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martedì 23 maggio 2017

Kavorka - EP

#PER CHI AMA: Stoner/Sludge, Entombed
Abbiamo parlato qualche settimana fa di una band islandese, i Moldun, che erano apparsi nel primo episodio della serie televisa 'Fortitude'. Ora, da una loro costola (e da una costola degli Embrace the Plague), ecco arrivare questi Kavorka che ci propongono il loro EP (in uscita esclusivamente digitale) costituito da quattro pezzi di suoni dannatamente sporchi di fango, un mix tra stoner e sludge che si concretizza immediatamente con "Juggernaut", prima traccia di questo dischetto. Riffoni di rock duro in sottofondo e una voce urlata che si prende tutta la scena della opening track, che ci riporta indietro nel tempo di una trentina d'anni. "Great Peril" è un po' più lanciata, abrasiva quanto basta sia a livello strumentale che vocale, con un mood evocante gli Entombed di 'Wolverine Blues' e una ruvidezza generale che ricorda le gesta di quel lavoro memorabile. I quattro islandesi spaccano non poco, pur non pestando mai eccessivamente sull'acceleratore, anche se devo ammettere che mi disturba non poco che la voce di Haukur offuschi cosi tanto la performance degli altri strumentisti, soffocando completamente la musicalità dell'intero lavoro. "Hindsight 20/20" ha un andamento più melmoso, pur mantenendo inalterato lo spirito stoner hard rock, grazie ai suoi giri di chitarra catramosi; niente male pure il break a metà brano affidato a basso e batteria, con le chitarre che seguono in un secondo momento. A chiudere l'EP, ecco risuonare nel mio impianto "Zombiesque", una sorta di tributo ai Motorhead. Insomma, il dischetto è piacevole per un ascolto non troppo impegnato all'insegna di un sound sporco e cattivo, ma sempre decisamente hard rock. I nostri stanno scrivendo le tracce per il loro full-length, quindi antenne alzate. (Francesco Scarci)

By'ce - Reset to Zero

#PER CHI AMA: Rock Progressive, Porcupine Tree
Album particolare e strano questo dei francesi By'ce, che racchiude variegate e tortuose strade del labirinto prog rock/metal, riviste in una veste abbastanza personale. Il risultato è un disco che si fa ascoltare fino alla fine senza mai sfigurare, anche se a volte, i punti di riferimento musicali emergono un po' troppo, come nel caso di "You Must Hang On", dove la composizione fin dalla prima nota, sembra essere rubata ai Pink Floyd, e se aggiungiamo la leggerezza di un certo prog rock alla Porcupine Tree e quell'anima metal con cui Tony Iommi creò il controverso e geniale 'Seven Star' nel lontano 1986, ne escono pezzi sognanti, malinconici ed epici di tutto rispetto, magari non del tutto originali ma molto efficaci. L'album ha una sua personalità, l'abbiamo detto, ed una sua coerenza, tuttavia, anche se ben prodotto, l'intero lotto di brani richiedeva una ancor più patinata gestione sonora per raggiungere la sua massima espressività. La buona idea di armare pezzi come "Self Control" dei richiami giusti, da notare il riff vincente che strizza l'occhio niente meno che agli AC/DC impantanati tra schegge digitali, ambient e atmosfere alla ultimi Muse, è assai carina. E molto interessante è anche la traccia iniziale che dona il titolo al disco, "Reset to Zero", con quelle atmosfere vicine alla vecchia istrionica compagine di Steven Wilson ai tempi di 'Fear of a Blank Planet', paragone che può accarezzare tutto l'operato della band transalpina e farla apparire molto intrigante agli occhi di un pubblico attento e goloso di un rock sofisticato, progressivo e rivolto al futuro. Certamente non stiamo parlando di musica immediata o di facile approccio, il taglio prog le dona una certa classe e le influenze elettroniche contrastano bene nell'insieme, accelerando i battiti cardiaci ed il chiaroscuro dell'umore in ogni pezzo (vedi le sperimentazioni sonore nella lunga e deliziosa "Free"). Un altro tassello da aggiungere nel puzzle del nuovo rock francese, sempre interessante, fantasioso e pieno di sorprese. 38 minuti di metal/rock progressivo che mostrano piena padronanza strumentale e ricerca di originalità e che nella maggior parte dei brani dà sempre buoni frutti. Distribuiti via Dooweet, l'album uscito nel 2015 lo potete trovare anche su bandcamp datato 2016, l'ascolto è consigliato! (Bob Stoner)

Fire Down Below - Viper Vixen Goddess Saint

#PER CHI AMA: Psych/Stoner, Kyuss
Da una landa desertica allucinata, una donna con la testa di mammut e le braccia coperte di funi, mi fissa. Non si tratta di un sogno ma della copertina di 'Viper Vixen Goddess Saint', esordio autoprodotto degli belgi Fire Down Below. Si tratta di un disco stoner sapientemente decorato con derive psych molto riuscite e impregnato di un’energia in grado di spaccare il cemento. I cactus in copertina crescono lentamente sul cimitero di elefanti preistorici battuto senza sosta dal sole e da venti ad altissime temperature. Da questo immaginario secco e allucinogeno nasce il primo pezzo, un intro di chitarra slide in stile vagamente country ma con una vena di trasporto che lascia intuire il peso dei pezzi che verranno. Si continua ad avanzare con la sabbia che arriva al ginocchio, con la gola che arde e alla mercé di una sete tale da ubriacare la vista. Alcune flebili allucinazioni iniziano a formarsi nella mente, ma fortunatamente il sollievo arriva al primo primo pezzo “Throught Dust and Smoke”. Si tratta di una potente cavalcata in pieno stile Kyuss, che porta però con sé un testo pregno di significato sociale. La voce di Jeroen libera dalle pieghe dello spirito quei nodi alla gola intrappolati e incapaci di uscire, “non voglio sentire nessuna notizia”, “meno sai meno senti”. Un grido di allarme comune a tanti artisti a mio avviso molto importante ma anche poco ascoltato perché di portata rivoluzionaria. Il messaggio è che le notizie che ci vengono ogni giorno propinate non solo non servono a nulla, ma contribuiscono ad affossare la qualità dei pensieri nelle persone e a riempirle di paure, insicurezze e dipendenza al sistema sfruttando tra l’altro, una delle qualità più nobili, vale a dire la sensibilità ad immedesimarsi nel dolore altrui. Sono queste le allucinazioni da combattere e il cimitero di mammut in copertina non è altro che la situazione in cui noi umani ci troviamo, simbolo del male che continuiamo consapevolmente ad infliggerci e della vuotezza e aridità dell’anima che il sistema cerca in di incoraggiare. Non per nulla il ritornello del pezzo è uno “shut up!" urlato con veemenza sull’onda di un riff granitico e inarrestabile. Proseguendo il sentiero di liberazione e purificazione che i Fire Down Below hanno inciso sul disco, arriviamo ad una interessante suite psichedelica che porta il titolo di “Universes Crumble”. Parti decisamente stoner si alternano a larghe parti psych che trascinano l’ascoltatore in un caleidoscopio di percezioni totalmente alterate rispetto al normale funzionamento dei cinque sensi. La speranza e la malinconia permeano il pezzo in ogni sua parte, come se il viaggiatore nel deserto ormai quasi vinto dai morsi della fame e dalle allucinazioni oniriche, si renda conto ad un tratto che quell’oasi appena sotto il drago multicolore non è un’allucinazione, l’acqua è limpida e vera e si può bere. C’è ancora tempo per “aprire la porta e andare la fuori” ci dicono i Fire Down Below, e a non farsi ingannare dalle visioni e dai giochi della mente, aggiungerei io. 'Viper Vixen Goddess Saint' è un lavoro solido e ben congegnato sia nello stile musicale che nella poetica sempre densa di significato, capace di elevare la coscienza di chi ascolta ed incoraggiarlo a non mollare e a continuare a cercare quell’oasi nel deserto che toglierà ogni sete. (Matteo Baldi)

sabato 20 maggio 2017

Estetica Noir - Purity

#PER CHI AMA: Dark/New Wave, The Cure
Nelle cupe tonalità sintetiche, nei chitarrismi gorgoglianti, nel basso insistente alla Peter Hook (sentito "Plastic Noosphere"?) è possibile ravvisare una devozione nei confronti di tutto ciò che accadeva alle vostre orecchie nei primissimi ottanta. I primi Depeche Mode ("You Make Life Better), i Cult di 'Love' e 'Dreamtime' ("In Heaven"), i primi New Order ("A Dangerous Perfection") e soprattutto tanti, tantissimi The Cure ("Polarized" e "Deluxe Lies Edition"). Oh, e qualche graffio industrialeggiante, specialmente in quello che sarebbe il lato B del disco. Vocione intriso di spleen, caratterizzato però da un senso epico alla Litfiba-di-Desaparecido ("Hallow's Trick") invero piuttosto insolito nell'ortodossia new-wave. La cover di "I'm not Scared" (scritta, ricorderete, dai sigg. Tennant/Lowe per la surrogate-band di Capezzolino Kensit nell'ottantotto) suona come suonerebbe la versione di "Introspective" però (opportunamente) decurtata e remixata da un improbabile Trent Reznor di buonumore, una volta tanto. (Alberto Calorosi)

(Red Cat Records - 2016)
Voto: 75

https://www.facebook.com/esteticanoir/

giovedì 18 maggio 2017

Dawn of a Dark Age - The Six Elements Volume 5: Spirit/Mystères

#PER CHI AMA: Avantgarde/Black/Teatro, In Tormentata Quiete, Carpathian Forest
Gong! Si parte con il quinto viaggio dei Dawn of a Dark Age e il mantra minaccioso "Il mistero si svela alle porte della città, il mistero si cela dietro l'oscurità". Il polistrumentista Vittorio Sabelli, in compagnia di diversi amici, torna con la sua creatura ed il quinto capitolo della saga che si riferirisce ai sei elementi naturali. Dopo aver svelato tre dei primi quattro qui nel Pozzo, andiamo a scoprire il quinto, 'The Six Elements Volume 5: Spirit/Mystères', forse il più complicato da ascoltare ma d'altro canto anche quello più complesso musicalmente. Dell'intro de "Il Viaggio" abbiamo già detto, da qui in poi è una sorta di rappresentazione teatrale quella che va in scena durante l'ascolto di questa nuova fatica, con il soave suono del clarinetto che si prende il ruolo di protagonista indiscusso in un tuffo nella musica, esplorando sonorità mediterranee (con un che degli In Tormentata Quiete tra le influenze), divagazioni jazz tra suoni di sax, viola e percussioni varie ed infine scorribande black progressive che giungono alle nostre orecchie solamente dopo una decina di minuti, e che non rinunciano ovviamente all'utilizzo di quella strumentazione non  convenzionale, con cui da sempre il buon Vittorio ci ha abituati. Dicevo che l'album è comparabile ad un'opera teatrale e l'ingresso narrato in dialetto molisano di "Dream" lo testimonia. Da qui riparte il tourbillon black, tra raggelanti riff di scuola norvegese, screaming vocals e furenti pattern di batteria, affiancati dall'indiavolato trillo del clarinetto, vero fuoriclasse di questa lunghissima prima traccia di ben oltre 21 minuti. L'opera narrativa prosegue con "Lo Spirito del Deserto" e il recitato malefico di Luca Del Re che s'ispira al poema di Aleister Crowley 'The Soul of the Desert', in una melodica song mid-tempo. "Il Cerchio di Fuoco" è una spettrale ed insana traccia introdotta da un lungo monologo che scivola successivamente in un distesso flusso corale e da qui si lancia in un'iperbole musicale di clarinetto e ritmiche infuocate, per poi affidare la sua coda nuovamente a suggestivi intermezzi recitativi. "Corpus Domini" non lascia alcun dubbio invece sulla sua natura prettamente black, visto l'inizio dirompente tra blast beat e un rifferama thrash black davvero violento, che trova pace solo nell'iniziale break affidato a clarinetto, scacciapensieri e vocals, prima che la violenza torni a sprigionarsi tra ritmi incalzanti, chorus epici, funamboliche azioni percussive e parlati vari, in un rocambolesco finale di miscele jazz, noise, ambient, arte circense e folk. Delizia per i miei padiglioni auricolari, lo ammetto; lo stesso dicasi per la successiva ed inquieta "Il Ritorno", un pezzo semi-strumentale dalle movenze jazz blues rock. Si tratta invece di ritual post rock quello che si sente nell'ultima lunga "Epilogo": un malinconico turbinio di chitarre in tremolo picking, tocchi d'organo che evocano la Quinta Sinfonia di Beethoven, fughe post black e screaming vocals caratterizzano questa magniloquente traccia che chiude con quell'evocativo mantra iniziale "Il mistero si svela alle porte della città, il mistero si cela dietro l'oscurità" che aveva aperto il disco, anzi no, perchè un'altra piccola sorpresa "bandistica" è pronta ad attenderci negli ultimi secondi di 'The Six Elements Volume 5: Spirit/Mystères'. Un disco davvero notevole. (Francesco Scarci)

(Razed Soul Productions - 2017)
Voto: 85

http://www.dawnofadarkage.com/

mercoledì 17 maggio 2017

Violet - S/t

#FOR FANS OF: Atmospheric/Post Black Metal, Agalloch, Chiral
Still fine-tuning their sound, Rhode Island black metallers Violet have come upon a rather strong mix of atmospheric black metal and post-rock riffing to leave this a solid if somewhat underwhelming effort. The long, swirling riff-work and churning rhythms present for the majority of the tracks here present a light background for the music to rumble along due to the loose song structures apparent throughout here. It rumbles forth quite nicely and has some solid moments here with the sporadic riffing giving this some life, although it tends to simply come off way too simplistic and repetitive as the exact same rhythms are utilized for the tracks here and it can make these feel too similar to each other. Opener "Haunter" and the rumbling "Kin" are the most expressive and enjoyable tracks, while the frantic outbursts of "Bloodless" offer some strong potential of what’s in store in the future. For the most part, it’s really just the fact that there’s not a whole lot to really distinguish these from each other. (Don Anelli)

(Self - 2017)
Score: 65

https://violetmetal.bandcamp.com/

martedì 16 maggio 2017

Au-Dessus - End of Chapter

#PER CHI AMA: Post Black, Deathspell Omega
Sono stato da un paio di settimane in Lituania, una terra ricca di fascino, storia e tradizioni. Ho colto l'occasione del mio viaggio per visitare un negozio di dischi: con orgoglio il commesso mi parlava delle band locali, gli Obtest, i Dissimulation e anche di questi Au-Dessus. Strano che la Les Acteurs de l'Ombre Productions abbia messo sotto contratto il quartetto di Vilnius, considerata la loro quasi esclusiva predilezione per le band transalpine. Deve esserci quindi qualcosa di assai interessante nell'estremismo sonoro di questi ragazzi, in quello che è il loro full-length d'esordio che segue progressivamente a livello di titoli, l'EP omonimo del 2015. Si parte allora con l'epica ostilità di "VI", un brano di monumentale e arioso black metal, infarcito da atmosfere sognanti, eccellenti e fresche linee di chitarra, vocals epiche, pulite ed in screaming, che mi fanno ben sperare nella qualità del disco. Una opening track tanto melodica quanto assai fuorviante, tant'è che la successiva "VII" mostra la natura bislacca dei quattro musicisti lituani che qui appaiono piuttosto come un ibrido tra il sound dissonante dei Deathspell Omega e le vocals maligne dei Mayhem, altra roba rispetto alla traccia d'apertura, ma di altrettanto caratura. Con "VIII" aumentano le scorribande in territori post black, e non solo: il sound si fa infatti più avvolgente ed ipnotico, in una song matura per stare addirittura in un disco degli Isis. La complessità ritmica va aumentando con la quarta traccia, "IX", in una malefica miscela tra black old school, punk, dilatazioni post-metal e psichedeliche divagazioni droniche, che sembrano perpetrarsi anche nella successiva e riuscitissima "X", proposte però al contrario. La traccia, la più lunga del disco coi suoi nove minuti e mezzo, parte infatti con atmosfere soffuse per poi lanciarsi in pericolose accelerazioni post tra selvaggi vocalizzi e spaventosi rallentamenti, con una seconda parte eterea quanto affascinante, a suggellare la brillante proposta della compagine lituana, che peraltro opta per un'azzeccatissima scelta a livello grafico, con il viso di una bambina con gli occhi coperti da due monete, utili a pagare lo psicopompo Caronte nel traghettare la sua anima nell'Ade. Nel frattempo il disco prosegue con le ultime due song: la darkeggiante "XI" e la mefitica "XII: End of Chapter", il giusto dirompente e schizofrenico finale, ideale epilogo per un album come questo. Bella scoperta gli Au-Dessus, aveva proprio ragione quel tizio del negozio di dischi di Vilnius. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de l'Ombre Productions - 2017)
Voto: 80

lunedì 15 maggio 2017

Vaiya - Remnant Light

#FOR FANS OF: Post Black
Listening to Vaiya's music has been about as rewarding as reading Milton's 'Paradise Lost'. There is an immense heap of dry atonal content that meaninglessly meanders in Vaiya's long-winded catalogue, a simple show of how many words can cover a page without catching the attention of its audience. Luckily, the man behind the band has finally created something of value and come into his own as a musician and, dare I say it, an artist. Rob Allen has shown so much potential and perplexingly thrown it away throughout this project. Years of wallowing in such unremarkable stagnation must have finally pissed him off and snapped something in this musician's mind that motivated him to strive for something better because 'Remnant Light' is finally something that works and captures the potential he had only been hinting at for years.

A one-man act from Australia, Vaiya creates some densely cloistered black metal in 'Remnant Light' that grows outwardly from its intense desperation to invigorate as it expands. Each song steps into the light after indulging the darkness it is bred in and takes a deeply personal journey that is translated into a warmer approach to black metal, but not without its own expressions of anguish through painful evolution. Finally finding focus, Vaiya finds riffs, the drums have become audible, wailing tremolos shine as cymbals crash and embrace the elaborate cacophony of real and palpable black metal rather than shoehorning words into a genre designation for a name without manifestation to back it up. The longer this album steps into the light, the higher the riffs rise, the more captivating is the atmosphere, the higher the score for this album rises, and the more this reviewer appreciates the effort and evolution this musician has gone through to achieve a worthy benchmark. Finally, a band has been born from the fetid womb of a gaseous bedchamber.

The album is split into three equal parts, each exactly thirteen minutes long. This makes for a long-winded and immersive exploration. Despite their length, each song's gradual pace is captivating and entertaining as it emerges from the maw of darkness to bask in the glow of hypnotic singing and beautiful guitar notes. The growth of “Confrontation” is best displayed in its flowering finish while “Banishment” takes wailing tremolos, upping the ante with harmonious intensity and a churning drumming backdrop that is actually audible and uses the space rather than simply fills it in. Later in the song is a fantastic moment where the ambiance of the guitars and synth march the treble notes into a grinder of drumming that gets me thinking of how Emerna layered his “Esoteric Digression”, forging a flourish from the fodder into a fleeting fortress quickly forsaken to its own fragile foundation. The general mix is more bass oriented than your average under-produced black metal release and the guitars fill this role with deeper notes thickened with reverb but in a warmer climate than what is usually expected from the European standard. The highest notes are noticed in a distant rhythm guitar quashed in so much reverb in “Transformation” that its bassy grain becomes a hypnotic meditation for the flowery highs of the lead harmony. The songs sound similar to each other, making for a cohesive thirty-nine minute ride that approaches the same sort of energy with different notes, but the structuring keeps things fresh enough as they evolve and the riffs have their stand-out moments that ensure they shy enough away from each other to forge their own paths.

Like his album's theme, Rob Allen has finally stepped into the light. Languishing in the darkness of a one man band pretentiously prostrating inanity at his audience with one hand outstretched shaking a tip can of oxidized pennies and the other hand tightly cupped around his trembling anus eagerly anticipating the next foul dose that he imbibes from his crack is a snapshot of a time that seems an age ago. 'Remnant Light' has redeemed this musician from the doldrums of barely passable mediocrity to find a man in an age of discovery, introspection, and self-realization. If this album completes Viaya's journey, it was well worth the agony of enduring so many terrible ideas to get to this high water mark. Here tears of joy can be shed as though we have made this journey together and we can rest, contented with where the path has taken us. (Five_Nails)

(Nordvis Produktion - 2017)
Score: 70

https://nordvis.bandcamp.com/album/remnant-light

Repetitor – Gde ćeš

#PER CHI AMA: Alternative/Post Punk, Sonic Youth
Ci sono voluti piú di quattro anni, ai “Sonic Youth serbi”, per dare un seguito al fortunato 'Dobrodošli Na Okean', di cui parlammo ai tempi anche da queste parti. Da allora i tre ragazzi hanno macinato migliaia di chilometri in giro per l’Europa, su e giú dai palchi, sviluppando un’intesa e una resa nell’impatto sonoro che risultano evidentissimi in questo loro nuovo album, come sempre dato alle stampe dall’ottima Moonlee Records. 'Gde ćeš' non perde un briciolo dell’aggressività del suo predecessore, anzi è ancora più cattivo e intransigente nel coniugare le dissonanze dei Sonic Youth più diretti, certe strutture conturbanti dei Nirvana di 'Bleach', il protopunk degli Stooges e certi umori fuzz alla Dead Moon. La lingua serba è affilata e respingente almeno quanto il suono delle chitarre del terzetto, e sembra fatta apposta per questo punk rock strafottente e ultracompresso, tra l’indolenza un po’ svogliata di Ana Marja, sorta di Kim Gordon balcanica e l’aggressività carismatica di Boris. I brani sono potenti, le chitarre sono in grado di staccare la vernice dai muri e non fanno nessuna facile concessione, il basso di Ana Marja martella asciutto mentre Milena dietro le pelli sfodera una prestazione davvero ragguardevole. Rispetto al passato si registra un generale ispessimento del suono, evidente soprattutto nella seconda parte della scaletta, spezzata in due da “Crvena”, la traccia più particolare del lotto col suo incedere solenne e declamatorio proprio di certi Swan. Un album coraggioso, che non cerca facili ammiccamenti alla ricerca di un consenso più ampio ma che sembra quasi respingerlo, rifugiandosi dietro un muro di suono ansioso e violento. Chapeau. (Mauro Catena)

(Moonlee Records - 2016)
Voto: 75

https://repetitor.bandcamp.com/album/gde-e

sabato 13 maggio 2017

Cowards - Still

#PER CHI AMA: Black/Hardcore
Ottima uscita per i Cowards che si confermano una delle realtà hardcore metal più oscure e affascinanti del panorama francese. Solo 19 minuti in questo EP per puntare ad un infuso al veleno che contiene sfuriate hardcore, sludge, schegge di black metal alla Deathspell Omega e sentori malatissimi di rabbia e ribellione, racchiusi in un contenitore di tecnica e composizione visionaria estrema. La voce è una sciabola che semina fendenti ovunque, mentre la musica, tra rasoiate ed energia nera, sostiene un concetto di hardcore evoluto e dal sottoscritto anche assai ben voluto con punte di noise e colori black che si sposano a puntino, una sorta di maestoso Breach e Cursed sound estremizzato e riadattato come in uso ai giorni nostri. I primi tre brani, "Still (Paris Most Nothing)", "Let Go" e "Like Us" volano distruttivi e feroci sulle ali della velocità e del rumore più piacevole per lasciare posto a due rivisitazioni in stile puramente Cowards. La prima "You Belong to Me" dovrebbe essere la rivisitazione di "Every Breath You Take" dei Police e se qualcuno riesce ad individuarne qualcosa batta un colpo. La seconda, "One Night Any City" vorrebbe essere "One Night in NYC" dei The Horrorist ed anche qui vi sfido a riconoscerla perché per me potrebbe essere tranquillamente un fuori onda dei Killing Joke epoca 'Democracy'. Comunque ottime interpretazioni entrambe che si sommano egregiamente all'intero lavoro, mantenendolo costante ed omogeneo nel drammatico suono e nel drastico, splendido concetto musicale del combo transalpino, che dopo il buon full length del 2015, 'Rise to Infamy', ci delizia con una nuova uscita targata Dooweet, uscita sul finire del 2016. Copertina poi dall'artwork fantastico, una costante per i Cowards... Spettacolare! (Bob Stoner)

(Dooweet - 2016)
Voto: 85

https://cowardsparis.bandcamp.com/

Mils - We Fight/We Love

#PER CHI AMA: Electro Rock
Il nuovo mini-cd dei francesi Mils si presenta subito bene: copertina bianca con immagine in tonalità blu-rosse rappresentante un lascivo bacio saffico, con tanto di lingua in bella vista. Non male per riassumere graficamente il sound dell’ensemble transalpino. I nostri infatti propongo un sound accattivante e moderno, un rock elettronico molto trascinante e altrettanto catchy. A farla da padrona è la voce della cantante, tratto distintivo della band che, energica e potente, ci trascina lungo i cinque brani di questo 'We Fight / We Love'. A dire il vero la seconda traccia è per lo più cantata da una voce maschile (di tale Duja), che solo nella parte finale del brano s'interseca con la timbrica femminile. Il prodotto in questione sicuramente si presenta bene anche dal punto di vista sonoro, le chitarre sono abbastanza taglienti e definite e soprattutto il manto elettronico-tastieristico è molto deciso e preponderante nel sound dei nostri. L’opener “Come Home” ben si pone all’inizio del lavoro, essendo la canzone più compatta, diretta e no-frills del CD. “No Body” invece è una power-ballad piuttosto tradizionale nel mood e nella struttura, dove la voce maschile pare ben collocata, sebbene la pronuncia dell’inglese non brilli in particolar modo. Il terzo brano, “Escape”, riassume bene la proposta dei nostri, con struttura serrata, voce decisa, a tratti ossessiva ed ampio respiro. La band ne ha tratto anche un interessante videoclip che vi invito a cercare. Si continua poi con "Strange Night", che a mio avviso è il brano migliore dei cinque. La voce si fa a tratti più rilassata e profonda, e da questo scaturisce una canzone molto lirica ed emozionale, che davvero si stampa nella teste e nelle corde più umorali dell’ascoltatore. Il tutto si chiude con l’ultimo pezzo “Casus Belli”, breve e diretto, che ben circoscrive quanto iniziato con “Come Home”. Senza dubbio alcuno la band si fa apprezzare ed emerge per coinvolgimento dell’ascoltatore e per accuratezza e labor lime nella composizione. Per sviluppi futuri spero i Mils diano maggiore risalto ai mid-tempo e ai rallentamenti atmosferici. Nelle parti più riflessive sanno infatti colpire l’animo e alzare l’asticella della loro già complessivamente buona proposta musicale. Il finale di “Come Home” è in questo senso emblematico di quanto possa emozionare questa band. (HeinricH Della Mora)

venerdì 12 maggio 2017

Elm - S/t

#PER CHI AMA: Noise Rock, Melvins, Jesus Lizard
Non è difficile immaginare cosa devono avere pensato alla Bronson, quando hanno ascoltato per la prima volta il demo di questi misteriosi ELM, che sulla loro pagina bandcamp attestano la loro provenienza da una non meglio identificata zona del Texas. Di sicuro devono essere sobbalzati sulle loro sedie, spettinati dall’impatto di questi 16 minuti carichi di feedback e distorsioni parossistiche. Un concentrato di suggestioni AmRep ed echi delle più devastanti band del panorama noise rock a stelle e strisce, come Melvins, Cows, Scratch Acid, Jesus Lizard, Usane, ma anche Helmet e Butthole Surfers, il tutto registrato nel bagno di servizio di un qualche drugstore in mezzo al deserto, con mezzi di fortuna e tutte le manopole fisse sull’undici. Probabilmente, o almeno così mi piace pensare, la decisione di metterli sotto contratto è arrivata ben prima di scoprire che in realtà la band arriva dalla provincia di Cuneo, tale e tanta l’urgenza sprigionata in queste registrazioni. E così hanno dato alle stampe questa cassetta (poteva esserci supporto più appropriato?) di cinque pezzi e lanciato gli ELM sui palchi dove chi li ha visti ne ha parlato in modo lusinghiero. Nelle note che accompagnano questo esordio si parla di canzoni che raccontano storie di “solitudine, abiezione, rabbia, raccontate usando linguaggio e immagini proprie dell’American Bible Belt, terra di predicatori ossessionati e squallido moralismo, culla di irredimibili perdenti”. Per il momento andiamo sulla fiducia anche perché i testi, immersi in un mare di distorsioni, sono difficilmente intellegibili, e ci accontentiamo, si fa per dire, della potenza sprigionata dai riff di brani come "Scum", "King of Mormons" e "Lyndon", da chitarre che lacerano come seghe arrugginite e una sezione ritmica implacabile, ma rimaniamo in attesa del loro primo lavoro sulla lunga distanza che, a quanto pare, è in fase di registrazione. Urticanti e scurissimi. (Mauro Catena)

(Bronson - 2016)
Voto: 70

https://elmcult.bandcamp.com/releases

mercoledì 10 maggio 2017

Haunter - Thrinodia

#PER CHI AMA: Black/Sludge/Crust, Deafheaven
Direttamente da San Antonio (Texas), ecco arrivare gli Haunter, band attiva dal 2013 ma che giunge al debutto solo nel 2016 con questo 'Thrinodia'. L'album, che include sette tracce, è un riottoso concentrato di sonorità black death contaminate, ove le danze sono aperte da "Perinatal Odium Dilute", una song abrasiva per suoni e produzione, e in cui a mettersi in luce sono sicuramente le vocals maligne del frontman Bradley Tiffin, accompagnate da un riffing stralunato che si fa più dissonante e controverso nella successiva "Untitled", brano psicotico che mischia le linee disarmoniche in stile Deathspell Omega con il crust, per una proposta di sicuro particolare, soprattutto perché in questo tripudio di caos primordiale, si scorgono anche delle venature dai tratti progressivi. Peccato che le sonorità siano un po' ovattate, sicuramente una produzione più cristallina avrebbe giovato nella percezione di alcuni particolari musicali, ma ovviamente ne avrebbe anche perso buona parte di quella genuinità di fondo tipica delle produzioni DIY. E quel sound catramato si ritrova anche nella corrosiva "Shrouded Moor", traccia violenta, caustica, in cui il black diventa punk e il punk diventa black metal, in un incedere di sicuro minaccioso. Si corre sui binari di un post black frenetico con la breve "Vial", ove il sound è fondamentalmente sovrastato dalle schizoidi scorribande di blast beat e riff allucinati, che ritornano anche nella convulsa dinamicità di "Thus My Undertaking, To Reject Stagnation, and to Liberate Fervency", song che fortunatamente ha da offrire anche un lungo break post rock che rompe la forsennata frenesia ritmica del terzetto texano, in un finale ondivago tra sludge e black. C'è ancora tempo per fare male, con le ritmiche tiratissime (e un filo melodiche) di "Apnoeic (Polarized in Retrospective Contempt)", track che vanta comunque un epilogo che nelle sue dilatazioni soniche, richiama nuovamente il post rock, un po' come quanto fatto dai Deafheaven, in una versione qui più urticante. Pronti per il gran finale? La title track è una traccia di oltre 14 minuti, in cui il trio convoglia tutte le combinazioni ritmiche fin qui apprezzate in un deragliamento sonico feroce, tra screaming sguaiati, chitarre al fulmicotone, break acustici prendi fiato e una baraonda infernale a livello di batteria. Che altro dire, se non di avvicinarvi con cura a 'Thrinodia' e a questi diabolici Haunter. (Francesco Scarci)

(Red River Family Records - 2016)
Voto: 70

https://hauntertx.bandcamp.com/album/thrinod-a

martedì 9 maggio 2017

1476 – Our Season Draws Near

#PER CHI AMA: Indie/Post Punk/Neofolk
Dei 1476 siamo stati tra i primi, in Europa, a parlare, all’epoca dell’uscita del loro secondo album 'Wildwood', accoppiato all’EP acustico 'The Nightside', e all’epoca li definimmo come uno dei segreti meglio custoditi dell’underground americano. Finalmente qualcuno se n’è accorto, per la precisione l’ottima label tedesca Prophecy Productions, che lo scorso anno ha ristampato i lavori, inizialmente autoprodotti, della band di Robb Kavjian e Neil DeRosa. Non è mai bello vantarsi delle proprie scoperte, dire “L’avevo detto io…” con aria saccente e compiaciuta, però è indubbio che faccia piacere vedere una band di cui si era parlato con toni più che positivi più di quattro anni prima, raggiungere ampi e diffusi consensi una volta promossi come si deve da un’etichetta competente. E allo stesso modo non è bello poi, girare la faccia dall’altra parte davanti ad un nuovo disco pubblicato dalla nuova etichetta, dicendo che “erano meglio prima”. Per cui eccolo qui, 'Our Season Draws Near', un disco atteso come pochi altri ultimamente, e che vale ogni giorni passato ad aspettarlo. Rispetto al decadentismo un po’ naif (ma anche tanto affascinante, va detto) delle release precedenti, questo è un album asciutto e rigoroso, che abbandona ogni sovrapproduzione e si concentra sul suono delle chitarre e della batteria, ora acustico e sussurrato, ora ruggente e aggressivo, in un’esasperazione dei contrasti che, alla fine, è il tratto distintivo della band del New England. È evidente il miglioramento a livello di produzione, che ha permesso ai 1476 di esplorare un nuovo lato della loro natura, evolvendo definitivamente dall’art rock degli esordi in un ibrido tra canzoniere gotico americano, una certa wave scura e selvaggia e metal estremo che non ha effettivamente termini di paragone al giorno d’oggi nel panorama internazionale. Provate a pensare, se ci riuscite, a una fusione tra 16 Horsepower, Death in June, Agalloch, Gun Club e, chessó, Iced Earth, e forse vi avvicinerete all’effetto finale. Non è facile descrivere certe tracce, ma la sequenza "Solitude (Exterior)" – "Odessa" – "Sorgen (sunwheels)" - "Solitude (Interior)", col suo alternarsi tra atmosfere acustiche e muri di suono, dolcezza ed improvvise accelerazioni che conducono ad un saliscendi emotivo davvero incredibile, è una cosa che vale intere discografie. La voce di Kavijan si conferma una delle più particolari ed emozionanti sulla piazza, e marchia a fuoco 10 canzoni (11 nella deluxe edition) che sono forse meno immediate al primo impatto rispetto al passato, ma che crescono in maniera costante e inesorabile ad ogni ascolto, disegnando i contorni di quello che si configura come un grande classico, un disco con cui dovremo tutti fare i conti alla fine dell’anno e negli anni a venire. (Mauro Catena)

(Prophecy Productions - 2017)
Voto: 85

https://1476.bandcamp.com/album/our-season-draws-near

lunedì 8 maggio 2017

Decemberance - Conceiving Hell

#PER CHI AMA: Death/Doom, Morbid Angel, My Dying Bride
I greci Decemberance ci propongono la loro maratona musicale, non tanto per rievocare l'evento epico della corsa di Filippide, che dalla città di Maratona andò all'Acropoli di Atene per annunciare la vittoria sui persiani, più che altro perché i quattro pezzi qui contenuti, costituiscono una lunga prova di sopravvivenza di ben 74 minuti dediti ad un death doom psicotico. Ci hanno impiegato otto anni i nostri per rilasciare un nuovo album dopo che il debut 'Inside' era uscito addirittura 12 anni dopo la loro fondazione. Gente riflessiva mi viene da dire, ma veniamo ad analizzare un disco tra i più difficili che mi sia capitato di ascoltare nell'ultimo periodo. Dicevamo che 'Conceiving Hell' include quattro song, tutte che si aggirano sull'estenuante durata di 18 minuti. Si parte con il robustissimo techno death di "The Scepter", che mi lascia un attimo perplesso di fronte alla proposta della compagine greca: dopo qualche minuto di tortuosi giri di chitarra, ecco che i nostri fanno in modo che chi li ascolta sia inghiottito dalle fauci delle bestia, con un sound catacombale. Là dove la luce non è contemplata, il vocalist sussurra qualcosa nelle vostre orecchie, forse che non vi è alcuna speranza di uscire vivi dalle viscere infauste del mostro. Invece, inaspettatamente ecco apparire dei riffoni death e delle growling vocals che hanno il merito di cavarci fuori da quell'impasse spaventosa. Il sound è complesso, lo devo ammettere, perché questo gioco di luci e ombre si ripropone più e più volte nel corso della song, che trova la sua summa nella presenza del violoncello di Ioanna Bitsakaki che per un attimo smorza l'incedere distorto di una band che nel finale mi ha richiamato 'Gothic' se non addirittura 'Lost Paradise' dei Paradise Lost. I primi venti minuti se ne sono andati ma che faticaccia: parte la chitarra acustica di "Departures" accompagnata dalla struggente melodia del violoncello, poesia per le mie orecchie, un po' meno quando il robustissimo riffing del quartetto ateniese fa in modo che cali improvvisamente una notte senza stelle in una splendida giornata di sole. Il sound è totalmente rallentato, gli echi degli Anathema di 'Serenades' emergono forti, cosi come le influenze di primissima scuola My Dying Bride. Il trittico del doom per eccellenza l'abbiamo rievocato in toto, per descrivere un lavoro che se fosse uscito nei primi anni '90 avrebbe sicuramente rappresentato un must per tutti coloro che seguono il genere. Nel 2017, i quattro ragazzi dell'Attica hanno dovuto applicare qualche variazione al tema per suonare credibili, ed ecco spiegato perché accanto alle drammatiche e decadenti atmosfere imbastite dalle meravigliose corde del violoncello (suggestivo il break a metà brano), sia anche altrettanto facile trovare dei riff che con il genere hanno ben poco a che fare e sembra piuttosto di trovarsi di fronte i Morbid Angel. Ecco, i Decemberance potrebbero essere etichettati come un insolito ibrido tra l'Angelo Morboso e La Mia Sposa Morente, facile no da intuire a questo punto il sound granitico dei nostri? Non ancora direi perché accanto al rifferama death old school potrete trovarci anche elucubrazioni ambient, intermezzi schizofrenici o lunghe intriganti fughe di musica prog ("The Blind Will Lead the Way"), ma poi sarà sempre la bestia ad avere l'ultima parola, sfoderando suoni dissonanti, psicotici a tratti orrorifici, in linea con le liriche malsane della band. Se ancora non l'avete capito, 'Conceiving Hell' non è assolutamente un album facile a cui accostarsi, bisogna avere la mente sgombra di pensieri e senza paura si affronti l'elevata possibilità di terminarne l'ascolto frastornati, disorientati o forse totalmente pazzi. Di sicuro il suono del mare della conclusiva "Sailing..." mi ha aiutato a riprendermi dall'ascolto di un album controverso e mastodontico, che potrebbe fare la gioia degli amanti del death più ostico ma anche di coloro che apprezzano il doom più romantico, o forse nessuno di questi. Bel rischio si sono presi i Decemberance, a voi l'ultima parola... (Francesco Scarci)