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sabato 16 gennaio 2016

Koko - S/t

#PER CHI AMA: Avantgarde/Elettronica/Jazz
A seguito dell'EP datato 2013, che ripescheremo a breve su queste stesse pagine, la band viennese dei Koko ha rilasciato nell'anno appena trascorso il nuovo full length autoprodotto il cui titolo omonimo ricalca il moniker della band. Esperienza totale in un mondo parallelo fatto di musica elettronica di confine e sperimentale, funk, rock indipendente, acid jazz e un pizzico di (in)sana follia. L'album scivola dolcemente, considerando la sua natura destrutturata, dove ci si scontra con le atmosfere nebbiose e dub di un Tricky d'annata, la fumosità da club malfamato alla guru Jazzmatazz, accenni d'avanguardia alla Zu, gocce di funk contaminato stile Urban Dance Squad, un certo amore per l'hip hop articolato di D'Angelo filtrato dai sogni paralleli degli Autechre, il rock indie alla Deus, lo spettro di Prince esagerato nel brano "Perfect", il tutto condito da un umore malato e grigio che stranamente mi riporta alla mente i Crime and the City Solution. 'Koko' è sicuramente un album difficile da assimilare e capire, contorto all'inverosimile, un lavoro elettronico dalla veste progressiva che si illumina d'immenso nell'ascolto ripetitivo. Presumo sia un lavoro inconcepibile per un pubblico rock, al contempo inaccettabile per gli oltranzisti di musica elettronica, penoso per i fanatici dell' hip hop da classifica, ideale per ricercatori di avanguardie sonore in odore di jazz sperimentale. Il brano "Velvet" è geniale: qui compare niente meno che una chitarra in stile Talking Heads, anno di grazia 1985 epoca 'Remain in Light', unita ad esplosioni free jazz e no wave, contornate da bassi pulsanti e ritmica cool inspiegabile quanto la musica dei Peeping Tom. La cosa che più sorprende è che nell'album aleggi nell'aria una velata atmosfera di colta presa di coscienza sonora, come se la band fosse pronta ad un passo mainstream. In realtà i Koko lo sono, con il piccolo particolare che la loro indole di sperimentatori sonori restringe il raggio d'azione nella sola cerchia di chi veramente ama il lato indie e iconoclasta della musica a 360 gradi. Indifferentemente da ciò che vi aspettate o che assorbirete da questo album, nell'ascoltare questo disco, partite da un solo presupposto che questo box di brani eccezionali è l'esatto contraltare in ambito di musica alternativa al geniale ultimo album di sperimentale metal estremo, 'Blackjazz Society' degli Shining. Concedetemi il paragone... ascolto dovuto per menti esageratamente aperte! Geniali! (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 80

https://kokotheband.bandcamp.com/

Zaibatsu - Zero

#PER CHI AMA: Stoner/Industrial
I Zaibatsu sono un trio romano di cui non si trovano molto informazioni in rete, ma va bene così, mica bisogna essere come la maggioranza delle band che riportano vita, morte e miracoli di loro stessi. Quello che si sa di certo è che la band è stata fondata nel 2011 e alla fine del 2015 hanno lanciato 'Zero', album di debutto prodotto dalla Killerpool Records, piccola etichetta romana che sta iniziando a farsi conoscere per la qualità delle sue band. 'Zero' contiene dieci brani che viaggiano sul filo dello stoner in stile QOTSA, quindi più elegante rispetto ad altre band votate al desert sound. Sicuramente non ricordano i Kyuss, in quanto i Zaibatsu sono più riflessivi, oscuri e con una vena industrial mica male; se dovessi far riferimento ad altre band recensite sul Pozzo dei Dannati, vi direi di andare ad ascoltarci i vicentini Limerick. Lo stile infatti è quello, anche se i romani hanno un taglio abbastanza personale, con l’aggiunta di synth a rinforzare le linee melodiche. L’album è stato registrato in presa diretta per cogliere al meglio l’istinto e l’attitudine della band e difatti il prodotto ne ha giovato. La qualità è più che buona e nonostante manchino sovraincisioni e quant’altro, il risultato si fa apprezzare. “Plastic Machine Head” è il brano che apre le danze e lo fa con un mix di stoner/alternative rock e industrial ben fatto; pensate ad una fusione dei QOTSA, Muse e Marilyn Manson che per l’occasione hanno partorito una cavalcata pulsante dove la batteria trascina i riff di chitarra e basso, mentre la voce è stata distrutta a livello molecolare e ricomposta per sembrare provenire da un’altra dimensione. Il crescendo finale strizza parecchio l’occhiolino alle band appena citate, ma è una sottigliezza che si può perdonare. “Mantra 3P” è sicuramente uno dei brani meglio riusciti del disco. Infatti la sua struttura è camaleontica con passaggi noise e riff di chitarre che ricordano lontanamente quel pazzo di Jack White. Sei minuti complessi, introspettivi ed oscuri che vi scaraventeranno nel mondo dei Zaibatsu. In generale il cantato è ben studiato, sempre un po' sommesso e sussurrato, ma che regala grande enfasi ai brani e permette all’ascoltatore di concentrarsi sulla musica e sugli arrangiamenti. “Technocracy” è un pezzo sbruffone, con una gran cassa al limite della musica techno e un parlato che decanta slogan come messaggi a filo diffusione per plasmare le menti di una società ormai schiava del sistema capitalista. La melodia rallenta e diventa ossessiva, quasi ipnotica e tutto si chiude in poco meno di tre minuti che comunque vi lasceranno in uno stato di malessere mentale, come verosimilmente la band desiderava. Un album di debutto ben fatto, studiato ed eseguito con cura che prende spunto certamente da altri artisti, ma che comunque riesce nell’intento di creare un mix personale che colpisce e non lascia indifferenti. Una band da seguire e che presenta tutti i presupposti per regalare in futuro un secondo album ancora migliore di questo 'Zero'. (Michele Montanari)

(Killerpool Records - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/zaibatsu.band/

shEver - Panta Rhei

#PER CHI AMA: Funeral Doom/Sludge
Devo ammettere che fa un certo effetto incontrare il nuovo cd della band svizzera che ad oggi risulta essere tra le più coerenti e longeve attività artistiche in circolazione. Gli shEver, in attività costante dall'anno della loro costituzione, il 2003, hanno prodotto cinque album tra EP e full length, hanno suonato al Roadburn Festival tra l'altro in egregia compagnia di nomi da culto del genere tra cui, Ahab, Saturnus, ed Esoteric. Un curriculum invidiabile per una band che propone una musica di confine, penetrante e profonda come nella migliore tradizione doom, mai scontata né rivolta alla disperazione fine se stessa, ma sempre protesa verso una ricerca interiore. Il sound è devoto alla causa ma qui sempre per certi versi più frizzante (permettetemi il termine astruso per questo genere!), oscuro e naturale, completato da una magistrale esecuzione della divina cantante Alexandra che lascia una ferita aperta ad ogni suono lancinante emesso dalle sue corde vocali. All'ottima vocalist, espressione e interprete del disagio interiore dei nostri, si contrappone un impianto sonoro di tutto rispetto, contornato dalla consueta cura maniacale e da una certa profondità per i suoni, con risultati maestosi ed inquietanti. Il sound è naturale, tagliente e di splendida qualità, la cadenza è rallentata di dovere e nel brano "La Fin" arriva a rasentare l'ambient più tenebroso e drammatico, con una ciclicità cinematica deliziosa e un'ossatura rock, buia e desertica, anche se l'iniziale "Smile", a dispetto del titolo, mi lascia a bocca aperta e mi manda in estasi depressiva. Gli echi mistici e il retro rock dei Jex Thoth si percepiscono in varie parti del disco e persino un pizzico di OM in "Infinita Mente Triste", devastante brano stritola emozioni. La lunghissima "Path of Death" presente solo su versione cd (l'immancabile versione in vinile non contiene questa traccia) ci mostra la vocalist in una veste più dimessa e sofferente, come soffocata da un monolite, pesante e rumoroso che un passo alla volta viene scalato da uno screaming insuperabile; la musica poi è ossessiva, cupa e asfissiante, e pare costruita per un'oscura sfilata funerea. Un brano stupendo inserito in un contesto altrettanto ottimo, una band da adorare e inserire tra i grandi nomi del genere, un album di pregiato e affascinante doom, per un viaggio drammatico e necessario, per capire quanto importante sia l'esistenza (ed essenza) di questa musica. Da amare alla follia! (Bob Stoner)

giovedì 14 gennaio 2016

Il Mostro - S/t

#PER CHI AMA: Math Rock/Alternative
Anche se 'Il Mostro' è ormai uscito da tre anni, siete sempre in tempo per recuperarlo e dargli un ascolto interessato. Il quartetto di Como risulterà infatti parecchio intrigante per quella frangia di appassionati di sonorità sperimentali (e un po' insane) che vedono mischiate, nella stessa minestra, psichedelia, alternative, blues rock, colonne sonore, country, cinematica, math e molto altro. Vi basta questo come descrizione per spingervi all'ascolto di questo cd datato 2013? Non ancora? Allora vorrei aggiungere che il vocalist, tra l'altro molto bravo, suona anche l'ukulele e mi ricorda vagamente Arnaud Strobl, il vocalist (nella sua veste clean) dei Carnival in Coal. Soddisfatti ora o devo stuzzicare ulteriormente il vostro palato? Va beh, vi sparo lì una delle influenze cardine dei nostri: Mike Patton, senza i suoi Faith No More però, quindi pensate pure ad una delle folli reincarnazioni dell'artista californiano e potrete farvi un'altra idea di questi quattro folgorati. E di un album che include 11 tracce, le prime otto dai titoli ispirati e un po' canzonanti la musica classica (Allegro, Vivace, Andante) e gli ultimi tre in inglese. Trentanove minuti che irrompono col basso minaccioso di Gillo e grida di donna, in una song, "Presto Ostinato", ruvida e minacciosa nel suo presentarsi, "Io Sono il Mostro". Si prosegue sull'onda anomala, con i suoni malsani e ipnotici di "Allegro Brillante", un movimento che si dirige esattamente nella direzione opposta del suo titolo, in un blues che solo nel finale trova modo di esplodere in un math rock impazzito che sprofonda da li a breve nella cupezza di "Andante Arrabbiato", ove si palesa finalmente la voce di Rip e il suono della sua chitarrina infernale, con la musica che ondeggia a cavallo tra i Maniscalco Maldestro e i 6:33. "Prestissimo" nel suo chorus sembra quasi fare il verso "Batman", mentre la ritmica corre via veloce, fatto salvo un geniale break centrale di pattoniana memoria e un roboante finale. "Allegro con Brio" apre con una tamburellata di basso, poi una breve sfuriata e infine la traccia si incanala in suoni oscuri (anche qui notevole la prova vocale di Rip) e malinconici. Con "Vivace" ci lanciamo in un bel pezzo country rock, ove la chitarra di Mamo s'intreccia con l'ukelele del frontman. Si sprofonda addirittura in un orrorifico e teatrale doom in "Largo Solenne", ma l'imprevedibilità dei quattro è comunque sempre dietro l'angolo e la sensazione è quella di ritrovarsi in un film di Q. Tarantino, ed ecco "Allegro Vivace", ascoltare per credere: il suo coro sembra addirittura una versione inglese di "Sciuri Sciuri". Si arriva a "The Phantom of Jeaslousy" ed è ancora il basso di Gillo a dettare legge in un pezzo che sembra quasi richiamare gli anni '70-80 (chi ha detto Police?), con una batteria, a cura di un fantasioso Gionson, a tratti davvero esplosiva. Con "There She Blows! (Ahab's Dream)" si entra in meandri musicali spettrali e spaventosi, lugubri e molesti. "That's Enough" infine si chiede se forse ne abbiamo avuto abbastanza di queste folli breve schegge dei quattro mattacchioni di Como: un blues rock che dimostra l'eclettismo di una band che sembra aver imboccato altre strade sperimentali in nuovi brani, per cui vi rimando alla loro ricerca su youtube. Che altro aggiungere se non obbligarvi moralmente all'ascolto de Il Mostro. Bravi, bravissimi. (Francesco Scarci)

(Self - 2013)
Voto: 80

mercoledì 13 gennaio 2016

Ad Cinerem - Once Mourned...Now Forgotten

#PER CHI AMA: Black/Doom, Saturnus
È un EP di soli tre pezzi quello dei tedeschi Ad Cinerem, duo di Dresda uscito lo scorso anno con questo demo cd intitolato 'Once Mourned...Now Forgotten'. Come lascia presagire il titolo, non possiamo che trovarci di fronte al cospetto di un black doom dalle tinte fosche e malinconiche che si palesano immediatamente nella opening track, l'atmosferica e melliflua "To Revise Downward" e che si traducono in liriche all'insegna di alienazione, perdita, odio e amore. Niente di trascendentale sia chiaro, ma il mid-tempo (tendente allo slow, a dire il vero) della traccia, si rivelerà assai piacevole nel suo incedere sinistro, a tratti romantico e decadente. Caratteristiche del sound forgiato da Val Atra Niteris e Hekjal, che si ritroveranno anche nella successiva "To Come to Rest", song strumentale, addirittura più oscura e lenta della precedente che tuttavia sembra avere una valenza di intermezzo acustico, pur durando oltre i cinque minuti e dove la musica dei nostri trova modo di strizzare l'occhiolino ai Saturnus. Il disco si chiude con "Foliage Burial", nove minuti in cui di luce non v'è la benché minima traccia e l'amore per il doom più plumbeo, si manifesta nelle ritmiche pesanti e nell'aria rarefatta di un pezzo dove echeggia il gorgoglio disperato di Hekjal su delle ispiratissime e melodiche linee di chitarra. Band da tenere monitorata per capire come evolverà il loro sound. (Francesco Scarci)

(GSProductions - 2015)
Voto: 65

Celestial Meisters - S/t

#PER CHI AMA: Post-core/Sludge, The Ocean, Old Man Gloom
La band dei Celestial Meisters, nella sua insolita veste di copertina osannante i poteri dei fumetti e cartoni manga, non si smentisce, usando addirittura la lingua giapponese per il cantato. Costituitisi nel 2012, provenienti da Wuppertal, i nostri presentano un post-core dall'umore molto nero con buone escursioni fuori genere, dai tratti psichedelici e filmici, con innesti di minimale elettronica e campionature, presumo, di provenienza manga, che intensificano l'aspetto debordante dei brani. La lingua giapponese è di sicuro effetto se accostata ad un cantato hardcore con cui si amalgama perfettamente, permettendomi di saltare la difficoltà iniziale assai facilmente ed innamorarmene immediatamente dopo con altrettanta facilità. L'interpretazione drammatica del vocalist poi è una spinta addizionale che fa anche da buon collante con una musica costantemente tenuta in tensione, in un post-core dalle matrici moderne, ipnotiche (ascoltatevi "Graham's Melancholy") e futuristiche, proprio come l'artwork robotico di copertina. I Celestial Meisters suonano con onestà e sapienza, giostrando riff pesanti, potenti e d'impatto, un pugno dritto allo stomaco come potrebbe essere un brano tratto da un album degli Old Man Gloom, con influenze post metal alla The Ocean, e alla fine il quintetto teutonico si fa portavoce di un sentore negativo che viene trasmesso da ogni singola vibrazione sonora. Sarebbe interessante anche intuire le connessioni tra testi e il pianeta manga, ad esempio nell'ottima traccia finale, "Celestial", con quella voce bambina, campionata da qualche film o cartoon, che esce tra urla al limite della disperazione umana, chissà quali le tematiche trattate nel brano. L'EP, uscito nell'autunno del 2015, rappresenta un valido biglietto da visita per il combo germanico: tutti i brani restano in piedi dall'inizio alla fine mostrando forte solidità, in un cd autoprodotto in maniera lodevole, curato e ben suonato. Magari ad una band dalle simili caratteristiche non si apriranno immediatamente le porte dell'Olimpo post-core ma sicuramente un posto d'onore tra le raccolte dei ricercatori di nuove emozioni e particolarità al vetriolo, i ventotto minuti di puro grigio magma energetico di questo EP d'esordio, lo troveranno di certo. Da ascoltare ad alto volume! (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75

A Flourishing Scourge – As Beauty Fades Away

#PER CHI AMA: Black Progressive
Affrontare questa band di Seattle è compito arduo: nei ventotto minuti totali del cd infatti si può trovare di tutto e questo complica davvero le cose. Per iniziare dobbiamo riconoscere che i quattro brani sono belli e originali, che i musicisti in questione si distinguono per fantasia e sensibilità musicale, qualità e tecnica, che 'As Beauty Fades Away' suonerà alle vostre orecchie come ostico, atipico ma anche divino se solo riuscirete a carpirne il significato sonoro. Io ci ho provato, ci ho messo un po' e alla fine ho scoperto con piacere che questi A Flourishing Scourge sono una scommessa sul futuro del metal estremo. Quello che si cela tra le quattro lunghe tracce dell'album è un'attitudine progressiva evoluta (stile Hammers of Misfortune), caparbietà da doom metal band, atmosfere di chiara matrice Agalloch, un'anima death metal alla Anterior, voce nervosa e gutturale alla maniera dei Neurosis e la volontà di stupire tecnicamente tanto cara agli Opeth. Sia chiara una cosa però: gli A Flourishing Scourge non imitano nessuno, non ricalcano le impronte dei maestri, anzi, ne fanno ottimo insegnamento creando nuove strade e nuove aperture mentali. Quindi, le parti più dure opteranno per non essere esasperate ma solamente potenti, saranno più scarne, compresse e leggibili, tirate, contorte ma sempre decifrabili, sulla scia dei mitici Disharmonic Orchestra, tutta tecnica da gustare con quella verve retro rock che in alcune band sludge/doom fa davvero la differenza. Ecco degli assoli pirotecnici, le cavalcate e la doppia cassa che vola, il black metal d'atmosfera ma niente suoni glaciali, banditi in toto. Le sonorità si muovono calde, intense, nessuno spazio al freddo dominante, vietato guardare ai ghiacciai del nord. Il suono si scalda come lava colata, il ghiaccio si scioglie in un'iperbole grigia per aumentare quel senso di malinconia autunnale, momenti di vita che bruciano, quel senso di reale caduta, evanescente e inspiegabile che pervade l'intero disco e che raggiunge apici altissimi nei vari pezzi acustici sparsi qua e là nel disco (con "In Continuum" ad essere il mio brano preferito) . Proprio qui, in queste parti delicate e riflessive, i nostri quattro strumentisti americani trovano la loro ideale collocazione con partiture sofisticate e variegate, nate tra i ricordi delle sculture sonore di 'Damnation' degli Opeth, il capolavoro 'Grace' di Jeff Buckley e 'The White' degli Agalloch. L'artwork estratto da 'Il Trionfo della Morte' di Bruegel completa l'opera in bellezza per questo gioiellino underground autoprodotto in maniera lodevole. Album difficile da catalogare, intenso come i lavori dei mitici Agalloch. Una band seria e motivata, con tutte le carte in regola per approdare ad un full length memorabile. Consigliato. (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75

martedì 12 gennaio 2016

Dawn of a Dark Age - The Six Elements, Vol.4 Air

#PER CHI AMA: Black Mediterraneo, In Tormentata Quiete, Windir
Puntuale come un orologio svizzero, chirurgico nelle durate dei suoi album (36 min), matematico nel numero dei pezzi inclusi, Vittorio 'Vk' Sabelli torna con il quarto capitolo della sua personale esologia dedicata agli elementi. Dopo Terra, Acqua e Fuoco, è il turno ovviamente dell'Aria. Innanzitutto, con somma gioia, in 'The Six Elements, Vol.4 Air' registriamo la presenza di un batterista in carne ed ossa, nella fattispecie Diego 'Aeternus' Tasciotti, noto per la sua militanza, tra gli altri, negli Handful of Hate e nei Lord Vampyr. Dietro al microfono questa volta, a prestare la propria voce, l'ottimo ed eclettico Lys degli Enisum. Con questa nuova line-up, il buon VK si lancia in altri sei brani di musica estrema, etnica, folkish, a sorprendere ancora con il suo sound votato allo sperimentalismo "mediterraneo". Direi che non molte sono le differenze con i precedenti lavori, se non una maggiore organicità e un impatto sonoro decisamente meno freddo rispetto al passato, legato alla presenza di un vero batterista dietro le pelli. Esclusa l'intro, i veri brani esordiscono con "Argon Van Beethoven (1%)" - che razza di titolo è mai questo - song in cui vediamo nuovamente la band miscelare il proprio estremismo musicale (di scuola nordica) con i classici frangenti acustici dedicati all'esplorazione di sonorità dal sempre più forte sapore mediterraneo, condite dall'utilizzo di splendidi strumenti, sax e clarinetto su tutti, che arricchiscono le tracce del mastermind molisano. "Children of the Wind" è un pezzo black mid-tempo che vede i nostri sciorinare sinistre melodie di chitarra, arrangiate da un infervorato clarinetto che sembra ripercorrere le melodie di uno stralunato Sergej Rachmaninov. Qui musica classica e black metal si incontrano e convivono in pace, dimostrando quanto la musica possa compenetrarsi tra i generi più disparati, cosi come la voce (in scream e growl) del bravo Lys riesce a convivere con il vocalizzo improvvisato di un'eterea donzella. Un arpeggio basico apre "Darkthrone in the Sky", song che verosimilmente vuole essere un tributo nei confronti dell'act norvegese, citato da VK come influenza per il proprio sound. La song è abbastanza semplice ma nella sua essenzialità risiede un'altra verità: si può fare ottima musica mettendo insieme anche pochi accordi. Se temete di annoiarvi, non ce ne sarà il tempo perché il terzetto architetta una traccia nebulosa, atmosferica e dal mood malefico, soprattutto nelle sfuriate conclusive, dove tra i blast beat impazziti, s'insinua diabolico più che mai, il verso del sax. La quinta "Jukai" è suddivisa in due sottotracce che si muovono a cavallo tra un black mid-tempo e feroci sgroppate condite da chitarre zanzarose, con gli ormai immancabili arrangiamenti a base di pianoforti, tastiere, flauti e chi più ne ha più ne metta, in una traccia che risente addirittura di un lontano ed epico richiamo ai Bathory. Che altro dire, se non invitarvi all'ascolto di questo stravagante artista che da sempre ha il merito di sperimentare lungo i sentieri oscuri del metallo nero. (Francesco Scarci)

(Nemeton Records - 2016)
Voto: 75

Les Lekin - All Black Rainbow Moon

#PER CHI AMA: Psychedelic Stoner, Pelican
Sei tracce per quasi 50 minuti di viaggio in questo debut album del trio austriaco Les Lekin. Dalla breve "Intro" (quasi 2 minuti, costruita su un ruvido ma inquietante arpeggio di chitarra) alla lunghissima "Loom" (oltre 13 minuti – che, con la straordinaria "Solum", è il capolavoro del disco), questo 'All Black Rainbow Moon' è un piccolo capolavoro sotto ogni punto di vista. La sezione ritmica costruisce un tessuto solido e groovy: su una batteria minimale ma fantasiosa quando serve (splendido il pattern delle rullate nei main riff di ‘Solum’), un basso ruvido, pieno e pesante, fa da architettura per vere e proprie cattedrali di psichedelia oscura e riff tossici. È la chitarra a farla da padrone: il talentuoso Peter G. si muove senza sosta tra riverberi, delay, distorsioni sludge, arpeggi e feedback, trascinando l’ascoltatore in una giostra multicolore di suoni angelici e atmosfere diaboliche, melodie indimenticabili (fischietterete "Allblack" per giorni interi, ve lo garantisco) e granitici riff stoner. Quasi tutti i brani sono legati tra loro da un feedback di chitarra che, idealmente, trasforma 'All Black Rainbow Moon' in un unico, lunghissimo trip psichedelico strumentale, perfettamente bilanciato nelle dinamiche e nell’equilibrio tra poesia e pesantezza, e perfettamente registrato e prodotto. Spero di poterli vedere dal vivo: sono certo che questi stessi brani, suonati live, diventino palco per splendide improvvisazioni. Indimenticabili. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2015)
Voto: 80

domenica 10 gennaio 2016

Stories From the Lost - Impairment

#PER CHI AMA: Alternative Elettronica
SoMnius deve essere un'anima inquieta che rifiuta di stare con le mani in mano e sente la necessità di dar sfogo di continuo alla propria creatività. Nel 2013 con la sua band omonima, nel 2015 con i Varen; doveva in un qualche modo colmare il gap temporale fra questi 2 anni e cosi nel 2014 è uscito con il quartetto degli Stories From the Lost, e quello che è il secondo album per la band belga, dopo 'For Clouds' uscito nel 2012. 'Impairment' è peraltro un doppio cd, contenente ben 15 brani strumentali che strizzano l'occhiolino a un alternative post metal dotato di forti venature elettroniche. Il disco si muove tra possenti riff di chitarra, frammenti parlati ("The Haze II"), estrapolati magari da qualche film (questo non mi è dato saperlo), breaks elettronici e bombastici arrangiamenti orchestrali. Ecco, se pensavate che anche in questo disco potesse apparire lo spettro black di SoMnius, state pure tranquilli, perchè qui avrete di che divertirvi con le splendide melodie post- dei quattro di Zottegem. L'album è lungo (oltre 75 minuti), quindi mettetevi comodi, spegnete le luci e rilassatevi, potrete immergervi in un lungo e fruttuoso viaggio, a tratti spensierato, a tratti malinconico e in alcuni momenti quasi danzereccio ("Impulsion"). La bellezza di 'Impairment' alla fine risiede nella sua eccletticità, nel suo passare da oscuri frangenti, ad altri più meditabondi, passando da intensi attimi di malinconia fino ad arrivare ad abbracciare l'elettronica tout court, le colonne sonore ("Mighty Nobody"), l'ambient ("Benefits") e il cinematico ("Complex #"), mantenendo comunque intatto lo spirito post incarnato dalla band fiamminga. Mancano le vocals lo so, ma la loro assenza è supplita dalla presenza di quel parlato campionato di cui facevo menzione inizialmente, ma anche da tutto l'apparato musicale che contraddistingue la musica degli Stories From the Lost. Il secondo cd mostra un approccio pesantemente più votato alla elettronica e questo sinceramente non mi turba più di tanto: "Black" è una breve intro quasi techno, mentre in "Duosign" i nostri sperimentano un noise cibernetico. Le atmosfere si fanno ancor più cupe e surreali, e sembra addirittura di essere finiti nel set cinematografico di 'Blade Runner' dove "ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire". Gli Stories From the Lost mi hanno conquistato con il loro sound inedito che necessita però di grandi aperture mentali. (Francesco Scarci)

(Dunk! Records - 2014)
Voto: 75 

Rusty Pacemaker – Ruins

#PER CHI AMA: Gothic/Dark/Alternative
Uscito per la Solanum Records nel 2015, l'ultima fatica della one man band austriaca, Rusty Pacemaker, si muove tra l'alternative e il gothic rock irrorato d'atmosfere dark decadenti. Impressionante il secondo brano "Made of Lies" che a livello sonoro sembra un brano dei The 69 Eyes epoca Brandon Lee, con un cantato che emula come per incanto, la rimpianta ugula punk del Joy Ramone ai tempi di 'Pet Cemetery'. Passando alle vellutate "Ocean of Life" e "Night Angel" (un brano delizioso!) dove il buon Rusty è affiancato in duetto da Lady K si cambia registro, ampliando lo spettro romantico del brano, e configurandolo in una parentesi storica appartenuta gloriosamente ai Theatre of Tragedy. Musica dal potere oscuro e trasversale che usa atmosfere alla Der Blutharsch, una forma di recente punk minimale e alternativo di stanza tra i Mission of Burma e Death of Samantha, mescolandola con la vena buia dei seminali Crisis, pre Death in June e i Damned del periodo gotico. Troviamo un certo gusto per l'oscuro e l'intromissione sovente di interventi dal sapore goth alla Sanguis et Cinis ultimo periodo, tutto prodotto in salsa moderna e dai tratti metal alla A Pale Horse Named Death. Ottima la forma acustica di "Forever" dove il fantasma di Wayne Hussey, orfano dei The Mission, si mette in mostra, poi di corsa verso la fine, continuando a rimescolare le suddette coordinate sonore per un totale di quasi un'ora di onorato gothic rock metal con qualche caduta di stile e balzi in avanti, notevoli ed interessanti. In verità tutto l'album risulta stimolante ma leggermente fuori tempo massimo per il periodo metal attuale, perfetto per chi ha vissuto qualche anno fa il risveglio del rock gotico. In generale 'Ruins' rimane un buon lavoro con alcuni punti al di sopra della media, vedi "Matter Over Mind". Piacevolissimo, completo, lungo ed efficace il'ipnotico brano "Pillow of Silence" posto in chiusura del cd. Infine, ottimo l'artwork di copertina e la produzione. Album dalle qualità tutte da scoprire, destinato ad un pubblico amante di romanticismo e notturni territori gothic rock. Ascolto consigliato. (Bob Stoner)

(Solanum Records - 2015)
Voto: 70

sabato 9 gennaio 2016

Somali Yacht Club - The Sun

#PER CHI AMA: Post/Stoner/Shoegaze
Se parli di Ucraina e stoner viene subito da pensare agli Stoned Jesus, band rivelazione che imperversa già da qualche anno e che sta riscuotendo sempre maggior successo tra il pubblico amante del genere. I Somali Yacht Club hanno in comune poco altro con la band sopracitata, in realtà il loro genere si discosta e si riempie di influenze shoegaze e post rock che rendono il loro sound più etereo e meno ruvido. Una sorta di Mars Red Sky ma con una voce meno fastidiosa per intenderci. In generale alla band Ucraina (per la precisione di Lviv) piace sperimentare, per cui troverete un intermezzo in levare (!!) come in “Sightwaster”, una suite che nasce come brano post rock, diventa stoner a circa metà brano senza disdegnare infine innesti di altro tipo. Il tutto fatto in modo molto naturale e semplice, puro istinto, ma con cognizione di causa. In totale l’album contiene cinque brani che vanno dai sette ai dieci minuti di durata, questo a sottolineare anche la complessità compositiva a cui la band sembra tenere particolarmente. Attivi nella scena da più di cinque anni, il trio ha all’attivo un precedente EP che gli ha permesso di riscuotere un discreto successo, confermato anche dagli innumerevoli live in patria e in giro per l'Europa. “Up in the Sky” è probabilmente il brano che rappresenta meglio l’album e l’essenza della band: un inizio lento dove il riff desertico di chitarra conduce l’ascoltatore verso l’assolo psichedelico, mentre la voce eterea chiude il cerchio in modo impeccabile. Un brano emotivo e colmo di atmosfera, ricco di diverse linee melodiche che viaggiano a livelli di ascolto diversi. Quando a circa metà sembra che il brano stia per concludersi, i Somali Yacht Club ne approfittano per velocizzare il ritmo e fuggire verso la cavalcata finale che si potrebbe considerare una traccia a sé stante. “Signals” , dopo l’intro di basso a cui si uniscono progressivamente gli altri strumenti, parte in modo sommesso, con un riff liquido di chitarra che conduce verso l’esplosione di fuzz, potente, ma non dirompente come prevede il genere. Il basso ha il suo momento di gloria e i suoi intrecci, al limite del prog, trascinano gran parte del brano mentre il cantato è sempre sporadico, quasi un orpello stilistico da aggiungere qua e là al bisogno. In conclusione la band ha fatto un discreto lavoro con questo album, ci sono buoni spunti (vedi gli intermezzi fusion), anche se in certi passaggi si sente la forzatura di aver voluto a tutti i costi un brano di lunga durata. Ancora qualche tempo per la maturazione artistica e poi il trio potrò dire la sua in maniera più incisiva. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 70

Forbidden Planet - From Bedroom to Oblivion: Two Decades of Obscurity

#PER CHI AMA: Instrumental Prog Rock/Art Rock
Adam, Laurence, The Freq e Dave sono i 4 musicisti di Singapore che compongono i Forbidden Planet che debuttano nel 2015 con l’album 'From Bedroom to Oblivion: Two Decades of Obscurity'. Mi immagino un gruppo di 4 ragazzi che vogliono divertirsi seguendo la loro passione. Suonare quello che viene fuori da una delle loro mille jam session. Da queste scartano poco o niente e prendono per buona una, due, undici canzoni, decidendo quindi di confezionare un bel regalo. Il loro regalo. Un cd autoprodotto. A loro va il mio rispetto. Tutto il loro viaggio è un'esperienza magnifica che ogni ragazzino, che prende in mano uno strumento, prima o poi percorrerà. Lo deve fare. Una volta concluso questo periodo perfetto, che rimarrà come pilastro formativo della sua vita, è giusto lavarsi la faccia, magari fare colazione e cominciare a riguardare a quanto prodotto. Dico questo perché l'album dei nostri sembra ideato, registrato e masterizzato con la "pancia". L'album è infatti decisamente penalizzato dalla qualità di registrazione, che penalizzerà anche la mia valutazione finale. La batteria in primis è inscatolata, spesso la grancassa si percepisce solo perché convenzionalmente in un 4/4 cade almeno sulla prima battuta. Considerato il genere, non credo sia una scelta ragionata, ma semplicemente un errore da principianti. È poi un peccato sentire questa equalizzazione fai-da-te, facendo arrivare la chitarra solista e poi, a scendere, seconda chitarra, basso e batteria; la sola eccezione è "Yoko", dove insieme alle chitarre "pulite" si sentono bene anche gli altri strumenti. Questi "inconvenienti" purtroppo rovinano l'ascolto. Non c'è molto da aggiungere. L'album è composto da canzoni che spaziano dal prog rock leggero al funky rock, con incisi thrash e math metal ("I Know What it Takes"), anche se a farla da padrone è il virtuosismo degli axemen. Sono chiare le capacità tecniche e gli studi fatti, al punto di fare una cover di Bach ("Cello suite n.1 Prelude in G Minor"), ma il risultato, a mio avviso, è un insieme di esercizi combinati che cercano di spiazzare l'ascoltatore con cambi di genere: un metodo inflazionato per chi vuol fare un album prog. Se l'intento è il caos, ma suonato bene, è fallimentare perché confuso e da l'impressione di non sapere cosa si stia facendo. Forse sono io a non capire il loro genio. "Hands Around the Throat" è già più pop, e considerato il titolo della canzone è chiaro l'intento della band ad unire gli opposti. Adam, nella seconda di copertina, ringrazia tutte le persone e gli artisti che lo hanno ispirato, affermando di esser stati parte integrante di questo progetto. Infatti mi sembrava di ricordare l'andazzo di Satriani e Steve Vai in "Can I Borrow Your Bass" e "Put On The Suit". Funky rock virtuoso, tuttavia, sempre con la contaminazione per uscire dal coro. Carina la citazione (nell'intento almeno) a "The Audience is Listening" di Steve Vai al minuto 2:24 di “Put On The Suit”. Tutto sommato, al netto dei problemi espressi, le canzoni sono piacevoli, ma visto che 'From Bedroom to Oblivion: Two Decades of Obscurity' è stato mixato e masterizzato da un componente del gruppo (The Freq), mi auguro che, in futuro, i Forbidden Planet facciano mixare il prossimo lavoro da qualcuno proveniente da un Allowed Planet. (Alessio Perro)

(Self - 2015)
Voto: 55

Psicotaxi - Effect To The Head’s Mass

#PER CHI AMA: Electro Rock, Space Rock, Post Rock 
Difficile definire un genere per questo primo lavoro dei milanesi Psicotaxi. Post-rock? Vero: lunghi pezzi strumentali, arrabbiati, con ampi interventi di elettronica, arpeggi ricchi di eco e riverberi. Space-rock? Anche: i brani sembrano una miscela contemporanea di Hawkwind e Ozric Tentacles, con riff ossessivi, psichedelici, soundtrack stoner e tessiture vibranti. Progressive? Perché no: ogni canzone è una piccola suite ("Zingaropoli", col suo incedere esplosivo di basso ispirato ai Tool), tecnicamente ineccepibile, che si dilata e si restringe, non disdegna tempi dispari e lascia spazio persino a sax, tastiere e arpeggiatori taglienti. Aggiungete poi la teatralità dei testi recitati da Manlio Benigni: l’ironica "Un Tram che si Chiama Pornodesiderio" (“Il fatto è che lei fa la pornostar, io non me la sento di avere una storia con questa qui”), l’oscura e terrificante "Performance", l’impegnata e amara “Il Mondo Nuovo” (“Benvenuto nel mondo nuovo ragazzo […] tanto tu ti diverti a lavorare, non è vero?”). La cifra stilistica degli Psicotaxi va forse ricercata proprio in quell’underground musicale che, negli ultimi anni, sembra aver sfornato solo indie e folk: il quartetto milanese è fortemente indipendente, autonomo, dotato di personalità tale da raccogliere tutte le proprie ispirazioni e frullarle in una ricetta davvero nuova, originale, innovativa. 'Effect To The Head’s Mass' fa un uso preciso e superbo dell’elettronica; non dimentica l’importanza delle chitarre distorte e di un basso duro e presente; sa sfruttare il sassofono in modo originale; in ultima analisi, non fa sentire per nulla la mancanza di una voce nel senso stretto del termine, come invece capita a tante band post-qualcosa. Impossibile resistergli. (Stefano Torregrossa)

(Subsphera - 2015)
Voto: 75

venerdì 8 gennaio 2016

SoMnius - Darkness Falls...

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black strumentale
Abbiamo avuto modo di apprezzare Mathieu Vanlandtschoote (in arte SoMnius) nel suo ultimo progetto, i Varen; facciamo ora un passo indietro e diamo un ascolto alla sua band omonima e al disco 'Darkness Falls...', uscito nel 2013. Nove brani, otto dei quali strumentali, che danzano su di un sound di nero vestito. Stiamo parlando di un black metal cadenzato, che dalla opening track nonchè anche title track, arriva fino alla conclusiva "The Void", muovendosi in meandri angusti fatti di un suono oscuro e maligno. L'architettura del disco è sorretta dalle classiche chitarre ronzanti tipiche del black metal scandinavo che rendono scarno, a livello chitarristico, la proposta del factotum belga. Quando fortunatamente si sovrappone una seconda chitarra, e penso al secondo brano, "Where Hope Lies Dying" (ma sarà cosi anche negli altri), il sound diventa più corposo e piacevole da ascoltare, arricchito peraltro da ottimi arrangiamenti di synth. Un plumbeo pianoforte apre "An Illustrated World", song spettrale e dal mood malinconico che conferma che musicalmente il disco ha ottime potenzialità, garantite anche da una certa alternanza tra ritmiche ronzanti e frammenti atmosferici. La pecca più grande a mio avviso è, come di consueto, la totale mancanza di vocals, anche di sottofondo, che guidino l'ascolto e contribuiscano ad arricchire le qualità musicali di questo 'Darkness Falls...'. Un vero peccato perchè delle vocals arcigne, psicotiche o urla lontane del buon SoMnius, sarebbero state inserite ad arte nel tessuto musicale sorretto dal mastermind di Ronse. Tra gli altri miei pezzi preferiti, citerei "Stop Being Human", per le sue splendide, melodiche e strazianti linee di chitarra; la criptica "Entering Wasteland" e la sognante "The Void", ove finalmente fa capolino lo screaming corrosivo di Mathieu. Non avesse atteso l'ultimo brano per farci questo regalo, il voto di 'Darkness Falls...' non ne sarebbe uscito penalizzato. Next time SoMnius... (Francesco Scarci)

(Dunk! Records - 2013)
Voto: 70

Postvorta - Aegeria

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna
Quella di 'Ægeria' è una di quelle situazioni in cui spesso mi ritrovo, ossia voler segnalare al mondo intero l'uscita di un disco interessantissimo, pur non avendolo fisicamente nella mia collezione (ahimè è solo digitale, un grave delitto). Sto parlando dei romagnoli Postvorta e del loro EP che segna il primo capitolo di una trilogia sul ciclo della vita e che segue a distanza di un anno, il full length d'esordio dei nostri, 'Beckoning Light We Will Set Ourselves On Fire'. 'Ægeria' lo dico già, è un gran bel lavoro di post-metal, nella sua veste più classica, quella che strizza l'occhio a Isis e Cult of Luna, tanto per citare due nomi a caso, anche nella tipica costruzione dei brani, che si srotolano nella struttura strofa, intermezzo semi-acustico, strofa, intermezzo e via dicendo. "Amnios" ne è la dimostrazione assoluta, snodandosi in tal senso, lungo i suoi disagiati 13 minuti fatti di suoni raffinati che palesano si la devozione dell'ensemble italico verso le band sopra citate ma al contempo, anche l'enorme classe di cui sono dotati i ravennati. "Corion" prosegue sulla stessa scia, muovendosi tra giochi di luce in chiaroscuro, tenui atmosfere, vocals coriacee e splendide melodie di un post-metal scoppiettante che non accenna a mostrare segni di debolezza, ma anzi si arricchisce giorno dopo giorno di entusiasmanti sorprese (leggasi anche la nuova fatica dei Sunpocrisy). In "Uterus", l'elemento post-metal si arricchisce di incursioni in territori post-black con le classiche cavalcate alla Deafheaven, immediatamente smorzate da toni dimessi e quel perverso senso di malinconia che avvinghia l'intero lavoro e che genera in me contrastanti emozioni. La conclusiva "Placenta" è in realtà una cover più energizzata di “In The House, In A Heartbeat” di John Murphy, colonna sonora del film “28 Giorni Dopo”, song strumentale scelta non a caso, in quanto avvolta dalle stesse drammatiche suggestioni e portatrice delle stesse tetre emozioni delle precedenti tracce. Che altro dire se non suggerire la stampa in versione cd di questo piccolo gioiellino. (Francesco Scarci)

(Drown Within Records - 2015)
Voto: 85

sabato 26 dicembre 2015

Thee Maldoror Kollective - New Era Viral Order

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Che i Maldoror fossero una band fuori dal comune lo si era già capito quando nel 1998 uscì il loro debutto 'Ars Magika', ma il black metal degli esordi, seppure non scevro di alcune contaminazioni di ritual-ambient, ancora non lasciava trasparire quelle evoluzioni sbalorditive che il gruppo avrebbe intrapreso in futuro. Nella metà del 2001, il secondo capitolo discografico 'In Saturn Mystique', giungeva invece come una rivelazione e metteva completamente a nudo lo straordinario talento della band torinese, sincretizzando, in un'unica formula, intricate e violente partiture black metal con suggestive esplosioni electro-wave che toccavano spesso il limite del progressive. Dopo il cambio di monicker in Thee Maldoror Kollective (che sottolinea un nuovo assetto del gruppo, teso alla collaborazione con altri progetti extramusicali), uscì il terzo full-length 'New Era Viral Order', un concept sul 'Liber Al vel Legis' di Aleister Crowley che voleva approfondire il complesso tema dell'insediamento del Nuovo Eone di Horus: il simbolo di una nuova consapevolezza e della centralità dell'uomo nell'universo. Da sempre seriamente coinvolti in studi e pratiche magistiche, i Maldoror non abbandonano quindi il loro itinerario artistico fatto di cultura esoterica e danno vita ad un'opera ambiziosa ed innovativa che si priva del sostrato mistico e spirituale. Rispetto al precedente 'In Saturn Mystique', il nuovo album si spoglia dei connotati intransigenti del black metal e prende il largo verso una sperimentazione più audace (che sarà ancor di più enfatizzata nei successivi album), contraddistinta dalla ricerca di un continuo dinamismo sonoro e di un ritmo ipnotico. Terremotanti riff di chitarra in stile 'Demanufacture' si incastrano in un tessuto sonoro complesso, fatto di ruvidi beat industriali e dalle tastiere ispirate di Evanghelya, musicista con un gusto compositivo affascinante ed insolito, sempre a cavallo tra le ambientazioni sinistre di Goblin e Jacula e la trascinante modernità dell'EBM più corrosiva. Le parti vocali del leader Kundahli mantengono la brutalità dei precedenti lavori ma vengono sporadicamente filtrate da un effetto robotico che dona un'impronta ancor più sintetica al suono. Da segnalare anche l'elegantissimo digipack, la prestigiosa partecipazione degli MZ412 con il remix di "Epidemic Noise Age" e per finire gli episodi che a mio avviso sono tra i più intensi dell'album: "Xaos DNA Released", "Haemorrhage Transmission", "Rhytmagick Disturbance" e "Slaughter Mass 2002", flussi di energia invisibile e scardinante che si insinuano come un virus nel subconscio, tutti brani che attraverso la sperimentazione rivendicano comunque una forte appartenenza al metal estremo. Seguite dunque il mio consiglio: recuperate 'New Era Viral Order' e lasciatevi avvolgere dal Chaos. (Roberto Alba)

venerdì 25 dicembre 2015

Witchsorrow - No Light, Only Fire

#PER CHI AMA: Doom Metal
'No Light, Only Fire' è l'ultimo lavoro dei doomster britannici Witchsorrow, in circolazione dal 2005 e con all'attivo già tre full-length, un EP e una demo risalente al 2008. Nel loro decimo anniversario, pubblicano quest'album che si apre con "There is No Light Only Fire“, song dalle sonorità oscure ma con un vocalist dalla voce pulita: non v'è infatti traccia di growl, anzi sembrerebbe quasi una canzone adatta a una sorta di karaoke metal (se mai qualcuno volesse ispirazione, consiglio quest'album). La stessa atmosfera all'insegna del puro doom, prosegue in “Made of the Void” e in “Negative Utopia”, con la differenza che in quest'ultima song la disperazione traspira minuto dopo minuto fino a portare all'esasperazione dei sensi. Dalla metà in poi del brano qualcosa cambia: ci si ridesta, la chitarra e la batteria vengono liberate per un breve lasso di tempo e un barlume di luce si intravede nell'oscurità più fitta. Restando sempre su questa riva, troviamo “The Martyr”: l'inizio è grave, scandente ogni secondo con il drumming che si agglomera alle chitarre a lutto (sarebbe un'ottima marcia funebre alternativa). Qui la rabbia traspare nei diversi cambi di tonalità vocale, che diventa addirittura roca. Poco dopo metà brano, il ritmo cambia e vira, avvicinandosi a un punk-rock: grida, ritmica cadenzata e assoli di chitarra rendono il tutto perfetto per l'headbanging (grazie anche al tono vocale del cantante Necroskull). Come in ogni lavoro che si rispetti, c'è sempre un giro di boa (o un piccolo cambio in corsa, se vogliamo definirlo in tal modo) ed è scandito da “To the Gallows”, le cui sonorità sono decisamente metal puro, con la voce sempre assestate ad un livello acuto, e fiumi di dirompente potenza, energia e rabbia che fuoriescono dalle casse dello stereo. “Disaster Reality” comincia in punta di piedi, una nota ogni due secondi fuoriesce dalla chitarra, per poi essere supportata brevemente dal binomio batteria-basso. Il risultato che ne esce è come un'onda: prima piccola, poi enorme, piccola e poi una sorta di tsunami, con uno spettro di pura angoscia che aleggia per tutto il brano. “Four Candles” è totalmente strumentale e acustica, un piccolo intermezzo curioso. Il disco si chiude con un piccolo salto nel passato: “De Mysteriis Doom Sabbathas”, già apparsa nell'omonimo EP uscito nel 2013 su cassetta in edizione limitata (ne sono uscite solo 150 copie). Strumentale per i primi 4 minuti, segue la falsariga di “The Martyr”, offrendo un assolo meraviglioso verso l'ottavo minuto che dà carica e potenza e coincide con la parte migliore del pezzo. La chiusura poi riprende il mood dell'apertura e le sonorità oscure tornano alla ribalta per collegarsi al primo brano. Buon lavoro questo 'No Light, Only Fire', ma mi sento di dare un unico consiglio: provare ad usare il growl nel prossimo lavoro, se non come voce principale almeno nei cori. (Samantha Pigozzo)

(Candlelight Records - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/witchsorrowdoom/

Interview with Laniakea

Follow this link to know much better the French band Laniakea and their sound dedicated to an atmospheric death/black:


The Frozen Autumn - Emotional Screening Device

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Electro Cold Wave
Non nascondo che provai un po' di dispiacere quando qualche tempo fa mi giunse la notizia della separazione del duo torinese formato da Diego Merletto e Claudio Brosio, che con i primi due album 'Pale Awakening' e 'Fragments of Memories', avevano permesso al nome The Frozen Autumn di affermarsi come uno tra i più interessanti nella scena dark-wave del nostro paese. Fortunatamente tale separazione non comportò anche il termine dell'attività artistica di Diego, che decise nel 1998 di continuare da solo nel suo progetto e di affrontare assieme alla cantante Arianna un percorso più sperimentale con gli Static Movement. E fu proprio dall'incontro di Diego e Arianna che ripartì il nuovo cammino dei Frozen Autumn, che nel 2002 tornarono con il loro terzo lavoro 'Emotional Screening Device', un album che parve aver assimilato gli stessi elementi di synth-pop presenti nel notevole 'Visionary Landscapes' (primo album degli Static Movement, uscito per Eibon Records nel 1999). È un tocco magico quello dei Frozen Autumn, che rapisce con le sue fredde melodie e cattura l'ascoltatore per più di un'ora in un'atmosfera irreale, dove si risvegliano emozioni nostalgiche e i ricordi del passato ci appaiono così nitidi e frammentati allo stesso tempo. Solamente gruppi come Talk Talk, Alphaville, Eurythmics e Depeche Mode hanno saputo ricreare con pari abilità armonie tanto incantevoli e, non a caso, gli 11 brani presenti nell'album, attingono a piene mani proprio dalla new wave, rivisitando nella maniera più attuale e raffinata il suono delle band che negli anni '80 resero così popolare questo genere. Abbandonata dunque l'impronta romantica dei precedenti lavori, l'elettronica del gruppo si riveste di sonorità più gelide e taglienti, supportate da ritmi danzabili veramente piacevoli e dalle voci eteree di Diego e Arianna, che si alternano nel cantare i vari brani. Vi basterà ascoltare "Silence is Talking", "When You are Sad", "Verdancy Price" e "Second Sight (A)" per avere conferma del valore di un album che non necessita di ulteriori elogi, ma solo di un un ultimo invito, rivolto a chi leggerà queste righe, ad avvicinarsi alla musica dei Frozen Autumn e lasciarsi conquistare. (Roberto Alba)

(Eibon Records - 2002)
Voto: 80

https://www.facebook.com/TheFrozenAutumn/

Attila Bakos - Aranyhajnal

#PER CHI AMA: Progressive/Epic, Nightingale, Bathory
Mi ero già incazzato in occasione del precedente progetto del buon Attila Bakos, i Taranis, per lo scarso interesse mostrato nei confronti di un artista eccellente. Torno ad arrabbiarmi oggi, in occasione della recente uscita dell'album solista del polistrumentista magiaro. Attila esce con il full length d'esordio, 'Aranyhajnal', fuori esclusivamente in digitale, e proprio qui risiede la mia rabbia, la mancanza di un'uscita fisica per un album di questa caratura. Il lavoro contiene otto tracce che si muovono nella scia di un metal progressivo che lascia ampio margine di manovra alla musicalità del mastermind ungherese, che abbiamo visto coinvolto anche in altre band, come Thy Catafalque, i norvegesi Quadrivium e con i Woodland Choir. Come per il progetto Taranis, anche in questo caso Attila sembra ispirarsi a certa musica nordica e penso a Dan Swano, Bathory o agli Arcturus, nomi di una certa rilevanza, la cui spiritualità, magia, passione e una forte emotività, sembrano rivivere nelle song del sempre bravo Attila. La opener "Ősi Szó" evidenzia sin da subito l'elevata componente orchestrale messa in scena, che si miscela con una certa vena malinconica riscontrabile nelle splendide linee melodiche di chitarra, su cui si stagliano le epiche vocals del frontman, sempre in grado di trasmettere suadenti emozioni, grazie alla sua estesa linea vocale (che arriva a toccare il falsetto nella successiva "Életerő"). Una certa rilevanza la giocano anche i synth, abili a tessere splendide ed eteree melodie, duettando con la chitarra, dotata, nella seconda traccia, di una vena più folkish. Se "Lángolj" mi ricorda a livello ritmico qualcosa dei primi Nightingale, "Ármány"sembra rievocare lo spirito di Quorthon e dei suoi Bathory più epici. Non importa poi se Attila canta tutto in rigorosa lingua magiara, la release acquisisce connotati ancor più esotici che la rendono addirittura più interessante. Il disco trova modo anche di lanciarsi nell'iperspazio dello space rock, e non solo perchè l'apertura ambient di "Áldás", le palesi influenze classiche, la dirompente voce di Attila (che qui trova modo anche di sfondare nel growling), i break acustici, certi splendide digressioni etniche, rendono questa lunga traccia di oltre 12 minuti, la mia favorita tra le otto. "Sziklák Szívén" è un altro pezzo dal mood triste, ma di sicuro impatto, che oscilla tra il progressive e un approccio più violento. "Lépj át" sembra nella prima parte una ninna nanna, poi fortunatamente si riprende e dà modo a Bakos di dar sfoggio della sua preparazione tecnica, sciorinando un altro vibrante assolo. Brividi lungo la schiena, che si concludono con la fragranza estiva di "Az éj Rejtekén" che chiude questa nuova interessante opera firmata Attila Bakos. Mi raccomando ora: 'Aranyhajnal' per alcun motivo dovrà passare inosservato. (Francesco Scarci)

Laniakea - At the Heart of the Tree

#PER CHI AMA: Techno Death/Deathcore/Black, Gojira, Tesseract
I Laniakea sono una giovane band di Avignone che con l'uscita di questo full length cerca di rimarcare una posizione di rispetto in quello che possiamo definire il braccio più tecnico del death metal, unito trasversalmente a quell'attitudine mistica e di pensiero che qualche tempo fa rese grandi band come Alcest e Agalloch. I video trovati in rete non lasciano molti dubbi sul fatto che la band deponga nella forza della natura l'unica via d'uscita per l'uomo del futuro, i vari stacchi d'atmosfera disseminati tra i cinque brani del disco fungono da legame immaginario, tra i paesaggi autunnali pieni di pathos che la band usa per mostrarsi al pubblico nel web e una coltre di riff death pesanti, dallo stile chirurgico, taglienti e caricati da un sound modernissimo, freddo e potente. I tre musicisti francesi riescono a dotare il proprio suono, che affonda le proprie radici nella matrice sonora dei Gojira, di una particolare aura futurista grazie alla presenza nella line-up di una dinamica drum machine, mentre sul versante chitarristico riescono a differenziarsi dai conterranei per un tocco deathcore, simile ai Misery Index o ai mai dimenticati The Haunted, con un cantato robusto vicino ai viaggi di Dan Swanö solista, il tutto filtrato da una buona dose di impulsi modernisti di scuola Fear Factory. 'At the Heart of the Tree' gode alla fine di un buon effetto sorpresa, anche se la band mostra la sua forma migliore nelle parti più sperimentali o in quelle più tranquille, dove le doti tecniche dei due chitarristi emergono più chiaramente. Infatti, le parti più dure dei brani si dimostrano più interessanti quando il terzetto osa nell'essere più noise e sperimentale, infarcendo il tutto di suoni tecnologici e taglienti. Solo in alcuni casi i nostri soffrono di qualche veduta musicale stereotipata, complice forse il limite comprensibilissimo che può offrire una drum machine, una macchina infernale che per quanto usata ad arte, appiattisce e appesantisce l'evoluzione del brano. Un limite che comunque non arriva mai a compromettere né l'integrità e neppure la bellezza di ogni singola traccia. In generale è un debutto con i fiocchi e l'ascolto è consigliato a tutti gli estimatori del metal, suonato con una cura smisurata quasi maniacale e prodotto anche meglio. Anche l'approccio della band ad una evoluta forma di metal estrema, complessa e assai spirituale sulla via di Tesseract o Gorguts, alla fine è dimostrazione di una bella prova di maturità. Ascoltate "Pillars of Creation", la conclusiva "Le Vent Sous les Cendres" o la title track, con le sue pause atemporali sospese nel nulla, i ritorni al pulito, i riff distruttivi, per un contrasto sonoro di tutto rispetto. Ennesima delizia sonora transalpina. (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/Laniakea

CONTEST WILL'O'WISP: i vincitori



Annunciamo i vincitori del concorso "Vinci una copia dell'ultima release Will'o'Wisp, 'Inusto'":

Roberto Coltro di Zimella (VR)
Lorenzo Dolciami di Magione località San Savino (PG)
Adamo Proserpio di Reno di Tizzano (PR)

Complimenti!

Le risposte corrette erano:


1) Il titolo dello storico demotape è "Nocturnal Whispers".
2) Il titolo della raccolta di poesie è "Flame in Chalice".

giovedì 24 dicembre 2015

Varen - S/t

#PER CHI AMA: Black Atmosferico, Blut Aus Nord
I Varen sono una delle innumerevoli creature di SoMnius, polistrumentista belga che vanta nel suo curriculum anche la band omonima e gli Stories From the Lost. In questo mini cd di 5 pezzi, il bravo mastermind fa coppia con Wesley Dewanckel, voce e chitarra del progetto. Cinque pezzi dicevo, aperti da "Hic Incipit Pestis" e dal suono delle campane, dal ronzio delle mosche che si cibano dei cadaveri morti a causa della dilagante pestilenza e da voci in background. La musica romba come un tuono, tra il fremito di malinconiche chitarre in tremolo picking, un programming un po' troppo glaciale, e convincenti harsh vocals, con il sound che si muove tra un black atmosferico mid-tempo, e soventi accelerazioni dal forte tono sinistro. L'album s'incupisce ulteriormente, rendendosi peraltro ancor più affascinante, con la successiva "Attero Sententia", song che mostra una certa decadenza di fondo nella matrice sonora del duo belga, ma che evidenzia anche un'inusuale ricerca di originalità a livello ritmico, con suoni non proprio convenzionali, ma soprattutto capaci di sprigionare una carica emotiva a tratti entusiasmante. Diavolo, i Varen non si presentano certo come degli sprovveduti, anzi finiscono per mettere in mostra un songwriting già maturo e avvolto da una epicità che si paleserà anche nella terza "Vermes", traccia dal piglio veemente ma che mi esalta appieno per le sue linee melodiche quasi strazianti. Il ronzio delle chitarre delinea la veste mortifera di "Manes", il quarto pezzo dell'EP, un'altra song ammantata di oscuri presagi che alla fine, risulterà il brano più claustrofobico di questa prima fatica dei Varen. La conclusiva "Odium" straborda inizialmente per l'abuso della drum machine, ma poi fortunatamente rallenta il proprio ritmo e si lancia nei vicoli ciechi tracciati dallo psicotico e spettrale sound della band. La strada imboccata dal duo delle Fiandre è decisamente buono, ora attendo solo con sommo interesse, il loro full length d'esordio. (Francesco Scarci)

mercoledì 23 dicembre 2015

Nepente - I Will Get Your Soul

#FOR FANS OF: Death/Black, Hate, Necrowretch
This new EP from the Colombian Death/Black Metal veterans offers up much of the same as what was on display throughout the rest of their offerings. The basis is on impossibly blistering riff-work augmented by truly ferocious drumming in their up-tempo moments that continue for the most part unheeded by their full-throttle paces which is an utterly devastating series of tactics that makes this here truly enjoyable. This is all nicely balanced with a mid-tempo groove-styled charge that drops the chaotic frenzy of the frantic drumming that brings in a nice amount of restraint and balance to the material as it’s not set on full-scale demolition the entire time out and that variety is nicely appreciated. A lot of this is mainly due to the rather frantic ability of the drumming to be almost triggered with a machine, lending even more of a frenzied and off-the-walls quality of the material in addition to the blistering tempos and more melodic work present throughout the rest of the album which gives it that absolutely dirty and primal sound that’s so common and enjoyable about extreme South American bands. On the whole there’s little about this that’s not to like, it just mainly comes from the fact that being only four tracks long it’s over so quick and is so enjoyable as it runs through its paces that it serves as a teaser more than a collection of extra tracks and really seems destined to fall short as if a full-length effort would be more appreciated despite the consistent and cohesive quality displayed here. For the most part this is a wholly enjoyable and explosive piece of work. The title track opens with a light acoustic guitar before blasting into frenzied, chaotic drum-blasts and wholly ferocious riffing firing through blistering tempos as the impossibly brutal machine-gun blasts and the accompanied tremolo-picked rhythms continue jockeying throughout the ravenous pace with the lighter tremolo riffs into the final half for a truly enjoyable first impression here. ‘Show Me That You Are Suffering’ offers a lighter tremolo-styled rhythm swirling through blistering drumming into an intense mid-tempo charge balanced with the frenzied riffing and frantic drumming that comes off with ferocious intent with the pounding rhythms firing along through the finale for another stand-out highlight. Being a little more melodic, ‘Gray Lands’ starts with a ravenous mid-tempo charge with restrained riffing and drum-work that works a devastating mid-tempo groove augmented with plenty of blistering drumming and a fine series of tremolo riffs that offer a melodic touch to the mid-tempo work with a frantic final half that makes this another fully enjoyable and standout track. Finale ‘Last Rites’ offers blistering drum-work and dynamic tremolo riffing with dynamic rhythms bouncing from the frenzied up-tempo blasts through the more melodic tremolo patterns through the sprawling, droning paces with a dynamic mid-tempo crunch giving way to the extended fade-out final half for an exciting conclusion to this. It’s really only the fact that, being so short it desperately leaves the listener wanting even more that lowers this somewhat. (Don Anelli)

(Cimmerian Shade Recordings - 2015)
Score: 85

lunedì 21 dicembre 2015

Poseidon – Octavius

#PER CHI AMA: Symphonic/Cinematic/Progressive, Arcturus
La band russa di Stravropol, dopo aver pubblicato nel 2014 'Infinity' per Argonauta Records, è tornata in pista, nell'estate del 2015, con questo lungo singolo di quasi dieci minuti, qui proposto in doppio formato composto da una lunga suite cantata e a seguire lo stesso brano in veste strumentale. Devo ammettere che mai riferimento ad un genere fu più azzeccato di quello che gli stessi autori si sono affibbiati, ossia 'cinematic metal'. Il brano è straordinario, carico di suggestioni sonore vicinissime alle colonne sonore, preferibilmente epiche, classicheggianti e sinfoniche, oserei quasi dire perfette sotto ogni profilo. Pur mantenendo una forma molto metal, il suono acquista sfaccettature progressive e moderne con una qualità sonora veramente degna di un colossal, suonato divinamente e concepito per stupire, aiutato poi da un'ottima produzione. Nella versione cantata, la performance vocale fa la differenza, solcando le orme di un death metal sinfonico, in cui il canto dona ulteriore epicità al brano, e l'interpretazione a più voci risulta veramente indovinata e di alta qualità. Nulla è fuori posto, è tutto esageratamente completo e stilisticamente perfetto, cori, synth, tastiere e chitarre dal divino, classico gusto progressivo, una sezione ritmica impeccabile, compatta e peculiare, precisissima, effetto cinematografico ed un modo di intendere il metal senza singoli sfarzi musicali ma una coralità invidiabile, una compattezza adorabile, un'ottima attitudine al suono d'insieme, ideale per raggiungere l'intento sonoro della band, ovvero, un maestoso e potente metal progressivo dal sapore fortemente cinematico. Dieci minuti di intenso piacere, da ascoltare interamente senza riserve. Ottimo lavoro, ora attendiamo il full length! (Bob Stoner)

(Crowford Records - 2015)
Voto: 80

Interview with Windfaerer

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