BACK IN TIME:
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#PER CHI AMA: Post-metal/Post-rock/Drone/Ambient/Shoegaze |
Quando mi chiedono quali gruppi rimpiango di non aver visto dal vivo, il mio pensiero non va a mostri sacri ormai scomparsi da tempo: non che non pagherei cifre folli per un fantascientifico viaggio nel tempo che mi permetta di assistere ad un’esibizione dei Joy Division, ma trovo più frustrante essermi perso band andate recentemente incontro a silenziose uscite di scena dopo una carriera lontano dalle luci della ribalta e che, tuttavia, ritengo altrettanto fondamentali. Ecco perché io risponderei: Breach, Botch e soprattutto Vanessa Van Basten.
Il progetto nato dalla mente del guru Morgan Bellini, poi affiancato dal bassista Stefano Parodi (e, in alcuni episodi e in sede -dei rari- live, dal batterista Roberto Della Rocca), si è esaurito nel 2015 dopo due full length e diverso materiale tra EP, raccolte e collaborazioni; tuttavia permane attorno ai Vanessa Van Basten quell’aura di mistero che li ha caratterizzati fin dal 2006, quando questa creatura dal nome enigmatico (da me inizialmente attribuito ad un’improbabile antenata olandese di Chelsea Wolfe) emerse dal vivace sottobosco musicale di Genova, città troppo spesso portata agli onori della cronaca solamente per ciclici disastri ambientali e sociali.
È proprio il senso di catastrofe in agguato, di inevitabilità, ma anche di una sorta di serenità nell’affrontare l’ignoto a caratterizzare il miscuglio di doom, psych-drone, noise e post-rock che è 'La Stanza di Swedenborg', seconda release dei nostri e loro manifesto artistico, un disco di straordinaria intensità e dalle mille sfumature che, a mio parere, domina la costellazione della musica underground nostrana e non. Uscito nel 2006, l’etichetta genovese Taxi Driver Records, in occasione dei dieci anni dalla pubblicazione, lo ha rimasterizzato e ristampato in versione vinile: quando l’ho scoperto sono corso ad ordinarlo (malgrado all’epoca non avessi ancora un giradischi!) ed ora eccomi ora qui a consumare la copia n° 266 delle 500 stampate.
“Si lasci andare, ma non completamente,
non completamente, deve restare nello stato intermedio
non vada in direzione della luce, non lasci La Stanza Di Swedenborg!”
Questo sussurra ad una moribonda la medium protagonista della miniserie di Lars Von Trier 'The Kingdom', unica componente vocale intellegibile del disco e prova dell’influenza di alcune pellicole di culto nel concepimento dei lavori della band genovese (ricordiamo le citazioni di Dune e Mulholland Drive nel primo EP). Noi obbediamo, rimaniamo paralizzati in questo luogo allo stesso tempo inquietante e affascinante, immersi nelle atmosfere sepolcrali evocate dai lugubri accordi di chitarra e storditi dagli improvvisi cataclismi sonici che portano la tensione all’estremo.
“È bello stare lì!”
La tilte-track, che con la successiva “Love” costituisce i sei minuti più disturbanti della storia della musica, è la perfetta fotografia dell’opera: un turbolento oceano di suoni, le cui correnti capricciose rappresentano la psiche umana costantemente in balia di angosce profonde e paure irrazionali. Ed ecco che in pezzi come “Dole”, “Floaters” e “Vanja”, l‘ascoltatore si ritrova impegnato in una navigazione impossibile, ora cullato dalle dolci maree di chitarra acustica e tastiere sognanti, ora sconvolto dai maelstrom generati dalle potenti distorsioni e dalla furia delle percussioni; tuttavia, per quanto la burrasca ci trascini alla deriva, le forze benevole che popolano La Stanza di Swedenborg intervengono a riportarci sulla giusta rotta con “Il Faro”, mentre il sole più radioso che sbuca tra le nuvole in “La Giornada De Oro” scaccia i fantasmi dell’inconscio e ci permette, sorretti dalle massicce linee di chitarra e basso, di approdare all’eroico epilogo di “Good Morning Vanessa Van Basten!”
Un po’ pittori romantici impegnati nel rappresentare sulla tela l’intero spettro delle emozioni umane alternando tenui sfumature a pennellate feroci, un po’ autori di colonne sonore per futuristici thriller psicologici, i Vanessa Van Basten non hanno ricevuto la meritata considerazione della critica, vuoi perché non di rado frettolosamente ridotti a mera controparte italiana degli Jesu, vuoi per l’atteggiamento discreto ed un’attività live messa ben presto nel cassetto. Eppure la loro discografia mostra un’incredibile capacità nello spingersi ben oltre il solco tracciato da Justin Broadrick e nel combinare le influenze più disparate: dalle melodie decadenti dei Dead Can Dance alle dissonanze angosciose dei Neurosis, dalla soffusa malinconia dei The Cure (memorabile lo stupendo album di cover di 'Disintegration') a criptiche sperimentazioni badalamentiane.
'La Stanza di Swedenborg' è un’opera multiforme e che fonde elementi contrastanti: tenebre e luce, paura e serenità, morte e resurrezione. Dopo centinaia di ascolti continua ad intrigarmi, come se dietro quelle colossali impalcature sonore, tra gli intermezzi acustici e gli arcani effetti ambient, si celasse una rivelazione che è possibile cogliere solo in parte, spingendoci ogni volta a continuare la ricerca. (Shadowsofthesun)