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sabato 6 luglio 2013

The Moth Gatherer – A Bright Celestial Light

#PER CHI AMA: Post Metal/Psichedelia, Yakuza, Neurosis, Cult of Luna
La Agonia record ci ha abituato ad un livello di qualità molto elevato delle sue uscite, variegate e dinamiche, fantasiose e sempre interessanti. La storia non cambia di molto, ascoltando questa band svedese formata dai due musicisti Victor Wegeborn e Alex Stjerlnfeldt. Nati nel 2009, nell'anno a seguire sfornano questo gioiellino dal titolo molto evocativo e dalle sonorità variegate, cristalline e potenti con sfumature nel post rock, quando il campo d'azione è la psichedelia e il post metal/avantgarde/sperimentale, quando si tratta di appesantire e ingrossare il sound. Un miscuglio di emozioni alternate a meraviglia che fonde il sound dei Cult of Luna con i The Ocean più sperimentali, l'avanguardia dei Yakuza senza il sax, il duro impatto dei Tombs e la rarefazione atmosferica dei Red Sparowes. Tutto ruota alla perfezione e ci si nutre di atmosfere estranianti, sognanti ed allo stesso tempo soffocanti, tristemente evocative e pesanti come macigni di ultima scuola Fen. Anche i brani con aperture più veloci godono di egregia genialità e fantasia come l'inizio elettronico di "A Road of Gravel and Skull" che inganna per un attimo l'ascoltatore con un intro che ricorda vagamente l'uso dell'elettronica degli ultimi Bring me the Horizon ma solo per un attimo, perchè il brano poi esplode in una arcigna violenta oscurità che a metà strada, alterna una sospensione sul filo dell'industrial e riparte con un'apertura sludge/ heavy psych/post che ricorda i capisaldi del genere Sleep o certi High on Fire. La voce è potente e malata senza sbavature e perfettamente integrata nel sound, nel lunghissimo secondo brano dal titolo "Intervention" (il nostro preferito), che mostra anche evoluzioni stilistiche sul versante pulito con una esecuzione sgraziata e drammaticamente tesa che potrebbe aprire nuovi orizzonti per il futuro. Il cd mostra suoni di ottima fattura, una bella produzione e si fa notare veramente per un carattere ferreo da accostare a band come Neurosis e Isis. La band ha le idee chiare e stile da vendere, non clona nessun'altra band e fa esplodere la sua originalità in tutte le composizioni sempre di lunga durata, impregnate nel genere e tanto sofisticate. Il brano "The Womb, the Woe, the Woman" tocca vertici altissimi dal sapore gotico, pachidermico e ancestrale, una mistura splendida e policromatica, dieci minuti circa di viaggio musicale dove si toccano lidi impensabili di soffice e lunare psichedelia che a tratti ricordano, seppur in una veste più marcatamente rock, i migliori e notturni Bark Psichosys (quelli del mitico album "Hex" del 1994), per poi scatenarsi in un vortice metallico deflagrante e potentissimo. Alla fine ci rendiamo conto di essere di fronte ad un album dalle caratteristiche straordinarie e ricercatissime e possiamo solo sperare e augurarci che questa band riesca ad espugnare l'olimpo dell' alternative metal internazionale in tempi ridottissimi. Di album così ne abbiamo proprio bisogno! Questa band merita davvero un vasto pubblico! Un album da avere assolutamente!!! (Bob Stoner)

(Agonia Records)
Voto: 80

Izah & Fire Walk With Us - Split EP

#PER CHI AMA: Post Metal, Neurosis
Devo ammettere di sapere ben poco delle due realtà recensite oggi, se non la loro origine, l'Olanda, paese di cui non ricordo però tutta questa tradizione post-metal. Comunque sia, lo split di Izah e Fire Walk with Me, mi da spunto per valutare due interessanti realtà provenienti dalla terra d’Orange. Nella loro song d’apertura, “Antagonized”, gli Izah ci presentano un pezzo che vive di sussulti post-metal alternati a visioni ambient apocalittiche. Ovviamente influenzati dai maestri di sempre, i Neurosis, la band di Tilburg mostra negli undici minuti a propria disposizione, grosse influenze anche di scuola svedese, Cult of Luna. I suoni sono melodici ma di forte impatto, con belle sfuriate death che sopravanzano più sinuosi break strumentali o altri ben più meditativi, con il vocalist Sierk Entius, che si mostra abile sia nella sua veste growl che in quella clean. Con i Fire Walk with Me rimaniamo sempre impastati nei territori melmosi del post/sludge strumentale, anche se il sound della band di Amsterdam risulta meno atmosferico e più crudo di quello dei colleghi, pur essendo meno violento. “Ascent” nel suo avanzare è permeato anche da una certa influenza stoner oltre che dal forte sapore post-rock; un unico appunto è relativo al suono troppo plastificato della batteria, da rivedere. “Bygones” parte invece più criptica, con l’apertura affidata ad un estratto parlato di non so che, che rompe la monotonia dell'assenza di vocals. La musica fluisce poi malinconica e robusta, lungo i suoi sette minuti. E mi ritrovo già alla fine, dopo essermi gustato questo breve split EP, che ha posto principalmente la mia attenzione sugli Izah, band dalle ottime potenzialità future. Da monitorare. (Francesco Scarci)

The Pit Tips

Bob Stoner

The Dillinger Escape Plan - One of Us Is the Killer
Fen - Dustwalker
Sopor Aeternus & The Ensemble of Shadows - Les Fleurs du Mal
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Francesco “Franz” Scarci

Dark Tranquillity - Construct
Aborym - Dirty
Progenie Terrestre Pura - U.M.A.
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Mauro Catena

Shannon Wright - In Film Sound
Arbouretum - Coming Out of the Fog
Dumbsaint - Something That You Feel Will Find Its Own Form
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Samantha Pigozzo

Paradise Lost - Icon
Guano Apes - Walking on a Thin Line
My Dying Bride - Trinity
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Michele “Mik” Montanari

Atoms for Peace - Amok
Black Sabbath - 13
Queens of the Stone Age - Like Clockwork
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Stefano Torregrossa

Black Sabbath - 13
Alice In Chains - The Devil Put Dinosaurs Here
Gojira - L'Enfant Sauvage
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Kent

Enslaved - Below the Lights
Candlemass - Epicus Doomicus Metallicus
Autopsy - Mental Funeral

giovedì 27 giugno 2013

Ancients - Constellation

#PER CHI AMA: Post Rock, *Shels
Vestitevi la pelle di luce. Spogliatevi la pelle al buio. Camminate con me, lentamente, tra questi suoni che possono essere ambivalenti. Essere ricercato sottofondo ad una vostra serata, una di quelle serate con "la musica giusta". Oppure, se ascoltati in solitudine, essere una compagnia accattivante ed inaspettata. "Constellation". Vi invito a fissare la copertina dell'album prima dell'ascolto. Vedrete una galassia immobile percorsa da miriadi di stelle. Ora liberate la musica. Incontrerete suoni mastodontici e poi frammentati, e capillari, e luccicanti, e profumati, infine rilucenti come diamanti grezzi trafitti dal sole, eppure al contempo ripetuti come ombre sovrapposte nella notte. Al primo brano ne segue solamente un secondo scomposto, "Stella Nova", che ci offre due versioni, entrambe da ascoltare. Rimaniamo nell'etere astronomico, che dipana i propri suoni come sospiri alla fine d'una battaglia che rende salvi. Aspettatevi sonoritá modulate sulla luce di un'alba che consola una notte nostalgica di passione che non tornerá. Il mio invito per questo brano, é l'ascolto nella versione acustica. Gli Ancient con questo album ci servono su un piatto argenteo la congiunzione tra cielo e terra, luce e buio, pace e nostalgia. Armatevi di un buon impianto stereo e se siete alla ricerca della quint'essenza dell'anima, respirate lentamente ed ascoltate. (Silvia Comencini)

Deuil - Acceptance / Rebuild

#PER CHI AMA: Blackgaze/Drone, Altar of Plagues
Una busta enigmatica su cui si staglia una corona di spine; all'interno un minimalistico booklet di due pagine, nere. E un cd. Le sue sembianze sembrano quelle di un 45 giri degli anni '70. Due pezzi, "Acceptance" e "Rebuild", che danno appunto il titolo a questo EP di 30 minuti di black oscuro, disperato e malato, partorito dalle menti del trio belga dei Deuil. La musica infine: si presenta ritualistica fin dai primi canti e accordi della prima lunghissima traccia. Palesemente sporcata di influssi drone e sludge, il suo incedere si presenta marziale, mefitico e melmoso, la giusta colonna sonora per un funerale, si il mio. Angosciante. Altre parole non sono spendibili per dare la giusta descrizione del feeling asfissiante emanato da questi due pezzi. "Acceptance" è davvero dura da digerire: il sound mortifero preme forte sul mio sterno, penetrandomi nell'anima, insinuandomi un cosi forte stato di malessere ed insicurezza, da indurmi a prendere una pausa dopo i suoi primi otto cupi minuti di lacerante e desolante disperazione. Il riverbero ridondante delle sue onde, penetrano nella mia mente, la destabilizzano, ma vengo inaspettatamente soverchiato dal feroce parossismo delle sue chitarre che ne squarciano e dilatano il suono, con le gracchianti vocals di Renaud a vomitare l'odio verso l'umanità. Il risultato è apprezzabilissimo, con il mood dei nostri tipicamente marciscente, quasi fetido e asfittico. Un senso di paura crescente pervade i miei sensi, le chitarre sono sature quasi ipertrofiche, anche quando rallentano vertiginosamente, e sembrano voler presagire la classica "quiete prima della tempesta", che tuttavia tarda ad arrivare, perché nel frattempo sono già entrato nell'ascolto dei dieci minuti di "Rebuild". Altra song che si apre con canti ritualistici, un po' il trademark dei nostri. E la musica ricalca quella della traccia d'apertura: un blackgaze plumbeo, la colonna sonora di un inutile giorno di novembre, in cui la pioggia sbatte fastidiosa contro le finestre e io resto a scrutare l'infinito, sommerso dai miei pensieri negativi. Funerei! (Francesco Scarci)

King Bong - Space Shanties

#PER CHI AMA: Instrumental Psychedelic Space Rock, Stoner
Bel trip, quello messo in piedi dai King Bong (nome che non lascia dubbi sull’ispirazione “psichedelica” della loro musica) nell’arco di sei pezzi strumentali, durata media dieci minuti, che compongono questo loro terzo lavoro. Brani lunghi e stratificati, questi “canti dello spazio”, che a volte si basano sulla reiterazione di un’idea, poi espansa e dilatata a dovere, e altrove mostrano una costruzione più meditata e complessa, laddove invece il precedente “Alice in Stonerland” era totalmente improvvisato sul momento. I King Bong (un classico trio chitarra-basso-batteria) hanno inciso il disco dal vivo in studio, senza sovraincisioni, come si apprende dalle note del cd, e questo depone decisamente a loro favore, oltre a donare al lavoro un feeling particolare, che valorizza l’interplay dei musicisti, e un suono più caldo e “rusty”. Non rimane che chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dall’incedere sinuoso di “Even 50 Feet Hamsters Have Feelings”, affascinante ibrido di post rock meditabondo, doom e psichedelia. La successiva “Of Bong and Man” sembra incanalarsi verso binari più classicamente stoner, salvo poi deviare senza preavviso verso atmosfere dilatate e quasi jazzy (da sottolineare il bel lavoro della chitarra). Si continua tra valli ariose e tranquille, improvvisamente spazzate da venti furiosi (“Kilooloogung”), foreste abitate da presenze sinistre (la jam psichedelico-sabbathiana “A.B. Ong”), fino ad arrivare alla conclusione del viaggio con l’allucinatoria e lovercraftiana (nel titolo quanto nelle atmosfere) “Cthulhu”, 12 minuti di crescendo potente, un buco nero che risucchia inesorabile qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Qualche personale perplessità solo su “Inhale On Main Street”, dove il maestoso maelstrom sonico che caratterizza la seconda parte del brano cozza con una prima parte quasi funk-rock che mi ha lasciato un po’ così, ma sono dettagli. In definitiva un ottimo lavoro, che lascia ancora ampi spazi di manovra e di crescita ad una formazione a cui manca davvero poco per fare il definitivo salto di qualità. (Mauro Catena)

(Moonlight Records, 2012)
Voto: 75

http://kingbong.bandcamp.com/

mercoledì 26 giugno 2013

Zgard - Astral Glow

#PER CHI AMA: Black Epic Avantgarde
"Astral Glow" è il nuovo album del duo ucraino Zgard, licenziato dall'etichetta doom russa Solitude Production nel 2013. Nel suo secondo full lenght, la band fa le cose in grande stile e sfodera una serie di brani convincenti e ben orchestrati con un'attitudine moderna e progressiva, psichedelica e oscura. L'artwork è molto bello e rimanda perfettamente al concetto sonoro degli Zgard con i suoi paesaggi interstellari mistici, i dolmen integrati in terre cosmiche e spirituali come se il risveglio della saggezza degli avi dalle antiche tombe pre indoeuropee fosse l'unica via per il futuro. A corredare il tutto un flauto emerge s tratti come un richiamo magico, un senso di astrazione sensoriale votata agli dei ed una energia più orientata al black e in altri momenti più al gothic a generare piacere estatico. Poche band riescono a creare un'intensità tale, mantenendola per tutti i settanta minuti del cd senza cadere in brani riempi pista. L'impostazione black metal assicura il tiro necessario per non abbassare mai la guardia, le tastiere e i numerosi effetti d'ambiente, ci conducono in mondi inesplorati e interstellari, la voce incupita e gutturale narra le sue storie con la forza di un leggendario guerriero su di un tappeto di chitarre che ricordano un capolavoro sconosciuto come "Futile" dei Rapture del 1999. Alla fine, quel flauto ancestrale che ricorda tanto i guerrieri irlandesi Cruachan di "Tuatha na Gael" ma inserito in un contesto più potente, violento e psichedelico, d'avanguardia e futurista, crea un perfetto ponte tra passato e futuro, tra folk di un tempo e il moderno black metal epico e pagano dei Wintersun. Quindi non fatevelo scappare e affrontate il viaggio! Ne vale la pena! (Bob Stoner)

(Solitude Productions)
Voto: 75

http://zgard.bandcamp.com/album/astral-glow

Deville - Hydra

#PER CHI AMA: Stoner, Queens of the Stone Age
Questo cd gira già da qualche giorno nella mia macchina, mi porta al lavoro, durante il week-end e via dicendo. Giuro, è difficile separarsene e ancora dopo un paio di settimane non mi molla. Questo è l'effetto Deville, simile ad una sindrome di Stendhal, ma meno garbata e più ruvida. I Deville sono quattro ragazzoni svedesi che calcano la scena stoner dal 2003 in dieci anni di attività e che hanno una sana dipendenza da live pesanti e furibondi. Anche l'attività in studio non è da meno, ma impallidisce di fronte al numero di concerti fatti in questi anni. Questo fa capire di che pasta sono fatti i Deville e come suonano. "Hydra" è fresco fresco di release e in undici pezzi vi catapulterà in quel mondo sabbioso e pieno di bassi che contraddistingue lo stoner. La peculiarità dei Deville è quella di aver dato una leggera sferzata di stile rispetto al classico stile svedese con l'aggiunta di sonorità più raffinate e uno studio ad hoc per la sezione arrangiamenti. Ma lasciamo perdere le chiacchiere e passiamo al sodo. "Lava" è la prima traccia ed è stata scelta a dovere perchè oltre ad essere la più orecchiabile, sicuramente è quella che incarna meglio il Deville-style. Ritmica a go go, riffoni grossi di chitarra con distorsioni meglio definite delle classiche da stoner e cambi di direzione che vi porteranno alla fine del brano in un baleno. Qua inizia la sindrome da dipendenza che vi porterà nella spirale del dover ascoltare il resto quanto prima. Poi è il momento di "The Knife" che apre con un bel basso distorto e una vaga influenza Queens of the Stone Age a livello melodico, questa però scompare immediatamente con il break che odora di post rock. Il trucco funziona alla grande perchè i riff che seguono sembrano ancora più cattivi. Ringraziamo il dio chitarra, inginocchiamoci tutti e adoriamo. Con "Over the Edge" si ritorna alle origine, grazie ad un bel giro melodico che fa molto hard rock-blues e permette di rispolverare il wah-wah e un solo di chitarra tra l'iper tecnico e il ruffiano. Breve, ma intenso, come il sesso consumato nel bagno di un polveroso bar nel bel mezzo del deserto. Chiudiamo con "Imperial", pezzo impegnato e tecnico per le diverse sfaccettature melodiche e sonore che in sei minuti abbondanti ci portano a spasso attraverso il mondo dei Deville. La ritmica è più cadenzata e lenta rispetto ai pezzi precedenti, ma siamo lontani anni luce dal doom. Il cantato è sempre all'altezza e riesce a staccarsi dalla melodia principale rendendo questa traccia e le altre sempre godibili. Devo dire che l'album è di pregevole fattura, ottimi suoni e gran lavoro di arrangiamento e mastering, difficile trovare difetti. Ora la palla passa a voi, nel frattempo "Hydra" rimarrà nel mio stereo per molte settimane ancora. (Michele Montanari)

(Small Stone Records)
Voto:90

http://smallstone.bandcamp.com/album/hydra

domenica 23 giugno 2013

Duobetic Homunculus - Ani Já Ani Ty Robit Něbudzeme, šedněme Do Koča, Vozit še Budzeme

#PER CHI AMA: Prog metal, Avantgarde, Iceburn, Atheist, Uz Jsme Doma
Un titolo allucinante e lunghissimo (peccato che non sappiamo tradurlo!) per un duo al limite della realtà. Non poteva capitarci di meglio da recensire ed era dai tempi dei Vampillia (recensiti sul Pozzo dei Dannati) che uno splendido, impazzito duo di musicisti scatenati, fantasiosi, incontenibili non ci capitava tra le mani. Nelle note di copertina della loro pagina bandcamp si spacciano per una coppia di semplici metallari ma a Wokis e Walis, che si dividono strumenti vari e programmazioni elettroniche, il metal in senso stretto non va proprio a genio. Questi due strepitosi musicisti della Repubblica Ceca si fregiano del tocco metal progressivo degli Atheist, passando per il 70's prog dei Kultivator ed Hatefield and the North con la verve delirante dei Boredoms e Alboth e gli estremismi dei Sigh! Tirati e veloci, tecnici e precisi, folli, a volte nevrotici, psichedelici ma sempre con la bussola ben direzionata, così a ruota appaiono il piano, e un numero non meglio precisato di strumenti di tutte le razze e idee sonore da manicomio sparse tra i complicati brani del cd. Ci sono rumori, discorsi rubati alle tv e campionamenti, folk della loro terra e cori di musica popolare, il cantato in lingua madre è nevrotico e riporta alla mente l'avant garde di Uz Jsme Doma e il miglior Rock in Opposition in salsa metal. Giochi musicali psichedelici che ricordano vagamente i Beatles in acido e una energica forma di neo progressive che si riallaccia solo ideologicamente all'ultimo Steven Wilson ma suonato come se i Voivod suonassero una cover della Disharmonic Orchestra pensando agli Iceburn. La bellissima artistica copertina è estasiante ed e profondamente in linea con la follia del disco creata ad arte da Lucie Třešňáková. Dire di più per spiegare questa raccolta di brani è impossibile, non resta altro che ascoltare per credere e aprire questa scatola delle meraviglie, schegge impazzite di progressive rock schizzoide e delirante. Grandiosi e geniali, un album da non perdere! (Bob Stoner)

Electric Taurus - Veneralia

#PER CHI AMA: Stoner Doom, Clutch, Led Zeppelin, Orange Goblin, Monster Magnet
C'è una sola cosa che rimpiango degli anni '70: che non avessero a disposizione le tecnologie moderne di registrazione e missaggio. Certo, il suono un po' distante e quasi per nulla on-your-face fa anche parte del fascino di quegli anni: ma è innegabile che per orecchie abituate alle produzioni e ai volumi di oggi, certi dischi di quarant'anni fa lascino l'amaro in bocca. Poi, per fortuna, arrivano gruppi come gli Electric Taurus, che ripescano a piene mani il meglio di Led Zeppelin, Grandfunk Railroad e Black Sabbath per miscelarli con un certo stoner doom di oggi (gli ultimi Clutch, ma anche Orange Goblin e Sleep): e il miracolo di ascoltare gli anni '70 con i suoni di oggi si avvera. C'è più heavy blues che doom, intendiamoci: la batteria è più spesso veloce che lenta, ma le chitarre sono violente al punto giusto e annegate nel fuzz, il basso (un po' troppo pulito, forse) fa il suo lavoro e la voce scivola ogni tanto nelle melodie hard-rock di vecchia scuola – ma in generale il mix che ne esce è di tutto rispetto. La componente settantiana emerge prepotente in certi brani ("New Moon", "Magic Eye", "Mountains"), ma c'è spazio anche per lo stoner di "Two Gods/Caput Algol" e per una lunga parentesi psichedelica (l'unica del brano) in "Mescalina/If/At The Edge of Earth". Stona invece "Prelude to the Madness", con parti doom uscite dall'inferno alternate un po' troppo forzatamente a schitarrate acustiche stile pezzi-peggiori-dei-Monster-Magnet. In definitiva un buon lavoro, quello degli Electric Taurus, peraltro confezionato in un packaging gradevolissimo con un'inquietante illustrazione di copertina. Se cercate l'originalità, qui non ce n'è molta. Ma se siete nostalgici dell'heavy blues dei tempi andati suonato con l'oscurità dello stoner doom di oggi, e se volete ascoltare un bel prodottino tutto italiano, questo disco fa per voi.(Stefano Torregrossa)

(Moonlight Records, 2012)
Voto: 65

http://electrictaurus.bandcamp.com/

Sixthminor - Wireframe

#PER CHI AMA: Industrial, Post-rock, Tortoise, OSI, 65DaysOfStatic
Diciamocela tutta: il post-rock sta cominciando a rompere i coglioni. C'è sempre la solita chitarrina col delay, le solite parti dilatate seguite da quelle più pesanti, al massimo qualcuno ci infila dentro una tastiera per fare ambient o un giro di basso appena più convincente. Poi esce roba come questo "Wireframe" dei Sixthminor (duo napoletano al debutto, ma ci sono voluti sei anni di lavoro) e, sorpresa sorpresa, riesco ancora a sorprendermi: e sorprendermi parecchio. C'è il post rock, certo, ma solo nella struttura dei brani e in generale nella costruzione dell'intero disco: tutto il resto è molto, molto di più di quello che siete abituati ad ascoltare. Nessun suono, anche se costruito con strumenti classici (chitarra, basso, batteria) resta tale: ogni nota, ogni suono, ogni battito e ogni arpeggio sono curati con perizia maniacale, filtrati attraverso strumenti digitali e miscelati con un'elettronica di rara intelligenza e pulizia. Le tracce ritmiche acustiche si fondono con le drum machine ("Blackwood"), le chitarre distorte emergono violente su labirinti di synth ("Etif"), il basso dubstep taglia tutte le frequenze prima di aprirsi su un segmento ambient di grande atmosfera. Ascoltate "Frozen", che salta da un estremo all'altro regalando melodia e spazialità anche quando viaggia su partiture ritmiche industrial. O "Hexagone", che sembra Skrillex che suona gli OSI che suonano i Ministry. L'impressione in effetti è che il disco si chiami "Wireframe" perché – proprio come i relativi modelli 3D permettono di guardare dentro e attraverso l'oggetto – i Sixthminor riescono, in qualche modo, a vedere dentro e soprattutto oltre un genere che sta per terminare le sue cartucce buone. Prendono il meglio del post-rock, lo frullano con l'elettronica del nuovo millennio e ne tirano fuori un lavoro originale e maturo. Consigliatissimo. (Stefano Torregrossa)

(Megaphone Records, 2013)
Voto: 75

http://www.sixthminor.com/

sabato 22 giugno 2013

Dumbsaint - Something That You Feel Will Find Its Own Form

#PER CHI AMA: Post Metal, Isis, Pelican, Tool
Uscita interessantissima per l’australiana Bird’s Records, ormai una certezza in ambito post, quest’esordio su cd del trio (oggi quartetto, infatti sul finire dello scorso anno si è aggiunto un secondo chitarrista) di Sydney, dedito ad un post metal (strumentale) cinematico ed estremamente affascinante. I Dumbsaint nascono nel 2009, e la loro peculiarità sta nel fatto che le loro esibizioni live sono caratterizzate dalla proiezione di filmati appositamente realizzati per fondersi al meglio con la propria musica, quasi come in un’installazione artistica multisensoriale. La paura che le note, qui deprivate del loro naturale elemento completante, non siano in grado di reggersi in piedi da sole, viene presto spazzata via dall’ascolto di questo solidissimo lavoro, uno dei migliori che mi sia capitato di sentire in quest’ambito negli ultimi tempi. Vale comunque la pena di dare un’occhiata al “pacchetto completo” sul canale youtube della band (per esempio il folgorante singolo “Inwaking”), per godere appieno dell’esperienza così come era stata pensata all’origine dai propri autori. La prima volta che ho ascoltato questo disco l’ho fatto in maniera piuttosto distratta, mettendolo nel lettore mentre sbrigavo altre faccende, e mi sono sorpreso a mollare quello che stavo facendo per seguire con attenzione quello che usciva dalle casse dello stereo, completamente rapito dalla complessità, la stratificazione, la potenza degli intrecci ritmici e armonici dei tre australiani. Una musica di questo tipo richiede assoluta perizia strumentale, e sotto questo profilo i Dumbsaint sono davvero bravi, in particolare mi preme sottolineare la prestazione “monstre” del batterista Nick Andrews, responsabile della varietà di ritmi e strutture che si susseguono senza sosta lungo tutto l’arco del disco. Stratificazione, si diceva: il post metal dei Dumbsaint sembra funzionare a più livelli di coscienza, e riuscire sempre a trovare la strada per scardinare le nostre gabbie e i nostri scudi, e farsi strada prepotentemente con i suoi crescendo, le sue strutture irregolari ma sempre perfettamente - quasi matematicamente – compiute, la sua potenza, non viscerale ma controllata senza che questo suoni come un difetto, tenuta a bada e poi liberata improvvisamente. I rimandi a band più blasonate quali Isis e Pelican non mancano, ma quello che fanno i Dumbsaint è qualcosa di ancora diverso e persino più ardito. In più di un passaggio sembra di ascoltare i Tool di Lateralus orfani dei magnetici vocalizzi di Maynard James Keenan, senza tuttavia che la sua assenza si faccia sentire più di tanto. Non so per voi, ma per me questo è un grosso complimento. (Mauro Catena)

Ulver - Shadows of the Sun

#PER CHI AMA: Ambient
Ombre, ombre che esistono solo perché esiste il sole. Preparatevi a questo album come ci si prepara al sentore di più dimensioni spazio temporali, che fanno convergere e spaccare il senso dell’esistere. Gli Ulver non ci lasciano a digiuno del loro essere musica e del loro essere anima, ma non pensate a questo album come ad un sottofondo che vi asseconda nelle vostre riflessioni più recondite, piuttosto fate rimboccare le maniche alla vostra coscienza e corazzate la vostra anima perché questo viaggio vi porterà allo stremo delle sensazioni. Partiamo con lo stesso random in cui l’ascolto trova il suo turbine vivo di arterie pulsanti e timpani tesi. "Let the Children Go" è un soffio tra le foglie d’autunno nostalgico e ripetuto. Voci dal coro che soggiacciono alle ritmiche imperanti. Convergono voci e suoni. Caos calmo. La voce in un acuto richiama senza indurre. Tinnuoli che si trasformano in effetti ritmici. La voce tace. Il brano chiude, ma non termina ancora. La vocalità si fa cavernosa e gli Ulver, con il loro magnetismo vi rapiscono per farvi ritrovare nel loro universo dualistico di luce e di buio sino al tocco finale di questo brano, che stride con il prologo delicato. "Solitude". Si. Solitudine. Si. Sangue e respiri lenti. Si. Perdere e trovare. Trovare empatie ataviche. Perdere il senno. Si lasciarsi condurre sino alle soglie della follia. Se vi sentite malinconici, ascoltate, ma a vostro rischio. Consolazione è l’empatia lenta come una tortuta che cammina tra le pendici scoscese delle vostre paure. "Funebrae" ossia scosse torbide sferzano le pareti del ghiaccio che imprigiona i pensieri. Lenta la musica. Più lenta della musica la voce, eppure il cantato incide scritte indelebili nelle note strumentali. Abbiate coraggio. "Funebrae" vi iptonizzerà. In "What happened?" non fermatevi all’intro che vi spiazzerà. Le distorsioni strumentali si confondono con la voce cavernosa e volutamente inquitante. Forse infernale. Passate oltre. Vi aspetta il purgatorio. Per un attimo "Eos", vi fa tornare il sereno. Ecco il vostro purgatorio. Non mi chiedete il paradiso. Gli Ulver non si muovono mai con tratti angelici. Mentre ascoltate abbassate le palpebre. Godetevi questo brano nelle sue sfumature che odorano di nebbia notturna, d’asfalto bagnato, di pensieri dimenticati, di vento. "All the Love": avvicinatevi. Ci faremo guidare dallo scampanellio che distingue il tempo del brano. La ritmica ci porta al di fuori delle tracce precedenti. Eppure anche questo brano è figlio di padre certo poiché scandisce il tempo con cui il cuore batte e rammenta al sangue la sua appartenenza. "Like Music" celebra il pianoforte, come a sottrarsi dalle precedenti ritmiche strumentali. La voce invece non si sottrae e richiama a gran voce sussurrata volontà e bisogni sino a sfumare sino a cambiare registro sino a chiedersi essa stessa “perché strido perché non mi ascolti perché non ti perdi tra i miei inganni sonori?” "Vigil". Polvere di ferro. Mettevi occhiali protettivi e già che ci siete copritevi bene la pelle perché questo brano è glaciale. I sussurri della voce si confondono con le onde sonore. Poco importano gli strumenti che suonano. L’effetto è acuto e distorto. L’impatto è vertiginoso e stridente. Chiudiamo con il brano che da il nome all’album. E chi se lo aspettava? Nemmeno io che gli Ulver li ascolto come si ascolta un suono che parla più delle parole. Questo brano si discosta e riassume lo stile Ulver. Eppure fa pensare al mare al tramonto. A pareti bianche ribattute dal sole all’alba. A sensazioni che dentro una caverna buia non possono esistere. Ecco come si chiude il cerchio del dualismo di cui vi ho anticipato. Un percorso. Un epilogo. (Silvia Comencini)

(Jester Records)
Voto: 80

http://ulver.bandcamp.com/

Veracrash - My Brother the Godhead

#PER CHI AMA: Stoner, Electric Wizard
Certo che fare stoner in Italia ed avere come produttore un ragazzotto svedese che all'anagrafe fa Niklas Kallgren (Truckfighters), scatenerebbe una bella frenesia anche nel sottoscritto. I milanesi Veracrash sono attivi da quasi un decennio e dimostrano la loro maturità artistica con questo secondo lavoro che vede collaborazioni eccellenti come Dave (Zippo) e Oscar Johansson (Witchcraft). Il loro sound è primitivo e ruvido, senza fronzoli inutili che punta tutto sull'impatto emotivo e viscerale dell'ascoltatore che si deve barcamenare tra chitarre grossissime e ritmica martellante. Le influenze dei big del deserto si sentono, dagli Electric Wizard per quanto riguarda la voce (anche se i Veracrash non disdegnano il growl in rare occasioni), ai gruppi svedesi degli ultimi anni. Dopotutto la scuola stoner non ha subito grosse contaminazioni, almeno sino ad ora. "Lucy, Lucifer" è un pezzo grezzo, lento che perfora i timpani a colpi di doom ad accordature tremendamente basse. La voce ricorda il grande Ozzy, mentre gli arrangiamenti sono abbastanza elementari. Okay fare un pezzo minimal, ma non esageriamo. La seconda traccia è già più nelle mie corde, veloce e con dei bei riff di chitarra, forse non eccelle in originalità, ma sicuramente è un pezzo godibilissimo che piace anche a chi non ama particolarmente lo stoner in genere. Cercatevi il video su Youtube, una piccola chicca di editing con il solo utilizzo di girati presi qua e la nell'etere. Con "Remote Killing" iniziamo a fare sul serio, nel senso che la complessità del pezzo è maggiore, addirittura i Veracrash si lanciano in assoli e cambi di ritmica. Peccato che l'esperimento duri appena due minuti e mezzo. Chiudiamo la recensione con l'untitled, il pezzo meno stoner in assoluto che sfrutta le sonorità ambient per chiudere l'album e lasciare l'ascoltatore un pò confuso. Genericamente non mi sono mai dispiaciuti i gruppi che sperimentano e propongono diversi scenari all'interno di uno stesso album, ma i Veracrash sembrano che stiano ancora cercando la loro identità musicale. Due album in otto anni di attività dicono tutto e niente su quello che il gruppo si è lasciato alle spalle e quello che invece ha tenuto, quindi ascoltateli e poi fatevi un'opinione. (Michele Montanari)

Green Carnation - Light of Day, Day of Darkness

#PER CHI AMA: Avantgarde, Progressive Rock
Lo ammetto, si tratta di una recensione difficile. Di album costruiti su un’unica, enorme canzone ne esistono una nutrita schiera nel mondo musicale heavy e metal in generale, e questo disco appartiene a tale categoria: una metal-suite senza soluzioni di continuità, un groviglio di note che va ad occupare un’ora piena del tempo di chi l’ascolta. Allora cos’ha questo disco di cosi particolare? Difficile da comprendere al primo ascolto, e pure al secondo e forse anche al terzo. Può aiutare nella fruizione il capire prima l’autore, tale Tchort, un musicista del tutto particolare: collaborazioni con diversi gruppi poderosi (... In The Woods ed Emperor su tutti), eccletismo, scelte compositive che spiazzano e spaziano tra generi svariati quali progressive rock – doom - spunti epic/folk e schegge di psichedelia – death - echi black, oggi spesso accomunati, ma che forse nel 2001 ancora viaggiavano su binari raramente così intrecciati... e personalità, molta, moltissima. Ulteriore tratto, mandatorio per trovare la chiave di volta dell’opera, la tragedia di aver perso un figlio ed la gioia di poterne cullare un altro. Perché questo è successo al Nostro e questo viene cantato, urlato, sviscerato nei 60 minuti contenuti nel platter. Ed ecco che seguire musica e parole diventa imprescindibile, un tutt’uno, un organismo in equilibrio solo se non smembrato nelle sue componenti. Non aspettatevi nulla di quanto i succitati generi, presi singolarmente, siano soliti offrire: toni vocali caldi ed un uso del growl limitatissimo (Kjetil Nordhus - ... In The Woods), sonorità praticamente perfette, nessuna distorsione fuori posto, il tutto a far da base per due cori (uno lirico e uno di voci bianche) e un esercito di guest e strumenti aggiuntivi. È necessario immaginare un unicum, l’unione di tutto, ma smussato delle componenti più estreme per lasciare spazio ad un lavoro ben levigato, liscio, che scivola, penetra dentro la mente, insinuandosi in profondità senza preavviso, in modo delicato ma violento. Arriverà così il momento in cui l’intera opera si svelerà nella sua pienezza, paralizzando per più di qualche istante il nostro sistema nervoso e pretendendo attenzione e rispetto. Un’opera, due metà, musica e parole, un prima e un dopo, simbolicamente separati ed uniti dalla straziante voce/lamento di Synne “Soprana” Larsen (... In The Woods). Lavoro grandioso, per chi scrive forse al limite del capolavoro, mai più superato dall’autore nei successivi parti compositivi, invero migrati su differenti coordinate musicali. Pretendere di descrivere una tale opera in poche righe risulta una pura presunzione, ma ci si augura ugualmente di aver aperto almeno un piccolo spiraglio per far si che questo disco, probabilmente sottovalutato al momento dell’uscita, possa essere (ri-)scoperto, compreso e doverosamente ammirato. (Filippo “Pippo” Zanotti)