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sabato 19 marzo 2016

Atom Made Earth - Morning Glory

#PER CHI AMA: Prog/Post Rock/Stoner, Mono, Mogwai, Pink Floyd
Difficile catalogare il quartetto marchigiano degli Atom Made Earth, una delle realtà più eclettiche e originali che abbia sentito ultimamente. Nel loro lavoro (il primo studio album, dopo un live del 2014) c’è davvero di tutto: c’è la psichedelia spaziale dei Pink Floyd mescolata alle cavalcate stoner degli Sleep ("Thin"), c’è il prog-rock contemporaneo di "Reed", dove si respirano echi di Porcupine Tree e Rush, c’è lo stoner-rock anni 2000 stile June of 44 e Brant Bjork & The Operators ("Baby Blue Honey"). Su lunghe parti strumentali uscite dritte dritte da qualche b-side dei Black Sabbath si aprono all’improvviso parentesi dispari di ispirazione King Crimson e lunghe suite settantiane di hammond ("StaC", vero capolavoro del disco); e poi, qua e là, si trovano anche gemme di kraut-rock, sperimentazioni ambient, azzardi sonori e spolverate di jazz. Gli Atom Made Earth suonano tutto, e molto bene: le chitarre passano da suoni acustici crepuscolari a distorsioni pungenti, da wah-wah funkeggianti a misurati delay; le tastiere sfruttano a pieno elettronica, organi, pianoforti e sintetizzatori. Basso e batteria non sbagliano mai, prediligendo sonorità più naturali, grande dinamica e partiture mai banali. La produzione è forse un po’ troppo asciutta e concentrata e – nonostante il gran lavoro di James Plotkin e Gianni Manariti – avrebbe forse goduto di un po’ più apertura, anche a discapito della pulizia generale che, bisogna ammetterlo, mantiene chiara e godibile ogni singola nota suonata. Il vero difetto degli Atom Made Earth è però la sottile sensazione di manierismo che pervade il lavoro: se alcuni accostamenti di generi funzionano alla grande, altri sono studiati un po’ troppo a tavolino e risultano freddi e forzati. Le pur sopraffine tecnica e creatività compositiva dei musicisti, in alcuni casi, sono controproducenti e 'Morning Glory', qua e là, perde di spontaneità e risulta solo un artificiale esercizio di stile imitativo. (Stefano Torregrossa)

(Red Sound Records - 2016)
Voto: 65

https://atomadearth.bandcamp.com/album/morning-glory

Witte Wieven - Silhouettes Of An Imprisoned Mind

#PER CHI AMA: Black Atmosferico
Provenienti da Tilburg in Olanda, i Witte Wieven (che sta per "donne sagge") sono un duo formato da Sarban (batteria) e Carmen (voce, chitarra e basso), dediti a un black metal d'atmosfera, tinto comunque di influenze cascadiane e post black. Lo si evince immediatamente dall'opener track, "Ruin", un'autentica galoppata di suoni post black, in cui le uniche voci sono lasciate ai sussuri soavi della brava Carmen che per certi versi richiama le produzioni più delicate di Myrkur. "Silhouettes of an Imprisoned Mind", la traccia che dà anche il titolo a questo mini cd (racchiuso in un digipack elegante dalla cover assai suggestiva che riprende 'Dancing Fairies' del pittore svedese August Malmström), continua nella sua opera di ritmiche serrate in pieno stile US, fino a quando la quiete non prende il sopravvento e come una ammaliante sirena, Carmen torna a proporre dei brevi sussurri in sottofondo. Non per molto a dire il vero, perchè la furia dilagante del duo orange, avrà modo di esplodere ancora in vibranti accelerazioni, lasciando la parola alla sola musica. Si arriva velocemente alla terza e ultima song di questo EP, che funge da apripista all'imminente album di debutto. "Faces of Unreality" si muove tra sinistre atmosfere, rallentamenti al limite del doom e sfuriate black, che lasciano soltanto intravedere le potenzialità che questo duo olandese possiede. Quindici minuti sono un po' pochi per capire cosa ci riserva il futuro, soprattutto se le tracce che verranno saranno completamente strumentali o se Carmen sarà in grado di offrire vocalizzi alla stregua della collega danese, leader dei Myrkur. A breve per nuovi aggiornamenti. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 65

https://wittewieven.bandcamp.com/

mercoledì 16 marzo 2016

Colonnelli - Verrà la Morte e Avrà i Tuoi Occhi

#PER CHI AMA: Thrash/Heavy, IN.SI.DIA
Ho sempre sostenuto che in Italia ci siano tante realtà assai valide, che solo canali “alternativi” come questo del Pozzo, possono far venire a galla. In questo specifico caso, a dir poco strabiliante, abbiamo a che fare con un potentissimo trio toscano, di Grosseto per la precisione. I Colonnelli marchiano a fuoco la fine del 2015 e l'inizio del 2016 con questo album che si candida, senza troppi giri di parole, ad essere una delle più limpide dichiarazioni di manifesta superiorità in ambito metal degli ultimi anni. Ma andiamo con ordine: immaginate un tonante groove metal suonato da Dio, aggiungete un inedito (per il genere) cantato in italiano, unite una tonnellata di doppio pedale solidissimo e amalgamate il tutto con un riffing serrato e molto preciso. Fatto? Bene, miscelate tutto benissimo e assaporate il risultato: un disco gigantesco. Lungo i ripetuti ascolti non ho potuto trovare un punto debole che sia uno, anzi, ad ogni ascolto apprezzavo sempre di più il lavoro di Leo, Bernardo e Andrea (coadiuvati poi in registrazione da altri musicisti). 'Verrà la Morte e Avrà i Tuoi Occhi' è un entusiasmante mix heavy che richiama i Motorhead, finisce in braccio ai Misfits, per poi sfiorare da vicino il thrash metal più grooveggiante dei Kreator. Era dai tempi ormai lontani dei dischi dei monumentali IN.SI.DIA che non mi era più capitato di imbattermi in un lavoro così valido, peraltro cantato in italiano. Un piacere unico avere a che fare con questo lavoro, che può avvalersi anche di un ottimo suono, ideale per il tipo di sound proposto ma che personalmente avrei preferito un po' più “pulito”, senza dover per forza scadere nel troppo freddo e asettico. Il trittico iniziale è da pelle d'oca, una qualcosa di notevolissimo spessore: ”Il Boccone Amaro”, “Masticacuore” e la potentissima “Circo Massacro” spazzano via tutto quello che incontrano sul proprio cammino, come panzer in avanzamento perpetuo. Bastano solo questi tre pezzi per indurvi all'ascolto di questo massacro sonoro. Non c'è da aggiungere molto altro, perché altrimenti sarei troppo propenso a “distribuire” lodi sperticate che potrebbero risultare stucchevoli, non mi rimane pertanto altro che consigliarvi di procurarvi il disco quanto prima. Non ve ne pentirete assolutamente. Anzi, ve ne innamorerete all'istante. Giganti! (Claudio Catena)


((R)esisto Distribuzione - 2015)
Voto: 90

Mutiny on The Bounty - Digital Tropic

#PER CHI AMA: Experimental Post Rock
Questo giovane quartetto proveniente dal Lussemburgo è arrivato al terzo full-length, che aggiunge un nuovo tassello alla propria evoluzione - senza però ancora raggiungere la piena maturità - con un disco curatissimo in ogni suo dettaglio, dalla registrazione alla confezione, e formalmente ineccepibile. Alfieri di un post-rock strumentale dalle forti connotazioni math, con 'Digital Tropic' i Mutiny on The Bounty innestano massicci quantitativi di elettronica su una matrice che rimane sostanzialmente post-metal, per un risultato sicuramente curioso e intrigante, pur non privo di punti interrogativi non ancora del tutto risolti. Innanzi tutto due parole vanno spese sul magnifico 12’’ in vinile trasparente che, oltre a garantire un’eccellente resa sonora, permette di godere appieno della splendida copertina. Scelte stilistiche cosí raffinate si riflettono nella cura che la band pone nella composizione e realizzazione della propria musica, contrapponendo potenza e delicatezza, rabbia e candore. Come detto, l’impianto è un classico math-prog-metal piuttosto potente e complesso ritmicamente, sul quale si adagiano ricami chitarristici, synth, loop ed effettistica varia, in un modo che ricorda vagamente i 65daysofstatic, pur senza raggiugerne le vette poetiche. Le cartucce migliori vengono sparate subito in apertura, e se ci si trova piuttosto esaltati dall’ascolto delle trascinanti "Telekinesis" e "Countach", si rimane soddisfatti solo a metà del resto della scaletta. Tanto i primi due brani stupiscono per freschezza, potenza e creatività, quanto risulta difficile tenere desta l’attenzione per tutta la durata dell’abum. Il punto è che il gioco, dopo un po’, sembra mostrare la corda, gli inserti elettronici risultano un po’ troppo zuccherosi e quella che sarebbe potuta essere la perfetta colonna sonora di un film di fantascienza distopica alla Matrix, sembra in piú di un’occasione la musica di una versione di Candy Crush Saga sotto anabolizzanti. Forse semplicemente 'Digital Tropics' è un tantino freddo, al cospetto di un’esecuzione impeccabile e di doti non comuni di scrittura, o forse si tratta di un disco che risente molto del mood con il quale lo si ascolta. In definitiva i lussemburghesi sono senz’altro promossi, ma con riserva. Come tutti gli studenti piú dotati, da loro ci si aspetta sempre qualcosa in piú. E speriamo che possano mostrarcelo in futuro. (Mauro Catena)

(Small Pond Recordings - 2015)
Voto: 70

Kopper8 - Addiction

#FOR FANS OF: Thrash/Groove Metal, Pantera, Lamb of God
The debut effort from these French groove/thrashers offers up a rather enjoyable-on-paper approach that doesn’t really translate as well as it should onto the record, making for a disappointing if still slightly appealing effort. What works here is the generally groove-based approach to thrashing riff-work, leaving this with tight, crunchy riffing and explosive energetic rhythms that make for a rather engaging time here alongside the pounding drumming thrown into the mix. With the groove riff-work adding an extra bit of intensity to the proceedings, there’s some rather enjoyable times here but one which does come with some minor problems. The biggest issue here is the fact that almost all of the music here is arranged similarly, being a fast and aggressive opener and then settling into a mid-tempo charge almost verbatim throughout the rest of the song, and this does manage to leave the impression that if the opening riff isn’t appealing the song itself won’t be. It’s a pretty unappealing process, especially when several of the songs aren’t that good or feature endless rambling segments that tend to slow the music down to a crawl with their endless sprawling rhythms taking a lot of the energy out of the tracks. Still, this one does end up being enjoyable enough otherwise to come off rather nicely. Intro ‘Beast’ features a sampled snarling animal to lead into the tight grooves and raging riff-work alongside plenty of pounding drumming charging along at rather frantic grooves chugging along with fiery energy through the final half for a fun, engaging opener. The title track uses a swirling bass-line to slowly grow into a crushing series of oppressive grooves offering plenty of toughened rhythms thrashing along to the striking solo section that carries on through the charging finale for a highly enjoyable highlight effort. ‘La Haine’ uses tight swirling riffing and strong crushing rhythms bringing along plenty of tight patterns and charging atmospheres to the steady mid-tempo paces leading throughout the steady grooves of the final half makes for a fine if slightly unimportant effort. ‘HateGod’ features a strong swirling bass-line and steady plodding rhythms that allow the simple grooves plenty of swirling rhythms that follow along the one-note pace with light melodic clanging leading into the sprawling finale for an overall unimpressive effort. ‘Evanglie’ takes tight, raging grooves and plenty of chugging riffing through plenty of raging tempos weaving throughout swirling riff-work as the sprawling melodic segments turning back into blistering thumping grooves for the final half in yet another strong highlight effort. ‘Patrie’ blasts through tight drum-work and chugging grooves raging along through the up-tempo paces leading into the steady paces leading the blasting patterns alongside the charging groove riffing through the thumping dynamics of the finale for a strong and overall enjoyable track. ‘Born to Die’ uses blistering razor-wire riffing and pounding drumming through a tight, up-tempo groove that settles into a thumping mid-tempo pace with the charging riff-work keeping the strong rhythms in place for the fiery final half that makes for another enjoyable offering. ‘L'Elogie de la folie’ features light guitars soon turning into sprawling, plodding paces and rather light rhythm work that ends the album-proper on a decidedly disappointing note. Lastly, bonus tracks appear in the 2015 remixes of ‘Amnesia’ and ‘Requiem’ sound like energetic and respectful versions of the originals without really adding anything really unique to them beyond the updated, crunchy sound to fit in with the rest of the tracks and makes them entirely serviceable if completely unneeded. While there’s enough to like it’s still got some problems overall here. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 70

domenica 13 marzo 2016

Ego Depths - Dýrtangle

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Ascoltare ma soprattutto recensire 'Dýrtangle' (la cui origine si rifà alla cultura nordica che da quella buddista tibetana con il significato approssimativo di 'abbraccio rude della bestia') è un po' come scalare un K2 o un Everest, una proba impresa riservata solo a poche, pochissime persone. Ottanta minuti di suoni incuneati fondamentalmente in cinque infinite tracce (di cui la prima è un intro e la terza un intermezzo acustico) partorite dalla mente malata di Stigmatheist, il musicista ucraino che si cela dietro a questo moniker. "Wheel of Transmigration" è la prima vetta su cui inerpicarsi nella speranza di sopravvivere prima di raggiungerne la cima e da lì provare a scorgere (inutilmente) la luce all'orizzonte, e da lì salire ancor di più. Diciannove minuti di suoni che definire claustrofobici sembra quasi un eufemismo: la lentezza disarmante con cui si muove il sound ha un che di spaventoso, inasprito peraltro dai vocalizzi del frontman che spaziano tra il growling e il sussurrato, attraverso lugubri e tetri paesaggi di apocalittico funeral. Una pausa, l'etnica "The Onward Tide", giusto per prendere fiato e ricominciare l'ascesa che sembra divenire ancor più aspra con i 23 minuti abbondanti di "Awakening of Gshin-Rje, the Lord of Death". L'inizio della song ha degli ovvi richiami alla cultura orientale con quelle melodie meditative che potreste sentire in uno dei tempi collocati sulle pendici dell'Himalaya, dove a regnare c'è solo il suono del silenzio. Verso il sesto minuto, il brano sprofonda nelle viscere della terra con le sue roboanti e catacombali chitarre, con l'unica parvenza di cantato racchiusa in gorgoglii in sottofondo e dove la musica si muove ipnotica e catartica nella sua epifania spirituale, tra suoni di campane e mistiche melodie. Nella seconda metà, il brano trova addirittura modo di esplodere la propria furia inespressa in una violentissima parte di black al limite del cacofonico. Non è facile ve l'avevo detto, qualcuno si sarà già arreso o presto lo farà, soprattutto al cospetto di "Vitrification, Ineludible Meditation", una song immonda di quasi trenta minuti, in cui ancora a fondersi ci sono i delicati suoni provenienti da strumenti della cultura orientale (l'arpa, il flauto duduk e il tamburo damaru) con le intemperanze di un diabolico funeral doom, che vi condurranno in un viaggio suggestivo quanto mai impervio ai più. Sicuramente affascinanti, ma di sicuro gli Ego Depths resteranno inaccessibili proprio come le vette del K2 o dell'Everest. (Francesco Scarci)

(Dusktone - 2015)
Voto: 65 

sabato 12 marzo 2016

Spheres - Throposphere 5

#PER CHI AMA: Heavy/Jazz Strumentale
'Throposphere 5' è un esempio di come il metal possa essere divertente ed anche colto. Un disco coerente e originale capace di alienare l’ascoltatore tra melodie d’altri tempi e blast beat impetuosi. È Chambéry la città ad aver dato i natali agli Spheres nel 2008; il demo uscito nel 2013 già mostrava le caratteristiche principali della band che si sono poi completamente espresse in questo 'Throposphere 5' uscito nel 2016, un disco prevalentemente metal ma con importanti contaminazioni jazz che aggiungono un elemento di leggerezza, rendendo l’opera equilibrata e godibile. Gli Spheres ricordano nei tratti jazz i Color Haze, nei tratti metal a volte sembra di sentire i Black Cobra e a volte i Downfall of Gaia. La composizione è il punto forte, tutti i passaggi sono chiari e ben delineati, infatti malgrado la complessità della musica, non è per nulla difficile seguirne il senso. Traspare la passione di Fred, Mat, Syd e Ced che dichiarano sulla pagina facebook di non avere interessi commerciali o particolari ambizioni, solo il desiderio di suonare insieme e rendere partecipi gli altri dell’armonia che riescono a creare. Con una premessa del genere un fatto è certo, gli Spheres si sono divertiti un sacco a scrivere questo disco! E non si sono limitati a tenere questa gioia per sè ma hanno deciso di impregnare di un’aria scherzosa tutte le parti di 'Throposphere 5', dalla musica all’artwork, dai titoli dei brani alla loro composizione. Quest’ultima come detto è senza dubbio il punto di forza, per rendere l’idea è come ascoltare una persona che in un discorso riesce sempre a uscirsene con la battuta pronta. La grafica invece è stata curata da Aurelien Bartolucci, designer non nuovo alle copertine musicali. Bartolucci ha sicuramente colto lo spirito del gruppo, le macerie e gli oggetti di uso quotidiano affiancate allo scheletro di un t-rex, sembrano fluttuare nel vuoto pur conservando un tono scherzoso seppur intenso e presente. Tornando alle onde sonore, vediamo che il jazz e il metal sono in armonica e felice convivenza. L’uso della batteria risulta più vicino al metal, il basso invece ha uno stile e un suono decisamente orientati al jazz, le chitarre sono graffianti ma non imponenti nelle parti intense e nelle altre sono invece brillanti e cristalline. L’opera è divisa in due parti, la prima è lineare ed in generale più semplice mentre la seconda è decisamente più malata. Le parti sono separate da “The King of Rats” un divertente coro a cappella, l’unico momento del disco in cui sentiamo delle voci umane. Un’esortazione su tutte “save the congo space program”, fa sorridere e dubitare della sanità mentale dei musicisti. Il disco apre con “Tarte Sphérique”, un multiforme agglomerato di leggerezza e intensità. Da notare a circa tre minuti, lo stacco da una parte in blast beat ad una assolo sornione e sinuoso che ricorda nel suono e nello stile Byan May. Uno dei pezzi che mi ha colpito particolarmente è “Swim Among the Stars”, che riesce a creare un ambiente ostile ma non minaccioso, come trovarsi davanti uno di quei personaggi cattivi dei videogiochi che sta per lanciare un attacco micidiale, ma si sa che è finzione e la paura nemmeno ci prova ad affiorare. La parte finale del disco si fa decisamente più nevrotica della prima, emblematica “Captain Frequence” una giusta chiusura all’opera, tra ritmiche composte, ambienti celestiali e sequenze di accordi al limite del dissonante, senza mai rinunciare alla spinta animalesca del metal. La schizofrenia malata degli Spheres crea effetti psicotropi ed epilettici in quest’ultima parte, ma si può sempre trovare sollievo nelle derive da camera che rassicurano e placano gli animi anche se per pochi istanti. Credo che questo sia un disco perfetto per dimostrare di come la musica cosiddetta “pesante” possa essere leggera e divertente. Jazz inquinato col metal, un caffellatte estremo. Da provare assolutamente. (Matteo Baldi)

(Self - 2016)
Voto: 80

Intervista con i Downlouders

Seguite questo link per saperne di più dei Downlouders e del loro robotico capodoglio:


Barús - S/t

#PER CHI AMA: Black/Techno Death, Meshuggah, Aevangelist, Gorguts
Che la Francia sia in fibrillazione non lo scopriamo certo oggi. In ogni angolo del paese transalpino spuntano come funghi, brillanti realtà musicali che provano ad emulare gli act più famosi che si sono fatti strada nella scena estrema mondiale. Dalle Alpi francesi e da Grenoble per l'esattezza, ecco arrivare i Barús, supportati dalla Emanations, sublabel della Les Acteurs de l'Ombre Productions. Il quintetto, che conta tra le sue fila anche un paio di membri dei Maïeutiste, aggredisce con un death metal iper tecnico che ha tra i suoi riferimenti quasi inevitabilmente i Meshuggah. Tuttavia l'approccio dei Barús appare più violento dei colleghi svedesi, con delle ritmiche davvero spaventose e altrettanto sghembe. Il muro sonoro che si mostrerà davanti a voi in "Tarot" è un qualcosa davvero difficile da scalare, sembra quasi non vedersi la fine. Le chitarre macinano riff vertiginosi mentre il vocalist si prodiga nell'offrire demoniache vocals in cui growling e screaming si sovrappongono spaventosamente mentre il batterista si diletta in una prova da urlo dietro le pelli. Che serva una grande tecnica per proporre un genere cosi difficile è ben chiaro, ma qui siamo palesemente di fronte a dei musicisti davvero bravi. D'altro canto proporre un genere che chiama in causa i gods scandinavi ma anche le disturbanti visioni di Aevangelist o Portal, rilette in chiave meno claustrofobica, non è certo qualcosa che si possono proporre tutti di fare. "Disillusions" è forse un pezzo più classico, che colpisce però per un cantato il cui growling suggestiona per la veste più spettrale che assume nel corso del brano ma anche per un breve ma notevole approccio pulito. Il sound dei Barús si muove invasato tra stop'n go, parti arpeggiate, momenti di quiete e caos totale, in variazioni di ritmo spaventose. Questa particolarità rende ovviamente la proposta dei nostri di non cosi facile approccio, soprattutto alla luce di una musica che continua a variare nei seppur brevi 23 minuti di questo EP. "Chalice" è un angosciante pezzo marziale che cattura e ipnotizza per la ridondanza delle sue ritmiche capaci di scardinare i confini della musica estrema andando oltre, conducendoci ai limiti della follia umana. I Barús sono dei folli, ora mi è più chiaro e il riffing iniziale di "Cherub", che evoca nella mia memoria gli Akercocke, me lo conferma. Il sound è decisamente lugubre, con schizoidi cambi di tempo che chiamano in causa ancora Gorguts e Mithras, a completare il quadro di psicosi che affligge questi cinque francesi. Questo è decisamente un disco di pregevolissima fattura ma dall'ostico impatto. Mi raccomando ora, usatelo con estrema cautela. (Francesco Scarci)

(Emanations - 2016)
Voto: 75

Ex - Cemento Armato

#PER CHI AMA: Heavy/Rock
Gli EX sono una band hard rock nata nel 1997 con componenti attivi addirittura dai primi anni '80 in precedenti progetti come Spitfire, Exile, Vertigo, Slan Leat, Frenetica, X-Hero e Madreterra. Quello che contraddistingue la band è l'amore viscerale per il rock, l'amicizia che li unisce e lo spirito di una vita presa in modo positivo e goliardico. Il loro bagaglio musicale è influenzato da sonorità anni '70 e '90 che la band ha volutamente fuso e forgiato a propria immagine, autodefinendosi autori del cosiddetto "pasta rock", facendo ovviamente riferimento a quel "spaghetti" che spesso viene attribuito alla produzione artistica italiana. Detto questo, il quartetto veronese ha autoprodotto tre album, uno poi sotto la VREC/Atomic Stuff e l'ultimo 'Cemento Armato' grazie a Andromeda Relix/Nerocromo. Il cantato in italiano divide sempre i fan, personalmente non sono prevenuto e nel caso degli EX, i testi sono un mix di cantautorato semi impegnato e la pura goliardia, quindi si presume che i nostri abbiano preferito quest'approccio per mantenere una connessione più forte con il pubblico. I brani contenuti nel jewel case sono undici e da bravi rocker, vanno dalla classica cavalcata adrenalinica ("Weekend") all'immancabile ballad strappa lacrime ("Cane Bastardo"). La prima appunto è un misto di hard rock e glam da baldoria, con riff assai scontati e testi in salsa sociale contro la durata del fine settimana (!!). Da un punto di vista tecnico, i musicisti se la cavano bene, il mood c'è tutto e l'insieme scorre fluido e piacevole per l'udito. La qualità dei suoni è scarna, volutamente o no è in linea con il genere, soprattutto se non si vuole essere troppo pignoli e si apprezza più il groove in se stesso. "Cane Bastardo" invece mette in luce il lato blues/malinconico degli EX, insieme ad un cantato che ricorda i Timoria dei vecchi tempi. La ritmica lenta rende le parole pesanti come massi, pensando al passato e alla giovinezza ormai sfumata. Power cord e riff stoppati rincarano la dose, anche se manca uno spunto che permetta al brano di spiccare il volo con una propria definita personalità. Con "I Shot the Chef" si torna alla vena ironica della band, prendendo spunto dal famoso brano di Bob Marley e trasformandolo in una progressione heavy metal che parla di cucina e situazioni paradossali. Anche qui gli arrangiamenti puzzano di già sentito, però sono comunque ben eseguiti tecnicamente, cosi come gli assoli e i fraseggi basso/batteria. Ci sono modi diversi di affrontare un album e per una band come gli EX, ritengo che quello più adatto sia di apprezzarli per quel loro spirito rock che li ha portati a vivere la musica con passione, amicizia e ironia, sfidando il music business che spesso impoverisce il sacro fuoco del rock'n'roll e rovina i rapporti tra compagni di avventura. Dopo tutto se fossero stati una cover/tribute band non sarebbero nemmeno arrivati sulle pagine del Pozzo dei Dannati, quindi sono già dei vincitori per questo. (Michele Montanari)

(Andromeda Relix/Nerocromo - 2015)
Voto: 65

venerdì 11 marzo 2016

HellLight - Journey Through Endless Storms

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Gli HellLight fanno parte di quella limitata schiera di band che qui nel Pozzo dei Dannati abbiamo visto nascere, crescere e divenire punto di riferimento per altre band dedite al funeral doom. Fa sempre un certo effetto sapere che l'oscuro quartetto (oggi rimasto in realtà un trio) arrivi dalla terra delle splendide spiagge e dei fenomeni del calcio, il Brasile, considerato il mortifero genere proposto. 'Journey Through Endless Storms' riprende là dove aveva lasciato 'No God Above, No Devil Below', ossia con i suoi ritmi lenti e ossessivi, carichi di cupa disperazione. Otto le tracce a disposizione per rievocare, attaverso ben ottanta estenuanti minuti, tetri presagi di oscura e lacerante decadenza. Già dall'iniziale titletrack, il terzetto di São Paulo ci delizia con marziali funebri melodie celebranti il rito della morte, sulle cui note si incrociano il growling e le clean vocals di Fabio de Paula, nonchè la delicata voce di una gentile ospite, Claudia o Ghisi (presente anche nella finale "End of Pain"). Le influenze per i nostri rimangono le stesse di sempre, con in testa i soliti Skepticism, Evoken e Thergothon, che presto verranno spodestati nel loro ruolo di punto di riferimento, proprio dagli HellLight. La musica si muove lenta e disperata come era lecito attendersi, rievocando nei momenti più incredibilmente malinconici, anche lo spettro dei Saturnus, come nel caso del lungo assolo conclusivo di "Dive in the Dark", song che peraltro vede la presenza di un altro ospite al violoncello. La pioggia continua a cadere tra un pezzo e l'altro, a testimoniare quel senso di pessimismo cosmico e profonda tristezza che intride l'album in toto. Tutti i pezzi sono ben bilanciati tra affannose chitarre profonde, e suadenti note di pianoforte. "Distant Light That Fades", nel suo nostalgico flusso sonico, mi ha richiamato addirittura la splendida e deprimente "Sear Me MCMXCIII" dei My Dying Bride dell'impareggiabile 'Turn Loose the Swans': seppur privo del violino, le emozioni strazianti che ho percepito erano molto simili a quelle della "Sposa Morente". Gli HellLight ci consegnano un nuovo capitolo della loro storia, confermandosi ancora una volta una band di eccellenza priva di macchie o passi falsi nella propria discografia, un ensemble che merita tutta la nostra stima. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 80

giovedì 10 marzo 2016

Dust To Dearth / Lysergene - The Death Of The Sun

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Drone/Ambient/Funeral
Uno split con due band, una inglese e l'altra australiana, con sonorità ai confini della realtà, tanto ricercato l'album quanto anonimo nella confezione (l'artwork è poco curato e questa collaborazione meritava decisamente di più), tanto inquietante quanto gratificante nell'ascolto, elitario, impegnativo, sognante, oscuro, un viaggio sonoro verso un'altra dimensione, un trapasso inebriante ma non indolore. Si parte con i Dust to Dearth, progetto solista e parallelo di Mandy Andressen della nota band australiana Murkrat, il cui approccio alla musica drone, industrial, minimal doom si rivelerà apocalittico, con atmosfere rarefatte e silenzi infiniti, solcati da rintocchi orchestrali, come nel gioiello intitolato "Winter", dove un flauto di Pan fa il suo ingresso ancestrale e mistico tra suggestioni drone, elettronica e leggerissime percussioni post atomiche. In questa atmosfera troviamo la chiave di tutta l'opera, la sua voce angelica/sepolcrale, dal tono solenne e alchemico, una sorta di Loreena McKennitt dal tocco plumbeo e marziale atto a sottolineare il rigore ferreo delle malinconiche composizioni surreali della band. Da qui si snoda e parte l'intero lavoro della band, con la parte vocale usata perennemente in maniera sciamanica a guidarci in una foresta sconosciuta di sperimentazioni elettroniche e ipnotiche. L'impatto è psichedelico, melodico, decadente, gotico, etereo, introspettivo, un funeral doom la cui lenta cadenza deprivata di una chitarra, mostra un carico di emotività e magia comparabile a quello emanato da 'Spleen and Ideal' e 'The Serpent's Eggs' dei Dead Can Dance o da 'To Drive the Cold Winter Away' di Loreena Mckennitt molto tempo fa. "It is Dark" con i suoi accordi strascicati di piano, mi ricorda certe ottime cose di Gitane Demone e Dark Sanctuary, mentre "Dearth" ritorna sulle orme della divinità Lisa Gerrard per chiudere alla grande con gli oltre undici minuti di coltre nebbiosa, maestosa e misteriosa di "The Last". I Lysergene di Gordon Bricknell (chitarrista degli Esoteric) si allacciano perfettamente ai compagni di scuderia con un primo brano strumentale, lisergico quanto marziale con un finale contaminato da folle psichedelia aliena, con i suoni che ricordano gli Ulver più eterei e certe oscurità di casa Die Verbannten Kinder Evas con quel sano tocco di geniale perversione elettronica alla Maurizio Bianchi di "New Heavens New Earth", sonorità concepite sempre con un tocco malato, che sfiorano l'ambient di Somnium nel ricordo di un Robert Rich in salsa lo–fi con l'intento di creare un suono atto a disturbare l'ascoltatore con incubi astrali e siderali. La mezz'ora circa di musica strettamente strumentale in odor di Lustmord o simili, offerta dalla band di Birmingham è votata all'assenza di percussioni e ci costa un viaggio di sola andata verso la psiche più oscura della nostra personalità, la colonna sonora perfetta per il nostro inspiegabile B side, srotolata in tre lunghi brani psicologicamente contorti e cerebrali, enigmatici e sperimentali, persino romantici se visti sotto una certa ottica. La Aesthetic Death ci offre l'opportunità di scoprire questi due side project formati da componenti di Esoteric e Murkrat in una forma smagliante, con musica al di sopra delle righe, sicuramente per ascolti di nicchia ma con un valore inestimabile e di alta qualità. (Bob Stoner)

(Aesthetic Death - 2010)
Voto: 75