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giovedì 18 ottobre 2012

Synarchy - Tear Up the World

#PER CHI AMA: Modern Death, Mercenary, Soilwork
Dopo aver esplorato tutto il mondo, mi sembrava giusto che la nostra attenzione si focalizzasse anche alle piccole isole Fær Øer, arcipelago localizzato a nord della Scozia, ma in realtà regione autonoma di Danimarca. E questa piccolissima regione, la cui squadra nazionale di calcio abbiamo anche recentemente visto impegnata con gli azzurri, dà i natali a questi Synarchy, band dedita ad un modern death metal. Dieci rocciose tracce che si aprono con la melodica title track, che evidenzia subito le influenze a cui i nostri si rifanno: si tratta infatti di un certo death thrash melodico che prende spunto dalla tradizione swedish che vede in Soilwork, Darkane o Mercenary, i principali punti di riferimento. Dico subito che il sound del quintetto danese trasuda groove da tutti i pori e questo permette ai Synarchy di essere facilmente avvicinabili dagli amanti di sonorità “estreme” ma comunque melodiche, melodia che si esplica anche in brillanti assoli come nella seconda “Sært Tù Meg”, con la voce di Leon (tipico nome nordico) ad alternarsi tra un roccioso, ma assai comprensibile, e piacevole growl, e delle ruffiane clean vocals. La proposta dei Synarchy mi piace parecchio, anche se non propone nulla di nuovo, ma la carica che emana è energica, trascina, induce inevitabilmente ad un headbanging sfrenato. Il ruggito delle chitarre è assimilabile a quello dei leoni in cattività nella savana. Rabbiose, ritmate, mai veloci, spesso accompagnate da un piano in sottofondo, come accade in “Plague of Time”, piano che consente di diversificare leggermente la proposta dei nostri, che pur schiacciando l’occhiolino a destra e manca verso sonorità ruffiane, si presenta di certo come musica non indicata alle mammolette. Eccellente anche il lavoro dietro le pelli di Kim Joensen, preciso e dirompente, mentre i due axemen, si divertono non poco con la loro sei corde, disegnando ariose melodie. Il lavoro scivola via attraverso altri begli esempi di death melodico (da segnalare “Out of Breath”), ma all’altezza dell’ottava traccia, mi accorgo di essere un po’ saturo, anche perché in un genere come questo, non si possono avere tracce che superano i cinque minuti e “A Reason to Live”, che ne dura addirittura nove, pur essendo un po’ avulsa dal resto delle song, un po’ malinconia e romantica, finisce per stancare. E cosi i 62 minuti di “Tear Up the World” rischiano di fiaccare la proposta dei Synarchy che con questo lavoro, toppano solo a livello di lunghezza totale dell’album. Fosse durato infatti una ventina di minuti in meno, avrebbe meritato mezzo punto in più. Aiutati poi da una produzione cristallina, i Synarchy convincono appieno con il loro sound, ricco di chorus, groove e partiture che sfociano anche nel metalcore. Limiamo un attimo il punto nevralgico insito nell’eccessiva durata dei brani e probabilmente avremo trovato un’altra grande band… (Francesco Scarci)

(Tutl Records)
Voto: 70

domenica 14 ottobre 2012

Synopsys - When Sparks Become Flashes

#PER CHI AMA: Post Rock Sperimentale
La sinossi rappresenta il riassunto di un’opera, in cui si vuole mettere in evidenza le parti più importanti in essa contenute. Probabilmente il nostro quintetto francesino ha voluto mettere, nelle due tracce di questo demo cd, quanto di meglio è rappresentato nella loro musica. Si parte con la title track, otto minuti che si aprono in modo soffuso, meditativo, che schiude decisamente ad atmosfere rilassate. Mi sono subito messo a mio agio, permettendo alla musica di fluire lentamente lungo il mio corpo, lasciandomi ipnotizzare dal suo incedere lento e magnetico. E cosi dopo quattro minuti, ecco far la comparsa anche la voce di Vincent, disperata nella sua versione pulita e possente in quella growl, che quando irrompe nel sound dei nostri, spinge ad un mutamento musicale, con la quiete che cede il passo ad una poderosa tempesta elettrica. “Mothers” apre con la classica malinconica parte arpeggiata per poi abbandonarsi ad un nervoso riffing sperimentale la cui progressione porta ad un avvincente finale, che mi lascia però con l’amaro in bocca, perché mi aveva già sedotto, ed infine abbandonato. Insomma, un antipasto che lascia intravedere buone cose per il futuro. Staremo a sentire. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

From Oceans to Autumn - Return

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale, If These Trees Could Talk
Quella del 2012 è stata per il sottoscritto l’estate dei suoni post: aggiungete dopo quello che più vi garba, rock, metal, black, punk o hardcore, la cosa che non cambia è che il risultato, nel 90% dei casi, è stato più che soddisfacente. Non sono immuni da questa cosa neppure i From Oceans to Autum, band del North Carolina, fiera esponente di un post rock strumentale, dalle forti venature malinconiche. Tre (in realtà due escludendo un intermezzo ambient) i pezzi a disposizione del terzetto statunitense, in questo Ep di una ventina di minuti di durata, che vede aprire le sue danze con “Ascending”. Si tratta di una song piuttosto lineare, semplice, piacevole, che colpisce per una buona tecnica di base, che non propone chissà che cosa, ma che viaggia in linea con le proposte di If These Trees Could Talk o di altre realtà del panorama post rock. È musica da tenere sottofondo mentre si viaggia in macchina verso mete lontane, o mentre si torna dalle vacanze in treno e si guarda fuori dal finestrino pensierosi, con una certa inquietudine nell’animo, di qualcosa che ahimè è già finito: una vacanza, una storia d’amore o un sogno infranto. Nelle oniriche note iniziali di “Descending”, seguite da una certa arroganza elettrica, sembra tuttavia esserci ancora spazio per la speranza, e la possibilità che tutto possa ricominciare daccapo. Forse solo false illusioni di un presente che ci prende a schiaffi ed un futuro che non c’è… (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 70

Anubis - A Tower of Silence

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Porcupine Tree
La Bird's Robe Collective ci fa pervenire un altro cd e visto che la qualità dei suoi gruppi è di tutto rispetto, il nuovo lavoro degli Anubis mi intriga non poco. "A Tower of Silence" è un bel digipack che contiene otto piste (questo dice il player quando inserisci il cd) di questa band progressive (o neo prog come molti si divertono a scrivere) australiana. Iniziamo da "The Passing Bell", una vera e propria suite in sei atti da ben diciassette minuti. Lavoro epico che deve essere una goduria dei sensi se ascoltato dal vivo. Spettacolare intro con synth, repentini cambi ritmici, con un filo conduttore che imperversa per tutta la traccia. Infatti questo è sempre gestito dalle chitarre e tastiere che dominano la linea melodica, supportati da basso e batteria per una riuscita parte ritmica. Difficile non risultare noiosi, ma gli Anubis riescono a mantenere alta l'attenzione con arrangiamenti già sentiti ma che comunque riescono nell'intento. Verso gli undici minuti il pezzo sembra chiudersi in una bella outro di piano, ma la song riprende magistralmente con un crescendo che porta al classico solo di chitarra. Il finale si sposta sull'epico, giusto per non lasciare fuori niente. Bella, non eccezionalmente innovativa, probabilmente i veri amanti del prog apprezzeranno la complessità compositiva, mentre i cultori degli innominabili (Dream Theatre) resteranno a bocca asciutta per quanto riguarda la tecnica. Non che manchi agli Anubis, sicuramente non è a livelli estremi e questo è sicuramente un pregio. Solo le mie recensioni risultano più noiose degli innominabili... "A Tower of Silence" è la quarta canzone dell' omonimo album e personalmente mi ha deluso parecchio, una ballata lenta in stile 70's che richiama più le atmosfere di Woodstock e Hotel California che le sonorità sentite precedentemente. Direi oltremodo banale. Chiudiamo con "All That is...", traccia divisa in tre atti che ripresenta le sonorità chitarra e tastiere precedentemente ascoltate. Sicuramente la versione più apprezzabile degli Anubis in cui sicuramente si trovano più a loro agio. In conclusione devo dire che gli Anubis hanno talento, ma se fossi in loro oserei qualcosa in più, visto il genere. Il rischio è di passare inosservati nell'oceano di band che probabilmente a livello tecnico sono inferiori, ma che riescono a plasmare un suono che li distingue. Cercherei di concentrarmi proprio su questo punto e probabilmente il prossimo lavoro sarà assai più gustoso. (Michele Montanari)

(The Bird’s Robe Records)
Voto: 65

martedì 9 ottobre 2012

Ørkenkjøtt - Ønskediktet

#PER CHI AMA: Progressive Death Psichedelia , Opeth, Pink Floyd, Riverside 
Ma che ci sta a fare un cavallo seduto al pianoforte? Ma soprattutto, chi sono questi impronunciabili Ørkenkjøtt che si presentano alla grande, con un lavoro ben confezionato (splendido il digipack) dal contenuto musicale, che per quanto sia cantato in lingua madre, potrebbe tranquillamente fare il pari con un album degli Opeth? Incredibile ragazzi, qui abbiamo a che fare con dei perfetti sconosciuti, che fanno però parte di una generazione di fenomeni, insieme ai Leprous, con cui condividono anche il palco in questi giorni. L’album decolla immediatamente, mostrando la pasta di cui sono fatti questi cinque norvegesi, lasciando intravedere le influenze provenienti dal progressive di Porcupine Tree o dai polacchi Riverside e nei frangenti death, dei succitati Opeth, assai evidente nelle linee di chitarra. Vi basti sentire infatti “Skygger Og Støv” per carpire i riferimenti che vi sto riportando, tuttavia non voglio assolutamente parlare di questi ragazzi come clone band o quant’altro, perché qui abbiamo a che fare con gente preparata tecnicamente, che ha studiato a menadito gli insegnamenti dei maestri, tra cui anche lo stile sincopato dei Meshuggah. La seconda “Litets Frø” mi sembra proporre, nella elucubrante circonvoluzione delle chitarre, un che del death jazzato dei nostrani Ephel Duath, accompagnato inoltre da una splendida chitarra spagnoleggiante. Quello che mi appare come il lamento di un muezzin, apre invece la terza traccia (tra le mie preferite), che evidenzia, neppure ce ne fosse stata la necessità, la verve, la classe e la fantasia di questi cinque baldi giovani, che vedono, oltre che nella prova dei singoli musicisti, anche nel cantante Knut Michael, l’eccellente espressione della ecletticità degli Ørkenkjøtt, sia nella versione pulita che in quella growl. La musica è ovviamente un flusso costante di emozioni, con degli assoli sempre delicati e mai taglienti, aperture atmosferiche da paura ed un costante pathos palpabile: basti ascoltare “Havet, Døden og Kjærligheten”, dove mi sembra di udire lo stesso magico feeling dello splendido assolo di “Flying”, degli Anathema. Pelle d’oca alta una spanna. La successiva “Fem Soler” si fa notare per un break centrale di basso spaventoso che prepara ad una psichedelica parte conclusiva, che potrebbe tranquillamente risiedere in un disco dei Pink Floyd. Tanta roba, si direbbe da queste parti. “Profeten” si scatena con una proposta che esula decisamente da quanto udito sin qui, tale e tanta è la furia in esso contenuta, che viaggia a cavallo tra un pezzo death, doom e black, anche se poi nella seconda parte del brano, i nostri aprono a mille influenze derivanti da ogni ambito musicale, con un finale all’insegna del rock’n roll. Un’altra song acustica con gong e orpelli vari, irrompe nella strumentale “Røsten Fra Østen”: ormai mi rendo conto di essere non poco confuso e al contempo estasiato dalla musica di questi pazzoidi nordici. Siamo quasi alla conclusione e non so più che diavolo aspettarmi. “Skygger og Støv II” rivoluziona ancora una volta il concetto di musica, muovendosi a cavallo tra lo swedish death dei Meshuggah, le sonorità criptiche dei Tool, che fin qui avevo omesso come influenza, ed un assolo che trova la propria fonte di ispirazione nelle note degli Opeth. Spero non vi sembri negativo il fatto di aver citato tutte queste band come influenza dei nostri: non cadete nell’errore di considerare derivativo il sound dei norvegesi, sarebbe quanto di più sbagliato. Qui siamo al cospetto di una band dalle idee rivoluzionarie, che non ha certo paura della sperimentazione, e la follia delirante della conclusiva death’n roll “Redneck Randy”, ne è la testimonianza più palese. I nostri non si fanno mancare nulla e piazzano infine una sorta di messaggio fantasma nell’ultimo minuto e trenta del cd. Il rischio di “Ønskediktet” è di risultare fin troppo sperimentale per alcuni, ma vi prego, fatemi, anzi fatevi un favore, e date un ascolto attento a questo album, non ve ne pentirete assolutamente. Da avere ad ogni costo, anche solo per il dipinto visionario, stile Chagall, della cover cd. Magistrali. (Francesco Scarci)

(Nordic Records)
Voto: 85-90 

lunedì 8 ottobre 2012

Ajuna - Death In The Shape Of Winter

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves in the Throne Room
“Death in the Shape of Winter” è un 12” di cinque pezzi, presentatoci dai danesi Ajuna, band dal nome intrigante, la cui etimologia riconduce al latino “aiunare” ossia astenersi dal cibo. Non ho idea se il quintetto guidato dal buon Anders Holm Andersen, si sia rifatto a questa parola o piuttosto a qualche vocabolo di origine nordica, fatto sta che l’EP ha da offrire un post black corrosivo, in taluni frangenti anche atmosferico, ma non pretendetene troppo, di melodia qui ce n’è gran poca. L’inizio di "Death" è pauroso: chitarre dall’accordatura ribassata, ritmi lenti e cadenzati, vocals gutturali e profonde, un enigmatico ronzio che si nasconde dietro l’impetuosa ritmica, mentre lentamente il ritmo sembra andare in crescendo fino all’esplosione di suoni primordiali, che portano alla creazione del caos. Sette minuti del genere rischiano di risultare piuttosto noiosi, ma l’effetto disturbante di quel ronzio, sembra alterare i miei sensi, facendomi apprezzare la proposta. “Slower Song” suona più southern black, e come suggerisce il titolo, mostra un incedere lento e avvinghiante, sinuoso e soffocante, anche se finisce col concedersi dei riff al fulmicotone. “Winter” è invece più spinta in termini di velocità e cattiveria, con una batteria che si mostra serrata nei suoi bombardamenti a tappeto e dove le chitarre si confermano estremamente taglienti, soprattutto quando vanno a raddoppiare i loro sforzi. I suoi quattro minuti volano via veloci e in men che non si dica, mi ritrovo col basso di “Nations” a cozzare i pochi neuroni rimasti nella testa. Chiude il lavoro “We the City” altri cinque minuti di musica cancerosa, quasi punk, che ha il difetto di mancare di coinvolgimento, essendo priva di melodia. Anche i vari Deatheaven e Wolves in the Throne Room suonano post black, però va da sé che c’è classe cristallina nelle loro note, qui siamo ancora a livelli di suoni acerbi. Auspico tuttavia che il five-piece di Copenaghen si possa rifare al più presto… (Francesco Scarci)

(Ne-How Records)
Voto: 60

Area - A Place to Meet Randoms

#PER CHI AMA: Post Rock, Anathema, Archive 
Quando ho letto il nome Area ed ho visto la cover cd, ho pensato ad una delle uscite progressive italiane degli anni ’70; poi lo stereo ha iniziato a suonare la musica del quartetto di Bordeaux, e sono rimasto piacevolmente colpito dalla proposta di questi promettenti transalpini. Post rock a basse frequenze, denso di emozioni, ma pure carico di un alto potenziale energetico, che sembra costantemente sul punto di esplodere. “Proud Doctors” ne è un esempio con un giro di chitarra e tastiere cadenzato, ma che lentamente va via via accelerando, cosi come il mio cuore aumenta il suo battito durante una corsa, prima di prendere il ritmo. “Exit/Escape” ha un riffing più di matrice post metal che rock, ma quando il vocalist inizia con la sua litania, sembra di ascoltare piuttosto i Radiohead di “Ok Computer” e il sound si rilassa, si incupisce, si fa tremendamente nostalgico, andando a catturare i miei sensi. “Monday Morning, in Japan” è una traccia strumentale dal ritmo incalzante, che si muove tra stop’n go ed un’appassionata cavalcata, che introduce la più riflessiva “Dust”, song che torna a muoversi più in territori electro post rock, con gli inglesi Archive, luce ispiratrice per i nostri. La voce di Hugo è calda, sinuosa, le chitarre quasi impercettibili, accompagnano il drumming incessante di Etienne, prima di divampare impetuose, quasi in territori punk nel nucleo centrale del brano e tornare a dissiparsi nella seconda parte del brano, per concludere con un finale degno degli ultimi Anathema. A chiudere questo ottimo cd, ci pensa “North Wind”, altri sei fluidi minuti di piacere, che vedono i nostri inseguire un po’ il ritmo di “Paranoid Android” dei già menzionati Radiohead. Che altro dire, se non di avvicinarvi a questa band, dotata senza ombra di dubbio, di ottime potenzialità. (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 75

domenica 7 ottobre 2012

Vorkreist - Sigil Whore Christ

#PER CHI AMA: Black, Mayhem
Eccoli qui i francesi che avevo citato qualche tempo fa in un’altra recensione, indicando l’Agonia Records come una fra le più attente etichette nell’ambito estremo internazionale. E ancora una volta la label polacca non si smentisce, mettendo sotto contratto questi selvaggi blacksters transalpini, giunti alla loro quarta release. “Sigil Whore Christ”, pur essendo partorito nella vicina Francia, si mostra piuttosto come un epigono del movimento estremo scandinavo, avvicinandosi come proposta, al black primordiale dei Mayhem, tuttavia spruzzato di quella malsana componente tipica del movimento francese. Beh, non c’è che dire, i Vorkreist hanno concepito un ottimo lavoro, finalmente maturo che, avvolto in un’aura completamente mefitica, sciorina, uno dopo l’altro, pezzi veramente ficcanti, che mi permettono di tuffarmi e sguazzare in un mare di lava. Il lavoro più eclatante è stato decisamente fatto a livello di suoni di chitarra, a dir poco mostruosi, con ritmiche assai tecniche, che passano cosi abilmente da sfuriate tipicamente black, a momenti più agonizzanti, decisamente mid-tempo (“Maledicte”) o la cui matrice è di stampo statunitense, scuola Morbid Angel per l’esattezza, come nella rutilante “Deus Vult”, feroce al principio, più atmosferica e satanica in un secondo momento, ma sempre pronta a sfociare nella furia dirompente di sonorità estreme, che si tratti di black o death metal. In “Sigil Whore Christ” dicevo, c’è anche spazio per divagazioni più legate alla scuola francese, e penso al finale di “De Imitatione Christi”, che mi ha ricordato i Deathspell Omega, oppure anche le chitarre di “Memento Mori”. Ancora una volta mi dovrò complimentare con gli amici della Agonia Records, perché dopo aver resuscitato gli Enthroned, hanno contribuito alla realizzazione di un lavoro cosi maestoso, in termini di malvagità e contemporanea pomposità (strano a dirsi per un album di black disumano). I Vorkreist dimostrano di essere tra le più talentuose e tecniche band in territorio “nero”: gli stop’n go, i bridge (magnifico quello di “Dominus Illuminatio Mea”), le rare parti atmosferiche, confezionate in questo strepitoso lavoro, ci consegnano una band che si consacra tra le sorprese del 2012. Dotati infine di un vocalist molto bravo, in grado di straziare le proprie corde vocali in versione screaming, i Vorkreist gareggeranno con gli Enthroned per sedere sul trono della fiamma nera. Blasfemi. (Francesco Scarci)

(Agonia Records)
Voto: 80