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domenica 11 aprile 2021

Oh No Noh - Where One Begins and the Other Stops

#PER CHI AMA: Electro Ambient Strumentale
Curva forte l’incipit di questo EP della one-man band teutonica dei Oh No Noh. "Pointer" apre le fila di 'Where One Begins and the Other Stops' con una sonorità disillusa che gioca al rialzo tra un'insistenza pregevole quanto l'elettronica minimalista che parla con intercalari sfuocati, poi suoni neri, lenti, nebulosi fatti ad hoc per toglierci il fiato, spostarci la mente nel loop creato dal suo protagonista, Markus Rom, e congiungersi circolari, delineando una song dal piglio apparentemente ambient. Già mi sento a casa. E la casa me la arreda la seconda "Shrugging". Una base facoltosa accoglie una melodia artefatta, ancora ripetuta per il tempo di entrare e perdere il senno, ma non il tempo. Le casse la fanno da padrone permettendoci di tenere il metronomo della mente acceso. Sento il tinnulo, mi desto. Sento una voce in background, mi accarezza l'anima. Torna il rilancio. Ballano i neuroni. La adoro. Come una fiaccolata errante nella notte della mente parte “Golb”. Qui le mie sinapsi si accendono di elettricità, sfrecciano velocissime le cariche elettriche. Mi ritrovo persa con le palpebre chiuse e l’ascolto aperto ad una traccia dai tratti sperimentali, di quelle che scalda l’aria. Da ascoltare coi bassi al massimo, mi raccomando. L’"Alba" ci desta dalla nottata. In questa song possiamo meditare e riposare la mente. Questo soffondersi di suoni delicati, eterei, onirici sembra un mantra, una cassa di risonanza per la pace in cui togliersi di dosso i demoni della notte. Una sorpresa continua quando parte “Clod”. Qui la band afferma il suo predominio, la sua natura più oscura, i suoi istinti reconditi nelle minimaliste plettrare di chitarra, la sua matrice ibrida tra il noto e l’ignoto. È una digestione di effetti sonori questa traccia, un metabolismo lento questo vuoto sospeso tra il se e la musica, in una lentezza di fondo in cui si può quasi percepire l’assenza dell’inesistenza del tempo. Arriviamo alla traccia che dà il titolo al platter. Ha scelto molto bene il buon Markus, perchè in questa song sento tutto l’album attraversarmi la mente, i timpani, le percezioni, fino a toccare il diapason dell’anima. Lascio a voi il piacere di far convergere ogni singola nota di questa musica così completa per lo stile della band, all'interno del vostro io interiore. Ma ancora non è tempo di staccarsi da questo ascolto. Manca infatti ancora l’ultimo colpo di silenziatore di un caricatore di suoni bellissimi. "Foam". Un insieme di inverno, primavera, estate, autunno. Un corpo unico di stagioni. Questa traccia descrive il freddo nei suoi suoni affilati, il tepore nello spazio concesso alle percussioni, il caldo ansimante dei silenzi, la nostalgia dei colori. La musica è sempre un’esperienza al limite tra la terra e le percezioni. In questo lavoro troverete solo percezioni pregiate da riascoltare ancora ed ancora. (Silvia Comencini)

domenica 4 aprile 2021

Collectif Eptagon – A​.​va​.​lon

#PER CHI AMA: Suoni sperimentali
Il collettivo transalpino Eptagon, presenta la sua scuderia di collaboratori con una raccolta, in forma di doppio album, che per metà è finalizzata a raccogliere fondi destinati al Metallion store, uno dei pochi negozi di dischi rimasti fedeli alla causa della musica estrema e underground locale di Grenoble. Devo ammettere che è difficile giudicare un album così variegato, ben prodotto e dalle esposizioni sonore tanto colorate e diversificate tra loro, quindi, dovrò fare i complimenti all'associazione, alla qualità dei progetti tutti rigorosamente originari di Grenoble, ed infine un augurio che tutto questo materiale, registrato in un 2020 da dimenticare, con tutta il suo carico di energia espresso in un anno così buio, siano di buon auspicio a tutte le band per un futuro pieno di soddisfazioni. Dicevamo che l'album è variegato, essendo diviso tra stili e composizioni diverse tra loro, ma accomunato da una sorta di filo conduttore, qual è l'appartenenza underground di queste realtà sotterranee, un posto ideale dove far convivere death, black, sludge, post ed alternative, tecnico, d'atmosfera o aggressivo esso sia, con il dark jazz, la musica elettronica, il progressive e l'ambient, il tutto distinto e separato in singole pillole sonore di egregia qualità strumentale, esecutiva e di produzione. Nessuna sorta di lacuna nel suo lungo ascolto, suoni eccellenti, dinamica a mille e professionalità a go go. Da constatare e lodare che, per essere una compilation, la scaletta dei brani fila via che è un piacere, anche per chi predilige lavori più complicati. Il suo insieme si snoda proprio con la fluida progressione di un album ben ragionato e frutto di tanta passione, che si mostra con forza nella qualità d'esecuzione espressa dalle tante compagini qui presenti. Diciassette brani di carattere, che prediligono varie forme di metal nelle prime cinque canzoni, dal death dei Kisin, al doom rock dei Faith in Agony, al grind degli Epitaph, al prog death dei Demenssed fino agli sperimentalismi estremi dei Jambalaya Window. La sesta "Arashi" (Robusutà) crea una sorta di frattura nella trama dell'intero lavoro con un sound strumentale ammiccante ai giapponesi Mono. Da qui in poi, le sonorità prenderanno direzioni diverse, fatta eccezione per un ritorno di fiamma decisamente più metallico nel brano live dei Liquid Flesh. Un brano che, con la sua matrice ultra pesante e tecnica, si pone come apripista all'avanguardia jazz, dal gusto Zorn e oltre, degli Anti-Douleur ("Beyrouth"), per esporsi in territori più sperimentali ed oscuri, frastagliati e sofisticati. Elettronica, drone music, jazz sperimentale, ambient noir, noise, alternative elettro e via via, la personalità mutevole di questa raccolta di brani vive proprio dei suoi continui contrasti e cambiamenti, che si muovono in paesaggi estremi con una fluidità d'ascolto eccezionale. Volutamente non voglio proclamare quale brano e quale ensemble valga di più di altri presenti nella compilation (anche se, e vi chiedo perdono, devo dire che la voce di Madie dei Faith in Agony è davvero splendida), ma sarebbe un errore imperdonabile da parte mia e da chiunque ami la musica indipendente, underground e alternativa, voler giudicare, rinunciando ad un ascolto travolgente, libero, senza porsi troppe domande sul chi stia suonando meglio cosa. Rinnovo i complimenti a tutti i musicisti che hanno preso parte a questo progetto così ben strutturato. Esorto il collettivo Ep.ta.gon a non mollare la presa ora, e vista la qualità della carne sul fuoco, non possiamo aspettarci altro che pranzi reali con realtà musicali cosi variegate come queste. Una compilation da ascoltare tutta d'un fiato, a volume alto ma soprattutto a mente apertissima. (Bob Stoner)

giovedì 1 aprile 2021

Forest of Frost - S/t

#PER CHI AMA: Ambient Black
Dall'Aquitania ecco giungere una nuova one-man-band guidata dal polistrumentista Moulk, uno che ha anche un gruppo con questo moniker e con cui ha rilasciato una cosa come otto full length e quattro EP all'insegna di un folk metal sinfonico, sebbene gli esordi fossero più radicati nel punk rock. Da qui si evince che il mastermind di oggi non sia certo uno sprovveduto, ma direi semmai un musicista navigato quanto basta per registrare quest'album (che a quanto pare rimarrà un episodio isolato) in due sole settimane durante il primo lockdown, deliziandoci con un inedito black atmosferico che ha colto successivamente l'attenzione della Narcoleptica Productions, l'etichetta russa che ha rilasciato il cd proprio in questi giorni. Cinque i pezzi, tutti intitolati con numeri romani. Si parte chiaramente con "I", che delinea immediatamente i tratti somatici di questa neonata creatura transalpina. Il sound dei Forest of Frost è gonfio di passione per lunghe partiture strumentali, costruite su multistrati eterei di synth e chitarre a costruire splendide melodie, con le harsh vocals che fanno la loro apparizione solo di rado. E allora cosa di meglio che farsi cullare dalle estasianti ambientazioni sonore erette da Moulk, che vedono i soli punti di contatto col black, in sporadiche accelerazioni e in quelle voci di cui facevo menzione poc'anzi. Tutto molto interessante non c'è che dire, anche quando la durata dei brani va dilatandosi. Si passa infatti dai quasi otto minuti dell'opener, ai quasi dieci di "II" e ai dodici abbondanti di "III", attraversando paesi incantati quasi fossimo stati catapultati in un mondo senza tempo, o nel più classico "Signore degli Anelli" del plurinominato Tolkien. E qui il consiglio è di lasciar andare la vostra fantasia, occhi chiusi e tanta immaginazione. Vedere draghi, unicorni, gnomi e folletti per cinquanta minuti non sarà un'eresia ma la normalità. Per chi ama realtà affini agli Eldamar o ai nostrani Medenera, credo che qui potrà cibarsi di un valido esempio di fantasy black corredato da suggestive e ariose melodie, che trovano forse la sua massima espressione in "IV", cosi orchestrale e malinconia al tempo stesso, nella sua strabordante epica musicalità. Personalmente, avrei preferito un pizzico di vocalizzi in più altrimenti una release come questa rischia di essere presa come una colonna sonora piuttosto che un album di metal estremo. Che poi di estremo c'è veramente poco, quasi niente... (Francesco Scarci)

(Narcoleptica Productions - 2021)
Voto: 75

https://forestovfrost.bandcamp.com/album/forest-of-frost

martedì 30 marzo 2021

Dark Awake – Hekateion

#PER CHI AMA: Dark/Ambient/Neofolk
A cominciare dalla sua immagine di copertina, 'Hekateion', full length del 2020 dei Dark Awake, è un'opera che richiede decisamente un ascolto impegnato. Si propone sin da subito come un lavoro molto interessante, per veri appassionati, che mi porterà alla scoperta delle strade esoteriche narrate nelle note di questo penultimo disco della band greca (da poco è infatti uscito uno split album con i Kleistophobia). Devo riconoscere una certa forma di iperattività artistica che dal lontano 2008 non ha mai abbandonato il progetto ellenico, che ha sfornato numerose creazioni in ambito dark neoclassico, martial e neofolk ambient, fino ad oggi, con una continuità davvero invidiabile. Questo lavoro è un concept incentrato sulla figura di Ecate, antica divinità di origine pre-indoeuropea, venerata da greci e romani, un'opera da intendere come un accompagnamento ritual-esoterico atto alla scoperta della realtà oscura di cui la dea ne era la potente regina dell'oscurità. Il brano di apertura, la title track, è trafitto tutto il tempo da rumori e suoni spettrali, per una lunghezza assai impegnativa che supera i 23 minuti, tra estratti di rumoristica minimale, fruscii, echi e sussurri carichi di oscuro presagio. Il pezzo ha una trama molto noir e si rianima solamente nel finale, trasformandosi in una scarna e affascinante danza tribale, acustica e ancestrale, dal sapore etnico e sciamanico, come se il tutto fosse svolto in una foresta incantata, governata da forze sovrannaturali. La cosa che più colpisce però è il canto, una splendida interpretazione, drammatica ed ipnotica al tempo stesso, per una voce stregata che si destreggia, salmodiando, nel ricordo di Hagalaz' Runedance, Eva O e Diamanda Galas, nel nome delle regine del folk pagano e del goth rock più oscuro. Si avanza con un secondo brano ("Erebenne Arkuia Nekui"), figlio dell'amore per il drone e il dark ambient apocalittico espresso nei primi album dei Dead Can Dance, potente ed evocatore, mentre, "Triformis Dadouchos Soteira", il terzo brano che porta un titolo particolarmente suggestivo, si snoda anch'esso tra rumoristica d'ambiente, dark e nuovamente drone, contraddistinto da una pesante attitudine lugubre, travagliata ed inquietante, un vortice oscuro che paralizza e destabilizza l'ascoltatore. In chiusura "Damnomeneia", che parte con suoni industriali stridenti per entrare in un comparto etnico che ricorda certe escursioni nel mondo devozionale tibetano ma la sua indole cosmica, primordiale e oscura, lo rende alla fine poco propenso alla meditazione. Il suo tetro avanzare, scandito da lente percussioni, una minimale partecipazione dell'elettronica e la sua forte propensione cinematografica, lo propone come perfetta chiusura di un disco che farà la felicità degli amanti del genere. Cosi come in passato, anche qui i Dark Awake dimostrano le loro qualità, una qualificata capacità di rinverdire e far progredire un'idea sonora spesso sottovalutata dalla critica musicale. Un buon esempio di ambient dai potenti tratti dark, uno splendido e sinistro manifesto sonoro, un disco che nel suo genere può essere letto come variegato ed intenso, sicuramente interessante e ben strutturato. Il mondo oscuro e affascinante di una divinità, madre delle arti magiche e della stregoneria, messo in musica in maniera esemplare. (Bob Stoner)

(Aesthetic Death - 2020)
Voto: 75

https://darkawake.bandcamp.com/album/hekateion

giovedì 18 marzo 2021

Midnight Odyssey - Biolume Part 2 - The Golden Orb

#FOR FANS OF: Atmospheric Black
The Australian solo-project Midnight Odyssey has achieved a great reputation among the fans of atmospheric black metal since its impressive debut 'Funerals from the Astral Sphere', released in 2011. The project created by Dis Pater has shown since its inception, a tendence to release grandiose works, not only sonically, but also in its length. Midnight Odyssey’s works are not for impatient fans, due to its remarkably long songs and entire duration. Its first two works last around two hours, which means a lot of stuff to digest. Thankfully, the overall quality of those albums makes them a worthy listen, even though it is irremediable to find certain moments of dispersion in those compositions, especially in the longest songs. Listening carefully to a double album can be demanding and this requires tight compositions if you don´t want to sound scattered at certain moments. This happened here and there in those albums, although the conclusion was usually positive, because the positive aspects were superior to the negative ones. In any case, Midnight Odyssey and its mastermind appeared especially inspired, as maybe he had learned some lessons from the first works, when he released the first part of a new trilogy in 2019, the magnificent 'Biolume Part 1-In Tartarean Chains'. This album reached a new level in terms of quality. The length was no so long, even if it was more than 70 minutes long, and more important, the compositions were tight, focused and very well elaborated.

Two years later and having this first part in mind, Midnight Odyssey returns with a second half entitled 'Biolume Part 2-The Golden Orb'. The project’s trademark style and core-sound are still there, although Dis Pater has created this time a different beast. In contrast to the previous album, this opus has a brighter sound in general terms and undoubtedly it sounds more epic. This is indeed a truly majestic album and it shows a less dark side of MO’s soul, obviously related to the concepts developed for this second part of the current trilogy. One of the most important aspects that makes this album have a brilliant and epic one, is the much more generous use of the clean vocals, which have a shining role. The use of this kind of vocals occurs in almost all the tracks, though this does not mean that the extreme vocals are not there. Their presence is a fact, but this time the melodic voices have a greater presence leading to achieve an intended epic feeling. Songs like the opener "Drawn-Bringer" or the followings "The Saffron Flame" and "Unconquered Star", are mainly focused on those vocals, in the form of a sole clean voice or an epic choir. This use marks a great difference from the previous albums, making this new opus the most luminous one. The guitars and rhythmic-base follow similar patterns if we compare them to older works. Nevertheless, the guitars sound thinner this time, maybe due to the production, but I have the feeling that its production is not as crushing or dense as it was in the past. The difference is not enormous, but I can notice a change in this direction. The keys are unsurprisingly a key factor here. Like it happens with the vocals, this instrument plays an essential role in the search of a grandiose tone. The variety and quality in terms of key-based compositions is phenomenal. I am sure no one can complain about the keys, apart from preferring darker synthesizers than these ones. In any case, the opener "Dawn-Bringer" is just an example of how epic this album is. The keys are absolutely solemn and remind the most breath-taking film soundtracks. I can even feel a medieval touch in the arrangements used for tracks like "The Saffron Flame" or in the hypnotic beginning of "Below Horizon", which transports the listener to an ancient civilisation. Midnight Odyssey surely knows how to create a hypnotic and immersive sonic experience through its compositions. The most classic dark and space-related keys return for a quiet and beautiful final track entitled "When the Fires Cool", ideal for this vibrant journey.

Although I consider its predecessor a superior album, due to its incredibly focused compositions and greater balance in the use of the different vocals, 'Biolume Part 2-The Golden Orb' is also an impressive work. Perhaps, this album is not the dreamed work for those who desired more extreme vocals and a darker sound. In spite of this, the excellently achieved grandeur, the richness and the quality of the arrangements, make Midnight Odyssey’s last opus an excellent album and a must for every fan of atmospheric metal. (Alain González Artola)


domenica 7 febbraio 2021

Kaouenn - Mirages

#PER CHI AMA: Electro Ambient
Un mantice respira mentre mando on air la prima traccia di 'Mirages', intitolata “Psychic Nomad”. L’album dei Kaouenn si preannuncia gitano sin dalle prime note. In pochi istanti i suoni iniziano a far vivere atmosfere tribali, ritmi mediorientali, performance propria della techno nostalgica. Un tripudio sonoro organizzato in un’orgia musicale di elementi elettronici e acustici. Segue “Immaterial Jungle”. Liane frustano timpani già ipnotizzati dal vento che sposta preoccupazioni e pensieri. Questo sound non lascia spazio a bene e male. Rapisce semplicemente. Corda metallica che fa scintille sulla superficie incontaminata dell’apparenza. D’improvviso abbandono e leggerezza. Luci soffuse e volume. Provateci! Perdo la cognizione del tempo e mi ritrovo in “Reachin’ the Stars”. Dal Medio Oriente ci ritroviamo questa volta catapultati in Scozia in questa intro di cornamuse elettriche. Il brano si assesta poi su una ripetuta elettrificata ideale per un castello maledetto. Un trip che dura otto minuti, otto. Lunghissimo come si conviene all’ipnosi indotta. Questo pezzo farà per voi, una seduta spiritica con un tocco di psicoanalisi. Abbandono. Ancora volume. Buio. Riemergo dal frastuono del silenzio per portare alla luce “Mirage Noir”, ove assistiamo al featuring di Above The Tree alla chitarra. Spero abbiate il senso del ritmo e comunque durante l'ascolto sarete obbligati a trovarlo. Parte la cassa ed il capo si muove. Sfreccia l’elettrico del piano, torna a calmare un fiato gorgogliando. Introspettivo. Ambient spinto. Musica che parla intercalata dall’urlo della chitarra metallica. In loop se fossi in voi. Senza guardarmi indietro perché il loop è virtuoso, passo il testimone a “Into a Ring of Fire”. Preparatevi un’amaca in riva al mare, assaporate l’odore di iodio e la risacca che culla occhi chiusi. In questa song c’è il dark nella voce e la luce nello sciabordio della musica. D’improvviso un temporale. Lampi e saette. Non c’è quadro più bello dell’elettricità sull’acqua. Veniamo a “Indina”. Scenario inaspettato. Immaginate una chiesa sconsacrata. Un organo che suona senza interprete. Navate altissime. Il vuoto tutt’intorno. La musica che irraggia come pioggia nell’aria. E voi sotto la pioggia pervasi da gocce costanti in un deserto bagnato. Siamo quasi al termine di questo viaggio, ma come diceva il saggio, non conta la meta. Quanto mai vero perché ora mandiamo “Flood of Light”. Un crepuscolo endorfinico di luce nascente spezza il ritmo circadiano. Ci fa smettere di essere giorno e notte. Ci porta in una dimensione sospesa dove esiste solo la musica a mezz’aria. Una dimensione in cui respirare. Ed il mantice vuole la sua contropartita. L’epilogo di “K2” ci fa trattenere l’aria. Tamburellano le attese mentre si svela questa traccia (ove graffia l'indelebile chitarra di Sara Ardizzoni - Dagger Moth). Serrata l’attesa sinchè il manto cade. Siamo in una stanza dove tutto è psichedelico, nucleare, improbabile, remoto, futurista, bianco, nero, colorato. La degna chiusura di un album dagli ossimori pregiati ove la mente può spaziare o alienarsi in angoli remoti. Le emozioni possono ascendere o fermarsi. L’acqua può diventare fuoco ed il fuoco acqua. (Silvia Comencini)

(Bloody Sound Fucktory - 2021)
Voto: 82

https://bloodysound.bandcamp.com/album/mirages

giovedì 28 gennaio 2021

Taumel - There is no Time to Run Away From Here

#PER CHI AMA: Dark/Ambient/Jazz
Jakob Diehl è un compositore freelance di musica per teatro e cinema, conosciuto anche come attore nel cast della nota serie televisiva 'Dark' e altri film ancora, mentre il suo compagno di viaggio musicale, Sven Pollkötter, è un affermato batterista e percussionista di stampo neoclassico, compositore e autore di vari progetti che si spostano dall'improvvisazione, al folk, dal jazz al metal fino al prog (Assignment, Alternative Allstars, Clause Grabke). Da questa unione nasce il progetto strumentale, Taumel, soluzione sonora sofisticata che usa le trame del jazz avvicinandole alle cadenze rallentate del doom, per far nascere un ambiente sonoro che potremmo senza difficoltà etichettare come dark jazz. Le composizioni di questo 'There is no Time to Run Away From Here' si avvalgono anche di chitarra, piano, rhodes e filicorno (a grandi linee una specie di tromba della famiglia degli ottoni) facendo notare grosse affinità di forma ed effetto filmico alla The Mount Fuji Doomjazz Corporation e dimostrando di poter competere con i mostri sacri del genere, anche se ad un ascolto più attento, oserei dire che i Taumel abbiano un approccio quasi più romantico del genere noir, più sentimentale, ipnotico e meno horror dei colleghi olandesi. "There is" apre le danze con una chiara matrice jazz, che va sfumando in un inaspettato corto circuito noise che introduce la drammatica vena di "No Time", impreziosita da tanta effettistica d'origine elettronica in sottofondo ed un bel gioco di riverbero che ne amplifica lo stato d'animo cupo. La lunga "To Run" è una marcia funebre che si alimenta di sonorità care al post punk più oscuro degli esordi, ed è forse il brano più teso e lugubre del lotto. Comunque, per tutti i pezzi che compongono il disco, ci si immerge in un'atmosfera notturna, piovosa, dove l'ingresso del filicorno, ad esempio in "Away", fa soffrire l'ascoltatore in una maniera morbosa, per una canzone che sfrutta tutta la potenza della visione al rallentatore, come in una scena di un film visionario in slow motion. Il brano è notevole, si eleva nel suo avanzare lento, con un senso di immobilità che per più di otto minuti riesce a rallentare il battito cardiaco, ponendosi statuario, ma allo stesso tempo esponendo un sound caldo ed intenso, come del resto, lo si nota lungo tutta la durata dell'album. Impossibile non notare la peculiare e maniacale ricerca del suono perfetto in una produzione che cura tutti i minimi particolari, dalle sonorità più profonde della batteria ai riverberi ed echi che circondano le melodie, per farle entrare in comunione con i colori della notte. Il piano di "From Here" mi ricorda una moderna interpretazione del più celebre "Clair de Lune", ma solo abbozzata, come se qualcosa di inconsueto e maligno, l'avesse interrotta maldestramente, chiudendo un disco che aspira nel suo profondo al suono dell'infinito. Ottimo debutto, album da non perdere. (Bob Stoner)

lunedì 11 gennaio 2021

Spectrale - Arcanes

#PER CHI AMA: Ambient/Neofolk
Fluttua gorgogliando, agitandosi lento il primo pezzo degli Spectrale di questo secondo lavoro intitolato 'Arcanes'. “ Overture”: vortici dalla forza centrifuga alimentano acuti inviolati. L’apertura senza colpo di scena non sarebbe degna. Eccoci a “Le Soleil” brano da cui è stato estratto uno splendido video. Cavalcano i suoni le valchirie di Odino con i tocchi acustici del maestro Jeff Grimal. Scompongono i suoni le ancelle di Zeus. Le baccanti danzano sinuose dinanzi al fuoco di Bacco. Capite che in questo corpo di emozioni potreste essere chiunque, senza scordare che la malia del suono vi può portare da Medea. Dagli dei ad un talamo di veli di lino mossi dal vento dell’est. “L’Impératrice”. Un arpeggio di chitarra ed il violoncello di Raphaël Verguin ci portano ad un loop scomposto, poi a singole note pizzicate, ed ancora all’emozione, perché questa song si congeda con un climax ascendente di suoni emotivamente sanguigni. Quest'album è un salto continuo tra continenti. Ora la foresta Amazzonica ci ospita nell’ascolto di “Le Jugement”. I tronchi sentono i suoni, rimbalzandoli di volta in volta per rendere giustizia ai pensieri degli Spectrale che sembrano riflettere qui, alimentando l’attesa del prossimo brano. Non si fa attendere “Le Pendu”. Musica e poesia. Ripetuti e Rabbia. Carezze e diamante. Un vetro scolpito. Una soglia che cela. Un manto invisibile che vorrebbe cadere. Lasciamo l’atmosfera per una colonna sonora al cardiopalmo. “Interlude”. E vi ho detto troppo. Cambia ancora la veste trasformista degli Spectrale. Eccoci a “La Justice”. Ebbene siete innocenti? O siete colpevoli? Questo brano, col suo ritmo vibrante, vi porterà alla soluzione catatonica delle vostre incertezze. Aspettate che debbo vestirmi appositamente per questa “Le Bateleur”. Senza forma non potremmo assorbire la sostanza invisibile di questo grido femminile che vede il sublime featuring di Laure Le Prunenec (Igorrr, Corpo-Mente, Öxxö Xööx, Rïcïnn) dietro al microfono. Noi sulle rive della Senna. Lei sulle vette piu alte di una città. Noi predati dal suono. Lei suono. Ed è come avessimo vissuto un istante in mille anni. Sempre sul suono strumentale. Sempre sul ghiaccio sciolto dall’armonia. Sempre chiara, lontana e nostalgica è “La Lune”, un pezzo oscuro quanto una notte di luna nuova. Gli Spectrale chiudono con “La Papesse” il loro album. Un labirinto di speranza ed attesa. Una caccia ed una preda. Una evoluzione sonora che può ravvivare il nostro ascolto o portarci in un ghiaccio che solo noi potremo sciogliere. Immaginoso. Folgorante. Enigmatico. In questo lavoro degli Spectrale, ascoltate e scrivete. Avrete sorprese in musica.(Silvia Comencini)

(LADLO Productions - 2020)
Voto: 75


https://ladlo.bandcamp.com/album/arcanes

martedì 29 dicembre 2020

Nàresh Ran - Re dei Re Minore

#PER CHI AMA: Drone/Experimental/Noise
Il numero uno dell'etichetta discografica Dio Drone, solida label italiana dal respiro internazionale, impossibile da identificare nei generis e contraddistinta da uscite di grande qualità in ambito sperimentale, licenzia la sua nuova fatica sotto il nome di Nàresh Ran ed esce allo scoperto con un disco crepuscolare dall'emblematico titolo 'Re dei Re Minore', un'opera avvolgente, che imprime una forte dose di mistero e una trasversale, perversione oscura, assai intrigante. Mi sembra doveroso ricordare, che Nàresh Ran predilige i suoni, i rumori, gli ambienti sonori on the road, captati, raccolti, registrati per strada, con metodi di registrazione filtrati da mezzi poco consoni o quasi mai convenzionali. Il disco pullula di ronzii, fruscii e rumori d'ambiente, rubati ovunque, per ottenere nell'insieme, tappeti sonori che nessun synth potrebbe ricreare elettronicamente. L'apertura è affidata alla lunga traccia intitolata "Kutna Hora", un brano molto lungo che mostra un legame con il precedente lavoro dell'artista fiorentino, 'Martyris Bukkake'. Una song che galleggia a mezz'aria, tra mistico devozionale e l'ambient drone più radicale, mostrando tra le sue trame, un volto angelico subito contrastato da un monolitico e perpetuo cupo senso di desolazione, un vortice di ipnotica e disturbata malinconia, che nel finale si amplia di rumori e interferenze progressive che caricano ulteriormente il senso di vuoto del brano. Il secondo brano,"Veglia", ha un'attitudine più quieta e all'apparenza più distesa, cosi composto dal senso circolare di un loop spettrale su di un tappeto di tanti rumori e synth per un effetto cosmico, interstellare in stile Martin Nonstatic e in genere Ultimae Records, ma con un suono più caldo, profondo, meno sintetico e con più umanità dietro le quinte. Il terzo brano è "A_R", un groviglio molto intimo di suoni d'ambiente e rumori, interferenze lievi che donano, seppur celata e nascosta tra le righe, una cadenza, un ritmo che fin qui non era mai apparso, e poi cicale, insetti, bassi gravi, si mobilitano per inspessire una trama già complessa, ricercata, con un finale astrale dove compare, brevemente, per la prima volta, anche una voce umana distorta. Forse la traccia migliore dell'album dal punto di vista compositivo. Devo ammettere però, che con la conclusiva ed inaspettata traccia, "Re_Minore", l'impennata artistica si fa più coraggiosa e oltraggiosa. Con l'aggiunta di un vero e proprio recitato/cantato in lingua madre, alla maniera dei Massimo Volume, a cavalcare un loop di piano drammatico, sottomesso alla lettura poetica di un testo doloroso, ci si inoltra in un concetto molto vicino alla Sindrome di Stoccolma, per cui la tortura dell'aguzzino diviene il piacere che porta all'unica via di fuga per la vittima. Una performance intrigante, aggressiva e sconvolgente che conclude il disco con un pugno allo stomaco di chi ascolta. Una traccia dai toni malati e dai tratti realistici, dove il male descritto tocca l'ascoltatore in prima persona. Una canzone estremamente intrigante e molto, molto pericoloso, nella sua drammaticità corrosiva, un buco nero per la psiche dell'ascoltatore. 'Re dei Re Minore' alla fine è un album che indica chiaramente un'evoluzione nell'espressività dell'artista, un balzo in avanti verso una capacità compositiva libera e personale, una ricerca complessa fatta di tanti piccoli tasselli che compongono un mosaico di grande valore. Un film sonoro imperdibile, sofisticato, intricato, nero e con un finale devastante. (Bob Stoner)

(Toten Schwan Records - 2020)
Voto: 80

https://nareshran.bandcamp.com/album/re-dei-re-minore

sabato 26 dicembre 2020

Corecass - Void

#PER CHI AMA: Ambient/Soundscapes/Experimental
Un susseguirsi di legno antico che respira tra i respiri dei Corecass. Respiriamo cosi insieme ad un ritmo da colonna sonora di un film dall’epilogo imprevisto. “Void I”. Mentre l’ossigeno ci percorre, visioni orientali spazzate dall’impero imperioso del dark ambient. Il suono gradualmente diviene intenso, spasmodico ed improvvisamente mellifluo, lento, nuovamente di liuto come una geisha di suoni servizievole e lontana, nella terra sognata. D’incanto, piove. Un moto forte sonoro di sensi accoglie “Carbon”. Ancora il legno che schiuma le percezioni sonore. Al legno piano si uniscono poi suoni elettrici corali, graffio lungo di tasti e di corde tormentate appena. La voce che sfugge sottesa, femminile, insistente, prepotente, sino a portare il pezzo ad un orgasmo metallico nero come una messa di chi chiede giustizia. Tocchi reiteranti, vellutati, sicuri su un organo che non lascia il fiato al respiro. “Void II”. Una spinta virtuale incurva le spalle se si asseconda il suono. Un ruggito affonda i canini deliziandosi con le paure di ognuno. “Amber”. Una song introspettiva, temporalesca, uno scenario da casa stregata. Seguitemi in questo viaggio, sarò il vostro Caronte, ma non dimenticate l'obolo per il vostro passaggio. Tornare indietro sarà magia. Curva il suono, aberrante, spazi chiusi e colori invisibili. “Void III”. Esercizi di stile in fingerstyle rivisitato da mani che aprono e chiudono le finestre per indurre buio e luce a loro piacere. L’epilogo. Come promesso. Imprevisto. Una risacca di mare che culla speranze, suoni, paure. “Breath”. Un brivido dopo inferno, purgatorio e paradiso. 'Void' si chiude come un racconto che ci ha fatto vivere sensazioni, momenti, ostacoli, velleità. L'album dei Corecass ci porta a viaggiare dentro di noi tra sospesi, paure e bellezze. Un ascoltare necessariamente tutto d’un fiato sospeso. (Silvia Comencini)

(Golden Antenna Records - 2020)
Voto: 80

https://corecass.bandcamp.com/album/v-o-i-d

lunedì 21 dicembre 2020

Cave Dweller - Walter Goodman (or the Empty Cabin in the Woods)

#PER CHI AMA: Neofolk/Psych
Sono dieci i brani che compaiono in quest'album di debutto in qualità di solista, del musicista americano Adam R. Bryant. Uscito con il nome di Cave Dweller (da non confondere con altri, omonimi progetti sparsi per il web), già mastermind e componente effettivo della band post industrial, Pando, Mr Bryant ne evolve il concetto musicale, spostandolo decisamente verso le terre sconfinate del neofolk. Dieci canzoni immerse nelle nebbie mattutine, notti insonni e spazi aperti di natura incontaminata tra i paesaggi del Massachusetts. Storie che parlano di solitudini e disordini mentali, malattie, affrontate con il tono solenne del folk apocalittico ("Ancestor"), dell'alternative country filtrato dalla più buia espressività del dark e dell'alternative più rumoroso ("Why He Kept the Car Running"). La ballata nello stile di David J, soffocata da rumori d'ambiente, cicale, uccelli, fruscii, registrazioni in finto low-fi, una sorta di Burzum in veste di menestrello folk, imbevuto nello shoegaze, che a suon di chitarre acustiche mescola la selvaggia libertà di 'Into the Wild' con certo noise minimale e sperimentale, tanto caro ai Death in June. 'Walter Goodman (or the Empty Cabin in the Woods)' è un disco intimo e frastagliato, che riporta alla mente proprio l'album del 2016, 'Negligible Senescence', degli stessi Pando, con una ricercata vena poetica di base che si snoda lungo tutte le tracce. A volte si sentono echi post rock ma il suono è scarno, acustico e pieno di interferenze, anche il folk psichedelico appare tra le fila, ma il buio lo anima e lo rende tragico, mai spensierato, spesso ipnotico, malinconico, a volte persino evanescente, quasi ad inseguire un suono fantasma che ammalia, rapisce e sconcerta ("Where Trees Whispers"). Parti recitate e rumori d'ambiente inquietanti, disseminate ovunque ("Upon These Tracks"), registrati con smartphone e qualche altro aggeggio anomalo. Allucinazione e un senso di angoscia che si trasforma nei quattro brani conclusivi, spostandosi verso una tenue luminosità quasi pastorale con il coro di "The Secret Self", la cavalcata, alla Hugo Race (tipo 'Caffeine Sessions 2010'), tra country e synth wave cosmico di "Your Feral Teeth", lo strumentale dal solitario e rallentato passo bluegrass con il sottofondo di gabbiani e mare di "Bliss" ed il finale (con l'inizio che ha la stessa intensità della splendida "October" degli U2) lasciato ai rintocchi di piano di "To Return", segnano il battito di un disco non convenzionale, pieno di paesaggi in chiaroscuro tutti da scoprire, un viaggio insolito nel mondo di un folk parallelo, assai personale, intimo e nero come la pece, votato alla pura espressività poetica, per certi aspetti coraggioso ed innovativo. Una nuova veste per il neofolk a stelle e strisce. (Bob Stoner)

sabato 12 dicembre 2020

Sens Dep - Lush Desolation

#PER CHI AMA: Shoegaze/Ambient, Mono, Slowdive
Nato nel 2009, il progetto australiano dei Sens Dep vede la luce inizialmente come supporto sonoro verso visual media e colonne sonore per film. La band è costituita per due quinti da ex membri della band post rock Laura, valida compagine con all'attivo tour insieme a Cult of luna, Isis e Mono, oltre che numerose pubblicazioni tra album, singoli ed Ep. Andrew Yardley, Ben Yardley (ex Laura) e Caz Gannell sperimentano a lungo con la nuova creazione e servirà un periodo di ben quattro anni di incubazione, passati tra le lande selvagge della Tasmania, per renderla concreta e definirne le caratteristiche estetiche attuali. La cosa bella che si nota al primo ascolto, è che la linea continua con il passato post rock non si è spezzata ma, semplicemente, molto molto evoluta con il passare del tempo. Certo, la concezione musicale in stile soundtrack prevale sempre ed anche l'amore per rumori e interferenze ambientali gioca un ruolo fondamentale nel fluidificare sonoro delle composizioni, fino a renderle inevitabilmente, una sorta di film da ascoltare in perfetta solitudine. La struttura di 'Lush Desolation' si potrebbe spiegare come un percorso immaginario in montagna, dove si parte dalle prime quattro tracce impregnate di umore grigio e una tensione d'ambiente di grande effetto, cariche di feedback di chitarra e tappeti di synth dal sapore cosmico complici ritmi lenti o appena abbozzati, con all'interno sempre una certa malinconia che riporta spesso alla mente distese ampie e paesaggi riflessivi. Percorrendo la salita della nostra ipotetica montagna, ci si addentra nella vetta del disco che cresce enormemente con la comparsa di una voce calda ed ipnotica (in stile Chapterhouse epoca 'Whirlpool') nel brano "Nebuvital", portando la musica ad una dimensione di canzone assai intima, rarefatta, circondata costantemente da un senso profondo di desolazione. Nei tre brani successivi questo cambiamento aprirà il suono ad un approccio mesmerico ai confini della realtà, omaggiando band del calibro degli Slowdive, The Telescopes e Loop, trasportandoli in un contesto più moderno, tecnologico e siderale, con monumentali muri di chitarre distorte, infinite e liberatorie, cadute a pioggia su tappeti ritmici pulsanti e rallentati, una visione lisergica in slow motion per parlare, con i testi delle canzoni, del rapporto complesso che esiste tra uomo e natura. Compare anche un volto acustico in "Bound" ma lo shoegaze è padrone in questa casa e lascia poco spazio a ciò che non lo è. La traccia in questione nasconde una chicca al minuto 3:27, che non vi svelerò ma che si fa apprezzare parecchio, una gemma che innalza il valore di produzione dell'intero album, mostrando che la band di Melbourne ha ottime idee da estrarre dal proprio cilindro, anche per gli audiofili più esigenti e perfino per gli amanti di certa musica elettronica d'ambiente. Altra hit potenziale è "To Build a Fire" che, avvolta nella sua malinconia, invita alla strada in discesa dalla nostra montagna sonica. E la discesa non pregiudica la qualità della proposta e negli ultimi brani, prima della chiusura, si esaltano il distorto, la ritmica e l'ambiente. È tuttavia nella magia della conclusiva "Luckless Hunter" che si tocca l'apoteosi compositiva, tra shoegaze, post rock, l'infinito mondo dei Mono e riverberi degni dei più corrosivi My Bloody Valentine, passati in acido e rallentati a più non posso. Non che avessi dubbi, poiché le premesse di questo album erano già una garanzia, ma il debutto dei Sens Dep è veramente una catarsi magica, da cui sarà difficile staccarsi e lasciarla cadere in tempi brevi nel dimenticatoio. Ascolto obbligato. (Bob Stoner)

martedì 1 dicembre 2020

ĀraṇyakAƔnoiantAḥkaraṇA (ĀAAA) - S/t

#PER CHI AMA: Experimental/Ethno/Folk/Psych
La Family Sound è una realtà artistica esageratamente underground e fedele al credo Do It Yourself. La sua energia comunicativa è alimentata da una luce propria molto intensa, che mette l'arte al di sopra di ogni cosa, in maniera così ostinata che dalla produzione fisica a quella concettuale di un'opera sonora (nella sua filosofia rigorosamente una diversa dall'altra) non tralascia nulla alla banalità delle cose, neppure nella realizzazione dei dischi. Evitando le normali vie di fabbricazione dei vinili, costruendosi copertine autonomamente, fino a far uscire sul mercato, come in questo caso, la bellezza di sole 21 copie in vinile fatte a mano. Ricordando che i suoi artisti sono praticamente senza identità, che le opere nascono da una collaborazione internazionale, col solo intento di far esplodere l'ispirazione creativa dei musicisti, vi invito a farvi un'idea leggendo di seguito come questa etichetta usa presentarsi: "una one man label specializzata nella pubblicazione in vinile creando edizioni con musica diversa per ogni copia, copertine diverse, loops finali e altro". La label promette di adottare i principi dell’industria musicale al contrario: nomi dei gruppi impronunciabili e impossibili, edizioni in vinile super-limitate e super-costose, testi chilometrici, produzioni musicali troppo eversive per entrare in qualsivoglia nicchie, generi fuori moda, e altro ancora. Fatte le dovute premesse, affrontiamo il disco degli ĀraṇyakAƔnoiantAḥkaraṇA, cominciando da un nome impronunciabile per un disco ispirato alla cultura sacra vedica. Gli Aranyaka o "libri anacoretici" (circa sec. VIII-VI a. C.) sono opera di asceti che nella "selva solitaria" (āraṇya) sostituivano al culto esteriore delle cerimonie sacrificali il culto interiore della meditazione sul valore simbolico e sul significato mistico dei riti. Il nome del duo si fa carico del significato musicale dell'opera il cui intento è proiettare l'ascoltatore in un'estasi mistica, ipnotica e incantatrice, oserei dire, ossessivamente trascendentale. Prendete "Dust" di Peter Murphy, privatelo di tutte le sue parti ritmiche, tenendo solo quelle etniche, spostandole poi nel versante indio/ mediorientale, avvolgetele in un tappeto costante di sitar ancestrale e acido al pari di certa psichedelia allucinata di casa nella Londra del '67, sporcate il tutto con rumori e brevi accenni ritmici minimali, filtrate con l'elettronica, quella low fi, ed con del folk apocalittico. E il gioco è fatto. Immaginate i due brani di apertura del capolavoro '...If I Die, I Die' dei Virgin Prunes, "Ulakanakulot" e "Decline and Fall", scarnificati e suonati con la cupa e lenta avanguardia dei Sunn O))), il lato mistico dei Dead Can Dance e la psichedelia etnica di un capolavoro degli Aktuala quale fu il loro album omonimo del 1973, e ancora, la drammaticità dell'ultimo Nick Cave e le sfumature notturne del più cupo Tom Waits e forse avrete una lontana idea di cosa si nasconde dentro questo album. Tre brani di cui il primo, "No Store of Cows" supera i 22 minuti, seguito da un lampo di neppure due minuti per concludere con una liturgia dark di circa 15 minuti ("The Margin Spread"). Vi siete fatti un'idea di quale spettacolare risultato sia riuscito ad ottenere questo duo di musicisti senza volto? Un cantato oscuro alla maniera del gotico vocalist dei Bauhaus, teso, esasperato, che usa salmodiare le preghiere descritte nei testi che dentro al vinile sono trascritti, niente poco di meno che su di una reale pergamena, un impianto sonoro che non lascia intendere dove inizia il campionamento, il loop o la reale strumentazione suonata, ed una emotività sacra tanto esposta da rendere alcuni momenti musicali veri e propri viaggi spirituali, a volte trascendentali, a volte aspri e bui al pari di una composizione degli OM. La difficoltà di descrivere un album simile è enorme, poiché questo tipo di opera non è alla portata di tutti e rifiuta ogni logica commerciale, sono brani che richiedono attenzione assoluta e apertura mentale per essere recepiti nella loro integrità artistica, per questo servono più ascolti e molta concentrazione per capirli. Alla fine però, si ha l'impressione di essere di fronte ad un vero capolavoro, che rimarrà in eterno al di fuori del tempo. L'intento di creare musica altra, senza vincoli, ispirata e profonda, in questo disco si è decisamente fatta realtà. Un immancabile ascolto per gli amanti più temerari della psichedelia d'avanguardia. (Bob Stoner)

lunedì 16 novembre 2020

Gong Wah - S/t

#PER CHI AMA: Experimental Kraut Rock/Noise Pop
Si apre il sipario su un insieme di brani che vi sorprenderanno. Tutte le tracce sono vive in essere e vitali in divenire nello stesso disco. L’ascolto dell'omonimo album dei tedeschi Gong Wah è un ritorno al futuro. Partiamo da "Let’s Get Lost". Voce carismatica quella di Inga Nelke. Raggi di criptonite che incalzano le pause strumentali. Avvolgenti i ripetuti del ritornello che diviene ipnotico lasciando il passo al velluto della voce della frontwoman che incalza intercalari ritmati. L’atmosfera in cui ci accolgono i Gong Wah è un ibrido tra il rock e l’ambient. Cambiamo del tutto l’attesa con "I Hate You". Qui lo strumentale è un ribattere, calco di gesso dinamico quasi aggressivo che si frantuma in un istante ripetuto. Una rabbia di zucchero filato e molto zuccherino che cristallizza esplodendo in un senso cosmico. Polvere di stelle. Le sorprese incalzano quando parte "Supersized Kid". Lei voce pop estremamente sensuale, ci porta indietro di 25 anni. Canta, accarezza l’ascolto. Canta, sa come far vivere il passato nel presente. Canta e complimenti a chi ha arrangiato il brano perché è un salto senza paracadute negli anni '90. Andiamo oltre ed accontentiamo i viaggiatori del tempo, quelli che mettono la musica in cuffia e si alienano dalla realtà. "With Him". Ora la carica nostalgica cresce sino a far godere pienamente della condivisione tra pop e shoegaze. Non sarete ancora sazi spero! Incalza il mio preferito tra questi pezzi "Sugar & Lies". Volume. Volume. Qui abbiamo un insieme di così tante sonorità e di annate musicali che gira la testa solo ascoltandolo. Adoro il suo incedere, così come la sua traccia definita e la sua arroganza nell’essere tutto e nel non somigliare a nulla di pregresso. Mandatelo in loop. Quando l’entusiasmo trova un picco succede spesso debba avere la sua contropartita, eppure "Contaminated Concrete" mi ferma il cuore per portare i battiti ad un altro livello. Ascoltando questa traccia ho vissuto momenti di pura intensità, istanti di un brivido graffiante, tempo dilatato e lento. Un'alchimia tra la musica, la voce e le sonorità distorte. Siamo a "Not This Time" e l’aria è ferma. È questo è il pezzo che quando parte con il suo mix di post-punk e electro dance la muove sul serio l’aria. La musica si muove. La voce si muove. Non inizio a respirare, ma ad ansimare. La musica chiama. Non è lo stile, il ritmo, il genere, ma l’alchimia dell’insieme. Concludo l’ascolto con questo inferno retroattivo ed eloquente. È il tempo di "Just Sayin'". Che dire. I sensi si risvegliano uno ad uno seguendo il ritmo deciso ed urgente di questo pezzo. Voci congiunte. Suoni stridenti armoniosamente agganciati agli strumenti. Pause strumentali lunghe, emozionanti, accattivanti. Le voci entrano in assonanza con gli strumenti. Una degna chiusura di un album da avere. Un viaggio tra il noise pop, il kraut rock, la psichedelia, lo shoegaze. Eppure, per ogni traccia si sente la forza della musica che mescola i generi e rinasce come fenice a vita indipendente. Artistico. Intenso. Eclettico. (Silvia Comencini)

(Tonzonen Records - 2020)
Voto: 78

https://gongwah.bandcamp.com/album/gong-wah

domenica 8 novembre 2020

Starless Domain - ALMA

#PER CHI AMA: Cosmic Black
Gli Starless Domain li abbiamo incontrati già un paio di volte lungo il nostro cammino e io li ho particolarmente apprezzati quanto lo scorso anno fecero uscire quasi in contemporanea, 'EOS' e 'ALMA', quest'ultimo però solo in formato digitale. La Aesthetic Death, presasi in carico dell'uscita in cd del primo lavoro, ha pensato bene di rilanciare in questo 2020, anche il secondo, che riparte dalle medesime coordinate sonore che avevo già apprezzato in 'EOS'. Stiamo parlando di un black cosmico che si palesa nei 44 minuti dell'unica traccia qui contenuta. Facile pertanto per il sottoscritto descrivere i contenuti di "Alma" che rispetto al precedente album, perde forse in imprevedibilità e ci consegna un lungo e reiterato black fatto di sonorità terrificanti. Questa è la prima parola che mi sovviene durante l'ascolto, in quanto quelle urla che si dipanano in sottofondo, mi fanno immaginare a quelle dei dannati imprigionati nell'Inferno dantesco o se vogliamo rifarci ad un paragone più attuale, a tutti coloro nel mondo che oggi sono bloccati nelle loro case dal lockdown. È pertanto pauroso quindi l'effetto che ne deriva, mi angoscia, mi attanaglia la gola, l'ansia cresce frenetica e non bastano francamente quei break atmosferici, a base di elevate dosi di synth, a stemperare il delirio che nel frattempo è esploso nei miei emisferi cerebrali. Ancora una volta la musicalità disturbante del trio dell'Oregon si rivela poderosa, ma non so francamente se a questo punto sono ancora cosi predisposto ad ascoltarla. Detto questo, confermo le ottime impressioni che avevo palesato ai tempi di 'EOS', certo è che l'ascolto diventa sempre più complicato in questi folli tempi di morte. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2020)
Voto: 75

https://starlessdomain.bandcamp.com/album/alma

mercoledì 28 ottobre 2020

Katharos XIII - Palindrome

#PER CHI AMA: Black/Doom/Avantgarde/Jazz
Uscito oramai un anno fa ma arrivato solo oggi sulla mia scrivania, mi appresto a parlarvi di 'Palindrome', atto terzo dei rumeni Katharos XIII. La band originaria di Timișoara, aveva già fatto parlare positivamente di sè nel 2017 quando uscì 'Negativity'. Ora le cose sembrano migliorate ulteriormente con un 5-track ricco di contenuti. Se la base da cui partiva il quintetto era quella del depressive black, qui assistiamo ad una interessante evoluzione. Lo si capisce già in apertura, in cui facciamo conoscenza della candida voce di Manuela Marchis ma soprattutto del sax assatanato di Alex Iovan, altra splendida sorpresa di questo lavoro. "Vidma" è un pezzo che si muove tra black, doom, jazz e atmosfere orrorifiche che mi hanno rievocato 'The Call of the Wood' dei nostrani Opera IX, ma nelle parti più malinconiche, mi hanno evocato anche un che dei The Third and the Mortal di 'Tears Laid in Earth'. Potrete pertanto immaginare il mio sommo piacere nel godere di simili sonorità, che durante le fughe del sax, chiamano inequivocabilmente in causa anche i White Ward. Insomma un trittico di nomi che francamente mi fanno sobbalzare dalla sedia e pensare che stavolta i Katharos XIII l'abbiano combinata davvero grossa. E non posso che rimanere piacevolmente colpito anche dai successivi pezzi: "To a Secret Voyage" è un drammatico viaggio ambient imperniato su atmosfere notturne, quasi da piano bar, dove sedersi al bancone e affogare ogni singolo pensiero nell'oblio di un qualsivoglia distillato. La song prova a dare qualche accelerazione black (non proprio riuscitissima a dire il vero), ritornando poi a quelle sonorità lounge, in cui i nostri sembrano trovarsi maggiormente a proprio agio. E si va a nozze a tal proposito anche con la lunghissima "Caloian Voices", un altro esempio di avanguardistico sound dark jazz doom prog con la voce di Manuela davvero ispirata e quel sax che è puro godimento ascoltare. Non mancano i cambi di tempo, che spezzano le atmosfere rilassate sin qui create e ne generano altre decisamente più angoscianti fatte di suoni spettrali e voci malvagie in sottofondo. Il finale poi è da applausi con lo sperimentalismo dei nostri che prende il sopravvento tra parti disarmoniche e fughe jazz. "No Sun Swims Thundered" ci conduce in misantropici oscuri meandri dai quali non far ritorno per abbandonarsi ai vocalizzi della bravissima e sofferente Manuela, sempre più convincente. La song vive ancora di spettrali break atmosferici e quegli ormai consueti frangenti jazz che li avvicinano ai norvegesi Shining. Uno spettacolo, anche alla luce di un finale affidato allle delicate e soffuse melodie di "Xavernah Glory" che sanciscono le enormi potenzialità di questa compagine. Insomma, per me 'Palindrome' è una sorta di buy or die. Intesi? (Francesco Scarci)

lunedì 26 ottobre 2020

Nagaarum - Covid Diaries

#PER CHI AMA: Experimental Black, Fleurety
Il coronavirus non è stato solo fonte di dolore per la gente, ma anche di ispirazione. L'avevamo apprezzato qualche settimana fa con la triplice release dei Queen Elephantine, lo rivediamo oggi con questa uscita chiamata inequivocabilmente 'Covid Diaries', che arriva sei anni dopo quel 'Rabies Lyssa' che profetizzava l'arrivo di una pandemia nel 2019. A proporlo è un amico del Pozzo dei Dannati, ossia il musicista ungherese Nagaarum, uno che da queste parti ha bazzicato parecchio. Il nuovo disco, uscito per la Aesthetic Death, altra etichetta amica, consta di sei tracce. Si parte con l'inquietante epilogo di "Prelude for 2020", quasi a prepararci psicologicamente a questo funesto anno di morte. L'aria è pesantissima e rappresenta fedelmente, attraverso le sue nebulose atmosfere, questi folli mesi che stiamo vivendo. "The First Ingredients" sembra addirittura peggio, con un ambient noise davvero paranoico, quasi a descrivere quella sensazione di vuoto sperimentata durante il famigerato lockdown. Ecco, ho rivissuto quei terribili momenti di isolamento sociale patiti in primavera, quando la tempesta del malefico Covid si abbatteva sull'Europa. Fortunatamente, "Superstitious Remedy" somiglia maggiormente alla forma di una canzone, certo, di non facile digestione, ma pur sempre dotato di una musicalità ostica che trova comunque spiragli di melodia grazie anche all'apporto vocale di una gentil donzella, Betty V. "Competitors" è un dialogo surreale (ma interessante da seguire attraverso le liriche contenute nel cd) tra robotici vocalizzi di donna (e la voce narrante di un uomo) che in realtà rappresentano le voci dei personaggi Vera, Yersinia e Rosie, ossia la personificazione delle manifestazioni dell'epidemia. Più vicino alle passate produzioni di Nagaarum è invece un pezzo come "I Am Special", sospinto da un mix tra avantgarde, doom e depressive, in quanto di più orecchiabile si possa pretendere di ascoltare su questa release. L'ultimo pezzo è affidato alla lunghissima "Liquid Tomorrow", dove la voce narrante di Roland Szabó (amico del frontman magiaro) sembra chiudere in bellezza con un'ultima dose di positività e quelle nubi ancor più cupe che incombono sulla società. Musicalmente, la proposta del factotum ungherese ricalca qualcosa che apprezzai enormemente venticinque anni orsono, ossia il debut 'Min Tid Skal Komme' dei Fleurety, attraverso un black psichedelico davvero ispirato, ove ancora una volta, la voce di Betty V. dà il suo enorme contributo. Alla fine, 'Covid Diaries' è un album introverso, cupo, non certo un lavoro per tutti, ma lo consiglio di sicuro a chi ama la sperimentazione votata a esplorare i meandri più oscuri della psiche umana. (Francesco Scarci)

domenica 30 agosto 2020

Almach - Battle of Tours

#PER CHI AMA: Epic Black/Dungeon Synth
Quando c'è da vagare con la fantasia sono sempre il primo a farlo e cosi quando ho scoperto questo gruppo afgano (o presunto tale, le fregature qui sono sempre dietro l'angolo), mi sono lanciano al suo ascolto ed abbandonato la mia mente ai suoni contenuti in questo epico 'Battle of Tours', che dovrebbe evocare la Battaglia di Poitiers tra gli arabi-berberi e i franchi di Carlo Magno. Gli Almach sembrerebbero originari di Kabul, ma non si sa nulla di questa compagine, complice una nazione chiusa ad ogni forma di arte per cosi dire pagana, come può essere la musica. E allora, il mio consiglio è quello di immergervi nelle sognanti atmosfere dell'opening track "Abdul Rahman Al Ghafiqi", un pezzo che combina un black strumentale con il dungeon synth. Potrebbe essere una sorta di intro ma la sua lunga durata mi ha fatto pensare ad un brano vero e proprio. Le cose si fanno ancor più interessanti nella successiva traccia, quella che dà il titolo al disco, dove accanto alle caratteristiche descritte in apertura, compaiono anche pesanti influenze arabeggianti (a dir poco spettacolari) e fa capolino in sottofondo uno screaming leggero. Ampio spazio qui viene lasciato alle parti atmosferiche quasi si trattasse di un campo di battaglia dove a fronteggiarsi ci sono due invincibili eserciti. La musica si configura come un epic symph metal dove la presenza black è limitata esclusivamente ai rari vocalizzi estremi. "Blood Brother" è un pezzo interamente affidato alle tastiere, quasi una malinconica colonna sonora di un film durante una scena d'addio tra la bella fanciulla e il suo prode guerriero. Con "Temple of Old Gods" si riprende la strada del black atmosferico, sulla scia di Bal Sagoth e Summoning, ma in questo caso, la song non mi ha impressionato come le precedenti. Fortunatamente con "Sons Of Umayya" torno a respirare l'atmosfera delle popolazioni berbere con una chitarra orientaleggiante e la presenza della voce di una gentil donzella. È proprio in questi momenti che apprezzo notevolmente la proposta degli Almach per la loro capacità di catapultarci in un'altra epoca, in un altro luogo, sfoderando semplicemente la seducente arma della tradizione musicale araba o lo splendido intermezzo atmosferico che ancora una volta sembrerebbe essere quello di una cinematografica soundtrack. In chiusura l'ultima gemma, "Yamrā", uno splendido esempio di fantasy ambient che riflette i valori di questo sorprendente 'Battle of Tours'. (Francesco Scarci)

venerdì 28 agosto 2020

Iiah - Terra

#PER CHI AMA: Post-Rock
Formatisi nel 2013 in quel di Adelaide, gli Iiah sono un quintetto dedito ad un fluttuante post-rock cinematico, fatto di catartici momenti ambient impreziositi da ottime linee di chitarra. Questo è almeno quello che ci dice "Eclipse", la song che segue a ruota la strumentale ed ipnotica opening track di questo 'Terra', secondo album per la band australiana."Eclipse" è un dolce affresco musicale guidato dai gentili tocchi di chitarra del duo formato da Ben Twartz e Nick Rivett (anche se in realtà pure il vocalist Tim Day si occupa di chitarra e tastiere). Il risultato che ne consegue è il classico post-rock senza particolari sussulti e che anche nella seconda traccia si conferma strumentale. E allora attendiamo di sentire la terza "Aphelion" per capire su quale modulazione si attestano le corde vocali del frontman e comprendere qualcosina in più dei nostri, che musicalmente potrebbero essere collocabili a fianco di formazioni tipo This Will Destroy You, We Lost the Sea o Sleepmakeswaves. La voce di Tim ha una buona timbrica (evocante il cantante degli Anathema) e in questo caso viene raddoppiata dalla voce soave collocata più in sottofondo, di Maggie Rutjens. Il risultato è suggestivo, quanto meno rilassante e ben si adatta con la melodia e le ritmiche sul finale più crescenti. "Sleep" prosegue il mood rilassato abbracciato dalla band che ricorda in un qualche modo le sonorità sognanti dei Sigur Rós, il problema semmai è che alla lunga rischi di divenire troppo ridondante e noioso e la tentazione a skippare al brano successivo si fa più forte che mai. E qui arriviamo a "20.9%", oltre nove minuti di musica che o mi danno una poderosa carica per risvegliarmi o mi spingono definitivamente verso le braccia di Morfeo. Fortunatamente, le chitarre in tremolo picking che esplodono quasi all'inizio del brano, mi fanno propendere per la prima soluzione, facendomi apprezzare le buone linee melodiche imbastite dai nostri, che rimangono tuttavia incellophanate in strutture un po' troppo limitate, senza mai tentare un vero e proprio azzardo musicale. Forse risiede qui il vero limite della band che per quanto sia piacevole, alla lunga stufa perchè privo di un vero e proprio guizzo vincente. Rimangono ancora da ascoltare le conclusive "Luminescence", morbida ma ancor priva di mordente, sebbene nella seconda parte si dia maggior risalto alle chitarre. In "Displacement" ricompaiono le voci in un background musicale fortemente malinconico che trova qualche spunto interessante nella seconda parte che ricorda nuovamente gli Anathema più emotivamente disperati, ma che comunque la elegge a mio brano preferito. L'ultima song è la lunghissima "Lambda", 13 minuti che si aprono con la tribalità del drumming e prosegue all'insegna di un post-rock sognante, emotivamente votato ad una straziante malinconia e che risolleva decisamente le sorti di un disco che nella prima metà stentava davvero a decollare. Sicuramente un passo indietro rispetto al disco d'esordio, ma sono certo che in futuro gli Iiah sapranno rifarsi. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2020)
Voto: 68

https://iiah.bandcamp.com/album/terra

Axis of Perdition - Deleted Scenes from the Transition Hospital

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black Ambient
Gli Axis of Perdition in questa release riprendono la storia di un personaggio solitario imprigionato e condannato a vagare per l'oscuro labirinto del Transition Hospital, e guidato inesorabilmente verso il proprio e definitivo terrore rivelatore (tema già trattato nel MCD 'Physical Illucinations'). Ecco, riassunto in poche righe il concept che si cela dietro 'Deleted Scenes from the Transition Hospital', un viaggio all’interno dei meandri post apocalittici della band inglese. Potete quindi ben immaginare cosa la band ci riservi in questo disco: atmosfere al limite della rarefazione, ambientazioni dark, chitarre incorporee e sinistre in strutture disarmoniche, un cantato catartico e pieno di dolore. Questi sono gli Axis of Perdition, quattro ragazzi capaci di suggestionare la mente di chi li ascolta con pure visioni misantropiche. Gli otto brani inclusi in questo lavoro che risale ormai al 2005 riescono ad infondere una tale angoscia da dover sospendere ogni tanto l’ascolto, perchè in debito d’ossigeno. Sono oscuri, malvagi e apocalittici, capaci di frastornarci con suoni che nascono dall’ambiente urbano e poi integrati nella loro dimensione più mostruosa. Distorsioni, rumori, crepitii, rallentamenti ipnotici, terrificanti grida, gelano il sangue nelle mie vene. Se quest’album lo ascolterete di notte, nel buio della vostra camera, vi garantisco che sarete poi costretti a dormire con la luce accesa. Gli Axis of Perdition riescono a stupirci anche con un inserto jazz nel terzo brano “Pendulum Prey” e altre trovate d’effetto, sparse qua e là nell’album. Questa non è musica ma un incubo sonoro. (Francesco Scarci)