubati al Vangelis più spaziali, i Mr. Bungle che fanno il verso all'album 'Torture Garden' in versione acid jazz e Plastic Bertrand che simula i Sigh, i Supertramp che suona alla Die Apokalyptischen Reiter, gli Hatefield and the North che flirtano con gli Hawkind e Pigface, Chick Corea che sta con un piede sugli Alboth! e l'altro sui Boredoms con caroselli da oscuri luna park e follie alla Steve Vai corredati da allucinazioni di casa Soft Machine. Non riuscite a capirne il senso? Noi pensiamo invece che ci sia, ovvero, toccare i confini del crossover più impensabile, quello più imprevedibile ed improbabile! Un altissimo grado di preparazione, un'elevazione astronomica del virtuosismo rivolto all'eccesso, tirato all'inverosimile, drogato di maniacale esasperazione musicale e voglioso di spostare il confine delle proprie capacità sempre più avanti. Un combo di musicisti con l'anima persa nel totally free, assurdi per tecnica ed esecuzione che ci impone una benevola, tortuosa e contorta strada musicale che si snoda in dieci tracce per un'infinità di generi, come se una radio impazzita cambiasse canale e mixasse generi diversi ogni cinque secondi. L'album completamente strumentale non ha una linea coerente, è un viaggio nella mente e nei pensieri di un folle che drammaticamente non riesce più a riordinare le idee. Il disco è estremo sotto ogni punto di vista, non di facile presa, per un pubblico vaccinato e ricercatore di sfide. Buonissima l'attitudine progressiva della band. L'unica pecca del cd è che l'anima d'avanguardia e fusion prevale sulle parti più dure che non incalzano la necessaria violenza del metal più duro... ma non preoccupatevi con una performance così esagerata potrete permettervi di impazzire dimenticando per un momento il lato violento della faccenda! (Bob Stoner)

(Self - 2010)
Voto: 75

http://www.facebook.com/pryapisme

venerdì 13 dicembre 2013

Odd-Rey - S/t

#PER CHI AMA: Hard Rock, funk, Black Crowes, Led Zeppelin
Per gli Odd-Rey il mondo sembra essersi fermato nel 1992, in un imprecisato momento tra l’uscita del secondo album dei Black Crowes e gli esordi dei Blind Melon o gli Spin Doctors, quando i Guns & Roses erano le più grandi rockstar sulla faccia della terra. Il loro hard rock di strada innervato di striature blues e funk sarebbe stato perfetto per percorrere le highway americane in una decappottabile in quei giorni di stivali, capelli lunghi e jeans scampanati. E i quattro vicentini non fanno nulla per nascondere le loro influenze o l’immaginario a cui attingono a piene mani, basti dare un’occhiata alla copertina del loro cd. Schiacci play e ti trovi sommerso dalle colate di soli chitarristici, le ritmiche incalzanti e gli intermezzi funkeggianti di “Some Humanity”, un perfetto manifesto per il suono del gruppo, incendiario e convincente come la voce aspra e tirata di Filippo Zorzan, anche se rischiano però di far passare i Black Crowes per avanguardisti. Gli ingredienti vengono poi ben dosati e distribuiti lungo gli 8 brani (compresa ghost track dopo la conclusiva “Ipnotis”, in puro stile anni '90) rispettando tutti, ma proprio tutti, gli stilemi (per non dire i clichè) del genere. A favore degli Odd-Rey giocano comunque una tecnica invidiabile, una bella convinzione nei propri mezzi e la capacità di riversare tante cose e tante idee, per quanto poco originali, in brani compatti, potenti e mai prolissi, sia quando guardano smaccatemente alla band dei fratelli Robinson (“Stay Simple” o la ballata “Rebirth”), sia quando provano a deviare dal percorso come nell’interessante “Your Tree”, dove una rilassata andatura con battuta in levare si trasforma in un hard spesso, rallentato e ciccione, su cui le grida stidule di Zorzan arrivano a ricordare il compianto Bon Scott. Per chi pensa che gli ultimi vent’anni non siano mai esistiti, questo disco sarà un must-have assoluto. Per tutti gli altri, rimarrà un piacevole ascolto licenziato da quattro ragazzi che fanno la loro cosa fregandosene di tutto e tutti, con entusiasmo e sincerità. Non poco. (Mauro Catena)

(Self - 2013)
Voto: 70

http://www.oddrey.it/

lunedì 9 settembre 2013

Bernays Propaganda – Zabraneta Planeta

#PER CHI AMA: Alternative, Post-Punk, Gang Of Four
Terzo album per i macedoni Bernays Propaganda che, forti di un’intensissima attività live in tutta Europa, continuano sulla strada già tracciata dai precedenti lavori, ovvero un “punk-funk” piuttosto tirato, e fortemente caratterizzato da quelle che sono le tematiche sociali care al gruppo, gravitante in un’orbita “anarco-ambiental-femminista-straight edge”. La loro proposta musicale si basa su una forte impronta new wave/post punk, con ritmiche incalzanti e molto “ballabili”, linee di basso belle spesse, chitarre funkeggianti e (non troppo) dissonanti e una voce femminile a declamare con convinzione i propri testi, spesso e volentieri nella lingua madre. Niente di nuovo sotto il sole, quindi, dato che i Gang of Four queste cose le fanno da una trentina d’anni, ma l’inizio è molto incoraggiante, con le sferzanti “Progrešno Zname” e “Makedonski Son” che mostrano un bel piglio allo stesso tempo danzereccio e rumoroso al punto giusto. Poi, però, spiace dirlo, c’è qualcosa che sembra incepparsi, e la macchina non gira più del tutto a regime. Suonano sempre con convinzione e precisione, i Bernays Propaganda, ma si trovano presto ad avvolgersi su loro stessi, come se fossero un po’ scarichi e ripetitivi, forse a causa di pezzi non sempre all’altezza. Sono sicuro che la dimensione giusta per apprezzarli sia quella live, dove certamente sono in grado di far emergere una personalità che su supporto invece appare un po’ frenata, raffreddata, e riesce ad emergere solo a tratti (come ad esempio in “Bar Kultura”). La più interessante variazione sul tema arriva con il brano di chiusura, “Leb i Igri”, che nel suo oscillare tra pianoforti dissonanti, ritmiche forsennate e fiati free, sembra indicare una possibile e più intrigante via per il futuro, magari nel solco tracciato dagli immensi The Ex, una delle band di riferimento del genere, nel quale per il momento i Bernays Propaganda stanno ancora un po’ nel mucchio. Un album discreto che, dimezzato nel programma e nel minutaggio, sarebbe potuto essere un ottimo Ep. (Mauro Catena)

mercoledì 24 luglio 2013

King Howl Quartet - King Howl

#PER CHI AMA: Blues Rock/Stoner
Fantastico, cominciare il lunedì mattina con un bel cd, ti mette sempre di buon umore, soprattutto quando non hai un cazzo voglia di lavorare. E allora via, con queste 11 tracce direttamente dalla grande isola (Sardegna), assaporiamo un po’ di aria nuova e dimentichiamoci per un attimo la cappa calda e umida che ci opprime in questi giorni... Come dichiarano loro stessi, i KHQ (King Howl Quartet) ululano al cielo la loro passione per la vita e per il blues rivisto in chiave stoner per alcune sonorità grosse e panciute, in chiave funk/post punk per quelle più ritmate. Ma passiamo alla ciccia, visto che avrete già l'acquolina alla bocca per cotanta roba. "Mornin" è una sorta di rash cutaneo che in vero stile Quentin Tarantino, fastidioso e pungente, con una bella botta di batteria e chitarre che grazie a sapienti break iniziali, crea un insano dondolamento dell'estremità superiore del corpo umano. Da subito ci si accorge delle pregevoli doti strumentali del gruppo e dal vocalist che s’infila tra i vari arrangiamenti e ne esce vincitore. "Drunk" sfoggia un bel riff con slide che conferma le origini blues del nostro gruppo sardo e regala sonorità tradizionale unite a distorsione che il vecchio BB King non avrebbe mai pensato di abbinare. Un losco personaggio come Jack White invece ci sguazza da anni. Breve cavalcata che si fa apprezzare e vi porta a volerne ancora. Passiamo quindi al mio pezzo preferito, "My Lord", forse perchè trasuda stoner alla Kyuss e Queens of the Stone Age come un viaggiatore del deserto che cerca una bettola aperta dal tramonto all'alba. In questa traccia i KHQ mostrano di avere le palle quadrate perchè uniscono un sound perfetto per il genere ad arrangiamenti azzeccati. Cavoli, non sono ancora arrivato alla fine del cd e già adoro 'sti ragazzotti. Le altre tracce sono più in stile traditional blues e mi sarei aspettato che la band avesse osato un pò di più. Va bene non allontanarsi troppo dalle proprie radici, ma nessuno li avrebbe bruciati vivi sul rogo per qualche sperimentazione psicotica qua e la. Non male come lavoro, speriamo piaccia ai puristi e a chi il blues tradizionale non lo ascolta più di tanto. (Michele Montanari)

mercoledì 21 novembre 2012

Gotto Esplosivo - L'Oro Del Diavolo

#PER CHI AMA: Rapcore, Nu Metal, Funk Rock
Con il moniker tratto dal libro "Guida Galattica Per Autostoppisti" di Douglas Adams, questa band dalla Val Brembana, sconvolge letteralmente il mio udito e rimango allibito dalla genialità delle canzoni, sopratutto dai testi cantati interamente in italiano. Come avrete capito dai tag, sto parlando di una musica dalla difficile catalogazione, e di cui io non sono un grosso fan. Però questi Gotto Esplosivo conquistano subito, con i loro movimenti groovy, il cantato velocissimo, i ritornelli catchy. Pura energia concentrata in dieci tracce per una durata complessiva di poco più di mezz’ora. A vantaggio di questo, una produzione cristallina e suoni limpidi, il tutto curato da Davide Perucchini, il fonico live dei Verdena. La ritmica gioca un ruolo importantissimo nelle composizioni del giovane combo e la voce in rima, tiene sempre alta la concentrazione sulla musica e nonostante qualche ripetitività, le canzoni si riveleranno assai creative, differenziandosi molto tra loro, non annoiando mai, vuoi perchè vigorose ed iperattive o semplicemente perchè di facile ascolto. Passiamo dalla prima parte del cd, con tracce come l'opener "Paura" o "Gelosia" con uno stile movimentato ed adrenalinico, verso composizioni meno aggressive, come "Sete" o "L'Occhio". Insomma, un disco variegato, originale e molto (troppo) allegro. Data la proposta musicale molto particolare, sono proprio curioso di vedere cosa salterà fuori dalle prossime pubblicazioni. (Kent)

(Ice Records) 
Voto: 75

martedì 24 luglio 2012

Toehider - To Hide Her

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Experimental
Oh my God. Ripeto, Oh my God. Dico io, non può arrivarmi un cd così tra capo e collo, dalla copertina disegnata in stile psichedelico anni 70 e nascondere un capolavoro del genere. Ho per le mani l'album dell'anno ed è tutta colpa di questo genio, tal Michael Mills, australiano con le idee chiarissime e dal progetto ambizioso: diventare una rock star, di quelle vere, vecchio stampo. Tutto ebbe inizio nel 2008 quando uscì il primo EP e subito dopo inizio il Progetto, quello con la P maiuscola. Scrivere 12 album in 12 mesi (12 in 12). Direte voi, neanche i Queen ai tempi d'oro potevano farcela. Invece no, TOEHIDER scrive 67 (!!!) tracce in 12 mesi, a cavallo del 2009 e 2010. Dopo una meritata pausa, nel 2011 esce questo full length "To Hide Her" che conferma la sopravvivenza di Michael Mills dopo la pazzia del "12 in 12". Devo dire che ho prima ascoltato questo cd e poi sono andato a vedere la storia del gruppo (inizialmente del solista), altrimenti rischiavo di risentire della responsabilità di commentare questo capolavoro.La base di tutto è comunque la semplicità, infatti tutto parte da una base di prog con diverse influenze per singola traccia. Apriamo con "Oh my God, He's an Idiot", struggente pezzo guidato da chitarra arpeggiata e una voce incredibile, metà Bruce Dickinson e metà Justin Hawkins che entra dopo trenta secondi di silenzio assoluto e nasconde un testo volutamente banale ed ironico. Tutto questo viene spazzato via da "The Most Popular Girl in School" con una breve intro di chitarra pop-rock e da uno sviluppo in stile Queen (i cori sono inconfondibili) e addirittura un assolo di xilofono, improponibile per qualsiasi musicista, ma estremamente naturale per i TOEHIDER. Un tuffo di vent'anni in in cinque minuti netti. La mia preferita è "Daddy Issue", una canzone che potrei definire emotional-prog rock per lo sviluppo strumentale, Concludiamo con il pezzo che conferisce il nome all'album e che tira fuori le palle del gruppo, infatti ci sono dei riff heavy metal ignoranti (licenza poetica) mescolati a loop elettronici e basso che fraseggia in funky. Ecco un pò di cattiveria, ma con stile. Gli altri pezzi andateveli ad ascoltare, non perdete altro tempo a leggere e cliccate "Buy" da qualche parte su internet. PS: Bisogna dire che la macchina TOEHIDER è grossa, ottimi sponsor alle spalle e una gestione mediatica degna di gruppi più blasonati. Speriamo che la fama non li bruci, almeno prima di averli ascoltati per diversi album e visti dal vivo. (Michele Montanari)

(Bird’s Robe Records)
Voto: 90 
 

sabato 19 maggio 2012

Dug Pinnick - Emotional Animal

#PER CHI AMA: Rock, Psichedelia
Doug Pinnick (ora Dug) è il frontman dei King’s X, creatura heavy-prog, oramai in giro da più di venti anni ed “Emotional Animal” rappresenta il suo terzo album da solista, anche se i due precedenti lavori sono stati registrati sotto il nome di Poundhound. L’album, quasi interamente suonato da Dug (aiutato dal solo Joy Gaskill alla batteria e Kelly Watson alla tromba), percorre un sentiero rock, ricco di varie sorprese, la prima fra tutte, la traccia numero sei, “Equal Rights”, un brano dalle forti venature gospel o ancora, come non menzionare la claustrofobica “Are You Gonna Come”. L’album trasuda di musica contaminata, qui non c’è la benché minima ombra di metal, ma pop, soul, psichedelia, stoner rock e tanto tanto groove, con la ugola calda e inconfondibile di Dug a dominare la scena. Gli altri brani sono tutti godibili: “Change” con il suo flavour pop e con quel suo fantastico assolo posto a metà pezzo, “Beautiful” con il suo incedere iniziale marziale, il suo ritornello orecchiabile e la sempre magnifica voce di Dug; “Missing” per le sue suadenti linee hard melodiche, “Freak the Funk Out” per la sua attitudine funk trip hop. “Emotional Animal” non è però un album di facile assimilazione: è molto intimista, è necessario ascoltarlo più volte per poter apprezzare realmente la proposta di Dug. Registrato e mixato ai Poundhound Studio dallo stesso Dug, il cd contiene anche materiale audio e video bonus in formato multimediale. Se avete amato i precedenti lavori dei Poundhound o se siete fan dei King’s X, acquistate tranquillamente anche “Emotional Animal”, vi sorprenderà... (Francesco Scarci)

(Magna Carta Records)
Voto: 75
 

domenica 18 marzo 2012

Duality - Chaos Introspection

#PER CHI AMA: Techno Death, Avantgarde, Ephel Duath, Cynic, Atheist
Sono quasi convinto che nelle Marche ci sia qualche fungo particolare che i ragazzi si mangiano o fumano: dopo la follia cerebrale degli Infernal Poetry, la freschezza alternativa degli Edenshade, ecco giungere tra le mie mani la delirante proposta di questi Duality, nati nel 2003 grazie a Manuel Volpe e Giuseppe Cardamone. Lo so che vi starete chiedendo perché ho etichettato i nostri come deliranti, un attimo, vi tengo un po’ sulle spine. Beh, sapete com’è, quando si preme il tasto play e si viene investiti da una furia death è cosa normale a cui siamo tutti abituati, ma se dopo 30 secondi, il nostro quartetto inizia a fare un po’ quel diavolo che gli pare, uscire completamente dai binari, improvvisare con digressioni jazz schizoidi, prontamente interrotte da inequivocabile furia hardcore, non si può che rimanere attoniti di fronte ad una simile proposta. Poi, con il secondo pezzo, la title track, (in realtà un intermezzo di un minuto), il delirio aumenta: eh si perché la song sembra venir fuori dal flamencato “Elements” degli Atheist, solo che il caldo intreccio violino-chitarra spagnola ci riconduce a sonorità più vicine alla musica classica. Confusi vero, non vi aspettavate una simile proposta? Beh io lo sono ancor di più, soprattutto quando con “Intuition of Disorder” ho la pretesa di intuire, che i nostri vogliano assaltare la diligenza con la loro furia death metal, mi sbagliavo; di nuovo sprazzi di insania mentale prendono il sopravvento e cosi quello che attacca le mie orecchie come un mefitico parassita, è un sound che intreccia influenze derivanti dai Cynic, con quelle nostrane degli Ephel Duath. “Natural Seizure Syndrome” parte ancora una volta furibonda, con le chitarre del duo Diego/Giuseppe costantemente arroganti ed imprevedibili, per non parlare del basso slappato di Tiziano Paolini che sembra volerci condurre in territori funky; non temete però, perché poi le urla filtrate di Giuseppe, qui assai vicino al vocalist degli Infernal Poetry, ci tengono solo per qualche secondo con i piedi per terra, prima che i nostri ripartano per farneticanti e psichedeliche esplorazioni in suoni assai avanguardistici. Da paura! Da paura anche la conclusiva e arrembante “Hybrid Regression” che dichiara palesemente che nuovi fenomeni stanno crescendo sul suolo italico. E ora voglio il full lenght!! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85
 

lunedì 9 maggio 2011

Nowhere - M.O.U.W.

#PER CHI AMA: Crossover, Funk
Quante volte mi avrete sentito dire qualcosa del tipo “Sì, niente male ma un po’ troppo ripetitivi...”? No, fermi lì! Non andate a contarle. Sappiate solo che questa volta non lo dirò. Sì perché le cinque tracce di questo “M.O.U.W.” sono maledettamente eclettiche e, a parte una catalogazione un po’ generale nel genere metal, faccio fatica a darne una definizione. Direi vicino al crossover, ma con una certa libertà. I “Nowhere” mi hanno colpito molto positivamente; il gruppo rodigino riesce a creare un album dal suono relativamente meticcio, mantenendo una forza concussiva sonora niente male. A proposito: non fatevi prendere dalla tentazione di considerare la traccia di apertura, “No Song”, come metro dell’energia del disco. Risulta più tranquilla delle altre grazie a un passaggio raggamuffin’ azzeccato, ma orecchio alle linee di chitarra: già si sentono le loro intenzioni per il seguito. Ecco infatti la più tetra, incalzante e aggressiva “Arbeit Makt Sklaven”, il cui incipit la rende leggermente straniante.Veloce, diretta “Lula Pop” potrebbe sembrarvi subito scontata, ma i variopinti innesti (dal growl e a certi cantati che mi ricordano Elvis) evitano decisamente di annoiarsi. La seguente “Meaning of Unspoken Word” mi pare la più interessante del mazzo, ricca di spunti derivanti da diverse influenze. Qui ritorna in maniera più preponderante il raggamuffin, è un cavalcata tra percussioni martellanti, cambi e un cantato dalle metriche vertiginose (se devo essere sincero non ci ho capito granché, ma va bene lo stesso). Chiude l’album, introdotta da cornamuse su un ritmo da marcetta, “Indelible” la canzone più cruenta del platter. Grazie al featuring di Christian, dei Fear Flames, i nostri ci regalano quattro minuti durissimi, velocissimi fortemente improntati al core.Una parola va spesa assolutamente per l’ironica immagine usata per la copertina del ciddì. Un buon lavoro, personale, non scontato e, mi pare, con una buona dose di autoironia di fondo. (Alberto Merlotti)

(Akom Production)
Voto: 70

sabato 25 settembre 2010

Funkowl - Bubo Bubo

#PER CHI AMA: Funk Rock
Sapete che vi dico? Ascoltare questo cd mi fa venire voglia di ballare e di farmi una birra (non necessariamente in quest’ordine), e non mi dispiace. Divertente. Bravi questi rodigini “Funkowl” (inteso “Gufo Funk”, non come amena località a cui inviare persone non piacevoli), molto in gamba tecnicamente, danno alla luce un lavoro di 5 tracce niente male. Registrato bene, tutto suona come dovrebbe. Non lasciatevi fuorviare dall’urlo iniziale, non cercate del metal, o dell’hard rock, al massimo ascolterete qualche passaggio appena tirato, perché qui abbiamo un album di straripante funk. Il punto di forza lo trovate in queste sonorità, eseguite molto bene, con cambi di ritmo piacevoli e con una voce che ben si adatta al genere. La parte ritmica svetta sul resto, come è giusto che sia in questo caso, i giri di basso e la batteria acchiappano per il loro incedere frenetico. Le chitarre mi hanno colpito meno, sono poco in luce, ma qualche assolo qua là riesce particolarmente bene, per esempio nella prima traccia “Phalocracorax Carbo” (nome scientifico del cormorano, per i non biologi e non ornitologi). Non male “Mario’s Odissey”, in cui si riutilizza il tema del videogioco “Super Mario Bros” in maniera funzionale ad una canzone funk. Le altre songs seguono lo stesso schema, ma non si soffre di quella sensazione di noia che capita spesso con uno schema compositivo ripetuto. Le tracks hanno il pregio di non essere troppo lunghe: se una non piace, almeno è breve; se piace, la si riascolta. Più personalità sarebbe ben gradita, alcune volte mi pare di sentire troppo l’influsso di altre band (“Red Hot Chili Peppers” nei giri di basso, “The Cure” in certe parte cantate), ma non troppo. Sono curioso di sentire un loro lavoro, sempre di questo genere, di più ampio respiro, magari un po’ più lungo, chissà cosa ne salterebbe fuori… (Alberto Merlotti)