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domenica 22 marzo 2015

☉ - L'Effondras

#PER CHI AMA: Post rock strumentale, Ahkmed, 35007, Mogwai, Pink Floyd
Forza, ripetiamolo insieme ancora una volta: il post-rock strumentale ha rotto le palle. La musica che cresce e cala per tutto il disco, i brani infinitamente lunghi, quel piglio intelligentoide e intellettuale, l’autoerotismo musicale e soprattutto il grande nemico per eccellenza di questo genere: la noia, inesorabile, che vi assale dopo i primi 50 secondi di ascolto. Beh, iniziate pure a ricredervi: perché il trio francese L’Effondras (ma il loro nome in realtà è un punto con un cerchio intorno, simbolo del sole: non a caso, sul pack c’è un leone che divora il sole), con questo debut omonimo, ha realizzato un gioiello come non ne ascoltavo da tantissimo tempo. Sette brani per più di 70 minuti, con quattro pezzi ben oltre i 10 minuti, sono un bel po’ di roba da ascoltare: ma arriverete in fondo chiedendone ancora, e ancora, e ancora. I L’Effondras pescano a piene mani dalla tradizione post-rock più moderna (mi sono venuti in mente i Mogwai o alcuni lavori dei 35007), ma condiscono il lavoro con suoni curatissimi, sporchi senza essere mai davvero distorti, dannatamente emozionali, che mi hanno ricordato gli Ahkmed di Chicxulub. Ma c’è di più: “La Fille aux Yeux Orange” indugia su un riff che sa di folk/blues americano; la splendida “L’Ane Rouge” sembra suonata dai Pink Floyd di Barrett (lo sentite lo slide e l’indovinatissima ritmica sui timpani?). Alcuni passaggi di “L’Aure des Comètes” hanno il gusto settantiano dello space-rock degli Hawkwind e – nella reprise – il fascino noise dei Sonic Youth più groovy. Si sente che i quattro suonano davvero: l’attenzione alla dinamica è spaventosa. I brani si gonfiano e poi spariscono; le chitarre costruiscono arpeggi delicatissimi, si fermano e poi ripartono; esce il delay, entra un leggero distorsore; la batteria (vero capolavoro dell’album: tecnica, scrittura e registrazione) suona prepotentemente in faccia per poi nascondersi tra giochi sottili di piatti e rullante. L’equilibrio tra tecnica e sentimento del trio è pazzesco: nessuno sfoggio tecnico a sé stante, nessun onanismo strumentale, persino negli oltre 22 minuti della doppia “Caput Corvi” (Part I e Part II) non c’è una nota in più, un passaggio superfluo, un’esagerazione. Ascoltare 'L’Effondras' è come respirare: il fiato va e viene, a volte è più veloce, a volte più profondo, a volte lo si trattiene aspettando l’esplosione – ma tutto scorre naturalmente, senza sforzi. E non ci si annoia mai. Aggiungete una produzione perfetta (assai migliore di tanta robaccia professionale che capita di ascoltare oggi) ed un packaging pulito ma evocativo, e la ricetta è completa. Il mio nuovo gruppo preferito, da ascoltare. (Stefano Torregrossa)

(Dur et Doux - 2014)
Voto: 90

giovedì 19 marzo 2015

Aphonic Threnody – When Death Comes

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Cosa aspettarsi da un album che vede la collaborazione di membri di alcune tra le migliori doom band mondiali? Funeral doom all'ennesima potenza composto e suonato alla perfezione. Una band multinazionale che in tutte le sue uscite ha visto l'avvicendarsi di numerosi musicisti provenienti da Gallow God (UK) e Dea Marica (UK), Astor Voltaires (CHI), Pantheist (UK), Urna (ITA) e Leecher (HUN) e ospiti d'eccellenza come Jarno degli Shape of Despair e Greg Chandler dei mitici Esoteric, a cui si aggiungono altri fuoriclasse del calibro di Josh Moran dei Vacant Eyes e David Unsaved degli ENNUI. Una collaborazione che da qualche anno, sotto questo moniker, tiene alto l'onore del doom senza scendere a nessun tipo di compromesso, mettendo a dura prova compositiva, il geniale collettivo di artisti. 'When Death Comes' è stato il loro penultimo album uscito nel 2014, mentre inizio 2015, ha visto la luce anche 'Of Poison and Grief (Four Litanies For The Deceased)', altro ottimo prodotto contenente un unico, lungo ed intenso brano. 'When Death Comes' racchiude un'aura depressiva, malinconica, progressiva, intellettuale, ritualistica, introspettiva e una pesantezza accostabile per alcuni aspetti, all'effetto di certa musica classica. Questo album rasenta la perfezione in materia funeral doom, con brani tutti sopra i dieci minuti ("Death Obsession" supera addirittura i 17), cadenzati e funebri, rigorosamente gelidi, melodici e profondi. Durante l'ascolto dei pezzi, scaturiscono emozioni assai contrastanti tra loro: da un lato un senso oppressivo di vuoto e impotenza, dall'altro il raggiungimento di una forza interiore capace di affrontare anche l'ultimo respiro prima del trapasso. Doomentia Records ha percepito alla grande questo modo di intendere la musica estrema, dando sfogo a questo progetto sonoro di grande dignità artistica. Tutti i canoni del genere si susseguono a dovere, il suono è ricercato e controllato nei minimi dettagli, raffinato all'eccesso come da copione, mentre le lunghe composizioni dal volto cinematico, si intersecano con le evoluzioni di matrice progressive senza mai falsare il risultato finale. Le parti vocali di Roberto Mura sono lodevoli, profonde e drammatiche all'inverosimile. La varietà dei suoni usati (cello, keyboards), supera la classica strumentazione rock e le affascinanti atmosfere create, non intaccano mai l'onnipresente senso di caduta che avvolge l'intero album, amplificando quell'aura oscura, romantica e decadente, che finisce per lasciare nell'ascoltatore un solco profondissimo e un bel nodo in gola. Cinque brani stupendi per soli amanti del genere, difficili da spiegare, difficili da interpretare ma dal fascino ancestrale senza tempo, proprio come la morte. Tutti gli album della band li trovate su bandcamp, pertanto non fateveli scappare, ne vale davvero la pena! Divinità! (Bob Stoner)

(Doomentia Records - 2014)
Voto: 90

mercoledì 18 marzo 2015

Captain Mantell – Bliss

#PER CHI AMA: Alternative, Hard rock, Stoner, Queens of the Stone Age
“Il 7 gennaio 1948, alle ore 13.00, a Maysville, nel Kentucky, molte decine di persone videro un oggetto circolare che emanava una luce rossa, sorvolare la città. Dall'aeroporto militare di Fort Knox alle 13.45 si sollevò una squadra composta da tre aerei da caccia P-51, guidata dal capitano Thomas Mantell, per inseguire l'oggetto. Alle 15.15 Mantell comunicò di trovarsi a 6.000 metri e di vedere un oggetto metallico di grandi dimensioni, che dopo avere aumentato la velocità era sparito dietro una nube. Dato che gli aerei non avevano riserve di ossigeno per un volo ad alta quota, gli altri due piloti decisero di rientrare, mentre Mantell decise di continuare l'inseguimento. Dopo pochi minuti si persero i contatti con l'aereo di Mantell. Alle 15.40 il colonnello Hix, comandante della base, fece decollare due aerei per cercare Mantell. Alle 17.00 i resti dell'aereo del capitano furono trovati nei pressi della città di Franklin, sparpagliati su una vasta superficie. Fu trovato anche il corpo del capitano, con l'orologio che si era fermato alle 15.19. Fu recuperata la strumentazione di bordo, che indicò che l'aereo si era spinto fino ad un'altezza di 9.000 metri.”
Da questo episodio nasce la storia del power trio Veneto, capitanato da Tommaso Mantelli, evidentemente affascinato dall’omonimia con lo sfortunato aviatore americano. Dopo quattro album incentrati sulle vicende dell’incredibile inseguimento, 'Bliss' rappresenta il ritorno sul pianeta terra e parla dell’inevitabile shock dovuto ai cambiamenti avvenuti durante l’assenza del Capitano. Il suono è la maggiore novità che 'Bliss' porta in dono rispetto ai precedenti lavori: laddove quelli si incentravano su una matrice elettronica, qui il suono del terzetto si è consolidato e ha ampliato i propri orizzonti andando a radicarsi decisamente nel rock classico dei 60/70, tenendo però bene a mente tutto quanto fatto in seguito da gente come Nirvana e, soprattutto, Queens of the Stone Age. È proprio la band di Josh Homme, nelle sue vesti più accessibili, quella che più di ogni altro viene chiamata in causa in molti episodi del disco (la robusta “With My Mess Around”, il lento stoner “Better Late Than Now”, l’orecchiabile “First Easy Come Then Easy Go”). L’alchimia tra le ritmiche potenti di Mauro Franceschini, il sax ispirato di Sergio Pomante, e i riff della chitarra di Mantelli è davvero perfetta e costruisce solidissime architetture su cui la voce del capitano svetta in modo sempre convincente (e con una pronuncia inglese ottima e credibile, cosa che spesso rappresenta il tallone d’Achille di tante band italiane). Ad arricchire il suono e le atmosfere del disco ci sono poi, qua e là, gli archi di Nicola Manzan (ovvero Mr. Bologna Violenta), e altri ospiti di cui diremo più avanti. La scaletta è molto nutrita (14 brani) ma ben bilanciata, mai prolissa (solo due episodi superano i 4 minuti) e pressoché perfetta almeno per la prima metà: oltre alla già citata “With My Mess Around”, l’iniziale “Love/Hate”, sorta di rivisitazione in chiave hard dei King Crimson di Red, il riff di sax memorabile dell’epico mid-tempo “To Keep You in Me”, mentre “The Ending Hour” si rifà al miglior alternative anni '90 e l’hard blues di “Side On” viene valorizzato dalla voce calda di Liam McKahey (ex cantante dei Cousteau). Nella seconda parte, tolto qualche riempitivo comunque gradevole, spiccano “The Age of Black”, che a metà brano accelera con la super chitarra di Jason Nealy dei Bleeding Eyes, e lo splendido brano finale “Won’t Stop”, che è un po’ una summa delle influenze che hanno caratterizzato il disco: si va dai Beatles a Zappa ai Queen of the Stone Age passando per le sferzate di un sax dal sapore molto free. Influenze che, sapientemente assimilate e mixate alla personalità dei membri della band, fanno di questo 'Bliss' uno dei migliori dischi italiani usciti, nel suo genere, negli ultimi anni. Se poi ci mettiamo l’attenzione all’artwork, davvero ben fatto, non potete proprio non averlo nella vostra collezione. (Mauro Catena)

(Dischi Bervisti - 2014)
Voto: 80

martedì 17 marzo 2015

Vyrju – Black

#PER CHI AMA: Black/Doom, Gorgoroth, Agrypnie 
Una bella grafica tutta nera con logo in rilievo ci accompagna alla scoperta di questa oscura creatura denominata Vyrju, opera di un musicista norvegese, tal Jan F. Lindsø (aka Iudex) responsabile delle vocals, chitarre, basso e synth, aiutato alla batteria e al canto pulito dal collega Tim Yatras (che ben conosciamo nei Germ e Austere). L'EP del mastermind scandinavo si presenta con quattro solidi brani di media lunghezza, licenziato via Black Forest Records nel dicembre 2014, per una ventina di minuti circa di musica. 'Black' contiene le atmosfere cupe di raffinata scuola Gorgoroth, In the Woods e Agrypnie, fatta di ritmi di media velocità sempre pronti a scandire una decadente struttura black metal di ultima generazione. Le composizioni vantano tinte melodiche di buon impatto e durezza, pesanti come un album dei Crowbar, ma che purtroppo non incidono sul piano dell'intensità. "The Constant Void" e "There is no Grave Big Enough to Take All My Sorrows", le prime due tracce dai titoli così intriganti, scivolano via impetuose, cariche e rumorose, fino all'arrivo di "Gone", breve intermezzo molto interessante di acoustic rock strumentale. Un brano che apre nuovi orizzonti alla band ma che purtroppo finisce precocemente lasciando un profondo senso di incompiuto e di rammarico in chi ascolta. A seguire l'ultimo brano, "The Residue of Life", dai colori più gotici e dai timbri ancor più classici, con un sound aperto e scorrevole ed una parte vocale bella ma frastagliata, poco presente, ma con un canto pulito evanescente che si perde in un nulla di fatto cercando di emulare l'ispirazione dei migliori Gorgoroth. Un EP che può essere considerato un buon inizio per questa band ma che ha bisogno di evolvere ulteriormente, la media è alta ma per incidere maggiormente, il mastermind norvegese deve crescere parecchio in originalità. L'attesa è sul campo di battaglia per un futuro full leght, sono sicuro che per allora la band userà le sue armi migliori per superare queste piccole incertezze. Da tenere d'occhio. (Bob Stoner)

(Black Forest Records - 2014)
Voto: 70

Captains of Sea and War - S/t

#PER CHI AMA: Progressive Rock strumentale
Otto tracce otto. Mare in tempesta di Guerra. Partiamo per la traversata. Armiamoci di remi, boccaporti, rum da stiva, marinaresche intenzioni, lasciando a casa le donne e gli uomini che non ci vogliono uomini e donne di mare. L’incipit di “Call Again” è già mare in burrasca. Prepariamoci a innalzare bandiere dai teschi ben in vista. Sorvoliamo come gabbiani rabbiosi queste sonorità ripetute dallo smalto rock alternativo. Costruiamo distruggendo preconcetti, perché “Call Again” trasforma l’acqua salata in vino. Mano a mano che il brano procede muta e rapisce divenendo voce graffiata attraversata da acqua di mare e l’incipit arrogante si trasforma in un ricordo, trasferendosi in quella dimensione che dà più che prendere. Insonorizzate le vostre pareti e lanciate il volume oltremodo. Veleggiamo verso “Kunz”. Schiudete appena le vostre persiane. Sapete che la giornata è uggiosa. Abbiate poesia per le nuvole che sovrastano il mare, poiché “Kunz” vi terrà compagnia come un tè caldo corretto da mille gradi alcolici, descrivendovi il mare d’inverno. Le stagioni sono solo illusione. Rendiamo piuttosto vivo il tempo di questa “Aboard”. Troppo presto il mio parlar di tempo, perché questa song lo frena il tempo sino a renderlo glaciale. I suoni sono lenti. La batteria scandisce le pause tra tempo e chitarra. Si riprende lentamente la scansione sonora, ma solo per favorire animosità mercenarie, sublimi, ma millantatorie. Chi crede che “Aboard” accarezzi l’anima, sbaglia, rischiando di vendersi al diavolo. Assaporate con l’udito, ma non mangiate la mela. Potreste rimanere imprigionati in questo inferno di velluto apparente. Assecondiamo ora “You Need to Restart”. La prigione che vi descrivo è fatta di gabbie invisibili, in cui i tocchi sonori sono accattivanti e subdoli. Non resta che essere lascivi o morigerati. Io mi abbandono. Voi decidete se farvi coinvolgere a scatola chiusa. Io vi consiglio l’abbandono. Risalgo lentamente dalle tenebre travolgenti delle mie perdizioni sonore. Incontro “Far”. È amore a primo ascolto. Mi mescolo carnalmente a questo brano. La musica mi sostiene. Le chitarre mi seducono. La voce mi guida in un viaggio stridente, assordante, suadente. Volete pane per la vostra coscienza? Se si, venite oltre con me. Vi porto in una casa diroccata. Attenti ai calcinacci che d’improvviso cadono da questa “Zittersheim”. Iniziamo dalla fine perché questa traccia ha i suoni che ricordano titoli di coda d’un horror. La partenza poi è in quarta marcia. Un country metallico sorprende contrapponendosi all’esordio. I suoni cambiano ancora. Per divenire pirati minacciosi ad affascinanti nel bel mezzo del brano. Ascoltate questo light metal pregiato. Con la prossima traccia, non posso che scendere sotto coperta. “Five Times the Sea”. L’ascolto è da ovattare tra muri di legno in un veliero che scava le onde sfidandole. Non abbiate paura, ma nel dubbio vi auguro, buon vento. L’ultimo pezzo dell’album è cardinale, "East”. L’album termina con un ondeggiare dolce dall'impronta romanticamente metallica. Ci sono più onde che scogli in questo brano. Il sale guarisce le ferite. Il sole romanza il tramonto. La chitarra mi rende giustizia, così ritmica e leggera da lasciarmi nostalgica dell’estate. Scendiamo dal vascello. È stato un bel viaggio. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 85

lunedì 16 marzo 2015

Rotem – Dehumanization

#PER CHI AMA: Black/Death, Krallice, Gorguts, Deathspell Omega, Pestilence
Scoprire che dietro il progetto denominato Rotem si cela una one man band formata da un unico polistrumentista portoghese mi ha fatto rabbrividire. Il solo fatto che un musicista, al suo primo full lenght uscito nel 2014 per la Ethereal Sound Works, riesca ad immaginare, pensare, sviluppare e pubblicare un tale colosso sonoro mi riempie di gioia il cuore e mi fa gridare al miracolo! Il metal estremo non è ancora morto! L'impronta black/death del suono sotterraneo si incontra con il respiro forsennato delle opere dei Krallice e dei Deathspell Omega, coltivando un amore segreto per i Pestilence più progressivi e un tocco di romantica oscurità dei primissimi Paradise Lost ('Lost Paradise'). Una maligna voce esalta la carica nevrotica di una sezione ritmica in costante evoluzione, tra un growl e uno screaming stupendi e perfetti per incoronare un susseguirsi di istrioniche composizioni guidate da chitarre ricercatissime e violentissime che nelle prime tre tracce trovano l'apoteosi del proprio stile. "Dehumanization", "Human Condition Critical" e "Virtual Reality" spiazzano e distruggono l'ascoltatore che si trova di fronte ad uno spettacolo sonoro esplosivo che non teme rivali. Rotem suona senza mai dimenticare quanto lacerato deve essere il suono di una vera extreme black/death metal band. Il nostro eroe si diverte a destrutturare suoni e ritmiche come se i Gorguts suonassero una cover dei King Crimson, presentandoli con un'immagine di copertina stupenda, crudele e tenebrosa che non lascia dubbi né superstiti. Una figura umana con maschera antigas e un pelouche in braccio su uno sfondo completamente nero, mostra un vuoto emozionale impressionante ed una resa incondizionata nei confronti di un mondo autodistruttivo senza scampo, che associato al significativo titolo 'Dehumanization', offre una visione depressiva di una realtà post atomica di sicuro effetto negativo e destabilizzante. Undici brani contenuti in una scatola di suoni al vetriolo, agghiaccianti e letali, tutti da scoprire e assaporare senza pietà, con cover dei Celtic Frost annessa ("Procreation of the Wicked"). Un tornado devastante che tocca le mille varietà del metal estremo e del progressive metal più tecnico, rivisitandolo con intelligenza e originalità, tanta bravura e dedizione mostrata in brani complicati, sofisticati e urticanti. Quaranta minuti di ascolto che volano in un attimo, senza cadute d'intensità, per un lavoro geniale partorito da una mente perversa, superiore e decisamente deviata. (Bob Stoner)

(Ethereal Sound Works - 2014)
Voto: 85

Artic Fire - Lower and Louder

#PER CHI AMA: Grunge, Alice in Chains, Nirvana
Gli Artic Fire sono un trio portoghese nato del 2006 che con calma ha prodotto questo EP da poco uscito per la Ethereal Sound Works. I nostri tre musicisti si definiscono grunge addicted e i cinque brani di 'Lower and Louder' lo dimostrano senza ombra di dubbio. Tutto si rifà ai primi Nirvana, quelli inquieti e grezzi, fino agli Alice in Chains e ai Soundgarden. Non illudiamoci di trovare la stessa qualità compositiva e sonora però; dopo anni di lavoro uno si aspetterebbe che la band avesse concentrato il meglio del repertorio studiato e rifinito in sala prove. Qui in realtà è ancora tutto grezzo, sporco e urlato, ma se non sei una band di Seattle degli anni '90, difficilmente l'ascoltatore contemporaneo si strapperà i capelli gridando al miracolo. "Running" racchiude tutto ciò, senza tanti fronzoli. L'intro è minimal, voce e basso a dare l'attacco al brano che viene subito rinvigorito da chitarra e batteria. La prima soffre però di una registrazione fatta approssimativamente, con un suono scarno e poco incisivo. Anche il resto degli strumenti sono allo stesso livello, ma è meno percepibile grazie alla maggior attenzione concessa alle ritmiche. Il cantato è in inglese ed ovviamente si rifà allo stile del compianto Kurt Cobain e il confronto è un match perso in partenza. "Prozac Addict" prova la strada della brano simil-folk in versione ballata e dopo un'inizio di chitarra acustica che fa ben sperare, il brano si affossa rallentando bruscamente su l'arpeggio di chitarra (che nel frattempo è diventata elettrica). Sembra un brano messo su raccattando riff qua e là, infatti verso la fine la canzone accelera di nuovo, dimenticandosi dell'introduzione. Probabilmente la chitarra acustica si è sfasciata da qualche parte e ora giace sola e incompresa in un angolo. "Take Me All Way" è il brano più lungo, quasi a rappresentare la prova artistica degli Artic Fire. L'inizio del brano richiama le chitarre minimaliste di Jack Frusciante e poi si alterna il ritornello più incisivo, ma non abbastanza. Tutto questo si protrae per tutta la traccia e nulla si oppone alla noia che imperversa sovrana. Sufficienza risicatissima nella speranza che un futuro album riparatore dimostri che la band abbia davvero qualcosa da dire, con un livello qualitativo maggiore. (Michele Montanari)

(Ethereal Sound Works - 2015)
Voto: 60

Dødsverk - S/t

#FOR FANS OF: Black Metal, DarkThrone, Immortal, Marduk
Though variety is sometimes said to be the key to living life, oftentimes familiarity is what the heart wants and when the term ‘Norwegian Black Metal’ is bandied about in this case familiarity wins out over this Norwegian newcomers’ debut album. Pretty much on-point, all the hallmarks of such a scene are present and accounted for here: tremolo-picked rhythms, proto-thrashing riffing that dwells in the up-tempo registers, the furious blasting drum-work that trades off blastbeats for full-throttle pounding, hateful vocals and a raw edge that’s deliriously old-school to the core that fuels the primal atmosphere of the genre’s origins while not sounding like a band with no recording budget in the studio for the first time. There’s really no surprises in store here (well, maybe one but it might not really count for some) as in structure-form the true Norwegian sound is on full display with the tremolo-patterns serving as the atmospheric accents to the intense, frenzied blasting while dropping off streamlined thrashing rhythms serve as the majority of the album’s attack that still successfully keeps the band firmly in that general pool. The one small, and in some cases might even be negligible, surprise comes from the overall brevity of the album as a whole, coming off like an EP due to the running-length as well as the track-lengths themselves with a majority barely cracking three minutes and only two that could legitimately be said to be epics at over five minutes in time. While this might be nit-picking and there’s a case to that, the fact is this does come against the album by just really getting a solid foot under itself before it’s over, as if the band were really just finding their niche but instead seem to run out of ideas rather than deliver a beat-down and leave while on solid terms with the listener that seems to be the original intent here. While it does crop up, this is barely damaging to the album as a whole which has a lot of great stuff about it. ‘Den siste...' opens this with an unrelenting volley of swirling tremolo-patterns and furious blastbeats that manage to both weave atmospheric landscapes of their forefathers while making some intense, charging rhythms and serves as a great introduction to the madness. ‘Intet mer å gi' manages to use a slightly-less intense series of rhythms against its more atmospheric tendencies yet still comes up with an enjoyable main riff and pummeling drum-pattern for an enjoyable though all-too-brief assault. The brutal ‘Gjendød' offers up an industrialized charge that melds perfectly with their frenzied sound that adds a repetitive drive to the track that makes it one of the album’s best while the dreadful ‘I perversjoner' is simply nothing but droning and industrial noise for its duration that really causes this to be a questionable inclusion and shouldn’t have really been on the album. Thankfully, ‘Aldri tilbake' returns to the gloriousness of their original tracks with another frantic assault of maddening tempos, furious tremolo-picked patterns and plenty of blasting drum-work for a true highlight effort that more than makes up for the previous effort. ‘Renselse' continues the assault with a whirlwind of tremolo-picked rhythms and plenty of dynamic variations in the blasting and riff-work to make for another big strong highlight. The bands’ other attempt at an epic, ‘Motstå frelse' is thankfully a lot better as this scores the prototypical epic slow-moving Norwegian-style finisher that has the massive riff-work, cold atmospheres and plenty of rather impressive variations to cause this to be a strong ending note. Beyond the one lame track that’s not all that appealing, this one really only suffers from the brevity and the reliance of the listener to determine if the familiarity present is a failure or not. (Don Anelli)

(Apocalyptic Empire Records - 2014)
Score: 75

martedì 10 marzo 2015

Potatoes - Cut

#PER CHI AMA: Punk-rock, Post-hardcore, Noise
Una cosa colpisce immediatamente, nella formazione di questo quartetto di Winnipeg, Manitoba (Canada), ed è che accanto al classico trio chitarra-basso-batteria trovi posto un mandolino elettrico, e per quanto mi ricordi, questo è il primo caso in cui tale strumento viene usato in pianta stabile in un gruppo punk rock. Già perché questo sono, in definitiva, i Potatoes, un gruppo amante del punk rock, spesso e volentieri virato sul versante più noise, ma decisamente non maistream. 'Cut' è il loro secondo EP, e mette in fila ben 11 brani veloci (di cui solo due superano i tre minuti) e potenti, registrati in modo diretto e senza fronzoli, anzi lasciando deliberatamente uno strato bello spesso di “sporcizia” tanto sulla voce quanto sulle tracce strumentali. È probabilmente un lavoro di transizione questo, in attesa di una più decisa scelta di campo tra i classici pezzi post-hardcore, e un approccio più debitore al noise anni '90 (leggi Touch & Go). Alla prima schiera appartengono l’opener "L.X.", lanciata a rotta di collo nei suoi deliri r’n’r, l’ultra classica "Devil Manatee", la detroitiana "Love (and What’s Her Face)". Alla seconda invece la tormentata e sofferente "Epiphany", "Surface Mounter" e "Penis, Teeth, Knuckles and Toes", che forse risulta il brano con maggiore personalità dell’intero lavoro. Personalmente, li preferisco nella seconda versione, quella che riesce a convogliare la furia hardcore nelle spire di disperazione dei Jesus Lizard, ma è solo un’opinione personale, e non è detto che i quattro debbano per forza di cose scegliere e che non decidano di portare avanti con fierezza la loro proposta ad alto contenuto di decibel. Disco molto energico e rumoroso, perfetto per chi ama i suoni sporchi e senza compromessi. Vale l’ascolto. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 65

Mallory - 2

#PER CHI AMA: Grunge/Blues/Rock
Questa volta parliamo di blues-rock direttamente dalla Francia, paese che negli ultimi mesi si sta dimostrando una vera e propria fucina di nuove band, molto spesso di ottima qualità. Il quartetto nasce a Parigi intorno al 2012 e dopo il primo EP risalente allo stesso periodo, escono con questo '2'. Si tratta di un ottimo mix di rock, grunge, blues e altre contaminazione che toccano lo stoner e la psichedelia, il tutto ottimamente suonato e arrangiato. Il cantato è in inglese ed è scandito dalla calda ed avvolgente voce del frontman che si destreggia bene tra brani intensi e ballate più quiete. "Ready" è una di quest'ultime e gronda grunge da tutti i pori. Dopo un solitario arpeggio di chitarra la canzone acquista più ritmo e impatto con ottimi fraseggi e arrangiamenti che ricordano i Pearl Jam e i Soundgarden più sentimentali. Grande potenza scorre dagli abbondanti cinque minuti della traccia, merito dell'ottima intesa tra i musicisti con la sezione ritmica formata da basso e batteria a dettare legge e imporre il proprio diktat. L'arpeggio continua imperterrito per tutta la song come un mantra onirico per poi sfociare nell'assolo che guida il break psichedelico a metà brano. Brano, strutturalmente semplice, ma dotato di un buon impatto e anima. "Big Nails" è un pezzo veloce, accompagnato da un basso distorto e basato su una ritmica che cambia ciclicamente per movimentare ancora di più il ritmo. Il cantante dà libero sfogo al suo lato più irrequieto nel quale si trova a proprio agio, mentre i riff di chitarra citano spesso la storia del rock, confermandosi sempre all'altezza e pieni zeppi di groove. Un brano mordi-e-fuggi di quasi tre minuti che risente solamente della mancanza (penso io) di una traccia di basso pulito che avrebbe rimpolpato un po' le basse frequenze. "Bad Monkeys" aggiunge una cartuccia importante all'armeria dei Mallory, il brano infatti è una piccola perla che include quel qualcosa che ricorda i The Doors, i vecchi Radiohead e ancora il filone grunge. La canzone è intrigante come un corpo sinuoso che balla nella penombra, sul bancone di un polveroso strip bar, che esplode e si divincola per un attimo per poi chiudere come era iniziata. Questo '2' è caratterizzato da suoni quasi sempre perfetti, una buona qualità di registrazione e un digipack semplice ma gradevole. Tutti segnali che messi insieme confermano la mia idea che i Mallory sono una band solida, ben tarata sugli obiettivi da raggiungere e che ha ancora margine di miglioramento. Detto ciò mi aspetto un terzo album con il botto, incrociamo le dita... (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 80

lunedì 9 marzo 2015

Stömb - The Grey

#PER CHI AMA: Djent/Progressive, Tesseract, Uneven Structure
Il djent è uscito dai miei radar da un po'. Il fenomeno che è salito alla ribalta grazie a gente del calibro di Tesseract, Uneven Structure e Vildjartha (senza ovviamente trascurare i precursori, Meshuggah), mi sembra che si sia un po' perso per strada. Per fortuna arrivano i francesi Stömb a rivitalizzare le sorti di una decadenza annunciata, con un disco strumentale che certamente renderà felici gli amanti del genere, incluso il sottoscritto, che qualche anno fa, veniva ribattezzato dagli amici, come "Principe del Djent". La band di oggi è un quartetto di Parigi che, rilasciando 'The Grey', riprende in mano quanto fatto dalle band sopracitate (a cui aggiungerei Periphery e Ganesh Rao), con classe e passione. Lo dimostra la opening track, "The Complex", quasi nove minuti di sonorità in cui si fondono progressive, ambient e appunto djent. Forti di una produzione a dir poco cristallina, i nostri infondono nel loro flusso sonico il gusto primigenio dei Tesseract (e questo vale già molto, peccato solo manchi un vocalist con le palle) con la notevole perizia tecnica dei Periphery (mostruose le linee di basso che s'intersecano con un drumming fantasioso, senza tralasciare i giochi "di grigio" che le due asce vanno sciorinando). "Rise for Nothing" è un pezzo da brividi a cui sarebbe bastato anche solo un tiepido vocalizzo per raggiungere la perfezione. La lezione di Meshuggah (e anche Cynic) viene assimilata dai quattro francesini e riproposta con grande personalità e carisma, alternando sfuriate elettriche con ambientazioni in penombra. "Veins of Asphalt" ripropone un'altra lunga traccia dall'apertura quasi drone/noise: un momento che i nostri scaldano i motori e i riffoni di chitarra risuonano nel mio stereo come il rombo del motore di quattro Ferrari all'unisono. Wow, i nostri hanno classe da vendere e lo dimostra il fatto che nonostante le dieci canzoni contenute in 'The Grey" abbiano delle durate medio-lunghe, non stanchino realmente mai. Merito dei sapienti cambi di tempo, delle splendide melodie, dei caleidoscopici salti mortali che i nostri propinano, dell'utilizzo più o meno marcato dell'elettronica (perforante a tal proposito, il suono del synth in "Corrosion Juncture"), della tribalità inferta alle ritmiche dal mostruoso batterista, dalla fantasia, dalla veemenza e dall'assoluta padronanza strumentale dei quattro interpreti parigini che cuociono in ogni brano l'attento ascoltatore, che si ingolosisce sempre di più. Gli Stömb danno dipendenza e quando termini un pezzo ne vuoi immediatamente un altro per capire cosa avranno in serbo i quattro nel successivo. "The Crossing" è solo un interludio che ci prepara a "Under the Grey", song dalla ritmica psicotica e malata, asfissiante ma melodica, che mostra un break centrale con un parlato inquietante. "Terminal City" mi ubriaca immediatamente per quel suo giocare a ping pong con le chitarre tra una cassa e l'altra, mentre il mood della traccia è quello di continua emergenza, anche se nella seconda parte, il pezzo diviene più intimista nel sound. Questo ci salva dalla monotonia che altrimenti un disco lungo e complesso come questo, potrebbe produrre. "The New Coming" è una traccia che colpisce per le splendide linee di chitarra che assolvono quasi al ruolo di cantante e contribuiscono a dare maggiore dinamicità al disco. "Genome Decline" evidenzia quanto la band si senta a proprio agio nel trattare pattern strumentali di difficoltà medio-elevata, mostrando una enorme capacità nel districarsi in fraseggi selvaggi quanto "gentili", in una traccia dal forte temperamento e dall'approccio al limite del cinematico. "Only an Echo" rappresenta la chiusura ideale per un disco quasi perfetto, a cui manca solo la parola... (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 85

domenica 8 marzo 2015

Kayleth - Space Muffin

#PER CHI AMA: Stoner/Space Rock, Hawkwind, Monster Magnet, Motorhead
Mettiamo subito in chiaro una cosa: a me i vecchi Kayleth, quelli recensiti su queste stesse pagine con l'album 'Survivor' e l'EP 'Rusty Gold', non mi andavano a genio, per quelle sonorità già sentite e per la mia non proprio spiccata propensione allo stoner fine a se stesso. Fatta questa semplice premessa, accolgo direttamente dalle mani della band veneta, il nuovo futuristico 'Space Muffin'. Detto che non sono neppure sensibile ai facili entusiasmi, il quintetto veronese verosimilmente avrà di che preoccuparsi nel leggere queste mie parole. Parto la mia analisi dall'artwork extraterrestre del cd che oltre a raffigurare una presunta donna aliena in riva al mare con le piramidi di Cheope Chefren e Micerino sullo sfondo, vede orbitare un paio di lune e un agglomerato di stelle (vi è forse un qualche mal celato significato simbolico?) messe alla rinfusa in un cielo un po' troppo verdognolo. Il disco consta di otto tracce e vede avviare i propri propulsori interstellari con "Mountains". La song apre in modo grandioso con una roboante commistione di suoni granitici di chitarra e batteria, coadiuvati dai cibernetici synth del neo entrato in line-up, Michele Montanari, che sembra aver portato nuova linfa vitale nella decennale carriera dei nostri e che sembra anche allontanare quegli spettri che richiamano da sempre i vari Kyuss e Orange Goblin. Stiamo sempre parlando di stoner sia chiaro, ma questa volta offerto in una salsa ben più raffinata che arriva a citare anche formazioni come Electric Wizard e Hawkwind, senza far finta di dimenticare anche un che dei Mastodon. Forse mi crederete un pazzo visionario ma la proposta dei Kayleth suona più pomposa e matura rispetto al passato e questo costituisce di certo il punto di forza ma anche per una nuova ripartenza, per il combo italico. "Secret Place" è il luogo segreto ove il five-piece ci vuole condurre, un brano che attacca con un riffing che richiama un che dei primi Led Zeppelin ma ne irrobustisce all'ennesima potenza la sezione ritmica, che va via via ingrossandosi ancor di più, nel corso del brano. La voce di Enrico Gastaldo si conferma ai livelli del passato, richiamando con la sua timbrica Ozzy Osbourne, piuttosto che un giovanissimo Chris Cornell o Lemmy Kilmister, ma comunque ben adattandosi al sound della band. "Spacewalk" apre con un messaggio alieno, mentre il pizzicare della chitarra prepara a chissà quale fragorosa esplosione. L'approccio della song ha un che di post rock nel suo prologo, si lancia poi nello spazio infinito con un riffing selvaggio, trascinante, mentre lo screaming di Enrico impera nell'altisonante finale da brividi. Signori i Kayleth sono cambiati, maturati, hanno assunto la piena consapevolezza nei propri mezzi e anche la sempre attenta Argonauta Records se n'è accorta. A testimoniare l'ecletticità dei nostri ci pensa la psichedelica "Bare Knuckle", song che rappresenta l'ideale connubio tra progressive (splendide le chitarre a tal proposito dell'axeman Massimo Dalla Valle), space rock, stoner e doom (chi ha citato i Cathedral di 'The Ethereal Mirrors'?), in quella che probabilmente è la mia traccia preferita. L'impronta blues/hard rock dei Kayleth si palesa nella quinta "Born to Suffer", ma l'apporto dei synth rende il sound decisamente più moderno, anche se questo brano potrebbe stare tranquillamente in un qualche album rock anni '70. Non so se si tratti dei microfoni della hall di un aeroporto quelli che si sentono inizialmente in "Lies to Mind", ma la traccia prosegue sul suo pattern rock/stoner fondendo in un ibrido surreale, i Motorhead con i Kyuss e gli Hawkwind. "Try to Save the Appearances" è un altro bel pezzo, grondante di groove da ogni suo poro che richiama sonorità tooliane (Mick ci sono anche i Lingua qui dentro?) che fino ad ora erano tenute camuffate nel sound dei nostri, ma che comunque vengono reinterpretate alla grande dai cinque ottimi musicisti veronesi, per cui vado a menzionare anche il martellante e preciso drumming a cura di Daniele Pedrollo e il palpitante basso di Alessandro Zanetti. Chiude il disco "NGC 2244", acronimo che individua l'ammasso aperto di Rosetta (che sia forse quello che si vede nel cielo della cover?), eccellente traccia strumentale che sancisce la scalata dei Kayleth nell'Olimpo dello stoner nazionale e, auspichiamo ben presto, mondiale. Bravissimi! (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2015)
Voto: 85

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