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domenica 12 febbraio 2017

Intervista con Hungry Like Rakovitz


Conosciamo qualcosa di più dei grinders Hungry Like Rakovitz. Di seguito il link all'intervista che il nostro Kent ha avuto con la formazione bergamasca:

Revenience - Daedalum

#PER CHI AMA: Power Symph
Formatisi nel 2014 dalle ceneri di precedenti band, principalmente dai Nemoralis, i bolognesi Revenience ci presentano la loro prima fatica discografica, 'Daedalum', uscita per la Sliptrick Records lo scorso anno. Forti della soave voce di Debora Ceneri e di un’inclinazione melodica, la band ci propone con naturalezza un carico symphonic metal forgiato da influenze gotiche, seguendo le fortunate orme di gruppi come i connazionali Soundstorm. Il quintetto bolognese non si fa mancare nemmeno qualche sfumatura più elettronica, che possiamo avvertire fin dall’inizio del disco, già dall’introduzione strumentale: questa, per i nostalgici come me, può richiamare alla mente i vecchi album dei Rhapsody, che si presentavano sempre con la canonica intro composta da cori ancestrali e orchestrazioni da soundtrack. Tuttavia, se allora capitava di perdersi nelle sinfonie provenienti da mondi antichi e fantastici, qua ci troviamo in una terra ben diversa e in un’epoca decisamente più attuale! “Blow Away By The Wind” è forse il pezzo più emblematico, in cui si avvertono un po’ tutte le caratteristiche principali dei Revenience: sound potente a sostegno delle vocals della Ceneri, che qui si destreggia in modo impeccabile, sfoderando la sua padronanza delle corde più alte e alternandosi nel chorus alle growl-vocals del batterista Simone Spolzino. Le tastiere lavorano a tempo pieno, con le onnipresenti orchestrazioni d’archi e gli stacchi “electro” arricchiti da una sovrapposizione di fluttuanti pad. La lenta ballad piano-voice “Lone Island”, molto ben congegnata musicalmente e con vocals ancora vincenti, è seguita dall’irruenta "A-Maze", che racchiude il lato più potente e cattivo dell’ensemble bolognese, ma in cui non può comunque mancare uno stacco di richiamo fortemente melodico (bel lavoro la parte pianistica sul finale!). La traccia conclusiva dell’album, “Shadows and Silence”, dalla struttura leggermente più articolata, rappresenta una degna chiusura per un esordio altrettanto degnamente riuscito: la doppia cassa a sostenere i ritornelli, l’assolo ‘catchy’ di chitarra nella parte centrale, l’ottimo lavoro dietro le tastiere di Pasquale Barile e poi una scordata melodia in fade, lasciano l’atmosfera sospesa in un misterioso sospiro. Possiamo con piacere definire questo 'Daedalum' un debutto discografico decisamente azzeccato da parte della band bolognese che, pur senza introdurre particolari novità, riescono a proporsi con un certo stile, senza annoiare: una piacevole sorpresa nostrana nel campo power/sinfonico, come furono qualche tempo fa anche i Sailing To Nowhere. Speriamo dunque di stupirci ancora! (Emanuel 'Norum' Marchesoni)

(Sliptrick Records - 2016)
Voto: 80

https://www.facebook.com/Revenience/

sabato 11 febbraio 2017

Cold Body Radiation - The Orphean Lyre

#PER CHI AMA: Shoegaze/Post Punk, An Autumn for Crippled Children
Al quarto tentativo mi imbatto finalmente nei Cold Body Radiation, one man band olandese affacciatasi nel mondo metal nel 2010 con una proposta blackgaze davvero convincente, che nel corso degli anni si è evoluta, proponendo oggi un sound più etereo e vellutato. Ecco quindi 'The Orphean Lyre', fuori per la nostrana Dusktone Records, un lavoro che include otto tracce che di quel sound originario non conserva ahimè più nulla. Il cambio di rotta era già palese nel precedente 'A Clear Path' e trova consolidamento in questo nuovo album, che può essere accostabile per molti versi alla direzione intrapresa da un'altra band dei Paesi Bassi, gli An Autumn for Crippled Children, ossia un post punk shoegaze (lasciate però perdere gli Alcest), venato di forti influenze che ci riportano alla darkwave. M, il mastermind che sta dietro ai Cold Body Radiation, si abbandona a sonorità estremamente malinconiche, dimenticandosi completamente dei suoi albori black. Con "The Ghost Of My Things" ci si tuffa nell'infinito universo dello shoegaze più intimistico ed onirico, più vicino al dream pop, con tanto di voci melodiche e sognanti, e linee di chitarra poste in secondo piano rispetto ai più preponderanti synth. Solo qualche rara galoppata in stile punk, rappresentano l'unico vero punto di contatto con un passato ormai scivolato nell'oblio, perché anche con "All The Little Things You Forget Are Stored In Heaven" e le rimanenti tracce, fino all'ultima e più convincente "The Forever Sun", si procede nell'esplorare morbide atmosfere ambient, che hanno se non altro il merito di concederci momenti di relax e meditazione. Difficile consigliare questo disco ai fan di vecchia data della band olandese, ma se siete stati in grado già di assorbire il colpo con 'A Clear Path', anche 'The Orphean Lyre' potrebbe meritare la vostra attenzione. Chi invece si avvicina per la prima volta al musicista olandese, ed è in cerca di una qualche esperienza sensoriale, si lasci pure avvolgere dal sound stratificato dei Cold Body Radiation, potrebbe risultare quasi piacevole. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2017)
Voto: 70

PhaZer - Un(Locked)

#PER CHI AMA: Alternative Rock
I PhaZer sono un quartetto portoghese nato nel 2004 con all'attivo due EP e due album nonché una svariata lista di concerti. La vera svolta della band è avvenuta firmando con le etichette Raging Planet, Raising Legends ed Ethereal Sound Works che hanno permesso al quartetto di Lisbona di crescere esponenzialmente ed essere definiti più volte come la miglior rock band portoghese. La loro musica è infatti un concentrato di puro rock con reminiscenze alternative e metal che hanno portato ad ottenere ben quattordici brani per un totale di sessanta minuti di musica. Un lavoro quasi biblico di questi tempi. "Gone", la opener track, ci proietta immediatamente nell'universo musicale della band e lo fa con un bel calcio in culo, una botta di pura potenza neanche fosse una sniffata di metanfetamina blu. I suoni moderni, cosi come le chitarre belle compresse e la precisione di esecuzione strumentale, rendono il sound netto e tagliente, mentre il vocalist ci delizia con il suo cantato potente e dalle grosse influenze thrash metal che si adatta perfettamente all'evoluzione del brano. Questo è arrangiato egregiamente e dalla struttura classica, ma suonato con passione e convinzione, come la seguente "The Last Warrior" che aggiunge atmosfere cupe ed inietta una copiosa dose di rabbia incontrollabile per poi ammorbidirsi sul ritornello. La continua alternanza di fraseggi dalla diversa intensità, rendono la canzone dinamica e piacevole. Bello anche l'assolo verso la fine, giusto per dare respiro al vocalist che può riprendere con la solita enfasi. "Hold Me" si distacca invece dall'intera produzione, con un feeling power/prog rock anni '80/90, e in cui anche i suoni cambiano come il cantato. Praticamente un tuffo nel passato, che ci fa sospettare di una simil forma di bipolarismo insita nella band. Il repentino cambio di inversione si fa apprezzare, anche se per un attimo ho avuto il dubbio che fosse partito un altro cd nel lettore. Andando avanti nell'ascolto di 'Un(Locked)', si trovano altre sfaccettature nello stile dei PhaZer, come "Wake Up To Die" che riprende lo stile desertico delle cavalcate stoner. Riff e pattern cadenzati guidano la potente "muscle car" in stile classico americano con vocalizzi dal sentore più moderno. A circa metà del brano arriva lo stacchetto geniale, un jingle in stile circense che spezza il ritmo e regala la scusa per riprendere la corsa interrotta per poco. L'album chiude con "Locked Out", un pezzo introspettivo ed oscuro che dopo una breve intro arpeggiata e sottomessa, esplode in un tripudio strumentale cattivo e rabbioso che poi si addolcisce quasi a ballata, con una continua alternanza che mantiene alto il livello di attenzione. Non poteva mancare l'assolo finale con conseguente progressione a chiudere in bellezza. Sonorità contemporanee allacciano generi del passato per reinterpretare lo stile e scrivere qualcosa di apparentemente nuovo, già comunque sentito e digerito negli ultimi anni, ma i PhaZer sono bravi, si mettono in gioco e sperimentano con quello che è nelle loro corde. Non saranno sicuramente i paladini dell' avanguardia, ma è un album ben fatto, vario e che merita di essere ascoltato. (Michele Montanari)

(Raging Planet/Raising Legends/Ethereal Sound Works - 2016)
Voto: 70

giovedì 9 febbraio 2017

Dysylumn - Conceptarium

#PER CHI AMA: Post Black/Death, Deathspell Omega
Dysylumn atto secondo... o meglio atto primo visto che 'Conceptarium' è uscito temporalmente prima di 'Chaos Primordial', da poco recensito su queste pagine, ma che ha visto una pronta ristampa targata Pest Productions sul finire del 2016 (con l'aggiunta peraltro di due bonus track, ossia le due parti della title track cosi come erano state originariamente concepite nel 2013). Avevo scritto che i nostri proponevano sonorità black death forti di una certa dissonanza musicale straniante e malsana che chiama in causa i Deathspell Omega. Facciamo un passo indietro e andiamo a scoprire se anche il full length d'esordio è un contenitore di sonorità di questo tipo. "Vide Spatial" e la seguente "Cauchemar" confermano quanto di buono ascoltato nel nuovo EP, con una maggiore propensione verso il death sulfureo, forse ultimo retaggio della precedente formazione brutal death in cui militava Sébastien Besson (vocals, chitarra e basso). 'Conceptarium' si palesa come un disco oscuro, tetro e maligno, che sembra voler rievocare i fasti di un death metal di stampo svedese mai assopito, ossia quello dei primi anni '90, in coabitazione però con sonorità più moderne che solcano l'onda impetuosa del post black o del death ultra tecnico in stile Obscura. Le atmosfere persistono nell'essere rarefatte, a tratti dilatate ma anche in grado di risultare straordinariamente dense ("Esclave Céleste") e nebulose, come garantito dalle due parti della title track. La durata mai eccessiva delle canzoni permette comunque un ascolto più semplice, anche quando le strutture ritmiche si fanno assai più complesse o insane. Ultime menzioni per le strumentali "Voyage Astral"e "Nébuleuse", ultime siderali galoppate nel cosmo più profondo, all'insegna di un post black miscelato a suoni progressivi, a sancire le enormi potenzialità che il duo di Lyon avrà in serbo nell'immediato futuro. (Francesco Scarci)

Methedras - The Worst Within

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash, Dark Angel, Exodus
Inquietante il digipack che mi trovo fra le mani con una copertina orrorifica tipica delle brutal death band americane. Invece questi Methedras sono un quintetto italiano esistente addirittura dal 1996 che suona un death thrash d’annata (e non solo perché il cd in questione risale al 2006). Eh si, perché il primo nome che mi è venuto in mente, già dal primo ascolto, è quello di un gruppo storico del metal italiano, che pochi di voi conosceranno, gli Alligator. Lo stile della band nostrana riprende un certo thrash in voga negli anni ’80; palesi sono i riferimenti, secondo me a band illustri quali Exodus, Dark Angel o Testament dei primi tempi, con qualche incursione in territori death. Dall’ascolto di questi sette pezzi non rimango però così impressionato dalla capacità compositiva del gruppo che ripete pedissequamente gli insegnamenti impartiti quasi trent'anni fa dalle band storiche del genere e da qui non si smuove. Non posso stroncare la band da un punto di vista tecnico perché i ragazzi sono bravi e preparati nel costruire montagne di riffs granitici e saccheggiarci le orecchie con ritmiche martellanti, però da un punto di vista prettamente musicale non riesco proprio a dare la sufficienza ad un cd che stenta decisamente a decollare. Le song sono belle toste ed incazzate, un pugno nello stomaco, troppo poco però per farmi sussultare dalla sedia. Parecchi video live e una sezione multimediale completano questo cd nella versione limitata. Anacronistici. (Francesco Scarci)

mercoledì 8 febbraio 2017

Demogorgon - Dilemma. Revenge. Snow.

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum, Enslaved
Il numero di band provenienti dalla Cina sta iniziando a crescere di giorno in giorno, merito anche della superpotenza dell'etichetta di Nanchang, la Pest Productions. Francamente, ritengo che questa ondata proveniente dall'estremo oriente sia cosa assai positiva, perché porta una ventata di freschezza ad una scena a tratti stagnante, grazie ai folklorici suoni della tradizione cinese. I Demogorgon sono una delle ultime realtà che compaiono sulle pagine del Pozzo, ma a dire il vero, alcuni suoi membri li abbiamo già incontrati in passato, in quanto l'ensemble include musicisti provenienti dai Zuriaake, Holyarrow e dai Destruction of Redemption. Ma entriamo più in profondità in quello che è il debut EP di questa band. Due le canzoni a disposizione, la lunghissima "Dilemma. Revenge. Snow." e la strumentale "Sadness Moon", per un totale di 25 minuti. Si inizia con le sonorità nordiche della title track, fatte di chitarre in tremolo picking, atmosfere fantasy, chorus epici, che potrebbero far pensare ad una qualche band scandinava dedita al viking metal, in stile Einherjer o Manegarm. I testi arrivano addirittura da una novella cinese sugli eroi marziali, "Fox Volant of the Snowy Mountain". Il risultato è ragguardevole, sebbene la produzione non sia proprio delle migliori. Quelle aspre cime innevate in copertina poi, la spada della back cover, i synth in stile Burzum con harsh vocals annesse, mi spingono a idealizzare la opening track come la melodia perfetta per le 'Cronache del Ghiaccio e del Fuoco', in un brano che tra passaggi ambient e stridori black, ha ancora modo di citare Enslaved e Windir. La seconda traccia si affida completamente al tepore dei synth, un po' come se il Burzum più minimalista, ipnotico e visionario, si mettesse a suonare una musica della tradizione cinese e con la melodia dell'ambient, riuscisse addirittura a dipingere le terre sconfinate di quella terra. Sicuramente l'esperimento riesce, grazie alla solennità dei suoi suoni e ad un incedere che va via via in crescendo, in un brano che altrimenti rischierebbe di suonare troppo ripetitivo. La colonna sonora per un qualche film epico in grado di ritrarre la Cina, la sua magia ed i suoi segreti. (Francesco Scarci)

martedì 7 febbraio 2017

Penfield - Parallaxi5

#PER CHI AMA: Electro/Prog Rock/Jazz
Al primo ascolto di questo secondo full length degli svizzeri Penfield, c’è da sentirsi disorientati. Dentro 'Parallaxi5' c’è un po’ di tutto: fusion, lounge, prog rock settantiano alla Pink Floyd, funky, dub, elettronica asciutta come nella moda contemporanea, post-rock nella gestione dei crescendo. Eppure – per strano che sembri – c’è una coerenza di fondo che è innegabile. I Penfield hanno le idee chiare, eccome, anche quando mescolano insieme generi solo apparentemente distanti tra loro. “Rosen” è l’apertura strumentale (in realtà, solo in tre degli otto pezzi appare la voce: il resto sono spoken words campionate) che muove le sue basi da una cassa reversed sulla quale si alternano soli di sax e chitarra che non possono non ricordare il David Gilmoure di 'Echoes'. C’è del funky nella seguente “La Physique Anarchique”, tinto di prog da un interessante partitura di moog, appena prima di approdare in territori più soft-jazz, dove resterà fino ai quasi 13 (lunghissimi) minuti di durata, lasciando peraltro il dovuto spazio all’improvvisazione degli strumentisti. La voce teatrale dell’ospite Walther Gallay guida “Apax 34 002”, che ha il sapore dei King Crimson di 'Islands' frullati da James Blake; ed è sempre Robert Fripp o persino Brian Eno a fare eco nella dilatatissima “Abyss”. MC Xela rappa su “Fashioned Wonderland” ed è subito r&b da club d’alta classe, in stile Fun Lovin Criminals (ma immaginateli mentre sorseggiano champagne, anziché tequila). C’è giusto il tempo per la veloce elettronica ballabile di “DNA”, ed ecco che anche Capitaine Etc. rappa su “L’Anonyme” – ma il brano è inquieto, più riff-based (ma è il moog a svolgere il grosso del lavoro), decisamente più rock prog dei precedenti. Chiude una stranissima “Les Sentiers Goudronnés”, col suo arpeggio quasi scolastico che apre a territori dub conditi da delay sul rullante, basso in sedicesimi e organo in levare. Difetti? Ce ne sono, beninteso. Troppi mid-tempo, forse. Alcuni brani troppo prolissi, ma senza manierismi fini a se stessi. Passaggi non indimenticabili (anche per l’assenza di vocals) e, in generale, un genere che non può essere ascoltato con leggerezza. Solo al secondo o terzo ascolto di 'Parallaxi5 'diventa più chiara la definizione che i Penfield danno del loro genere: cinematic prog o new prog. Una colonna sonora solida, colorata, organica, suonata e registrata impeccabilmente. Non un sottofondo da ascensore o supermercato, intendiamoci – una colonna sonora vera, parte integrante di ciò che vediamo. (Stefano Torregrossa)

Decknamen - Obsidian Scriptures

#PER CHI AMA: Post Black Strumentale
Formatisi solamente un anno fa, gli statunitensi Decknamen, dopo aver rilasciato un paio di demo nel 2016, escono con l'EP di debutto 'Obsidian Scriptures', in questo primo scorcio di 2017. Cinque tracce contenute in questo enigmatico lavoro all'insegna di sonorità post black strumentali. Lo si evince con l'introduttiva "Epos", poco più di due minuti di arrembanti sonorità estreme, in cui il trio a stelle e strisce, suona apparentemente distruttivo. A dissipare le nubi che nel frattempo si stanno già accumulando nella mia testa, ci pensa "Shrine of Amenti", un pezzo che mette in luce pregi e difetti della band. I punti di forza riguardano una certa freschezza a livello ritmico da parte del combo americano, con una certa predilezione poi nel mettere in primo piano il lavoro pulsante del basso. Tuttavia, c'è da sottolineare una certa carenza in fatto di precisione a livello strumentale, cosi come quella sensazione che la registrazione, non del tutto professionale, penalizzi il risultato conclusivo. L'apparato ritmico si conferma devastante e parecchio cupo all'inizio della successiva "Omniregency", song che trova modo di rallentare ed accelerare con una facilità disarmante. Quel che emerge però forte arrivati alla terza traccia, è la mancanza di un ultimo fondamentale strumento, la voce. Sebbene i tre musicisti siano bravi a celare la carenza di un vocalist, utilizzando in modo vivace synth e programming, e creando stridolii vari con le chitarre, la necessità di un urlatore, arriva a farsi quasi impellente verso la conclusione del disco. Sono apprezzabili le fughe post rock sul finire della terza traccia o nella prima metà di "The Black Land", segno di una certa apertura mentale e della voglia di sorprendere da parte del trio, però anche in questo caso poteva essere utile una voce, un lamento, un parlato in sottofondo che rendesse la proposta più completa. Ecco, sembra che la musica dei Decknamen sia monca, che il trio arrivi fino ad un punto ma non riesca ad andare oltre perché evidentemente c'è una lacuna profonda, un solco difficilmente superabile, a meno che non si trovino delle soluzioni alla falla. Di potenzialità ce ne sono anche parecchie, vista una rilettura abbastanza originale del genere post black, ma di strada da percorrere in futuro, ce n'è assai di più... (Francesco Scarci)

domenica 5 febbraio 2017

Wolf Counsel - Ironclad

#PER CHI AMA: Doom/Sludge, Saint Vitus, Cathedral, Candlemass, Black Sabbath
Alla prova del secondo album, gli svizzeri Wolf Counsel confezionano un piccolo gioiellino che si muove nei territori del doom e dello sludge vecchia scuola, supportati in particolare dall’ipnotica voce di Ralf W. Garcia – chiaramente ispirata ai grandi del genere come Wino e Lee Dorrian – e da una capacità di songwriting veramente eccellente. Con brani mai sotto i 5 minuti e più facilmente sopra i 6, non è facile non annoiare: ma, nonostante una scrittura nemmeno troppo riff-oriented (siamo da tutt’altra parte rispetto, ad esempio, al riffing di Mastodon o The Melvins!), gli Wolf Counsel riescono a tenere altissima la tensione dal primo all’ultimo minuto di 'Ironclad'. Apre le danze la splendida “Pure As The Driven Snow”, un canto di battaglia ipnotico e ripetitivo, persino epico negli assoli, guidato da una melodia che non dimenticherete facilmente. La successiva “Ironclad” mi ha ricordato i molto più metallari Grand Magus, che tuttavia con i Wolf Counsel, sembrano condividere la stessa passione per le corna alzate e per i potenziali cori di risposta dal pubblico nei live. L’oscurità arriva con le successive “Shield Wall” e “The Everlasting Ride”, pesanti come un macigno e, stavolta, più concentrate nel riffing e nella batteria marziale. L’acida “Days Like Lost Dogs” e la nerissima “When Steel Rains” (il punto più doom del disco) sembrano uscite dritte dritte da uno split tra Saint Vitus e primi Black Sabbath (di nuovo, la voce di Garcia qui è da pelle d’oca, specie quando arricchita dal delay). Chiudono l'opera i 7 minuti abbondanti di “Wolf Mountain”, che di nuovo tributano Cathedral e Candlemass nell’uso dei cori, nei fill di batteria e nell’ossessività delle melodie. Se vi piace lento, cantabile e un bel po’ vecchia scuola – ma amate le produzioni cristalline e i suoni potenti, contemporanei – 'Ironclad' sarà il vostro disco dell’anno. Da ascoltare. (Stefano Torregrossa)

(Czar Of Bullets - 2016)
Voto: 75

https://wolfcounsel.bandcamp.com/album/ironclad

Vilemass - Drilled by Bullet

#PER CHI AMA: Death Old School, Cannibal Corpse
"...Nuntio vobis gaudium magnum", ovvero "vi annuncio una grande gioia". Da qui parte "Vulgar Religion", prima traccia del primo demo 'Drilled by Bullet' dei pugliesi Vilemass. Tanto death old school per il combo di Bisceglie, che in 25 minuti fa capire che non ha tanto tempo da perdere in fronzoli e ciliegine. Il sound è corposo come si addice alle migliori produzioni death americane, con riff non ricercatissimi ma che fanno della semplicità la loro arma vincente, e con l'ascoltatore che non deve crucciarsi per capire cosa i nostri stiano combinando. La batteria copre ogni angolo nascosto in modo esemplare, e una voce diretta, "sputa" una monotonalità growl con grande professionalità, quindi, vene sul collo grandi come vasetti di sottaceti e la classica vena sulla fronte pronta ad inondarci di sangue bollente una volta esplosa. Partendo dalla opening track, che parte con varie ispirazioni ad altrettante religioni e si dispiega con riffs e crismi alla Cannibal Corpse, si passa alla title track che si snoda con ottimi cambi tematici. Tuttavia la migliore per il sottoscritto è "Illuminati", che parte velocissima e non dà tregua fino a metà, dove lo stop pennato è da SERIE A ed è li che si supera il fossato che distingue i Vilemass dagli altri gruppi nel mazzo. La sirena ci fa passare da "War Machine", rabbiosa e più ignorante, mentre un riff granitico ci introduce a "Trapped" song con tapping incorporato e rallentamenti alla Morbid Angel. "Lizard Law" è traccia assai martellante, che chiude in bellezza con un delay questo demo. Respiro. Un ottimo debutto, anche se questi ragazzi non sembrano essere alla prima esperienza; ho visto che stanno anche per realizzare un videoclip, che sicuramente suggellerà e farà avanzare il gruppo ad un livello superiore. E sopra le scale, ci sarò io ad aspettare il loro prossimo lavoro. (Zekimmortal)

Coma Cluster Void – Mind Cemeteries

#PER CHI AMA: Techno Death/Mathcore, Ion Dissonance, Gorguts
Non si può certo negare a questo album la meritata conquista del titolo di essere stato considerato da più fonti, una delle migliori uscite del 2016 in ambito death metal tecnico, super tecnico oserei dire. La band comprende musicisti di più nazionalità (USA, Canada, Germania) con esperienze importanti (Cryptopsy, Dimensionless, Thoren, Xelmya), senza dimenticare la presenza del compositore a tutto campo (vedi le sue ottime composizioni per viola, violoncello e oltre...) John Strieder (già collaboratore con i mitici War From a Harlots Mouth) alla chitarra e Sylvia Hinz, al basso, altro eclettico artista animato da spirito di ricerca in tutte le direzioni. Il punto fermo per affrontare al meglio questo album è capire che il death metal visto da questa angolatura è da considerare soprattutto una condizione cerebrale e tutto il processo che avviene nella creazione dei brani nasconde un'infinità di strutture sonore che s'incontrano e scontrano, processi mentali contorti elaborati e rielaborati sotto forma sonica stratificata e dissonante, violenta e astratta, come se venisse da un abisso creatosi all'interno dei nostri più profondi sentimenti. Stilisticamente parlando potremmo mettere 'Mind Cemeteries' in un limbo sospeso tra l'attraente brutalità d'avanguardia degli ultimi Napalm Death, il super tecnicismo dei Beyond Creation, il death metal artistico dei Gorguts e l'immaginario oscuro e futurista degli Ion Dissonance, anche se rimane sempre difficile rinchiudere i Coma Cluster Void in una singola cerchia di derivazione musicale, visto l'alto potenziale di originalità che questo primo full length esprime. Oscurità, oppressione, schizofrenia e nevrosi sono di casa nel visionario mondo di questa band assai speciale, che non vive assolutamente di banale e devastante velocità ma trasforma in musica reali sentimenti ed emozioni umane esplorando, come racconta il titolo dell'album, storie ed incubi di un cimitero mentale diffuso e radicato. Produzione egregia, ottima esecuzione con tutto collocato al posto giusto e con le dissonanze della chitarra che spiccano per splendore e perversa fantasia in undici brani caotici e catartici, avvolgenti come un nero mantello. In ogni traccia si apprezza tutto e c'è da sbizzarrirsi nell'inseguire i vari strumenti attraverso le variazioni e le acrobazie sdoganate e senza limiti. La traccia che riflette l'umore dell'intero disco è da identificarsi in "Iron Empress", una vera e propria delizia metallica, stralunata ed imprevedibile, seguita dalla pirotecnica "Drowning Into Sorrow" e dalla sinistra "The Hollow Haze". Belli, atipici e anche particolari, considerati l'intermezzo "Interlude: I See Through Your Pain" e la chiusura di "Epilogue: As I Walk Amongst the Sick" con una voce femminile di sicuro effetto destabilizzante. Debutto notevole e immancabile album nelle librerie degli amanti del genere. Da avere ed amare a tutti i costi, un lavoro superlativo. (Bob Stoner)

giovedì 2 febbraio 2017

Infecting the Swarm - Abyss

#FOR FANS OF: Brutal Death metal, Dawn of Demise, Cannibal Corpse
Personality, atmosphere, passion, these three traits make albums stand out among the pack and Infecting the Swarm doesn't display much of any of these traits throughout this second full-length album, 'Abyss'. A one-man band from Bavaria, Infecting the Swarm shows the way that the cohesion in a single mind can easily render talent barren when faced with going it alone. In brutal death metal you'd expect to hear something larger than life. Instead this band plods along with little passion, content to reciprocate like a saw carving just for the sake of doing it rather than because there was a hidden meaning to unleash within the wood. From a constant flow of the same quaking guitar rhythms varied only slightly in whether the drums go cymbal or snare first, this bland display of the banality of evil pathetically puts the listener to sleep. Listening to Infecting the Swarm's 'Abyss' in one sitting is a dense and lonely circle of Hell. This torturous tumult of decibels rapes this milquetoast metal outfit's barely existent audience of what little passion would show from someone so blind as to be a fan of such an uncreative band. In only half and hour this band manages to implement a scarcely worthwhile swarm of riffs that rack at the eardrums without making any hint of a positive impression, locking Hannes' zeal for music into a prison of mediocre and inane sound that indemnifies the existence of this purposeless album. While this band gets compared to brutal and technical giants like Wormed and Defeated Sanity, the quality of 'Abyss' is more along the lines of Colombia's Carnal and their utterly unnecessary 'True Blasphemy'.

Infecting the Swarm is your average brutal death metal fare of disgusting gutturals, frenetic riffing, relentless blast beats, and dull, tedious atonality. From a band that doesn't break down at all, it's a wonder just how Hannes can think he will get away with obnoxiously overusing the same sounds and passing them off as different songs. After the album opens with dreary languishing guitar notes of “Entropy”, “Abyss” drops into this constant descending riff and blast call and response that starts at square one, rattles against its interminable cage for a while, and then ends just where it began punctuated only in fleeting moments in “Hypogean Awakening” before drowning itself in more of the same. “Innate Divinity” is a long inane delivery of Cannibal Corpse riffs while the only thing making “The Bleak Abyss” differ from it is some sludgy elongated guitar notes denoting the ends of riffs flowing from this wall of hollow sound. There is so little variation in this very long half hour that it's easier to zone out and let your ears relegate the relentless wall of sound to the background of your mind than beleaguer it with the practice of listening to the barest minimum of variations on the same structure ad nauseum. Granted, there are two songs on this album that actually make this band worth your time. After a twenty-eight minute series of unadventurous riffs slogging around a relentless onslaught of percussive blasts, the listener is given a seven minute experimentation in slamming together some competent brutal death metal as what seems to be an apology for the appallingly inane waste of time that this musician has put his audience through. With the guitars doing exactly what the title denotes in “Spiral Fragmentation”, this song stands far ahead of the others and finally for once gives enough balance between the low end intensity and a high end rise to demonstrate the conflict and juxtaposition of brutal death metal from other contending styles. “Decension” also gives you an imposing atmosphere and a listenable rhythm, finally creating reason for a song to exist on this album rather than throwing the listener into another impassible river of carbon copy riffs drowned in pointless percussion. These two songs show some talent from Infecting the Swarm's creator but they don't excuse the repulsive amount of waste poured into the cookie cutter mold of the previous seven tracks. There is no growth, nowhere to be explored, and this desolate and bleak structure makes this flaccid album a contrived long-winded cry into the isolating void of niche obscurity.

Sadly, 'Abyss' is a terrible display of what living in the echo chamber of your own mind will give you and an awful example of what bedroom metal has to offer. It's even sadder when hearing an album this bad makes something as mediocre as Dawn of Demise's 'The Suffering' sound fresh and full of motion. If you want to get into Infecting the Swarm, check out the first full-length, “Pathogenesis”. 'Abyss' was just not meant to be. Where bands like Brodequin and Wormed have taken the ultra-brutal template and made it a fun, challenging, and fresh experience, Infecting the Swarm fits the stereotype of the atonal death metal hammer mindlessly dropping with little more reason for its noise than to shoe a one-trick pony. (Five_Nails)

 
(Lacerated Enemy Records - 2016)
Score: 30

https://infectingtheswarm.bandcamp.com/

Love Forsaken - Sex, War & Prayers

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Death, primi Sadist
Ecco un’altra band che ho seguito fin dagli esordi, possedendo i loro primi due demo cd e che vi propongo nello spazio 'Back in Time': i Love Forsaken arrivano da Belluno e 'Sex, War & Prayers' (album del 2004, ma ristampato e accompagnato da una veste grafica rinnovata) rappresenta il debutto ufficiale sulla lunga distanza. Se nei primi demo i ragazzi erano palesemente influenzati da un techno death sulla scia di Pestilence e Death, in questo lavoro, si ravvisa una maturazione da parte del combo veneto e una sterzata nel sound, verso lidi più progressivi e atmosferici. L’album non è per niente male anche se la non ancora completa maturazione del quintetto, paga dazio, in alcuni frangenti, con momenti non del tutto brillanti. Comunque sia, il sound di 'Sex, War & Prayers' parte da una base thrash/death sulla quale si inseriscono ispirate e ariose tastiere tese a conferire un’atmosfera al limite dell’apocalittico. Richiami evidenti ad altre band non sono così lampanti; si possono udire echi goticheggianti in alcuni passaggi atmosferici, qualche assolo omaggia pur sempre il death “made in USA“ ma tributa anche 'Above the Light', dei Sadist, monumento italiano del death progressivo. Spiazzanti e talvolta fin troppo imprevedibili in alcune scelte musicali (ma questa è la loro forza), la band offre una buona sezione ritmica, con le tastiere sempre ad avere il ruolo predominante nell’economia dei brani; ottima infine la prova alla voce di Danny, bravo nel passare da vocalizzi growl a voci effettate. Con un pizzico di personalità in più, i Love Forsaken avrebbero potuto diventare una new sensation italiana. E invece, un altro album nel 2008 e lo split definitivo nel 2010, peccato... (Francesco Scarci)

(Self - 2004)
Voto: 65

https://myspace.com/loveforsaken

lunedì 30 gennaio 2017

Scratches - Before Beyond

#PER CHI AMA: Rock Blues, Nick Cave
Una voce femminile, calda e sofferta al punto giusto, è il primo elemento che contraddistingue gli Scratches, band svizzera originaria di Basilea, ma dalle sonorità decisamente americane. La band nasce nel 2010 nell’ambito dalla collaborazione tra Sarah-Maria Bürgin, cantante-tastierista e Sandro Corbat, chitarrista. Il teatro come passione comune per entrambi. Dopo un primo album come duo realizzato nel 2014, 'Fade', la formazione si completa con Jonas Prina alla batteria e Marco Nenniger al basso. Il loro secondo album 'Before Beyond', uscito in questo freddo mese di gennaio, è un pregevole lavoro, dove è possibile riscontrare un’antica passione per certe linee ritmiche di derivazione tipicamente trip hop, coniugata con l’amore per le colonne sonore intrise di blues. Il disco si apre con “Medusa’s Hair”, riff di chitarra in loop e ritmica rallentata. La voce di Sarah-Maria è carica di soul e roca quanto basta per richiamare alla memoria grandi cantanti americane degli anni sessanta e nel terzo brano, intitolato “Beautiful”, qualcuno potrebbe persino scorgere il fantasma di Janis Joplin. Echi di Nick Cave invece si possono sentire nella successiva “Give Me Your Pain”, profonda nelle parti di chitarra e sussurrata nella voce. Il disco prosegue con “The Crow & The Sheep”, in cui il quartetto elvetico privilegia sonorità decadenti, da murder ballad. È questo il mood generale dell'ottimo lavoro targato Scratches, una narrazione delle sofferenze umane filtrata attraverso i colori scuri del blues. Un buon album in definitiva, consigliato agli amanti di sonorità ipnotiche e malinconiche, prodotto egregiamente dalla sempre attenta Czar Of Crickets. (Massimiliano Paganini)

(Czar Of Crickets - 2017)
Voto: 80

https://www.facebook.com/scratchesband/

Neglected Fields - Splenetic

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Progressive/Techno Death, Atheist, Cynic
Ho aspettato con ansia il terzo lavoro della band lettone, autrice nel 2000 di un fantastico album di techno death, 'Mephisto Lettonica' (edito dalla nostrana Scarlet Records), come erano tempi che non se ne sentivano. A distanza di sei anni da quell’opera brillante, il quintetto fa uscire un nuovo entusiasmante album, 'Splenetic', connubio di death e black estremamente tecnico ma altrettanto melodico, vero punto di incontro tra Death ed Emperor. Prodotto egregiamente ai Finnvox studio da TT Oksala (Tiamat, Stratovarius), 'Splenetic' comprende otto tracce più intro per 35 minuti di musica: una musica potente, un techno death arricchito da incursioni negli oscuri meandri del black metal. Diciamo che la base musicale dei ragazzi del piccolo paese baltico è un death abbastanza ricercato, con riffs originali, cambi di tempo, percussioni strane, momenti atmosferici, assoli raffinati e stacchetti jazz in cui i richiami ai vari Pestilence, Atheist o Cynic si sprecano. Sul sound robusto e schizzato della band s’insinuano poi le maligne vocals di Destruction; ottima poi la prova di George alle tastiere, abilissimo nel creare momenti atmosferici di assoluto prestigio e altri episodi dalle forti tinte progressive, ma comunque è da segnalare la prova di tutti i membri della band, assoluti virtuosi con i loro strumenti. Difficile identificare un brano piuttosto di un altro, in quanto assai elevata è la qualità del prodotto in questione. I Neglected Fields si confermano band di assoluto valore, peccato che da quel 2006 vige soltanto il silenzio ed io continuo a rimanere in trepidante attesa. (Francesco Scarci)

(Aghast Recordings - 2006)
Voto: 80

https://www.facebook.com/neglected.fields

Kiuas - Reformation

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Power Thrash, Nevermore, Ensiferum
Vedendo le facce di questi ceffi avrei scommesso 100 € che si trattasse di una band finlandese, poi la casa discografica prima e il sound dei nostri dopo, non hanno fatto altro che confermare le mie ipotesi. Trattasi dei Kiuas, band dedita ad un power thrash, che con 'Reformation' il loro secondo album del 2006, hanno sicuramente contribuito alla gioia degli amanti del genere. Tecnica squisitamente all’altezza delle mie aspettative, gusto per la melodia tipica finlandese, composizioni orecchiabili e di facile presa: ci sono tutti gli ingredienti affinché i Kiuas potessero conquistarsi un posto di diritto nell’olimpo dei grandi di questo genere (e forse per un po' ci hanno creduto anche loro, prima dello scioglimento nel 2013). Ottime e ben strutturate le linee di chitarra; bravo il vocalist, capace di spaziare da timbriche più suadenti ad altre più urlate ed aggressive, eccellente il tastierista, sempre in primo piano a creare momenti atmosferici. Ottimi pure gli assoli, con i due axemen che si incrociano e sfidano in interessanti duelli chitarristici. C’è poco da fare, la Finlandia è da sempre fucina di talenti e i Kiuas non hanno fatto altro che confermare la regola. Da segnalare la sesta traccia, “Black Winged Goddess”, song dall’inizio furioso, dalla ritmica bella tosta e dal growl profondo del vocalist, peccato poi vada un po’ a scemare d’intensità. Interessante poi, qualche inserto dal vago sapore folk, soprattutto udibile nella title track posta a chiusura dell’album. Band davvero buona, peccato non abbia ottenuto il successo che forse meritava (Francesco Scarci)

(Spinefarm Rec - 2006)
Voto: 70

https://www.facebook.com/kiuasofficial 

domenica 29 gennaio 2017

Palmer - Surrounding the Void

#PER CHI AMA: Post Metal/Prog, Neurosis
Sarò franco: sebbene gli svizzeri Palmer calchino la scena da oltre 16 anni, io non ne avevo mai sentito parlare, almeno fino ad oggi. La Czar of Bullets contribuisce infatti a diradare la mia ignoranza, inviandomi quello che è il terzo album della band alpina, 'Surrounding the Void'. Un digipack contenente nove brani che "oscillano da qualche parte tra il post metal e il prog rock con timbriche sferiche". Ecco come desiderano essere identificati gli elvetici, che con la classica formazione a quattro (voce, basso, batteria e chitarra), sfoderano una prova, per dire in modo semplicistico, robusta. "Home is Where I Lead You" colpisce per il suo growling rabbioso e l'incisività delle ritmiche, grazie ad un riffing corposo che coniuga gli insegnamenti di molteplici band, da Neurosis a Black Sabbath, passando attraverso High on Fire, Meshuggah e primi Mastodon. Insomma, idee chiare su dove collocare stilisticamente i Palmer? "Misery" dice che la ritmica si fa ancor più rallentata, ben più profonda e che addirittura c'è spazio per qualche fuga in territori post rock, grazie a qualche simpatica parte acustica, che taglia la tensione saturante l'aria. Le song non appaiono di certo cosi lineari nel loro svolgimento e una certa carenza in fatto di melodie, non ne agevola l'ascolto, che alla fine risulterà parecchio impegnativo. Ma l'impegno nel dover ascoltare questo disco non è necessariamente un fatto negativo, spinge semmai a molteplici ascolti, ed in generale ad una più estesa longevità del disco. "Divergent" ha un incedere dilatato che evoca inesorabilmente le ultime cose più sludge di Scott Kelly e soci, con una seconda parte affidata ad una visionaria, nonché noisy, rivisitazione del sound della band californiana. Che gli svizzeri non fossero degli sprovveduti, l'avevo già intuito da tutta una serie di piccoli segnali, ma dopo aver sentito di che cosa sono capaci qui ma soprattutto nella successiva "Artein", mi ritrovo a sottolineare le notevoli capacità tecniche di questo quartetto. A parte che mi sembra di aver a che fare con una nuova band, questa volta dedita ad un prog rock strumentale; dovreste sentire con quale classe ed eleganza, i nostri si destreggiano con la loro strumentazione. Con "Digital Individual" si torna a pestare sul pedale dell'acceleratore con un'altra song irrequieta, che nel break centrale si concede questa volta a divagazioni prog/jazz, che consentono al combo bernese di prendere un po' più le distanze dai gods citati ad inizio recensione e togliersi l'etichetta di meri emulatori. Direi a questo punto che è nella seconda parte di questo disco che si racchiudono le peculiarità di questi musicisti: dall'intimismo di "Fate Hope", in cui il vocalist Steve prova anche a modulare maggiormente la propria timbrica, alla più tumultuosa "Importunity", granitica nel suo rifferama, qui a tratti melodico. Il disco è lungo, oltre i 60 minuti e quando si arriva verso il fondo, mi sento ormai piegato sulle gambe, sfiancato dal lavoro tortuoso a livello ritmico, di cui farei un plauso al bravissimo Remo dietro alle pelli e a Jan alle chitarre, per l'eccellente lavoro proposto in una traccia dinamica com'è "Rising". Non posso soprassedere a questo punto nel non citare anche Ueli, preciso con quei suoi fendenti di basso, che completano il quadro di una band matura al punto giusto per fare quel salto di qualità che ci si aspetterebbe da una band sulla scena da parecchio tempo. D'altro canto, io non li conoscevo proprio fino a ieri, ma oggi posso certamente affermare che i Palmer sono una band da supportare alla grande. (Francesco Scarci)

(Czar of Bullets - 2016)
Voto: 80

sabato 28 gennaio 2017

Dawn on Sedna - Our Sky Has Changed

 #PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna, Isis
Credo di avere sottovalutato quest'album e questa band, indi per cui devo fare immediatamente ammenda per la mia superficialità. Forse non mi convinceva un artwork troppo semplicistico o un sound che di primo acchito non ho trovato cosi cristallino causa forse suoni troppo impastati, mah. Fatto sta che invece 'Our Sky Has Changed' denota una certa conclamata maturità artistica dell'ensemble toscano, che conferma ancora una volta il buon stato di salute di cui gode la scena italiana, almeno a livello di uscite discografiche; tralascerei poi gli aspetti più puramente legati al music business. A parte questo, il debut dei Dawn on Sedna è un bel disco di post metal, contenente sei canzoni più la classica intro. I nostri partono con convinzione con "Amniotic Sea", una traccia sicuramente roboante a livello ritmico con una potenza da far tremare i polsi, al contempo con delle suadenti atmosfere ambient/post rock da brividi, in cui il vocalist modula un cantato che si muove tra il classico animalesco growling e qualcosa di molto vicino ai Fields of Nephilim. Davvero niente male. Soprattutto perché le cose vanno migliorando di brano in brano, in cui i nostri danno maggior spazio alla componente post metal/sludge senza tralasciare tuttavia le immancabili e fondamentali parti acustiche che stemperano la causticità di un suono profondo, infausto, dilatato, a tratti apocalittico ("The Rest"), dove la voce assolve ancora una volta un ruolo fondamentale nel rendere il tutto decisamente più armonico. L'arpeggio malinconico non manca in apertura di "Adlivun Rituals", una traccia straziante a livello emotivo, in cui Alex, dietro al microfono, offre una prestazione sofferente nella sua componente pulita, mentre la song cresce piano insieme ad una musica ipnotica e celestiale, grazie ai riverberi chitarristici in tremolo picking degli axemen, sussurri musicali che rendono questa monumentale song la mia preferita di un disco che ha ancora da regalare ulteriori sussulti. Penso infatti alla tribal/ritualistica “Five Degrees on the Sky Line”, una sorta di semi ballad, almeno la prima metà, post metal; poi le cose cambiano drasticamente e dalle sue morbide melodie iniziali si passa ad una disarmonica e caotica struttura conclusiva. Ultima menzione per la sferzante "Descending Path", malvagia quanto basta per affermare che i Dawn on Sedna sono una gran bella scoperta da tenere strettamente monitorata in futuro. Mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 75

Intervista con Shores of Null


In occasione del tour autunnale dei Shores of Null, abbiamo incontrato la band capitolina e fatto due chiacchiere per sapere un po' di più del loro passato, presente e futuro. Di seguito il link all'intervista:

The Pit Tips - Best of 2016

Caspian Yurisich

Vektor - Terminal Redux
Metallica - Hardwired... To Self Destruct
Nadja - The Stone is not hit by The Sun, nor Carved with a Knife
Recitations - The First of the Listeners
Conan - Revengeance

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Francesco Scarci

Thy Catafalque - Meta
Fallujah - Dreamless
Coldworld - Autumn
Saor - Guardians
Cult of Luna and Julie Christmas - Mariner

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Don Anelli

Inquisition - Bloodshed Across the Empyrean Altar Beyond the Celestial Zenith
Wormed - Krighsu
Maze of Terror - Ready to Kill
Untimely Demise - Black Widow
Decimated Humans - Dismantling the Decomposed Entities

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Eric Moreau

Striker - Stand In The Fire
Cauldron - In Ruin
The Hazytones - S/t
Asteroid - III
Sumerlands - S/t

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Kent

David Wohl - Holographic
Mélanie De Biasio - Blackened Cities
Sleepwalker - 5772
Lifeless - Unstable Structures
Laura Cannell - Simultaneous Flight Movement

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Five_Nails

Trees of Eternity - Hour of the Nightingale
Drudkh/Grift - Betrayed by the Sun/ Hagringar
Homicidal Raptus - Erotomaniac Hallucinosis
Waldgefluster -Ruinen
Black Sabbath - The End

Horn - Turm am Hang

#FOR FANS OF: Epic Folk Black, Drudkh, Waldgefluster
Horn is the kind of one-man black metal band that many of today's bedroom black metal blasters can take some inspiration and notes from. With the album 'Turm am Hang', which (as aptly illustrated on the cover) quite literally translates to 'Tower on the Slope', the old German mainstay of being as literal as possible is beautifully demonstrated alongside the forthright power of some dead-on exhilarating music. So far the title track is the only single of this album and has a great video of the process of illustrating the cover, but I'm sure that metal fans can easily understand why this reviewer believes there to be a striking series of superb songs on this album that can each be considered hits. Horn's matchless mind, Nerrath, has built a formidable structure, composed a captivating aesthetic, and etched it into an imposing black metal monolith.

The album opens with a dour long-winded sigh of a guitar melody that morphs into an intoxicating and inspiring sound. This uniquely frenzied approach is forcibly freed from the fetters of familiar forlorn folk pieces that bridge on banality as they endlessly echo each other. While most black metal accentuates the morose, Horn celebrates the beauty of the melancholy. Riffs revel in dissonant resonating guitars, proudly wailing in an anthemic obscurity, drawing the listener into pensive melodies that, in defiance of their frigid arrangements, become inspirational reveries with an upbeat percussive heat and beer hall style harmonic bliss. This is some after-the-battle beer drinking, fist pumping, headbanging black metal that's not all up its own ass about being cold, kvlt, and hiding in a cave. Instead Horn is celebrating another great evening in Valhalla surrounded by brethren in victory or defeat. Horn also lyrically appreciates nature and the forest, a common theme with many of this band's black metal contemporaries. The fury and structuring of each song puts the band closer on par to the likes of Drudkh and Waldgefluster as riffs round out with some folk and Celtic edges, smatterings of influences that enhance the echoes of fellowship and camaraderie without just repeating the same stances just so say he went there. “Verhallend in Landstrichen” is where you will experience the first major turn from a pair of songs that seemingly go their separate ways to a sound that builds an increasing energy flowing forth from the next three songs. As these pieces grow in intensity they keep a common rhythmic core with a correspondence from the treble issued throughout these marvelous four. The high water marks of 'Turm am Hang' happen in this series of songs where the chorus in “Totenraumer” is signaled by the toll of a bell, the Maidenesque opening of “Die mit dem Bogen auf dem Kreuz” becomes a headbanging hail to badass black metal, and “A(h)renschnitter” envelopes you in shredding melodies undulating around the robust snare hammering. This is an album that must be played live, loud, and to a very drunk crowd. It would be a privilege to see such a spectacle.

After a short interlude called “Lanz und Spiess”, a delirious and unusual track that sounds like the machinations of a restless mind sleeping off the delusions of the drink, the album closes with two strong but slower songs. Like awaking and setting off to task, “Bastion, im Seegang tauber Fels” wearily marches to a new position, forming up and stretching its martial rhythm in preparation for today's predestined practice. “The Sky Has Not Always Been This” sings of the rise and fall of civilizations, the birth and rebirth that humanity has always undergone while the soil underfoot was tread bare by man's ambition. There is some interesting and well-thought arrangement in these songs, some experimentation with different concepts, and a keen ear for production quality throughout Horn's 'Turm am Hang'. While most one-man bedroom black metallers would be quick to describe loneliness, Horn creates a unifying atmosphere throughout the meat of this album. This is a welcome difference to the style of this branch of black metal that has carved out a unique notch in the overall musical tree. (Five_Nails)

(Northern Silence Productions - 2017)
Score: 80

giovedì 26 gennaio 2017

Rudra - Enemy of Duality


#FOR FANS OF: Black/Death
Count me in as pretty impressed. Rudra made a big impression on me on 'Kurukshetra'? Think it was that one. Back then I was an 18 year old belatedly getting into extreme metal who was blown away by just how different it sounded. These days I'm much harder to please, but to my surprise, I found myself digging this album just as much.

I reckon the obvious comparison here would be Nile. I mean they don't exactly sound all that alike, but Rudra's thrashing, often death-ing metal has a lot of similar hallmarks- namely a dedication to going for exactly one and one vibe only, fascination with a bunch of old, dusty things and a tendency to use the same scale over and over again. The ancient, mystical culture they're trying to invoke is just a bit further east, that's all.

And they're really good at it. It's arguably a team effort - the guitarist throws out a lot of pretty decent riffs - but it's really a percussion and vocal based thing. The vocals - this big midranged snarling thing, growling away in a bunch of languages and really adding a powerful, rich, very fierce vibe to proceedings. There's this tendency in tracks like "Hermit in Nididhysana" for him to get into a fairly repetitive, ritualistic mood and it's freakin' great. All up it's those moments - much of "Hermit", the epic closer and "Roots of Misapprehension" to pick a few examples - where Rudra are at their finest. They can do fairly decent, crunchy death metal but it's when the drums start getting increasingly off beat and things get a bit trancey that the band takes off and things get really fun.

There's a few nit-picky criticisms, perhaps - the production could certainly be a bit beefier, and the bass is reduced to a rumbling somewhere in the distance, and a few of the riffs, particularly earlier in the album, are a bit weak. I really like this album, but you certainly get the feeling that if Rudra just went a bit more off the deep end - a few more far-out parts, and perhaps a more intense riffset at times - then you'd really have an all-time band on our hands.

As it stands though, I'm still playing this regularly a month or so after the initial promo download, which says a lot. Well worth your time, 'Enemy of Duality' is definitely a quality album. (Caspian Yurisich)

(Transcending Obscurity - 2016)
Score: 80

https://rudrametal.bandcamp.com/

Tystnaden - Sham of Perfection

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic, Lacuna Coil
Tra le band che ho tenuto a battesimo fin dai loro esordi, quando i nostri mi spedirono il loro demo Cd omonimo nel 2000, ci sono i Tystnaden. Di strada ne hanno fatta parecchia questi sei ragazzi friulani, che con 'Sham of Perfection' giunsero al debutto. Era il 2006 e il sound dei nostri nel frattempo era già mutato dagli inizi, quando l'act italico proponeva uno swedish death, frutto della innata passione per In Flames, Dark Tranquillity e Sentenced. Ascoltando questo disco, è palese invece la virata della band verso sonorità più soft, che richiamano di primo acchito Lacuna Coil o i ben più famosi Evanescence. La voce di Laura infatti, grazie alla sua notevole estensione, garantisce un’ottima performance vocale; un po’ più fuori posto per il genere invece, i saltuari gorgheggi del vocalist, retaggio di un passato non ancora sopito. La musica dei Tystnaden, abbandonati gli estremismi degli esordi, viaggia qui su coordinate stilistiche più progressive e classiche. Non aspettatevi quindi le cavalcate alla Dark Tranquillity o i riff alla In Flames, nulla è rimasto di tutto ciò. I Tystnaden del 2006 sono una band rinnovata, con buone idee, preparata tecnicamente (ottime le strutture e le linee di chitarra), che apparentemente ha trovato la propria dimensione con questo genere più commerciale, che comunque è ancora in grado di regalare profonde emozioni. Gli amanti di sonorità gotiche non si lascino sfuggire l’ascolto del disco d’esordio dei Tystnaden, una band che tanto aveva da dire e che negli anni si è forse un po' persa per strada. (Francesco Scarci)

(Limb Music - 2006)
Voto: 70

https://www.facebook.com/pages/Tystnaden

mercoledì 25 gennaio 2017

Olÿphant - Expedition to the Barrier Peaks

#FOR FANS OF: Heavy/Speed Metal, Judas Priest, The Sword
Formed in 2009, Massachusetts metallers Olÿphant were originally conceived as a classic metal cover band before quickly moving on to writing original music that brings a classic metal with doom and stoner influences to prog and thrash elements alongside. Basically dripping with sprawling, mid-tempo dirges, the album’s main focus becomes quite clear early on with the ability to effortlessly shift from these wide-ranging elements as there’s a strong showing of spindly, galloping heavy metal, swirling stoner riff-work and plodding, oppressive doom rhythms that all come together here. This wide-ranging set of influences creates a wide-ranging sense of free-flowing and unpredictable work, never really journeying through the expected realms of the genres in order to continually warp themselves into a finely-tuned effort that’s quite enjoyable when it drops these vastly-varying elements into the journey without warning. At times, though, that does the album a slight disservice as this rarely manages to feel like it shifts all that cohesively, being essentially a wide-ranging hodgepodge of influential elements coming together to create a seemingly jarring and discordant array of tracks without a singular connecting vibe between any of it, and is an issue to contend with as the band carries on. Efforts like ‘Brown Jenkin,’ ‘Incidents in the Butterfly Garden’ and ‘The Expedition’ offer up the most nominal and enjoyable variations of the style, featuring these elements coming together into a stylistic whole to be the highlight tracks on the album. The multi-faceted ‘The Grey Havens (To the Sea)’ offers a fine look at these elements shifting continuously throughout it’s epic passages that makes for quite a winding journey, while ‘Before the Fall’ abandons the vast majority of what came before in order to turn into a raging speed-metal mosher. Still, this isn’t that problematic of an effort and still has a lot to like. (Don Anelli)

lunedì 23 gennaio 2017

Derhead - Via

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves in the Throne Room
Sebbene 'Via' sia nelle mie mani da soli pochi giorni, ci tenevo a recensirlo con una certa celerità. Il disco della one man band genovese include nove tracce, di cui sei appartenenti a due vecchi demo (di cui uno addirittura del 2003 e il più recente del 2013) e tre nuovi pezzi. Si apre ovviamente con la più recente produzione: "Cenere", "Piombo" e la title track che, nere come la pece, si abbattono sulle nostre teste con sonorità distorte, allucinate ma di sicuro fascino, poggiando su ritmiche forsennate di scuola post black cascadiana, che chiamano in causa i maestri del genere, su tutti i Wolves in the Throne Room. Il mastermind ligure picchia di gusto, ma è probabilmente nelle parti più rallentate e controverse che dà il meglio di sé. "Piombo" è una song di sicuro impatto, che scomoda ben più facili paragoni con la tempesta cervellotica dei Deathspell Omega o con le atmosfere più ipnotiche dei Blut Aus Nord. Non male a tal proposito un break stralunato che impera a metà brano, e che ha il merito di generare una certa sensazione di soffocamento, per poi lasciar modo ad un sound più arrembante, di incalzarci fino al termine della seconda traccia con fare angosciante. "Via", la title track, prosegue su quest'onda anomala di suoni belligeranti, fatti di vocals arcigne e ritmiche infauste, che ci conducono fino alle tre successive tracce, incluse originariamente nel Demo 2013. La differenza sostanziale che colgo con l'ultima produzione dell'artista ligure è sicuramente relativa a brani più corti (con durate che sono circa la metà delle nuove track), ove inalterate rimangono comunque le pulsioni nevrotiche del musicista italico che in "Lamina" dà addirittura maggior spazio alla componente atmosferica, anche se in questo caso non ho apprezzato invece il suono troppo innaturale della drum machine. "Circle" ha un incipit più tranquillo, prima di concedersi alle consuete mitragliate inferte dal suono infernale di ultra blast beat; qui segnalerei il mood malinconico delle chitarre che viene riproposto anche nella successiva demoniaca "End". Sembra un viaggio all'Inferno quello che in cui ci accompagna il buon Giorgio Barroccu, in una song spiritata che trae linfa vitale dalla produzione dei primi Aborym ma anche da qualcosina dei Cradle of Filth, soprattutto nel modo di cantare del frontman. Nel frattempo ci si avvia verso la musica più datata della band e le differenze si fanno più sostanziali, forse perché nel 2003 il concetto di post black non era ancora stato completamente sviscerato. A parte un sound più ovattato ed una registrazione decisamente più casalinga, nel flusso sonico primordiale dei Derhead compaiono influenze più death oriented che nelle ultime tracce erano rimaste parzialmente celate. Non mancano comunque le sfuriate sinistre, complici probabilmente l'utilizzo di keys che sembrano evocare lo spirito dei Nocturnus di 'Thresholds', in una matrice sempre oscura ed insana, che trova modo in "II" di svelare anche un lato barocco del bravo Giorgio, che già nel 2003, poteva vantare di proporre musica estrema d'avanguardia. (Francesco Scarci)

(Via Nocturna - 2016)
Voto: 70

https://derhead.bandcamp.com/album/via

Transilvanian Beat Club - Willkommen Im Club

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death Rock
Facciamo un salto indietro nel passato per conoscere un act ormai sciolto, non proprio fortunatissimo e brillantissimo. Sto parlando dei Transilvanian Beat Club che nel 2006 proposero il loro debut album, 11 tracce di un death rock influenzato da sonorità gotiche, dark e doom, interamente cantato in tedesco, lingua che notoriamente faccio fatica a digerire in ambito musicale. Comunque sia, la band tedesca, che includeva membri di Eisregen e Ewigheim, nonché come guest star Martin Schirenc dei Pungent Stench, propina uno strano mix di suoni: un gothic-black sporcato da sonorità rock punk e musiche da B-movie horror, su cui fanno capolino female vocals e un sax (credo, ma non ne sono certo), che richiama parecchio i suoni degli ungheresi Sear Bliss. Per il resto, se potessi azzardare un paragone un po’ folle, mi verrebbe da dire che il disco è un po’ come se i Motorhead suonassero brani dei Rammstein, quindi in modo grezzo e privo ma dotato di quella pomposità che contraddistingue la band tedesca. Se il lavoro fosse stato curato maggiormente, soprattutto a livello di suoni, di sicuro avrebbe ottenuto un riscontro più positivo da parte del sottoscritto. Da segnalare infine, che l’ultima traccia dell’album è la cover “Transilvanian Hunger” dei Darkthrone, forse il pezzo più interessante di questo 'Willkommen Im Club'. A meno che non siate dei grandissimi fan degli Eisregen, ne farei a meno. (Francesco Scarci)

(Massacre Records - 2006)
Voto: 50

http://www.transilvanian-beat-club.com/