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domenica 18 settembre 2016

Dive Your Head – Le Prix Du Sang

#PER CHI AMA: Hardcore/Metalcore
La band francese dei Dive Your Head s'incastra alla perfezione in un limbo sonoro tra metal, nu metal, hardcore e metalcore senza imitare nessuno, pur restando fedele ai canoni stilistici dei suddetti generi. La commistione sonora è lanciata in orbita da una prova canora decisamente esaltante ed esplosiva del vocalist Luca Depaul – Michau, un vero creatore di rabbia urlata al vetriolo. Alla prestazione vocale sopra le righe aggiungiamo anche che Luca canta in lingua madre e questo rende la storia molto intrigante e personale, nel ricordo di grandi band conterranee come FFF o Noir Desir che in ambiti musicali diversi, hanno avuto il coraggio di sostituire il classico inglese con il francese, ottenendo ottimi risultati. La band suona secca e precisa, dominata da riff aggressivi e un drumming tesissimo, per cui tutto il carico del suono è spalmato in brani velocissimi e sempre in tiro, mostrando tutta la loro potenza in composizioni che arrivano al massimo intorno ai quattro minuti. Niente fronzoli e tanta rabbia, da ascoltare e da saltare, con parecchi watt da vendere e quel tocco modernista alla Of Mice & Men che non guasta in una band così giovane, essendosi formata nel 2012. Buona la tecnica di tutto l'ensemble, con poco spazio concesso ad inutili virtuosismi, un'attitudine hardcore, un velato amore per i ritmi alla Slipknot ma anche una propensione all'orecchiabilità, che non vuol dire per forza perdita di coerenza e potenza ma al contrario, così sparsa tra un brano e l'altro, fa in modo che l'album risulti assai trascinante e di facile accesso, in grado cosi di soddisfare anche i più esigenti a riguardo del genere. Si percepisce la voglia di farsi largo tra i tanti progetti esposti in questo campo, spingendo al massimo l'acceleratore su ritmi incalzanti dal sapore metal e dal piglio hardcore, omogenei e pesanti sulla scia di band come August Burns Red, e i già citati Of Mice & Men, qualche nevrosi alla Cursed, anche se non in chiave così sotterranea, e un accenno di folle tecnologia metallica virata verso gli ultimi Fear Factory, che esalta l'impeto di un drumming mozzafiato. Ottima l'apertura affidata a "Les Rois Perdus" o l'incedere lento, teso e futurista di "Luxuria" con le sue sferragliate al veleno che non lasciano il tempo di riprendere fiato (il mio brano preferito) o ancora "Post Mortem" così grooveggiante (in alcune parti di voce pulita immaginate di sentire i geniali Helmet cantati in francese!) e isterica da non riuscire a stare fermi (esplosiva e perfetta per l'headbanging!). Alla fine, la band transalpina con questo album non potrà che ottenere buoni consensi, ed anche al di fuori dei confini nazionali, il cantato in lingua madre potrebbe risultare come una novità e riscuotere un ottimo riscontro di pubblico. Ascoltate e riascoltate senza remore questo album, non ve ne pentirete! (Bob Stoner)

venerdì 16 settembre 2016

Antigama - Resonance

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Grind, Napalm Death, Psyopus, Cephalic Carnage
Identificati come la nuova faccia del grindcore moderno, i polacchi Antigama non potevano non sfuggire dalle grinfie della Relapse Records. Dopo due furiosi lavori quali 'Discomfort' e 'Zeroland', la band di Varsavia ha continuato nella sua evoluzione, proponendo un sound sempre più borderline tra brutal death e grindcore. In 'Resonance' però i suoni si fanno più claustrofobici rispetto al passato, ma anche più ossessivi e psicotici. Forti di una produzione eccellente e di una padronanza strumentale ineccepibile, i nostri ci sparano in volto 17 schegge impazzite di musica feroce, allo stesso tempo ipertecnica e malsana: combinando la asprezza del grind old-school con gli acrobatici numeri della scuola techno grind tipica di act quali Cephalic Carnage e Cryptopsy, il combo ci aggredisce con un mix mortale di riff micidiali e intricati, iperveloci blast beat, rigurgitanti growling vocals, ma anche insane, schizofreniche e rallentate atmosfere, che ci mostrano il lato più malato, ma secondo me, più intelligente della band polacca. Qui non troviamo soltanto una furia sonora fine a se stessa, ma anche citazioni psichedeliche alla Mastodon, frammenti impazziti di musica tribale (ascoltate “No” e la successiva “After” per farvi un'idea); richiami più o meno eccellenti ai Sepultura (per ciò che concerne l’utilizzo della batteria), ai Napalm Death (per le similitudini vocali con mister Barney) e ai Meshuggah sotto acido. 'Resonance' ci consegna una band che dimostra di avere idee assai chiare e una forte dose di personalità e autoironia. Promossi a pieni voti!! (Francesco Scarci)

(Relapse Records - 2007)
Voto: 75

https://antigamaband.bandcamp.com/album/resonance

giovedì 15 settembre 2016

Pervy Perkin - .ToTeM.

#PER CHI AMA: Metal Prog Sperimentale, Devin Townsend
Geni, folli, temerari o cos'altro diavolo sono questi spagnoli Pervy Perkin? La band di Madrid ci spara un mattonazzo di quasi 80 minuti (60 dei quali raccolti in sole tre canzoni) fatto di sonorità progressive che vanno a scomodare Porcupine Tree, Riverside e Devin Townsend, giusto per citare solo alcuni dei nomi più eclatanti che ho individuato durante l'ascolto di '.ToTeM.', visto che poi il disco trova modo di prendere strane pieghe sonore e finire per involarsi in territori che di metal hanno ben poco. La prima testimonianza la si raccoglie con la lunga opening track: "I Believe" dura infatti ben 15 minuti che oltre ad evocare la band di Steven Wilson e soci in sonorità marcatamente prog, trova anche il modo di sprigionare un che dei Queen, ispirarsi ad uno dei molteplici progetti di Mike Patton e nel medesimo frangente anche di fare il verso agli Opeth, quest'ultimi forse per il solo uso delle growling vocals in una matrice prog. La traccia comunque ha le sue pause, tant'è che la sensazione percepita è quella di aver ascoltato almeno 3-4 pezzi visti i cambi ritmici in cui incappa. Dopo il primo ascolto ciò che rimane è l'impressione di aver a che fare con una band davvero originale e pure preparata tecnicamente, il che non guasta di certo in un genere complicato da suonare come questo. Da sottolineare l'aspetto corale delle vocals, cosi come la bravura del frontman, tale Dante The Samurai, in versione clean dietro al microfono. Sostenuto un primo allenamento con la song iniziale, l'intermezzo trip hop di "The City" (stile Portishead per capirci) e la successiva "KountryKuntKlub", traccia che almeno nei primi secondi sembra citare gli Anathema, ma poi sfocia in realtà in un folle (e sottolineerei folle) pezzo country, non ci resta che affrontare la maratona di 26 minuti di "Mr. Gutman", introdotta da un altro intermezzo trip hop. Eccoci quindi al cospetto di questa infinita canzone, dove mi aspetto francamente di sentirne delle belle: l'intro sembra di quelle affidate ad aprire una favola, della serie "once upon a time...". Poi la musica imbocca altre deliranti strade in bilico tra space rock, blues, il teatro dell'assurdo di "zappiana" memoria, colonne sonore, fino ad una ricerca musicale più avanzata, che vede nel prog di Yes o Rush altri mondi esplorati da questi pazzi ragazzi iberici. La song è davvero complessa, si rischia a tratti addirittura di perderne il filo conduttore, soprattutto se si passa dall'hard rock al death metal nel giro di pochi secondi, facendo tappa nel funk alternative dei Primus e l'attimo successivo stiamo già ascoltando musica elettronica, improvvisazioni swing e mille altre diavolerie che hanno il merito (o demerito, fate voi) di disorientare, anzi no, ubriacare letteralmente l'impavido ascoltatore che ignaro si mette all'ascolto di '.ToTeM.'. Probabilmente non vi avrò raccontato esattamente tutto quello che vi ritroverete ad ascoltare in questo brano, però voi pensate a qualsiasi cosa fuori dagli schemi e verosimilmente la incontrerete qui, in quella che è la song più incasinata mai ascoltata in tutta la mia carriera di recensore. Qui ce n'è davvero per tutti i gusti e forse proprio qui potrebbe risiedere il limite dell'album, in quanto alla fine il rischio è quello di non accontentare nessuno o solo quei pochi dalle vedute assai ampie. Certo, i riferimenti musicali all'interno del disco sono vastissimi e serve aver mangiato un'enciclopedia della musica per poterli cogliere tutti. Uno psicotico intermezzo noise e si arriva scossi a "Hypochondria", una song dove i nostri, non paghi del casino fin qui creato, si mettono ad emulare i Pungent Stench con un death malato che comunque qualche secondo più tardi sarà già evoluto nel sound dei System of a Down, a seguire nei Between the Buried and Me o nei Cynic e infine ci si lancia verso sonorità aliene (mancavano solo queste d'altro canto). Direi in generale che il motto dell'act madrileno sia "chi più ne ha, più ne metta", visto che i cinque non si fanno mancare neppure scariche grind (ma è solo questione di decimi di secondo). È il momento dell'intermezzo industrial, tale contaminazione mancava all'appello. Siamo quindi giunti al mostro finale, cosi come in un qualche videogame anni '80. La prima citazione di "T.I.M.E. (Part 1 The Experiment)" spetta ai Radiohead, ma non temete, 20 minuti sono lunghi e c'è il tempo di ascoltare tutto e il contrario di tutto. Eccomi difatti accontentato perché i nostri calano un bel rifferama potente, ovviamente tranciato per lasciar posto a voci sofferenti coadiuvate dalla sola batteria in un pezzo hard rock. Ma i nostri soffrono a non sorprendere i fan, e già in sottofondo si percepisce il desiderio di inserire qualche altro elemento che da li a poco rivoluzionerà completamente l'incedere del pezzo, statene certi. I Pervy Perkin sono fatti cosi, e in questi ottanta minuti ho imparato a conoscerli e ad apprezzare la loro proposta schizofrenica, forse perché un po' schizofrenico lo sono pure io... (Francesco Scarci)

(Rockest Records - 2016)
Voto: 85

https://pervyperkin.bandcamp.com/

Ygfan - Köd

#PER CHI AMA: Folk/Dark/Post Black, Agalloch, Alcest
'Köd' è l'EP di debutto degli ungheresi Ygfan, band uscita nel 2015 con il presente lavoro in formato digitale, poi riproposto lo stesso anno dalla Fekete Terror Productions in cassetta e finalmente nel giugno di quest'anno in cd, per merito della nostrana A Sad Sadness Song, che ha scovato e promosso l'act di Budapest. A ragione peraltro. Si perché i quattro ragazzi si fanno notare per un sound sicuramente atmosferico e carico di pathos, che trova sfoghi più violenti in rare sfuriate di matrice post-black, ma che in realtà si mettono in evidenza piuttosto per una marcata vena dark del disco che sembra quasi donare quel quid indispensabile affinché l'ensemble prenda le distanze dall'assai inflazionato black. E devo ammettere che il risultato è davvero brillante con i nostri che compongono un sound espressivo e convincente, che si svolge lungo le quattro tracce contenute nel dischetto, in un'alternanza di umori, sensazioni e buone dosi di originalità. La lunga opener dispiega una verve folklorica, mantenendosi su un mid tempo controllato anche quando entra in collisione con il black, palesando peraltro un buon gusto per le melodie, dal vago sapore mediorientale, ma sempre caratterizzate da un mood malinconico, complice anche una voce corale nel suo taglio pulito, un po' più acerba nella versione scream. Ancor più convincente la seconda song, forse anche per una durata meno estenuante, ma che comunque consente di assaporare il fluido magnetismo sonoro degli Ygfan, che si materializza attraverso suoni naturali, resi ancor più caldi e pastosi da un basso collocato in primo piano, che rende il tutto corposo ed avvolgente. "III" si apre ancora con versi di animali, tant'è che sembra quasi di trovarsi nel bel mezzo di un bosco, dove volgere lo sguardo verso la punta degli alberi, ruotare su se stessi e odorare il profumo che galleggia nell'aria, ascoltare i rumori della natura e lasciarsi infine cullare dalla dolcezza sprigionata dalla musica, quasi costantemente proposta in semi-acustico dalla band magiara. Proprio qui risiede un altro dei punti di forza per gli Ygfan, che in questo pezzo potrebbero anche essere accostabili agli Agalloch. Con "IV" giungiamo con mestizia al termine dei 32 minuti di 'Köd'; rimane infatti sospeso quel desiderio di volerne di più, grazie ancora ad atmosfere soffuse che si alternano a suadenti chitarre distorte che ammiccano al blackgaze cosi come le voci evocano gli Alcest in un pezzo dai tratti solenni, quasi magici. (Francesco Scarci)

(A Sad Sadness Song - 2016)
Voto: 75

https://ygfan.bandcamp.com/releases

mercoledì 14 settembre 2016

Elane - Lore Of Nén

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Neofolk, Dead Can Dance, Nebelhexe, Enya
Suoni mistici, magici ed intensi... ecco cosa racchiude 'Lore of Nén', secondo capitolo discografico dei teutonici Elane. Addirittura 19 tracce che richiamano inequivocabilmente la tradizione celtica, i suoi segreti e le sue ancestrali melodie. Il quintetto tedesco, a distanza di tre anni da 'The Fire Of Glenvore' si riaffaccia sulla scena, con un lavoro pregno di fascino e ideale colonna sonora per un film fantasy: soffuse e vellutate melodie costruite da chitarre acustiche, tastiere, archi e percussioni, arricchite da ottimi arrangiamenti orchestrali e poi, come tralasciare la soave e sensuale voce di Joran Elane, la leader indiscussa della band, la cui magica ugola non può non ricordare i vocalizzi delle grandi esponenti della scena folk, quali Loreena Mckennitt o Enya. Raggi di luce squarciano il cielo, oscure ombre e tenebrose atmosfere vengono dipinte dagli strumenti degli Elane; pennellate malinconiche grigio scure viaggiano attraversano i nostri sensi e non è solo l’udito a beneficiare di questo disco, ma anche la vista ci conduce in paesaggi fiabeschi, stile “Il Signore degli Anelli”. È sufficiente chiudere gli occhi e immergersi in un’altra epoca, farsi avvolgere da un altro mondo in cui gli gnomi passeggiano per le strade, ove maghi dagli strani cappelli volano nel cielo ed epici cavalieri lottano per uccidere pericolosi draghi. 'Lore of Nén' vi porterà lontano dal vostro mondo per vivere un’esperienza unica in posti incantati, dove un eccitante fluire di emozioni vi strapperà dal cuore, la noia della triste quotidianità. Magia allo stato puro. (Francesco Scarci)

(Distinct Music - 2006)
Voto: 75

http://elane-music.com/

Omnihility - Dominion of Misery

#FOR FANS OF: Brutal Technical Death Metal; Internal Suffering, Deeds of Flesh
The third full-length from Oregon-based brutal/technical death metallers Omnihility once again manages to contain their ravenous and utterly pummeling assault into a whirlwind of technical and brutal death. This is mainly a finely-acute mixture of swirling, dive-bombing technically-challenging riffing that hurtles forth at rather frantic tempos that adds an overt brutality as the band whips up a frenzy of complex arrangements alongside the mechanical patterns. With an occasional dip into a more mid-tempo chug-based pattern, this serves as a nice buffer to off-set the more brutal moments here with the tightly-wound, frenzied rhythms here containing a rather charging, chaotic focus with this series of riffing coming together incredibly well. There’s only a slight issue with this one, as the album sounds way too mechanical and triggered at times to really breathe like the material really calls for here as the guitars really offer no depth or variety in their tone and stay on the same format for the album’s duration while the drumming is rather one-note choppy blasts without much deviation as well. It’s really the only thing to dislike here as the rest of the material is quite fun. The instrumental intro ‘Morte Aeterna’ uses it’s eerie lullabye-style to set-up proper first track ‘Psychotic Annihilation’ which carries many of the album’s traditional stamps here of utterly schizoid rhythms swirling through blazing tempos in a tight, frantic charge that readily overwhelms with it’s dive-bombing patterns and razor-wire riff-work that gets this off to a fine start. ‘Immaculate Deception’ slows down the tempo for more of a mid-tempo chug with it’s blasting mayhem as the twisting rhythms and full-throttle drumming continuing the assault with plenty of ravenous patterns throughout that kicks into more technical realms for another standout effort. ‘Dementia Praedox’ and ‘Dead Eden’ both carry more of the same in regards to whirlwind patterns of swirling, complex patterns diving around a frantic, frenzied rhythm augmented with plenty of technically-challenging and complex riffing, blasting drumming and brutal rhythms throughout. The instrumental ‘Within Shadows’ works as a fine mid-album breather that leads into ‘Reflections in Blood’ as the return to a more mid-tempo filled pattern in the riffing and drumming makes for another rather heavily-mechanized charge with the steady blasting and swirling riffing keeping this moving along quite nicely with plenty of fine brutality offered up in a solid enough track. ‘Parasitic Existence’ offers utterly blasting drumming and frantic swirling riff-work firing off plenty of stellar complex rhythms as the frantic, utterly straightforward pummeling tempo keeps the blazing intensity featured non-stop for a true highlight offering. ‘Necrotic. Consumption. Obsession’ is yet another rather enjoyable burst of charging twisting rhythms and frantic rhythms holding the technical patterns in line throughout the frenetic tempo as the blasting drum-work alongside the swirling brutality makes for a stellar offering as well. Finally, the album-closing instrumental title track offers another series of fine swirling rhythms and technically-challenging patterns to really generate a rather impressive closing note for this one. It’s really only the troubling issues already-mentioned that really hold this one back. (Don Anelli)

martedì 13 settembre 2016

Amphetamin - A Flood of Strange Sensations

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze, Tame Impala, Porcupine Tree
Le one-man band sono pericolose: innanzitutto perché, per fare un bel lavoro, devi essere sostanzialmente un genio. E poi perché in qualche modo il tuo strumento preferito rischia sempre di sovrastare gli altri. È inconscio, credo. Nel caso del francese Sebastian, mente e cuore dietro il progetto Amphetamin, lo strumento prediletto è la voce: emozionale, sospirata, melodica, capace di creare belle atmosfere. Le linee vocali sono ricche di falsetti – che personalmente amo poco, ma tant’è – e mi ricordano qua e là nello stile, Steven Wilson, HIM e forse qualcosa di James Blake. Intendiamoci: Sebastian ha una voce pulita, precisa e capace di suscitare forti sensazioni. Ma la composizione e la produzione stessa del disco la premiano fin troppo: 'A Flood Of Strange Sensations' è un lavoro fortemente incentrato sulla voce. Si salva forse la chitarra (splendido l’assolo in “Favourite Doll” o la progressione di accordi in “Endless Nights”), mentre batteria, basso e synth spariscono in un lago di noia e pattern banalissimi. Musicalmente, è un disco che definirei post-rock/shoegaze nel solco di Tame Impala e Porcupine Tree, pur avendo qualcosa di prog, una forte attenzione all’atmosfera generale e anche certe interessanti venature esotiche (“Stranger On An Island”). Non mancano ritmiche serrate e distorte (“The Threshold”), ma in generale la predilezione di Amphetamin/Sebastian è per la melodia, l’arpeggio indovinato, i violini a tappetone, il mid-tempo in quattro quarti (“Neverland”). Applaudo il tentativo dell’autore di costruire un album che si lascia ascoltare, scorre piacevole pur senza stupire; e di costruirlo interamente da solo – dalla scrittura alla registrazione, fino all’autoproduzione. Ciononostante, le pur belle melodie vocali di in 'A Flood Of Strange Sensations' nascondono una composizione strumentale solo mediocre. Il risultato è un bell’esercizio vocale non sufficientemente supportato musicalmente: ma sarei curioso di ascoltare Sebastian inserito a tutti gli effetti in un gruppo “vero” – lì sì che potrebbe regalare grandi sorprese. (Stefano Torregrossa)

lunedì 12 settembre 2016

Fuzz Orchestra - Uccideteli Tutti, Dio Riconoscerà i Suoi

#PER CHI AMA: Psych/Math Rock Sperimentale
Arnaud Amaury (in italiano Arnaldo Amalrico) fu prima abate, poi arcivescovo nel Mezzogiorno francese nel tardo medioevo. Il suo nome è legato indissolubilmente a quello di Papa Innocenzo III, da cui fu incaricato di debellare l'eresia dei Catari durante la Crociata albigese del 1209. Il religioso marciò con l'esercito verso la Linguadoca dove poi a Béziers, fece massacrare migliaia di persone in quanto Catari, ma essendo la maggioranza dei cittadini cattolici, perirono anch'essi nell'azione militare. Sembrerebbe leggendaria (e comunque ancora fonte di discussioni a distanza di ben otto secoli) la risposta che fu data in quella circostanza da Arnaud Amaury a un suo soldato che gli chiedeva come distinguere nella soppressione, gli eretici dai cattolici: "Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi". E proprio da questa controversa risposta, nasce il titolo della quarta release dei Fuzz Orchestra, un connubio di generi e sottogeneri musicali che ben si amalgamano tra loro in una scoppiettante miscela sonora che include otto brani. Brani che sono innescati dal vibrante e dinamico incedere di "Nel Nome del Padre", song che abbina ad una cavalcata puramente metal, atmosfere da film spaghetti-western, corredate da una serie di parti parlate verosimilmente estrapolate da qualche film anni '60-'70 (nel disco ci saranno anche citazioni bibliche, letterarie e molto altro che ho faticato ad identificare). Questa peculiarità contraddistingue l'intero album, con una ricercatezza nei dialoghi offerti del tutto non casuale, orientata a discorsi di carattere politico-religioso che a distanza di cinquant'anni risultano ancora del tutto attuali. Il genere del power trio lombardo si srotola comunque in una musicalità che coniuga una specie di psych-stoner con sonorità a tratti orchestrali ("Todo Modo"), di cui sottolineerei l'eleganza a livello degli arrangiamenti, grazie alla presenza di una serie di ospiti (N. Manzan, M. Santoro, F. Bucci, S. De Gennaro tra gli altri) e relativi strumenti (violino, fagotto, trombone, timpano) di tutto rispetto, che rendono la proposta dei Fuzz Orchestra davvero di elevato spessore. Lenta e ipnotica, "Born Into This" convince appieno per la presenza dei fiati e per la piega sperimentale che prende nel corso della sua evoluzione strumentale; inoltre il testo non è altro che un riarrangiamento di 'Dinosauria, We', poesia di Charles Bukowski. Decisamente più oscura e angosciante (soprattutto a livello di liriche) "L'Uomo Nuovo", dove i campionamenti noisy sono affidati ad un altro ospite rilevante, Riccardo "Rico" Gamondi degli Uochi Toki. La musica dei Fuzz Orchestra si fa brano dopo brano sempre più aggrovigliante e nella tenebrosa "Una Voce che Verrà", l'atmosfera sprofonda in un baratro da cui la speranza appare fuggita da tempo. Fortunatamente un filo di luce sembra tornare nella successiva "Il Terrore è Figlio del Buio", altro pezzo dannatamente metal (oserei dire speed metal) almeno nella sua prima metà, prima che l'aria si increspi per pochi attimi e che il fuoco divampi nell'incendiario finale che introduce al "Lamento di una Vedova" e ad una fisarmonica che sembra risuonare in una qualche brasserie francese lungo la Senna. Arriviamo ahimè alla conclusione con "The Earth Will Weep", dove altri due ospiti ci stanno aspettando: Simon Balestrazzi (Kirlian Camera tra gli altri) alla piastra metallica e Pl Barberos alla voce, in un brano che sembra mixare tutto quanto fin qui ascoltato in questa incredibile release dedita a metal, noise, colonne sonore, psichedelia, stoner e molto, molto altro. Se siete alla ricerca di qualcosa di fresco, originale o sperimentale, sono certo che 'Uccideteli Tutti, Dio Riconoscerà i Suoi', potrà di certo fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Woodworm Rec - 2016)
Voto: 85

domenica 11 settembre 2016

Greytomb - A Perpetual Descent

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven, Altar of Plagues 
La scena estrema internazionale ribolle e non poco: Francia, U.S. e Germania sembrano essere le nazioni in cui in un modo o nell'altro, ci sia un maggiore interesse verso gli estremismi sonori cosi come una certa freschezza a livello di idee. Non trascuriamo però l'Australia, da sempre paese portatore di suoni originali, ricercati e assai decadenti. Fatta questa semplice premessa, ecco che presentarvi questi cinque cavalieri dell'apocalisse sarà compito meno arduo per il sottoscritto. I Greytomb sono un ensemble di base a Melbourne che si presenta con questo malsano quanto intrigante biglietto da visita, 'A Perpetual Descent'. Quattro tracce e 40 minuti a disposizione per conquistarci con il loro post black nevrotico, che si dimena tra bordate di scuola Deafheaven e spaventosi rallentamenti, sin dall'apertura affidata a "The River of Nihil", song che richiama peraltro una band italiana che francamente adoro, i Nihil Locus, a causa di un modo decisamente disperato di proporre le loro vocals. Poi le influenze si spingono anche ai francesi Deathspell Omega per quell'utilizzo di inquietanti atmosfere costruite da chitarre dissonanti. Insomma, le referenze dei nostri non sono mica male e se a queste aggiungete anche un che degli Altar of Plagues, capirete anche voi, che i Greytomb non sono certo degli sprovveduti, ma un gruppo da seguire con sommo interesse. Incredibili le emozioni malefiche sprigionate dal finale della opening track che ci traghettano poi ai 16 minuti di "Urban Moulder", in cui la vena black doom degli Austere prende il sopravvento nel sound del 5-piece dello stato di Victoria. Il ritmo si fa più lento e cadenzato, quasi al limite del funeral, con lo screaming acuminato di -O- (qui anche in versione parlata) a cantare di nichilismo, metafisica ed inesistenza in un sound ammorbante, a tratti asfissiante ma che sa anche essere onirico nelle sue splendide aperture ambient che dischiudono la vena più malinconica per la band australiana. Un intermezzo noise che sembra evocare le urla dei dannati all'inferno e la mortifera violenza black divampa nella conclusiva "Boundless Introspection", in cui le vocals scomodano addirittura lo spettro di Attila Csihar ai tempi di 'De Mysteriis dom Sathanas', per un finale davvero da brividi. Che altro dire se non che 'A Perpetual Descent' è lavoro assai interessante e che i Greytomb sono una new sensation da tenere assolutamente nei vostri radar. Insani. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 75

sabato 10 settembre 2016

Eradikal Insane - Mithra

#FOR FANS OF: Death/Metalcore,The Black Dahlia Murder, Neaera, Benighted
Finally making it to their debut effort, French Death Metal/Metalcore fusioners Eradikal Insane have certainly seen their share of struggles over the years and have honed the anger and intensity into a fine package. Though there’s plenty of Death Metal influence in the riff-work, at the heart of the matter here is the absolutely strong and enjoyable manner in which the album makes room for it’s hard-hitting breakdowns that are incorporated here alongside the riffing which takes a lot of influence from the tightly-wound rhythms of grindcore. Technically explosive and endearingly violent, there’s plenty of sharp-edged work to be found here if way too one-note about it’s work as it’s all quite built around the same overall rhythm patterns that it doesn’t really do much to differentiate itself from the other hard-hitting groups of this style. Still, there’s plenty to like overall in the tracks for those that like that sort of violent, intense approach. Opener ‘A Perpetual Nothing’ immediately blasts through tight, mechanical patterns with plenty of deep chugging and rather furious, technical patterns with plenty of rather hard-hitting riffing amongst the breakdowns leading into the finale for a rather strong first impression. ‘Initium’ whips up a strong series of grinding patterns with a series of technical breakdowns coming continuously throughout the main patterns with the blasting drumming chopping along throughout the feverish technical breakdowns in the final half for a hard-hitting highlight. ‘Sediments of Misconception’ offers plenty of tight grinding riffing and fast-paced drumming that brings out rather strong and impassioned breakdowns that merge alongside the blasting drumming and technical riff-work throughout the charging finale for another strong highlight. ‘Consciousness Alight’ utilizes blistering technical riffing and grinding drum-work to a stellar mid-tempo series of breakdowns that bring about the stellar hardcore influences alongside the tight, technical rhythms while offering a stellar chug in the final half for a decent if unimpressive effort. ‘Abrasive Harbingers’ blazes with ferocious swirling technical leads and sprawling breakdowns bringing out the varied tempo changes leading along throughout the fine blasting and tight swirling leads grinding away into the finale for a much stronger effort. The instrumental title track offers a fine mid-album breather with a light acoustic guitar strumming away and leading back into next track ‘Intrinsic Propensity’ which blasts through brutal, intense riff-work and finely-charged breakdowns filled with utterly pummeling drumming holding the violent razor-wire riffing and grinding patterns through the intense rhythms leading into the final half for the album’s best track overall. ‘Archetypes’ offers a slower mid-tempo crunch that works nicely at bringing the breakdowns flowing into the technical rhythms grinding through the steady patterns flowing along throughout the extended series of rhythms and breakdowns into the finale for a highly enjoyable if overlong effort. ‘Harvest’ uses a tough, mid-tempo grinding pattern with plenty of ferocious blasting to work along through a steady, blasting section that goes through tight breakdowns and steady chugging leading back through the technical riffing in the grinding final half for a steady, enjoyable offering. ‘Universal Spine’ features a long, droning intro before blasting into tight, swirling and ferocious rhythms with plenty of tight patterns holding through the steady grinding and technical riffing along through the rather overlong sections in the finale for a decent if again way too long effort. Finally, album-closer ‘Metanoia’ uses a series of tight, grinding patterns and plenty of swirling technical riff-work that leaves the faster tempos along into the series of breakdowns while letting the tight rhythms coming back and holding into the blistering final half for a strong enough lasting impression. There’s a lot to like here even with the flaws. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 75

Crown of Asteria - Karhun Vakat

#PER CHI AMA: Cascadian Black/Folk/Ambient, Panopticon
La one-woman band mi mancava. Di esempi musicali con un unico mastermind uomo ne abbiamo visti passare qui nel Pozzo dei Dannati a bizzeffe, quest'oggi m'imbatto invece per la prima volta in un progetto la cui unica mente è donna, Meghan Wood, una giovane donzella del Michigan, che dal 2011 a oggi, ha prodotto una serie infinita di album/EP/split e demo con i suoi Crown of Asteria. La proposta dell'act statunitense oscilla tra un ipnotico e sognante ambient (la opening track, "Tietäjä", ne è un esempio), un black glaciale ma atmosferico e aperture folk, a suggerirmi l'amore di Meghan per gli Agalloch ed in generale per il movimento cascadiano americano, in cui meglio vedrei collocato il sound della donna di Bancroft. Detto questo, ne esce un album, 'Karhun Vakat', dal sapore mistico e ancestrale, che impressiona per la ferocia del suo riffing primordiale in "The Golden Light of Birchwood Temples", lo screaming efferato della sua vocalist, ma che sa anche conquistare per la melodia dei suoi frangenti più folk-acustici, che emergono ben più forti e conditi da una componente etnica, che in un qualche modo sembrerebbe pescare dalla cultura indiana, nella terza "Hongotar". Tuttavia, cercando sul web il significato dei titoli di alcune canzoni, mi sembra di intuire in realtà che la sciamana statunitense tragga ispirazione dalla tradizione magica finnico-careliana, ma avrò modo di investigare a tal proposito. Nel frattempo proseguo con l'ascolto del disco e arrivo a "Sky-Nail" e ad un black qui più cupo ed epico, ma dalle aperture chitarristiche davvero azzeccate che per certi versi mi hanno rievocato il sound dei Dissection. C'è comunque un certo misticismo di fondo nella musica dei Crown of Asteria, e nell'originalità stravagante di un suono che ahimè pecca nella pulizia dei suoni, produzione e mastering, sulla scia di quanto fatto dai primi Panopticon. Io comunque mi fido e mi lascio sedurre da Meghan e dalla quinta "Black Antlers Above the Lodge", un pezzo strumentale di oltre otto minuti, che vira verso un death dagli epici sentori. Il caos sonoro prosegue con "Väki", che ancora sembra rievocare poteri magici dell'antica mitologia finlandese in un movimento ondulatorio straniante che mi ha ricordato i nostri Laetitia in Holocaust e le loro soluzioni estremiste d'avanguardia; peccato solo per i volumi che oscillano fastidiosamente, altrimenti questa poteva essere una bomba di allucinazioni perverse e iraconde. Giungo alla conclusiva e in versione live acustica, "Kallohonka", che dovrebbe rappresentare il pino ove appendere i teschi degli orsi dopo le feste pagane e ai cui piedi ne venivano sepolte poi le ossa, una song che chiude il disco cosi come lo aveva iniziato. Peccato per la produzione casalinga e quella sensazione ricorrente di ascolto di un demo anziché di un full length, , ma forse è voluto come effetto. Sono certo che con un budget ben più corposo, qui staremo parlando di un qualcosa di davvero interessante. Dimenticavo, quest'album è di marzo 2016, nel frattempo sono già usciti due EP e uno split. Forte la ragazza. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 70

giovedì 8 settembre 2016

Face The Maybe - The Wanderer

#PER CHI AMA: Progressive/Metalcore, Between The Buried And Me, Periphery
Per me il progressive vero è finito con 'A Change Of Season' dei Dream Theater. Lo ripeto da anni. Eppure, continuo ad essere smentito da queste realtà indipendenti (penso agli Earth’s Yellow Sun, ai No Consequence, ai Tardive Dysknesia) formate da musicisti straordinariamente dotati di tecnica, intuito, capacità e voglia di sorprendere. In questa categoria entrano oggi a gamba tesa gli spagnoli Face The Maybe, con il loro 'The Wanderer' – che segue il debut 'Insight' del 2011. Un disco straordinario, sorretto da un lavoro vocale praticamente perfetto (Tomas Cunat passa con facilità da una voce pulita, precisa ed estesa ad un convincente harsh-vocals tinto di growl) e da una capacità di songwriting davvero rara. Le dodici tracce trasudano continuità e coerenza da tutti i pori, e permettono al quintetto di Barcellona di esplorare tutti i canoni del genere: c’è il metalcore dei Periphery con i ritornelli strappamutande (“All That I See” e “Seth”), c’è il djent ipertecnico (“Dagger” e “The Swan”), c’è l’epicità oscura di certi Opeth (“New Dawn”); e non mancano ovviamente sfumature dei più classici Dream Theater (“The Wanderer”). Ma ogni riferimento è frullato e digerito dai Face The Maybe, che affrontano la scrittura dei brani con maturità, personalità e con un’attenzione alla melodia che, pur facendo storcere il naso ad alcuni puristi del metal, trasforma un disco difficile, tecnico e impegnativo in un’esperienza di ascolto godibilissima anche ad orecchie non preparate. Non sorprendetevi, dunque, se ascoltando 'The Wanderer' vi troverete a passare da uno shredding violentissimo di chitarra su un tappeto di doppia cassa, ad un ritornello che potreste tranquillamente fischiettare sotto la doccia. C’è molto materiale al fuoco (dodici pezzi, quasi tutti sopra i 6 minuti e con punte di oltre 9), forse fin troppo. Ma ne vale la pena. (Stefano Torregrossa)

Diana Spencer Grave Explosion - 0

#PER CHI AMA: Space Rock/Stoner, Kyuss, Colour Haze
Il tempo si dilata, rallenta, sussurra. Appaiono orizzonti rossi, sabbia, stelle, spazi infiniti, solitudine. Un deserto oscuro e senza fine, disabitato, dove il tempo perde ogni senso. E invece – sorpresa – siamo a Bari, patria dei Diana Spencer Grave Explosion. Il quintetto sorprende per la capacità di creare straordinarie atmosfere stoner ricche di psichedelia, che sanno trasformarsi, quando serve, in monolitiche architetture di chitarre maestose e headbanging furioso. “Space Cake” gioca su un riffing indovinatissimo, che sa pesare con precisione, distorsione ed effetti, alternandosi tra cavalcate stoner a suon di crash e rullante, e momenti più lisergici. Un piano elettrico dal gusto anni ’70 apre “Avalanche”, guidata da delay spaziali e una melodia riuscitissima fino ad una inaspettata apertura in maggiore. La batteria (che sceglie pattern minimali ma precisi, sullo stile di Brant Bjork) e il basso costruiscono una base solida e granitica su cui poi tastiere (sentite che suoni! assolutamente perfetti) e chitarre hanno ampio spazio di manovra. Sono evidentemente le chitarre a reggere l’intero lavoro, con un sound maturo a metà tra i Kyuss e il kraut rock dei Colour Haze. Ma non è un disco solo stoner, intendiamoci: è l’anima psichedelica dei Pink Floyd e di certi Motorpsycho ad affacciarsi nell’intro della lunga suite conclusiva del disco. “Long Death To The Horizon” riassume in 13 minuti la visione complessiva del quintetto barese, passando da una cantilenante melodia ad uno spirito blues distorto e oscuro, per poi tuffarsi in un oceano stoner di wah e mid-tempo. Il disco si riavvolge apparentemente su se stesso, chiudendo con la stessa magia dell’inizio, tra violini e fisarmoniche di un’improbabile orchestrina. Grande musica, personalità, maturità; ottima produzione; e la capacità, sempre più rara, di far volare l’ascoltatore e catturarlo, dal primo all’ultimo minuto. Se queste sono le premesse, non vedo l’ora di ascoltare il loro full-length.(Stefano Torregrossa)