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martedì 21 maggio 2013

Flicker - How Much Are You Willing to Forget

#PER CHI AMA: Rock psichedelico, Progressive, Radiohead, Porcupine Tree
L' album desiderato, richiesto e ottenuto a tempo di record. Dopotutto, appena ho sentito il singolo sul web, le aspettative erano molto alte. L'ansia da prestazione mi assale mentre infilo l'agognato dischetto nel player e ascoltiamo. I Flicker dichiarano apertamente le loro influenze da Radiohead, Pink Floyd ed Incubus, ma da qui hanno solamente gettato le fondamenta di un palazzo che si sviluppa vertiginosamente verso l'alto e si dirama all'infinito. Fino al punto da sminuire le radici perchè ormai sono distanti anni luce dal punto più alto dell'evoluzione dei Flicker. Il rock progressive/melodic è comunque il filo conduttore che racchiude le sonorità inglesi di qualche hanno fa e portano a compimento un'evoluzione che anche la scena italiana sembra cercare affannosamente. Il quartetto inglese ha sulle spalle più di dieci anni di attività dei singoli elementi della band e fa largo uso di tastiere che nella sapiente scelta di string e pad creano atmosfere ora spaziali, poi orientali e infine malinconiche. "Everywhere Face" è la mia song preferita, intro di chitarra carica di delay (no, nessuna contaminazione post rock), ritmica solida e synth che accompagnano il vocalist nel suo viaggio pindarico. Forse il pezzo più aggressivo dei Flicker, ma con il loro marchio di fabbrico impresso nelle carne. "Falling Down" inizia come una delle ballate più malinconiche della storia prog, con tanto di archi e arpeggi cristallini, ma durante i quasi sei minuti di esecuzione scopre una rabbia repressa che esplode progressivamente fino a dare il colpo di grazia fatto di distorsioni al limite del metal. La nona e ultima traccia si intitola "Is This Real Life" ed è una dimostrazione di come la musica classica di altri tempi, sia stata rimpiazzata da opere di medesima fattura. Forse la musica come arte non è defunta, perlomeno grazie ad un gruppo esiguo di artisti. Adoro la quarta di copertina di questo "How Much Are You Willing to Forget", un rotolo di carta igenica quasi finito con la tracklist scritta sopra... Una metafora? (Michele Montanari)

mercoledì 15 maggio 2013

Riul Doamnei - A Christmas Carol

#PER CHI AMA: Black Sinfonico
“Marley, prima di tutto, era morto.” “Marley, prima di tutto, era morto.” “Marley, prima di tutto, era morto.” È questa l’insolita litania che avverto ripetersi, amplificarsi tra le solide, elastiche pareti della mia testa. Parole che rimbalzano e sinuose riverberano, scolpiscono arcuate, altissime navate nella gotica cattedrale della mia mente. Crollo estasiato, mi piego dinanzi al mio io più profondo, ma non ne soffro, al contrario ne godo: mi regalo un piacere tra i più sublimi. Mai nulla di sacro, nelle mie, di cattedrali. Era mio obiettivo trasmettere, a te lettore che stai leggendo, quello che sento, quello che avverto avventurandomi in questa novella, “A Christmas Carol”, concept basato sull’omonimo romanzo breve, partorito dal genio di Charles Dickens e rivisitato per noi dagli italianissimi Riul Doamnei, band gigante rossa, grondante sangue, materia oscura che occupa lo spazio vuoto di quel vasto universo qual è il symphonic black metal. Genere vasto, oserei dire oceanografico. Mi sovvengono quei famosi versi di Dante “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita.” Ma questo non è il caso, la via non è per niente smarrita, anzi, il concept nel quale i nostri tricolori patrioti ci vogliono inebriare è ialino, adamantino. Mi concedo giusto due parole sulla trama della novella per incuriosire quei lettori che non fossero avvezzi all’opera Dickensiana: il ricco quanto avaro protagonista, tal Ebenezer Scrooge, viene visitato da tre spiriti nel bel mezzo della notte di Natale nella Londra del 1843: il Natale Passato, il Natale Presente ed il Natale Futuro. A seguito di questi incontri, il comportamento di Scrooge cambierà radicalmente. Abituato come sono, a vederli sul palco con i loro “scherzi da prete” che devo dire, dentro di me, ho sempre molto apprezzato (solo chi segue anche dal vivo questa band capirà codeste mie parole), non hanno mancato, questa volta con inedite ed evanescenti sembianze da spettri, di stupire ancora il pubblico, come sempre entusiasta. Non mancate assolutamente quindi di vedere questa interessante, nostrana formazione esibirsi anche dal vivo: è questa infatti una band sempre molto attiva, che batte numerosissimi palchi in patria e non solo, dalla presenza scenica d’effetto, travolgente, con una certosina meticolosità nella cura del dettaglio in particolare dal punto di vista vestiario, sempre molto creativo e d’impatto. Pur essendo calcificati come unica traccia, i testi di questa spina dorsale sostengono a meraviglia uno scheletro articolato su cinque vertebre talvolta triplicemente fratturate tramite “subtitoli”. Sarete accompagnati non solo da musica ma anche da campioni ambientali durante questa sonora novella: un amalgama di testi, musiche e suoni, trasmetterà forti emozioni percepibili dai cinque sensi. Voglio per una volta scordarmi dell’udito, senso troppo semplice da utilizzare in campo musicale e tra l’altro da me già troppo sfruttato in certe mie precedenti infusioni metallare. Un contributo importante, questa volta, ci viene dalla vista: le vostre macule saranno certo deliziate dalle meravigliose immagini del filmato, magnificamente realizzato, che accompagna le melodie. Inutile dire, però, che anche qui il sentiero sarebbe per me troppo facile da seguire. Voglio divertirmi a seguire un percorso molto più impervio, tipo quello di Frodo verso Monte Fato: direi che la strada giusta questa volta è quella dell’olfatto. Mi divertirò interpretando l’armonia di questa riuscita opera musicale dal punto di vista olfattivo. La immaginerò come fosse un profumo. Non solo musica nella formulazione di quest’orgasmo olfattivo. La nota di testa, che si percepisce subito, ci viene dai suoni ambientali: vi aiuteranno a calarvi nel giusto stato psicofisico. Di quali volatili molecole ci stanno nebulizzando? Un canto di Natale. Una carrozza trainata da cavalli che si muove sulla pietra bagnata e resa sdrucciolevole dalla neve fresca: ne avvertirete gli zoccoli. Forse non erano zoccoli equini ma… luciferini. Passi, passi nella neve. Il vento che soffia, sibila, sferza tagliente la neve. La sposta, crea strani disegni, sigilli degni del Liber Juratus Honorii, è Eolo, Eolo che gioca col suo mefitico alito sino ad infrangerlo incazzato sugli stipiti di una logora porta. Un portale delle tenebre che si apre e si richiude scricchiolando minacciosamente alle vostre spalle. Un portale dal quale non tornerete indietro: lasciate ogni speranza o voi ch’entrate. Lì vicino sento pure un fuoco: arde. E catene, catene trascinate nell’oscurità. La nota di cuore, percepibile nelle ore che seguono la scomparsa della nota di testa, ci arriva, in questo nostro singolare percorso olfattivo, dal growling: percepisco le singolari corde vocali di Federico come intrise del sangue di vergini sacrificali. Sangue che vedo ritmicamente gocciolare sulle corde delle due chitarre della formazione. Veloci file di ordinate gocce, come formiche operaie corrono sicure e, prima di cadere nell’oblio del vuoto più nero, percorrono le corde delle chitarre in tutta la loro lunghezza. Corde che nel mio immaginario, certo evocato dalle singolari melodie, vedo montate non su chitarre ma su di una coppia di arpe. Arpe pizzicate non da semplici dita ma dai velenosi ed affilati denti aguzzi di teste di serpe montate sul capo della mitologica Idra. Ad accompagnare queste erpetologiche plettrate troviamo la sempre precisa, simmetrica ragnatela tipica della vedova nera: così vedo perpetrata la fitta tessitura delle melodie provenienti dalla tastiera. Pressioni dei tasti certo veloci come le forbici di Edward ma al tempo stesso precise, precise come mandala tibetani. A conclusione di questa mia profumata dissertazione, la nota di fondo, ultima parte del processo profumiero che contiene gli elementi persistenti, senza alcun dubbio, in questo caso, ci viene dal basso e dalla batteria: due strumenti che quando s’incontrano, in questo particolare genere musicale, come sempre non suonano ma fanno l’amore. In questo “A Christmas Carol”, ve l’assicuro, ci danno dentro di brutto. Grande e lodevole, quindi, anche la prova di basso e batteria: tamburi di certo ricavati da pelli umane provenienti da quel particolare tipo di spregevole peccatore mammifero di nero vestito si ben descritto in una precedente traccia dei Riul Doamnei, mi riferisco a “Sodoma Convent” presente in “Fatima”. Le stesse corde del basso certo hanno la stessa origine mammifera ma questa volta si tratta di budella anziché di pelli. Come noto, di un certo tipo di animale da fattoria, non si butta mai via niente... (Rudi Remelli)

Forlorn Chambers - Unborn and Hollow

#PER CHI AMA: Death con venature epiche, Amon Amarth
Mi mancava in questo periodo qualcosa che pestasse davvero di brutto; strano però che a offrire una siffatta proposta ci sia una band finlandese. Si perché, dalla nazione dei mille laghi, sono solito aspettarmi qualcosa di estremo ma riletto in chiave psichedelica, liturgica o avantgarde. Ebbene quando ho inserito “Unborn and Hollow” nel mio lettore, demo cd di debutto dei Forlorn Chamber, sono stato investito dalla sua primordiale rabbia, con malvagie frustate di furente death metal “in your face”, che mi ha lasciato attonito. L’aggressione della opening track, nonché anche title track è portentosa, con la furia della sua ritmica tutta blast beat e schegge grind ad annichilirmi selvaggiamente, nonostante le linee di chitarra mostrino comunque una certa vena malinconia nel loro feroce incedere. “And We Hail the Ones Who Fall” offre un altro attacco brutale, al limite del grind intransigente; ma di sottofondo, non so perché, mi sembra di percepire qualcosa di epico, e non mi sbaglio quando a fare capolino ci sono degli impercettibili chorus vichinghi che quasi istantaneamente mi fanno associare la proposta dei Forlorn Chambers al mitico album di debutto degli svedesi Amon Amarth. Il sound della band di Tampere è probabilmente ancora in fase embrionale, ma lavorandoci un po’ su, sono certo che potranno uscire degli spunti interessanti da essere sviluppati. E forse, un abbozzo c’è già in “Desolate Resolution”, in cui l’attacco è completamente diverso dalle precedenti canzoni, in quanto sembra sia stato concepito in uno step successivo: molto più lento dei primi due pezzi, il growling soffocato del vocalist si staglia su una accoppiata di chitarre che avanzano minacciose, una a sorreggere una ritmica funambolica, l’altra a dedicarsi ad interessanti squarci melodici, una specie di tributo a “The Karelian Isthmus”, prima vera fatica dei connazionali Amorphis. La proposta del combo finlandese è ancora forse un po’ acerbo, ma lascia intravedere, a mio avviso, ampi margini di crescita, che potranno sfociare in suoni death dark depressive, sulla scia di Black Sun Aeon e compagnia. Da tenere sott’occhio. (Francesco Scarci)

Way to End - Various Shades of Black

#PER CHI AMA: Post Black Avantgarde, Solefald, Pensees Nocturne
Continua l’intelligente politica dell’etichetta francese Ladlo Productions nel promuovere band del proprio paese e dalle idee alquanto originali. Pensiamo infatti recentemente alle uscite di Pensees Nocturnes o ai post blacksters Regarde Les Hommes Tomber. Quest’oggi è il turno dei Way to End (dove lo stesso Vaerohn dei Pensees suona il basso), che bissano l’esordio datato 2009, “Desecrated Internal Journey” con questo avanguardistico “Various Shades of Black”. Scrivo avantgarde non a caso, dal momento che quando “L’Apprenti” irrompe nelle casse, il mio primo pensiero vola alla delirante e geniale proposta dei norvegesi Solefald. Non siamo ancora ai livelli del duo composto da Cornelius e Lazare, ma il quartetto transalpino ci sta lavorando egregiamente, piazzando nel bel mezzo del brano un bel break di musica classica che mi ha rievocato anche qualcosa dei Dispatched. Poi è proprio dalla band madre del buon Vaerohn che arriva linfa vitale per i nostri, con influenze per lo più derivanti dai primi due lavori del mastermind parigino con qualche accenno, nel corso dell’album, anche all’ultimo orchestrale “Nom D’Une Pipe”. Vuoi per la sua presenza dietro al microfono nei latrati lamentosi, vuoi per l’oscura atmosfera che si respira, sarà ben facile capire quanto vicine possano sembrare in taluni momenti, le proposte musicali delle due band. I Way to End, forse mostrano una componente ben più cupa e decadente, con linee di chitarre malate e disarmoniche, che riescono ad evocare oltreché il delirio dei già citati Solefald, anche il misticheggiante avantgarde dei Ved Buens Ende. Ma nei solchi di “Various Shades of Black” si cela un po’ di tutto: dal feeling vichingo a la Borknagar in “Vain”, al post-black di “La Figure Dansante de l’Incomprehension”, passando addirittura attraverso lo swedish black dei Dissection in “A Mon Ombre”, senza tralasciare l’aura epica dei primi Ulver nella conclusiva title track o la brutale sperimentazione di “La Ronde des Muses Fanees”. Insomma di carne al fuoco ce n’è davvero tanta, complice una ricerca spasmodica di una propria identità ben più definita e scevra dalla miriade di contaminazioni che popolano questo “Various Shades of Black”. Le carte buone ci sono, ora toccherà ai Way to End, giocarsele al meglio. (Francesco Scarci)

(Ladlo Productions)
Voto: 70

https://www.facebook.com/waytoend

lunedì 13 maggio 2013

Smohalla/Omega Centauri - Tellur/Epitome

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, Solefald, Limbonic Art, Blut Aus Nord
Devo essere sincero: ho amato alla follia il cd “Resillience” dei francesi Smohalla, mentre non mi aveva fatto certo impazzire il debut degli anglo-svedesi Omega Centauri, “Universum Infinitum”. Quindi il mio ascolto di questo split cd era piuttosto condizionato dai precedenti lavori delle due band, ora sotto contratto per la Duplicate Records. Il cd è diviso in due in tutto e per tutto: due copertine (una su ogni versante di questo elegante digipack) e sette song (quattro per i transalpini per venti minuti di musica e tre per gli Omega Centauri, con un minutaggio all’incirca di 38 minuti). Ad aprire le danze ci pensa la fantasiosa proposta degli Smohalla, con il loro inebriante concentrato di black sinfonico avanguardistico: “Sa Voix Transperce Nos Fronts” esplode con i suoi stravaganti suoni, che richiamano un po’ alla rinfusa i vari Solefald, Limbonic Art o Emperor, propinando alla fine un black assai tirato ma stemperato nella sua furia, da divagazioni cyber industriali che si rifanno piuttosto ai connazionali Blut Aus Nord. La proposta non è delle più semplici da assimilare, lo devo ammettere, ma vi garantisco che quando vi entra nella testa, non vi lascerà più. Il caos sonoro regna sovrano in “La Main d’Abel” con lo screaming corrosivo di Slo affiancato da ritmiche deliranti. I suoni sono glaciali, a causa della prevalente componente cibernetica che ben si amalgama con quella che era la proposta sinfonica del duo francese. Nella conclusiva “Les Passagers du Vent” emergono maggiormente le orchestrazioni dei nostri, con suoni in cui le armonizzazioni si mostreranno assai intriganti e una ritmica che sembra trarre spunto dal thrash metal. “Tellur” si chiude qui con scariche di violento black metal che sembra suonato da Devin Townsend. Arriva il momento di “Epitome” e della più algida proposta degli Omega Centauri. I suoni sono più freddi, meccanici, sembrano più studiati a tavolino, ma la proposta dell’imprevedibile duo nord europeo sembra aver fatto suoi gli insegnamenti dei già citati Blut Aus Nord e si lanciano con “Naissance” in un ipnotico viaggio negli abissi infernali del black metal più psichedelico, senza disdegnare però fughe nel back metal più minimalista e intransigente. Devo rivedere di certo la mia posizione nei confronti perché a giudicare dai contenuti di questo “Epitome”, la band ha fatto un bel balzo in avanti che mi ha spinto addirittura a rivalutare il loro debut cd. I nove minuti e passa della prima traccia sono contraddistinti da un sound malato, meno caotico dei compagni di etichetta, ma decisamente più pervaso da un feeling maligno. “Submission” ci spara in faccia altri nove minuti di black più misurato, più a passo con i tempi e le nuove mode post che contribuiscono a infondere di una certa intensità la proposta del duo formato da Tom Vallely e Rob Polon. L’atmosfera greve è tangibile, soprattutto quando il suono di un tamburo assurge al ruolo da protagonista mentre le chitarre zanzarose ricamano gelide melodie e la voce tagliente di Rob, minacciosa canta in sottofondo. Spiazzato dall’eccellente proposta della band di Bornermouth/Gotheborg, mi avvio ad ascoltare l’ultimo infinito pezzo, “Desuetude”, una suite di 20 minuti, che si apre con il suono di un temporale e un arpeggio che per una decina di minuti scarsa imperversano nel sottofondo. Poi il silenzio, la più classica delle ghost track, prima dei rimanenti tre minuti dediti a sonorità per lo più drone/elettroniche. Insomma, per concludere gran bel split cd, che mette in mostra le enormi potenzialità di due band, dedite in modo differenti, al verbo della fiamma nera. Da avere assolutamente! (Francesco Scarci)

giovedì 9 maggio 2013

Sleepmakeswaves - …And Then They Remixed Everything

#PER CHI AMA: Electro-ambient, 65DaysOfStatic, Nine Inch Nails di "Ghosts"
Immaginate di prendere un capolavoro del post-rock strumentale (con i soliti ingredienti: parti veloci e parti lente, una spruzzata di linea melodica, l'assenza della voce, le atmosfere dilatate) e metterlo nelle mani di nove artisti dell'elettronica internazionale. È quello che succede con "…And Then They Remixed Everything", versione elettronica di "…And So We Destroyed Everything", primo full lenght del quartetto australiano Sleepmakeswaves. Se l'album originale era stato osannato dalla critica e premiato da tour internazionali di spalla a grandi nomi del genere, questo remix non poteva che essere altrettanto interessante. Mettiamola così: se vi è piaciuta la colonna sonora di "The Social Network" (scritta e suonata dai due geni Trent Reznor e da Atticus Ross, che peraltro hanno anche vinto un Oscar nel 2011), questo "…And Then They Remixed Everything" ne è di fatto una naturale continuazione. Le sorprese, quando le teste dietro ad un disco sono addirittura nove (dieci, se vogliamo considerare il contributo iniziale degli Sleepmakeswaves), non mancano. Spiccano senz'altro "In Limbs & Joints" (non a caso remixato addirittura da Rosetta), per le atmosfere da spazio siderale di synth e tastiere e la opening track "Our Times is Short" dei grandissimi 65DaysOfStatic, brano che non sfigurerebbe nemmeno in uno dei "Ghosts" dei Nine Inch Nails. Non manca l'elettro-funky – che ricorda certi Beastie Boys dei tempi andati – nelle percussioni e organi di "Voices In The Forest" di Klue. C'è l'elettronica liquida da club nel remix di Kyson di "We Like You When You Are Ankward", ci sono i suoni 8-bit da videogioco coin-op in "Hello Chip Mountain" (mixato da un altro grande dell'ambiente: Ten Thousand Free Men & Their Families vs. SMV). Ci sono i 18 minuti abbondanti dello straordinario finale onirico di "After They Destroyed Everything" nel remix di AM Frequencies, che chiudono l'album lasciando l'ascoltatore in uno stato di grazia interrotto solo da due inserti minimal di batterie elettroniche. Un gran bel disco: eccellente se ascoltato come contraltare elettronico dell'originale "…And So We Destroyed Everything", ma validissimo anche come opera a sé stante, per la ricchezza di suoni, spunti, idee, atmosfere e ambienti. (Stefano Torregrossa)

Dodsfall - Inn I Morkets Kongedomme

#PER CHI AMA: Black old school, Satyricon, Gorgoroth, Emperor
Nati nel 2009, questa iperattiva band norvegese di Bergen dedita ad un black metal dalle tinte glaciali, ci presenta un cd del 2012 uscito per la Obscura Abhorrence Productions. Nel frattempo il combo ha già fatto uscire un altro ep nel 2013, per un totale di quattro released in quattro anni, senza dubbio una buona media. Da non confondere i Dodsfall con l'omonima e connazionale band dedita al doom metal, i nostri sono senza ombra di dubbio dei veri e duri black metallers. Il cd si apre con la foga tipica del genere, batteria in primo piano e chitarre distorte a ruota a creare un omogeneo sound gelido; tutto gira come da copione e il prodotto finale è molto interessante seppur spartano nella fantasia, stereotipato nella composizione e nell'artwork di copertina. Questo non toglie che per gli amanti del più convenzionale black norvegese, "Inn I Morkets Kongedomme" non risulti un'opera veramente entusiasmante e sparata a mille nello stereo di casa vi apparirà oscuramente trascinante e forgiata col fuoco. Suoni di scuola Gorgoroth, molto crudi e dinamici ma catturati e suonati con gusto e ricercatezza maestrali, una ritmica messa a fuoco da una buona qualità di registrazione e uno screaming quanto mai centrato per questa musica. L'album ha al suo servizio otto brani cantati in norvegese e questo spinge ancora di più l' acceleratore rendendo il tutto molto duro e nero, la presenza di un buon vocalist si sente e si fa notare portando il tutto ad essere più coinvolgente. "Undergangen" è un brano magistrale: poco più di quattro minuti con all'inizio un mid tempo e un guitar sound drammaticamente splendido, un'evoluzione in velocità, aspettata e dovuta in puro stile Satyricon, freddo, tagliente, dal canto spietato e dall'incedere epico e violento. L'idea di far rimettere in moto la magia del puro black metal norvegese riesce bene e complice una registrazione di alta qualità, rende il tutto perfettamente appetibile e di valido ascolto. Resta difficile gridare al miracolo d'innovazione ma visto dal lato conservativo dei canoni del genere in questione, siamo di fronte ad un prodotto di buona fattura, cattivo, violento e agghiacciante, interamente dedito ad una ricerca del vecchio buon metal estremo e oscuro. Una foresta impenetrabile ma affascinante, il lato oscuro e sublime del metallo! (Bob Stoner)

(Obscura Abhorrence Productions)
Voto: 70

https://www.facebook.com/dodsfall

Combat Astronomy - Kundalini Apocalypse

#PER CHI AMA: Noise, Doom, Jazzcore, Zu
Ma che belle sorprese che arrivano nella cassetta della posta del Pozzo! Dopo gli ottimi Lilium Sova, un altro album dalle atmosfere simili, che rivendica un posto importante nel panorama post-metal strumentale contaminato con il free-jazz più estremo. I Combat Astronomy sono un progetto essenzialmente ascrivibile alla creatività dello statunitense James Hugget, responsabile della scrittura di tutti i brani, delle chitarre, i bassi e il programming delle percussioni. Una parte importantissima del suono è poi appannaggio di Martin Archer, che a Sheffield, UK, incide strati di clarini, sassofoni, organo ed effetti vari. Il risultato è un particolare metalcore dipinto con le tinte fosche del doom, stemperato però da continue aperture, cambi di tempo e atmosfere di stampo free-jazz, che riesce nell’improba impresa di risultare “heavy” ma non “pesante”, di picchiare duro senza essere soffocante o troppo ostico, ma mantenendo anzi una sorprendente fruibilità. Fin dall’iniziale “Kundalini Dub”, la ritmica serratissima non lascia scampo e, come suggerisce il titolo, dei riverberi dub proiettano l’ascoltatore in una dimensione parallela, dove la realtà appare in qualche maniera dilatata. Qua e là spuntano vocalizzi malsani alla Eugene Robinson (prima o poi bisognerà che qualcuno rivaluti universalmente l’opera degli immensi Oxbow), a rendere l’atmosfera ancora più suggestiva e indecifrabile: provate ad immaginare i Godflesh che incontrano John Zorn, alle prese con la musica di Mingus. Tutti i brani sono ugualmente incisivi, ed è difficile trovare vette, ma mi piace menzionare la lunga, conclusiva “Cave War” che funziona benissimo come condensato dell’intero lavoro: un tappeto di voci corali alla Ligeti ci proietta nello spazio profondo, dove la temperatura è prossima allo zero assoluto e tutto si ferma, anche il cuore e il respiro. Frasi smozzicate di sax danno segni vita, un organismo si dibatte al ritmo lento del doom, lotta per liberarsi ed erompe infine in un frenetico dibattere di svolazzi free su inesorabile incedere post-metal. Un essere alieno che cresce e cambia forma e voce più volte, ora furioso e gorgogliante, ora riflessivo e quasi pacificato, nel corso dei quasi quattordici minuti che chiudono questo magistrale album. Da quanto si apprende dal sito della band, sono in atto delle session con un batterista in carne ed ossa e, personalmente, non vedo l’ora di ascoltare le prossime evoluzioni di questa eccitante creatura musicale. (Mauro Catena)

(Zond Records)
Voto: 80

http://combat-astronomy.bandcamp.com/