Cerca nel blog

mercoledì 21 marzo 2018

Colonnelli - Come Dio Comanda

#PER CHI AMA: Thrash/Groove, IN.SI.DIA
Dopo il successo rimediato (anche su queste pagine) nel 2015 con il debutto 'Verrà la Morte e avrà i Tuoi Occhi', tornano i toscani Colonnelli con un altro potentissimo esempio di thrash arricchito di groove come in Italia siamo soliti produrre. Questo in soldoni 'Come Dio Comanda' (chissà se ci sono poi delle interconnessioni con il libro omonimo di Ammaniti o il film di Salvadores): 11 tiratissimi pezzi a cavallo tra il sound dei nostrani IN.SI.DIA e quello prodotto nella Bay Area da tizi del calibro di Testament e ultimi Metallica, tanto per citare un paio di nomi a caso. Parte la brevissima intro ed è già tempo delle ritmiche infuocate di "Amleto", song che non arriva nemmeno ai tre minuti ma che ha quella giusta tensione per tirarti dentro al vortice creato dai tre ragazzoni di Grosseto che, sfruttando l'utilizzo della lingua italica, hanno di sicuro parecchio appeal all'interno dei confini nazionali. Sfibrato dal primo assalto, ecco giungere la title track, grossa e incazzata a livello ritmico ma con l'approccio vocale che a me continua a ricordare i bresciani IN.SI.DIA. Non male i cori, ancor meglio la caustica componente solistica, peccato solo per la durata esigua inferta dalle acuminate sei corde. La scelta di offrire pezzi di breve durata riguarda un po' tutti i brani: dai tre minuti scarsi della dinamitarda "V.M. 18", ai tre e mezzo della più ritmata "Festa Mesta" (peraltro cover dei Marlene Kuntz, ormai datata 1994) che è stata peraltro il singolo apripista dell'album, lo scorso agosto 2017. Una sola eccezione per ciò che concerne le durate, quella della conclusiva "Lochness", che in ben oltre otto minuti, mostra una veste inizialmente più controllata e decisamente alternativa per Leo Colonnelli e soci, ma che poi si lancia in una coda assai feroce che trova un punto di interruzione in una trentina di secondi che precedono una sorta di ghost track autocelebrativa. Mi fa sorridere la scelta di alcuni titoli dei brani: "Sangue ad Alti Ottani" ad esempio, dove il testo recita "ho bisogno di te sabato sera per picchiarti a sangue o macchiar le lenzuola", in un qualche modo mi riporta indietro di una buona ventina d'anni. Ancora, "Demoni e Viscere" o "Il Blues del Macellaio" denotano una certa originalità e ricercatezza a livello di liriche. La musica continua poi con quel suo sostrato thrash metal, su cui si stagliano virate di tempi, rasoiate solistiche e ritornelli ruffiani, per un album che alla fine sembra suonare senza tempo. (Francesco Scarci)

((R)esisto Distribuzione - 2018)
Voto: 75

https://www.facebook.com/ICOLONNELLI/

martedì 20 marzo 2018

Meteor Chasma – A Monkey Into Space

#PER CHI AMA: Stoner, Kyuss
Il passaggio dalla lingua italiana alla lingua inglese ha giovato molto alla band potentina dei Meteor Chasma, che si presenta con un lavoro adulto e credibile, 'A Monkey Into Space', uscito nel 2017 e distribuito dalla Music for People, un album potente, psichedelico e dal suono praticamente perfetto per la materia musicale in questione, ossia il buon vecchio stoner rock, quello della prima era, quello degli anni novanta/primi anni duemila. Le chitarre caricate di bassi, la voce roca e vissuta che richiama gli Spiritual Beggars con Spice alla voce, gli ammiccamenti ai Kyuss in "Spacetime", e gli echi dei Desert Session ed Orange Goblin, la psichedelia alla maniera dei Pink Floyd in "Ride a Meteor", le cadenze blues pesanti come massi (a ricordare il primo superbo album dei Grand Magus), ricordando anche un che di 'Jalamanta' del buon Brant Bjork per i temi trattati a sfondo cosmico e spaziale e i tanti rimandi allo stoner più sanguigno e ruvido infestato da correnti di fluida psichedelia, fanno di questo disco una sorta di enciclopedia del genere in formato tascabile. Un lavoro ragionato e ricercato, studiato ad effetto in tutti i suoi particolari per estrapolarne il suono perfetto, ovviamente derivativo e poco originale ma decisamente sopra la media, direi vicino all'intensità sonora dei capiscuola. Una band che ha fatto passi da gigante rispetto al primo EP cantato in lingua madre, che merita rispetto per l'impegno dato e la caparbietà con cui ha voluto calcare i passi delle migliori stoner band, riuscendoci pure, un trio che può dare tanto all'underground italiano, ricercando una propria veste ancor più originale in questo genere musicale. L'album non cade mai di tono e si ascolta tutto d'un fiato ad alto volume, peccato per un artwork che non rispecchia precisamente il tipo di psichedelia pesante che la band suona. Un lavoro comunque contagioso, un disco che fa venir voglia di tornare a scoprire le radici dello stoner rock. L'ascolto di 'A Monkey Into Space' è come minimo consigliato, non vi deluderà! (Bob Stoner)

(Music for People/GoDown Music - 2017)
Voto: 75

https://meteorchasma.bandcamp.com/album/a-monkey-into-space

lunedì 19 marzo 2018

Suffer in Paradise - Ephemere

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Evoken
E se anche il paradiso può essere visto come luogo di sofferenza, allora qualcosa di malato dietro a questi russi Suffer in Paradise ci deve pur essere. 'Ephemere' è il secondo album rilasciato dal combo di Voronezh dal 2014 a oggi, quando si sono riformati per la seconda volta, dopo un primo scioglimento tra il 2010 e il 2014 appunto. Il genere di cui si fanno portatori è, manco a farlo apposta, quello del funeral doom, d'altro canto stiamo parlando di una band sotto contratto con la Endless Winter. Pertanto, negli oltre 60 minuti a disposizione, diluiti su sei vere tracce (c'è anche una breve outro), i quattro musicisti si lanciano in inni votati alla disperazione umana. L'opener, nonché title track dell'album, è un tunnel infinito senza fine, dove nemmeno il classico lumicino di speranza è dato al condannato a morte. Una song sfiancante che, pur non viaggiando su toni pesanti, affida tutto il suo essere estremamente opprimente, ad una forte componente atmosferica che trafigge l'anima, grazie ad un incedere cosi lento e deprimente, che mi lascia affranto senza parole. E l'aria asfissiante in stile Evoken non ci abbandona nemmeno nella seconda "My Pillory", dove anzi l'ambientazione si fa ancor più cupa, con un riffing appena accennato, un break corale, in cui sembra il coro di angeli depressi a prendersi la scena, ed infine il classico growling primordiale. Poi sono i tipici cliché a palesarsi: l'immancabile organo da chiesa, la tipica aura funeral e qualche break acustico che ci permette di emergere almeno per alcuni secondi dalle tenebre più profonde. Addirittura una sorta di assolo chiude una canzone che risuona come un invito alla cessazione della vita. L'inizio di "The Swan Song of Hope" si offre con più eleganza almeno fino a quando rientra in scena il growling possente di A.V. in una song sicuramente tanto maestosa quanto ridondante a livello ritmico che lentamente cresce d'intensità, di potenza, di personalità in un finale da brividi che trova modo di rompere anche le strutture compassate del funeral doom con raffinate partiture ritmico melodiche. Si ripiomba comunque nelle viscere del mostro con "The Wheels of Fate", un altro pezzo all'insegna della monoliticità di fondo di un suono coerente dall'inizio alla fine. Un muro di cemento contro cui scontrarsi e dove lasciare la nostra vita ormai privata di ogni significato. Un pianoforte apre la catacombale "The Bone Garden" che, a parte palesare una certa debolezza a livello del drumming a causa di una programmazione troppo sintetica, si dilunga in aperture di strumenti ad arco che ne enfatizzano il pathos drammatico. Ancora suoni a rallentatore con "Call Me to the Dark Side", l'ultima marcetta funebre di quasi dodici minuti a cui seguono a ruota i due di outro che chiudono un album a dir poco oscuro e pachidermico, ma alla fine, sicuramente estenuante. Only the braves! (Francesco Scarci)

(Endless Winter - 2017)
Voto: 70

https://sufferinparadise.bandcamp.com/

venerdì 16 marzo 2018

Ghâsh - Goat

#PER CHI AMA: Blackgaze/Post Rock
Altra one-man-band proveniente dal Cile, questa volta capitanata da Mr. Ghâsh, che con il suo progetto omonimo, assicura i propri servigi per la cannibale Pest Productions. Come spesso capita, le produzioni della potente etichetta cinese, sono all'insegna di suoni depressive e blackgaze, che viaggiano a cavallo tra black e post-rock. E la band di oggi, originaria della capitale cilena, non è da meno, con un lavoro di sei deliziosi pezzi, che ci guidano da 'Fenix" fino alla conclusiva "Goat", attraverso chiaroscuri malinconici, luci e ombre, saliscendi emotivi, torrenziali flussi sonici e cascate melodiche. Il tutto è guidato da splendide chitarre in tremolo picking, screaming vocali, tonnellate di riverberi e montagne di atmosfere catalizzatrici una straziante malinconia interiore, quella che fa versare lacrime quando pensi a ricordi mai assopiti, ad amori andati o a persone care perdute. Ecco cosa mi ha portato l'ascolto di 'Goat', un breve gioiellino di musica che non ha le pretese di colpire per la sua perizia tecnica o le acrobazie musicali dei suoi esecutori, ma semplicemente vuole arrivare dritta al cuore, sfruttare quella sua intensità e colpirci nel nostro punto più debole, l'anima. E là, conquistarci. Dite poco? Ghâsh con me ci è riuscito. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2017)
Voto: 80

https://pestproductions.bandcamp.com/album/goat

giovedì 15 marzo 2018

Oregon Trail - H/aven

#PER CHI AMA: Post-Hardcore
Da Neuchâtel, la città più felice della Svizzera, ecco arrivare gli Oregon Trail, fuori per la Czar of Bullets, con un lavoro dedito ad un post-hardcore, aspro ed incazzato. 'H/aven', il titolo di questo loro secondo album (compare anche uno split nella loro discografia), include otto pezzi che irrompono con l'energica "Sun Gone Missing", song dalla lineare andatura punk, contraddistinta da una voce rabbiosa e soprattutto da delle melodie assai intriganti. Quasi quattro minuti che ci accompagnano a "Aimless at Last", in cui l'atmosfera si fa più cupa, e in cui il ruolo di assoluta protagonista se la prende la voce di Charles A. Bernhard, anche chitarrista che insieme a Jonas Roesti, si lanciano in lunghe fughe in tremolo picking, in grado di donare quel mood malinconico all'intero lavoro. Più tranquilla l'introduzione che ci porta al cuore di "Everlasting Walks", un'altra traccia che rivela l'anima inquieta del quartetto svizzero e che mostra l'abilità alle pelli del bravo Arnaud Martin. Non vorrei non menzionare anche il lavoro oscuro in sottofondo del bassista Antoine Dollat, sempre preciso e tonante nelle sue linee di accompagnamento alle due asce. I nostri devono essere comunque dei timidoni, aprendo ogni brano con una certa contemplazione, prima di esplodere in brani più arrembanti: non è da meno anche "Aven", che forse prolunga per più tempo la fase onirico/riflessiva prima di deflagrare in modo ancor più eruttivo, tutta la propria rabbia repressa in un finale incandescente. "Safety of the Storm" ha un carattere diverso, più feroce inizialmente, più tranquilla nella parte centrale al limite del post-rock, ma si capisce subito che quel momento di falsa atmosfera non è altro che la classica quiete prima della tempesta che da li a pochi secondi si abbatterà sulle nostre teste. La furia non si placa, sembra anzi trovare spazio per risuonare ancor più aggressiva degli episodi precedenti: "Hound's Will" prima, ancor di più "Candles" e la stralunatissima e doomish "Marble Grounds", sono pezzi in cui si fondono punk, sludge e post-hardcore, ma in cui si guarda anche a band quali i Deafheaven come potenziale esempio grazie all'utilizzo delle classiche sgaloppate post-black. Acidissimi. (Francesco Scarci)

(Czar of Bullets - 2018)
Voto: 70

The Negative Bias - Lamentation of the Chaos Omega

#FOR FANS OF: Atmospheric Black
The Negative Bias is a rather young Austrian band formed in 2016. The band´s core is formed by only three members who are I.F.S (Wallachia and Rauhnåcht), S.T (Golden Dawn) and Florian Musil, but it’s completed by other four members during their live performances. The band´s lyrics are based on the cosmic mysticism, the abysmal darkness of the space and the coexistence between creation and death. Only one year from its inception, the band was able to release a first album entitled 'Lamentation of the Chaos Omega', with a quite eye-catching album artwork. I did like it because it’s a perfect visual representation of the aforementioned band´s conceptual inspiration.

Music wise The Negative Bias could be tagged as atmospheric black metal, but with a quite straightforward approach like the album opener “The Golden Key to a Pandemonium Kingdom” shows us. The guitar lines play a major role, always accompanied by a pretty solid and fast rhythmic section. The first half of the album follows a similar style: long songs with pretty long fast sections with a couple of tempo changes. The length of songs is pretty homogeneous with the exception of the third track, which is a quite short song. This track also differs a little bit from the rest of the compositions, due to the more distorted nature of the main riff. The vocals are the strongest aspect of this album though. I.F.S. achieves a quite strong vocal performance which varies from death metal esque vocals to a more “blackish” shrieks. I personally find the second half of the album the most interesting one, mainly because songs like “The Undisclosed Universe of Atrocities”, have a greater variety. This track has several twits and interesting riffs, besides some atmospheric sections which make it the best song of the cd. The album contains a purely atmospheric track which fails to enhance the album´s atmosphere due to its excessively lengthy duration. It has some good moments but it should have been shorter.

In conclusion, The Negative Bias first release is a decent album with some good moments, but I believe that it fails to represent the incommensurable darkness of the concept behind their music. What is more, when you take a look to the artwork you expect an album much darker than it really is. A good start for sure, but still with a great room to improve. (Alain González Artola)

(ATMF - 2017)
Score: 65

martedì 13 marzo 2018

Aikira - Light Cut

#PER CHI AMA: Instrumental Post Metal/Post Rock
Il post rock italico va a gonfie vele: a casa nostra abbiamo leve di caratura ormai internazionale, e penso ai Thank U for Smoking, ai Valerian Swing che si aggiungono a band più borderline quali Klimt 1918 e Sparkle in Grey, giusto per citare qualche gruppo a caso. Vorrei aggiungere un altro nome a quelli appena citati, un nome che pian piano sta venendo fuori, soprattutto dopo aver rilasciato il nuovissimo 'Light Cut'. Sto parlando dei marchigiano/abruzzesi Aikira, nati inizialmente come side project di Fango e di El Kote, rispettivamente chitarra e batteria degli hardcorers Vibratacore, per soddisfare i loro impulsi più onirico-intimisti. E proprio per dar voce al bisogno di dilatare quanto più possibile la loro musica, pur mantenendo in seno una forte dose di aggressività, ecco completarsi la line-up con Andrea alla chitarra e, dopo una serie infinita di avvicendamenti, Lorenzo al basso (ma nel disco suona Giuseppe Pirozzi), per una formazione strumentale dedita ad un post-metal con venature post rock, che si traduce a distanza di quattro anni dal precedente album omonimo, in questo secondo capitolo. L'album si apre con la nervosissima ritmica di "Etera", altalenante nel suo incedere tra ritmiche frenetiche e gelidi fraseggi di chiara estrazione post rock, tra richiami sognanti, tunnel psichedelici e frangenti malinconici che ci conducono alla più roboante "Yonaguni", una song che parte con una serrattissima anima post black che palesa un'irrequietezza di fondo che agita il quartetto. Per fortuna nostra, la furia distruttiva che catalizza l'attenzione nei primi secondi della canzone, lascia posto a suoni che sottolineano ancora una volta l'inquietudine che imperversa nei solchi di questa release, tra suoni discordanti, momenti atmosferici e riverberi che mi consentono di non avvertire l'assenza di un cantato, mostrando pertanto la personalità ben delineata dei nostri. L'incipit oscuro di "Vantablack", unito ad una ritmica angosciante, mi regala attimi di grande fascinazione, dove vorrei sottolineare la performance di basso e batteria su tutto il resto. "Voyager" è un brano meno sperimentale che vanta tuttavia robuste linee di chitarra e atmosfere sagaci. "Elemental 3327" è invece un breve intermezzo che vede la partecipazione di Davide Grotta, responsabile della registrazione del disco, in veste di guest star al pianoforte (lo troveremo anche nella tenebrosa conclusione di "Elemental 06", dove si diletterà col theremin). Con "Drive", l'ambientazione si fa più soffusa, rilassante ma non troppo, perchè l'aria da li a poco, si renderà più pesante e cupa, con suoni che richiamano quei landscape sonori desolati assai cari ai Cult of Luna. I quasi nove minuti catartici di "Something Escapes", oltre ad avere un lungo incipit in bilico tra suoni ipnotici e space rock, vedono una seconda ospitata, ossia la voce sussurrata di Emanuela Valiante, ad aumentare, quasi ce ne fosse bisogno, lo stato di alterazione emozionale generata dai suoni liquidi ed alieni rilasciato dai quattro musicisti. Nel frattempo arrivo ad "Alan", penultima song di un album sempre ricercato nelle sue strutture e melodie, un disco che necessita sicuramente di svariati ascolti prima di poter essere masticato al meglio, in quanto le sperimentazioni soniche unite alle contaminazioni noisy e droniche dell'album, lo rendono un lavoro di classe e grande speranza per far uscire definitivamente la musica italiana dai ristretti confini nazionali. Ultima menzione per il mixing affidato ad Enrico Baraldi (bassista degli Ornaments) presso il Waiting Room Studio di Bologna, a sancire l'eccelsa di quest'ennesimo prodotto made in Italy. (Francesco Scarci)

Martin Nonstatic - Ligand

#PER CHI AMA: Ambient/Elettronica
Martin Nonstatic è un artista sofisticato, ma non lo scopriamo certo oggi, avendo già recensito un paio di suoi album. In tutti i suoi lavori di musica d'ambiente riesce a far esplodere un oceano di emozioni nell'ascoltatore. Emozioni di varia natura che convergono tutte con la voglia di ritagliarsi uno spazio etereo in cui poter sentirsi vivi. Così, i bassi ben tarati e mai invadenti, l'incedere lento della miriade di rumori e ronzii che vagano perenni tra i brani, si fondono a synth vintage e ultramoderni, tra suoni alla Tangerine Dream e un Eno raggelato da correnti di suoni freddi e crepuscolari, tanto elettronici, che ti soffiano in faccia una sospesa e rigenerante armonia futurista, una tecno a rallentatore di origine teutonica che, come lo stupendo artwork, ci proietta in un mondo incantato, invernale, fatto di lenti movimenti, estasi e momenti di velata malinconia. L'ora in cui si srotola il cd sembra infinita e l'album sembra una lunga colonna sonora che ci porterà in un sogno che ci donerà riflessione ma anche l'illusione di essere stati liberi almeno mentalmente durante il suo ascolto. La media delle composizioni è lunga perciò si raccomanda un posto isolato ed intimo, ottimo per viaggiare in macchina di sera, in solitudine a riordinare le idee. "Ligand" è il brano che mi ha colpito di più per la qualità del suono e l'infinità di rumori che ne determinano il ritmo minimale e frastagliato, un brano fantastico anche per l'uso diverso e frantumato dei synth, che per qualche strana alchimia, mi ricorda certa new wave sperimentale dei tempi d'oro. Sempre supportato dalla Ultimae Records (uscito nel novembre del 2017), il nuovo disco di Martin si presenta divinamente, come di consuetudine per la casa francese, ricalcando la tipica filosofia ambient elettronica dal leggero sentore sperimentale, carica di suggestioni cinematiche, musica per umani dal cuore puro che dialogano con il mondo digitale, nel tentativo di immaginare una natura incontaminata che li possa ancora accogliere. Una vera e propria fuga dalla realtà, solo così posso definire "Dendrictic Ice" e l'intera opera, un'estensione dell'infinito. Immancabile il suo legame con l'astrologia/astronomia ("Kepler's Law") e la biochimica con la song che dà il titolo all'album. Un ricercatore sonoro d'altri tempi. Un ascolto consigliato. (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2017)
Voto: 85

https://ultimae.bandcamp.com/album/ligand

Laconic Zero - Sun To Death

#PER CHI AMA: Industrial/Electronoise/8-bit/Djent
“Chi vuole recensire un disco programmato col Commodore 64?”. Ovviamente: io! Premo play ma ho già la bava alla bocca, perché adoro la musica folle e perché sono un nerd che ha vissuto a pieno l’esplosione informatica degli anni ’80. Alcune coordinate per capire i Laconic Zero: ogni singolo bit è pensato, scritto e suonato dal norvegese Trond Jensen — già chitarrista e bassista dei Next Life e dei Mindy Misty — che aveva esordito come Laconic Zero la bellezza di 11 anni, fa con l’applaudito 'Tribeca'. Questo secondo lavoro, 'Sun To Death', è un viaggio mesmerizzante di poco meno di mezz’ora, suddiviso in 11 movimenti che raramente superano i 3 minuti l’uno. Poca roba? Aspettate a dirlo. Ogni brano è un condensato multilivello di follia strumentale come non ne sentivo da parecchio, una supernova di bassi distorti, synth gorgoglianti e un tessuto fittissimo di casse, rullanti, percussioni e beat con quel sapore vintage che solo una programmazione old-school in 8 bit è in grado di dare. I primi 10 secondi della opening “Evoke Heat” sono già una dichiarazione di guerra, con quei blast-beat (o dovremmo dire blast-bit?) spietati e quel 6/8 ripetuto all’infinito tra crescendo e calando. “Gladeflicker” ha il sapore dei Ministry sotto acido, sorretto com’è da un synth giocattolo e un basso gorgogliante di distorsione. Reggetevi forte ai vostri neuroni quando entra l’arpeggiator in “Inborn Eclipse”, perché potrebbero scivolarvi tra le dita. Se la coppia “Infractor” e “Into The Plasma” lasciano respirare tra strings lunghi e ipnosi noise, è solo per prendervi nuovamente a pugni in faccia con la velocissima “Diamond Crash” (ah, se gli Shining di 'Blackjazz' fossero nati negli anni ’80!) o la finale “The Sun To Death”, che sembrano i Nine Inch Nails suonati da Super Mario Bros. Non vi spaventi il solo apparente sapore midi dei suoni: non c’è nulla che sappia di antico o vintage, qui. La mente di Trond Jensen è un vero labirinto di metal modernissimo e industrial death, e questo 'Sun To Death' è un inno alla violenza elettronica suonata con cuore, anima e testa, prima ancora che con super produzioni e tecnologie contemporanee. (Stefano Torregrossa)

(Handmade Records - 2018)
Voto: 80

https://www.facebook.com/laconiczero

domenica 11 marzo 2018

Black Sin - Solitude Éternelle

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Shining, Burzum
I Black Sin sono un quartetto francese, formato da membri di Cult of Erinyes, Imber Luminis e Deluge, che dopo aver rilasciato lo scorso anno questo 'Solitude Éternelle', ha pensato bene di sciogliersi. Ora, non conosco le cause che hanno portato allo split della band, tuttavia posso solo sottolineare ombre e luci della proposta suicidal black dei quattro musicisti transalpini. Il disco si apre con un'intro a base di urla disperate e ritmica caotica che preannuncia l'arrivo di "Lente Descente", una traccia che evidenzia il lineare quanto elementare approccio black dei nostri, nelle cui allegre scorribande, mi sembra di captare una certa influenza punk. La musica dell'act occitano, sebbene la sua primitiva irruenza, ha comunque qualcosa di interessante nelle sue note che evocano un che dei pazzi suicidi Shining (quelli svedesi mi raccomando). Il riffing è quanto meno accattivante anche nelle sue improvvise accelerazioni e frenate, mentre lo screaming arcigno e sconsolato del vocalist, alla fine risulterà estremamente convincente nella sua performance. Più altalenante la terza "Dévastation", in cui le ispirazioni per i nostri sembrano provenire da gente tipo Lifelover e dalle forme più doomish degli Shining. Niente affatto male le linee di chitarra, cosi come i break acustici, da dimenticare invece le ritmiche punkeggianti sul finire della song. Le chitarre burzumiane di "Derniers Instants de Vie", mi riportano indietro di quasi 25 anni quando sulla scena si affacciavano gli album 'Det Som Engang Var' e 'Hvis Lyset Tar Oss'. Ecco direi, fuori tempo massimo e forse proprio in questo risiedono le ombre dei Black Sin che vengono però spazzate via da quelli che sembrano quasi degli assoli (ma non lo sono) che incrementano invece la componente atmosferico-emotiva del disco e che in questa traccia, identificherei in ben due momenti di catalizzazione massima della mia attenzione. Se "K.A.H.R II" suona un po' meno convincente, troppo dritta e scontata, il giochino di chitarre quasi sul finire, sembra risollevarne le sorti, almeno parzialmente. "Cendres" è una mazzata in pieno volto di incandescente musica black: dieci minuti tra serratissime sfuriate black, rallentamenti depressive, bridge armonici e udite udite, addirittura anche la triste melodia di un sax che trasmette il giusto mood autolesionista al brano. Peccato solo che col pezzo successivo, il decadente romanticismo svanisca del tutto e si torni a viaggiare a velocità infernali giusto per dimostrare quanto la band abbia una certa dimesticazza anche su ritmiche tiratissime. Ecco cosa significava quando parlavo di luci ed ombre. I Black Sin se si fossero focalizzati maggiormente sul genere depressive black metal, forse avrebbero reso oltre ogni più rosea aspettativa. In territori esclusivamente black, finiscono nell'infinito calderone delle band dedite alla fiamma nera. Meno male che si ritirano su con la conclusiva title track che ci riporta nei meandri della solitudine e della disperazione, per gli ultimi sei minuti di passione targata Black Sin. Altalenanti. (Francesco Scarci)

(Black Pandemie Productions - 2017)
Voto: 65

https://www.facebook.com/blacksin88/

Fleet Foxes - Crack-up

#PER CHI AMA: Neofolk/Rock
Le velleità letterarie di Robin Pecknold, recentemente suggellate da una laurea in lettere conseguita presso la occhialuto-hipsterosissima Columbia University, si concretizzano mirabilmente nelle tortuose eppure conturbanti liriche dell'album. Sottomissione e misoginia ("- Naiads, Cassiades"), la insensata iperviolenza urbana di "Cassius" (l'assassinio di Alton Sterlin, avvenuto il 5 luglio del 2016 è ricondotto al complotto di Cassio nei confronti di Giulio Cesare in un modo che non potrà non ricordarvi certi recenti sforzi tecnopop degli Ulver), la coraggiosa riconsiderazione di sé ("I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar", una canzone gioviale, nelle parole dello stesso R-P, ma anche l'allegoria malinconica di Mearcstapa), o dei propri rapporti interpersonali ("Third of May / Ōdaigahara" ma anche la successiva "If You Need to, Keep Time on Me"). Progressivamente scoscesi fino all'inaccessibilità i suoni, dove il folk regredisce a mero substrato, quasi una sorta di pretesto di lusso per dipingere impressioni sonore di inoppugnabile e distante alterità. Pensate ai dettagli: ai grappoli di note vagamente percepibili in "Kept Woman", alle digressioni casualmente progressive di "Mearcstapa", alle tinte melodrammatiche di "Third of May / Ōdaigahara", a certe improvvise (dis)orchestrazioni new-björkesi (la title track e nuovamente la “gioviale” opening track "I.A.A.T.I.N. / A.S. / T.C."). Alla distanza interposta tra sé e i Fleet Foxes che conoscevate, intenzionalmente oggettivata in canzoni come "Fool's Errand". La medesima sensazione che provaste ascoltando i Talk Talk di 'Spirit of Eden' dopo quelli di 'The Colour of Spring', i Pink Floyd di 'The Final Cut' dopo quelli di 'The Wall', o ancora i Radiohead di 'Kid A' dopo quelli di 'OK Computer'. Ehi, che diamine vi succede? Vi sentite bene? (Alberto Calorosi)

(Nonesuch Records - 2017)
Voto: 75

http://fleetfoxes.co/crack-up

sabato 10 marzo 2018

Blueriver – Waiting for the Sunshine

#PER CHI AMA: Country Rock, Buffalo Tom
La Music for People alimenta il braciere del rock promuovendo (è uscito nel settembre 2017) il primo EP ufficiale di questa band proveniente dalla provincia di Lecco, pubblicato in precedenza dal gruppo autoprodotto nel 2015. Le quattro cavalcate elettriche scorrono veloci, aggraziate da una verve brillante e una buona dose di tecnica musicale, il suono è in carreggiata con band di grossa rilevanza, tra Buffalo Tom e Grant Lee Buffalo e devo ammettere che l'iniziale "You and Me" gioca la sua carta emozionale nel migliore dei modi portando alla mente un po' di quel sogno americano pieno di libertà e strade polverose da macinare. La title track, "Waiting for the Sunshine", porta con sè ottime linee vocali a stelle e a strisce, dove si sente tutto l'allinearsi dei Blueriver con i mitici Buffalo Tom e se non fosse per una registrazione assai buona, ma non troppo per gli standard yankee e anche non così calda come dovrebbe, in più momenti in quest'album, si sarebbe potuto gridare al miracolo. Ottima l'interpretazione vocale e i ricami chitarristici, che aprono le composizioni con un suono cristallino e aggressivo al tempo stesso, buone le scelte ritmiche, la varietà delle canzoni che pur rimanendo saldamente ancorate ad un genere molto classico, dall'impianto tipico del cantautorato rock, si muovono libere e per certi aspetti anche originali. Ripeto ancora che con una scaldata ulteriore al sound in direzione Drive-By Truckers sarebbe stato perfetto. Buon debutto ufficiale, attendiamo notizie per un full length con i fiocchi! (Bob Stoner)

(Music for People/GoDown Records - 2017)
Voto: 70

https://blueriverockband.bandcamp.com/releases