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mercoledì 15 gennaio 2020

The Lu Silver String Band - Rock' n' Roll is Here to Stay

#PER CHI AMA: Rock'n'Roll, Status Quo
Il nuovo album della The Lu Silver String Band mantiene le promesse consegnando al mondo una manciata di brani incandescenti, suonati con passione ed esperienza, per una lunga carrellata nel mondo del rock, condito di soul e blues al fulmicotone. Niente fronzoli ma puro rock'n'roll d'altri tempi che attinge a piene mani dai classici suoni di Rolling Stones, Flamin' Groovies, Faces, Tom Petty e Status Quo, per regalarci un gioiellino super divertente da ascoltare, che fila liscio e punta adrenalinico al nostro lato più selvaggio e ribelle. Dieci brani suonati perfettamente e prodotti in maniera esemplare, ridanno vita ad un'epoca speciale, tra polvere di strada, pub, saloon, auto americane, moto e vita spericolata. Con due cover ad effetto di Small Jacket ("No More Time") e Stevie Wright ("Hard Road"), 'Rock' n' Roll is Here to Stay' ha poi da offrire un piano e chitarre bollenti, una batteria dal suono fantastico e coretti sparsi qua e là alla maniera del southern rock, ballate e bruciante rock'n'roll. Lu Silver & Co. ritorna cosi a svegliare le anime assopite con il suo tocco di classic rock dalle forme perfette, piacevole all'ascolto, elettrizzante, mai pesante nè stantio, energico, come lo era 'The Southern Harmony and Musical Companion' dei micidiali The Black Crows all'epoca. Un album dai marcati riscontri temporali, che attinge alle memorie eterne del rock, tanto vintage e per nulla innovativo ma che fa esplodere una bomba sonora che funziona da decenni. Niente di nuovo ma tanto di buono, meraviglioso rock'n'roll, una miscela musicale che ci fa saltare dalla sedia, un intruglio sonico che con una sequenza di brani omogenea e coinvolgente, riesce a tenerci legati all'ascolto per l'intero disco. Splendida la ballata, "In a Broken Dream", con la voce di Lu a ritagliarsi un posto d'onore assoluto, per bellezza, calore e profondità profuse. Ascolto obbligato per gli amanti del rock con R maiuscola e la V maiuscola di vintage nel cuore. (Bob Stoner)

(GoDown Records - 2019)
Voto: 75

https://www.facebook.com/lusilverandstringband

martedì 14 gennaio 2020

Dimholt - Epistēmē

#PER CHI AMA: Black, Kriegsmaschine, Immortal
Formatisi a Burgas nel lontano 2003, i bulgari Dimholt tornano con la loro seconda release in 17 anni. Il sound del quintetto ripercorre i dettami del black death scandinavo, ove una linea melodica alquanto tagliente ma assai melodica, arma la matrice ritmica dei nostri. "Death Comes First" è la perfetta song d'apertura di questo 'Epistēmē', tre minuti di funamboliche ritmiche intessute in perfetto stile Immortal con voci demoniache che calzano qui a pennello. In "Into Darker Serenity", la proposta della band perde in violenza ma acquisisce galloni di malvagità con divagazioni esoteriche che rendono più interessante e personale la musica dei cinque, anche laddove si torna a colpire con una certa veemenza. Le atmosfere sono oscure, nere come la pece direi, ricordano forse un che dei Mgła e dei Kriegsmaschine, il che è bene, bilanciando alla perfezione brutalità e melodia. In fatto di brutalità, credo che "Sacrilege" si batta alla grande per rappresentare uno dei momenti più feroci del cd, con un'aggressione tiratissima e malefica tra ritmiche serrate e screaming belluine. Quello che all'inizio pensavo un cd di scarso interesse, mi sta facendo non troppo lentamente ricredere sulle eccelse qualità degli strumentisti di quest'oggi. Ancora suggestioni più lente e decadenti con "The Martyr's Congregation", quasi a voler alternare pezzi incandescenti stracolmi di blast beat con altri mid-tempo più ragionati, malinconici e dal tocco quasi progressivo, con quella vena ritualistica sempre presente in sottofondo a sottolineare che i Dimholt non sono certo dei pivelli, soprattutto quando la band prova ad abbracciare sonorità più sghembe e disarmoniche che evocano un che di Satyricon, Enslaved e pure Ved Buens Ende. Si torna alla carica con "Nether", una polveriera in fatto di malignità, che ha il merito di sottolineare l'abilità dei Dimholt nel gestire con una certa disinvoltura i cambi di tempo, con rallentamenti repentini tra stoccate ritmiche e tirate di freno a mano. Un delicato arpeggio di chitarra apre "The Fall", ma ne rappresenta la classica quiete prima della tempesta sonora scatenata dall'entropica sezione ritmica che prosegue senza soluzione di continuità anche nella spregiudicata "The Hollow Men", dove lo screaming ferale del frontman diviene ancor più convincente. Nella speranza di non dover attendere un altro lustro per ascoltare qualcosa di nuovo dei Dimholt, vi invito a proseguire nell'ascolto delle rimanenti tracce. A rapporto mancano infatti "Scars of Seclusion", dai forti ammiccamenti alla Deathspell Omega, la corrosiva “Reliquae” (la song più lunga dell'album) e “Aletheia", tre marcescenti song che contribuiscono ad inferire il definitivo colpo di grazia all'ascoltatore con quel loro giusto mix tra black insano, spruzzatine prog e atmosfere infernali. Cercate un difetto a 'Epistēmē'? Io direi la mancanza di veri e propri assoli, ma il rischio sarebbe stato di avere tra le mani un disco bomba, ossia quello che auspico di ascoltare nella prossima release targata Dimholt. (Francesco Scarci)

Action & Tension & Space - Explosive Meditations

#PER CHI AMA: Psych Rock
Tre pezzi per quaranta minuti di musica strumentale, quella dei norvegesi Action & Tension & Space. Moniker particolare, ma anche la musica di questo 'Explosive Meditations' non scherza affatto in peculiarità. Lo dimostra subito l'opener "Peruvian Dream", libera ad abbandonarsi nella più pura improvvisazione tra un drumming tribale, tocchi di mellotron e organo, con una fumosa atmosfera da lounge bar, e a sguazzarci in mezzo troviamo delle sorprendenti chitarre rock che fluttuano nell'etere fantasioso di questi quattro musicisti che inglobano tra le proprie fila membri di Soft Ride, The Low Frequency In Stereo, Ape Club, Electric Eye e Lumen Drones. La loro militanza in queste realtà particolari si materializza in questo trittico di song altamente fulminate che ricordano i Pink Floyd più deliranti e sperimentali, ma anche le divagazioni frastornate e lisergiche dei The Doors. La band ci tiene a far sapere che il disco è stato registrato sull'isola di Karmöy durante una due giorni di pioggia pesante e burrasca che in un qualche modo deve aver influenzato gli umori del disco, conferendogli una maggiore dinamicità. E io non posso far altro che apprezzare e godermi i meditabondi impulsi sonici della band che si gioca la carta dell'onirino nella successiva e un po' strampalata "Mørke Skyer Over Sildabyen", fino ad arrivare alla conclusiva "Destroyer of All Worlds", gli ultimi venti minuti scarsi di una release senza alcun dubbio coraggiosa, che ha ancora modo di soggiogarci attraverso il sound cosmico, dronico, ambient, a tratti anche fumantino, di una band che vi invito caldamente ad assaporare in tutte le sue peculiari venature sonore che potrebbero evocare addirittura i Motorpsycho di un ventennio fa. Consigliatissimi. (Francesco Scarci)

domenica 12 gennaio 2020

The DogHunters – Splitter Phaser Naked

#PER CHI AMA: Indie/Psych Rock
Arriva da Colonia questo secondo album dei The DogHunters, ricco di spunti retrò e voglia di buona musica che sicuramente dai più verrà accolto con una certa diffidenza. Dico retrò perché mi piace pensare alla band tedesca come una riedizione del talento che fu di Lloyd Cole and the Commotions ai tempi di 'Rattlesnake' quando alla fine degli anni ‘80, la neo psichedelia si intrecciava al rock, al garage, al folk e alla new wave, costruendo favole sonore uniche, cadute ahimè nel dimenticatoio troppo in fretta. Questo paragone lo faccio per sottolineare che i The DogHunters sono un’entità anomala nel calderone psichedelico attuale, pescando a piene mani dal pop psichedelico, con una cantabilità fuori dal comune ed una costruzione musicale tanto classica quanto intuitiva ed efficace, figlia più delle correnti neo psych di fine anni ‘80-inizio ‘90, piuttosto che dagli originali anni ‘60 o ‘70. I nostri si portano appresso tracce dei primi The Charlatans e degli Happy Mondays, un che dei Kasabian in "Make it Happen (Love Ain’t in Vain)", quando la band calca un po' troppo la mano alla ricerca del brano radiofonico a tutti i costi, ma il suono migliora (sicuramente più concreto e più personale ora che nel loro primo full length) e prende spessore quando si rende più underground e garage, con spinte acide di un tempo che fu. Il lato più melodico e pop dei The (T4) si muove leggiadro tra un brano e l’altro fungendo da ottimo collante, ampliando e colorando il raggio d’azione del quintetto teutonico. Anche certi umori spettrali degli Shadows (e penso a "How do you Know?") si celano dietro il loro sound, conferendo una vena rock di tutto rispetto, pur non calcando mai il piede sull’acceleratore e sulle distorsioni, alla fine sempre ben controllate e lisergiche al punto giusto. La produzione non è esplosiva e pur essendo buona, ricorda assai i lavori ipnotici e allucinogeni della scuola garage rock, cosi sotterranei ed esoterici (tipo 'Easter Everywhere' dei The 13th Floor Elevators), rivisitati però con una vena più soft, moderata e per certi aspetti anche moderna. Sono 12 le canzoni contenute in 'Splitter Phaser Naked', mai troppo lunghe, sempre orecchiabili e ben suonate, e che guardano all’indie quanto al rock psichedelico. Non possiamo parlare di un disco originale ma certamente di un album ispirato, e di un suono in esso contenuto che non mostra segni d'innovazione ma che presenta una buona cura ed una ricerca di suoni ad effetto. La band comunque suona bene ed il matrimonio tra rock ed eleganza sonora è alla fine perfettamente riuscito anche grazie ad un vocalist dalla timbrica calda e liquefatta ed un sound avvolgente in tutte le scorrevoli song. Forse non tutti li apprezzeranno ma come i loro compatrioti Love Machine,  anche i The DogHunters sapranno soddisfare chi avrà il coraggio di avvicinarsi alla loro musica così intrisa di umori rock acidi, per un album tutto da scoprire! (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2019)
Voto: 73

https://www.facebook.com/thedoghunters/

Excelsior – O Horizon

#PER CHI AMA: Electro Pop
Non è facile identificare questo primo album degli Excelsior, progetto capitanato dalla musicista danese Anja Tietze Lahrmann (ex Ice Cream Cathedral), che in solitudine si affaccia al mondo musicale con un disco ricco di spunti intelligenti e rimandi al creato del pop più raffinato e ricercato. Non so, se come ho letto in rete, l'accostamento all'avanguardia pop elettronica sia proprio la più giusta definizione per la sua opera, di fatto, quello che si nota  nelle tracce di questo 'O Horizon' sono numerose rievocazioni dal passato, dai primi Eurytmics, ai Soft Cell, passando per le derive elettroniche dei Visage e la Danielle Dax di 'Pop-eyes'. Diversi i suoni sintetici qui contenuti con la musica che non emana mai particolare calore, suonando decisamente gelida. Al contrario, la voce dell'artista di Copenaghen, che per le liriche ha trovato ispirazione nella geotassonomia e nei bestiari medievali, si mostra sognante, malinconica ed intensa, sempre all'altezza della situazione. Dando uno sguardo ai brani, "In Silico" sembra uscita da una registrazione perduta della dimenticata Sade, mentre "White Arrow" si erge nella sua candida ed eterea introspezione, su di un tappeto sonoro fatto di note di un piano che potrebbe essere stato un tempo degli Alan Parsons Project (epoca 'A Dream Within a Dream"), in una scarna veste digitale, modernissima e senza ritmo. Tecnicamente si nota una continuità musicale verso lidi sempre più elettro-pop dalla metà del disco in poi: in "Wandering Womb" ad esempio si sfoderano ritmi cari al geniale David Byrne, con un tocco di glacialità tipica della musica elettronica del nord Europa. Nel finale ci si immerge poi in un'inaspettata, romantica e acustica ballata dai rintocchi pizzicati, dal sapore a metà strada tra folk e tramonti dell'America latina più intima. È comunque la bellissima voce di Anja a fare la differenza, penetrando l'ascoltatore e accompagnandolo alla scoperta della sua musica, facendo aumentare il peso di un disco che, nella mera valutazione musicale, sarebbe un po' povero per sostenersi da solo senza parte vocale. Nel complesso 'O Horizon' è un buon lavoro con una produzione più che ricercata e ben fatta, alcuni pregiati cenni di sperimentazione digitale conferiscono uno status di moderno pop astrale che si lascia ascoltare facilmente ma senza dare l'idea del banale. L'orecchiabilità sofisticata delle melodie poi e il richiamo a quei suoni cari alle synth wave band degli anni '80, conferiscono una raffinata qualità e omogeneità al disco, che non definirei del tutto originale ma sicuramente una singolare re-interpretazione in chiave moderna di certo pop sperimentale e di classe di quegli anni. (Bob Stoner)

(The Big Oil Recording Company - 2019)
Voto: 70

https://www.facebook.com/excelsiordk/

giovedì 9 gennaio 2020

Scratches - Rundown

#PER CHI AMA: Alternative/Post-rock
Questo disco e questi Scratches devono essere innalzati a furor di popolo e fatti scoprire ad un pubblico internazionale come una certezza di qualità e stile. Certo, non che le loro armi siano innovative, ma la commistione di elettronica e rock sulfureo mostrato su questo loro terzo lavoro intitolato 'Rundown', è impressionante, cosi come la voce di Sarah Maria è divina, ad un passo dai Portishead ed un altro dalla Nico più introspettiva, ad un soffio dalla sensualità malata di Milla Jovovich nella cover di "Satellite of Love" nella soundtrack di 'The Million Dollar Hotel', insomma un'interpretazione vocale di tutto rispetto. I brani sono avvolgenti, struggenti, storie di vita vissuta e ombre nella notte. L'opening track "Between" trafigge ogni cosa che le passi di fronte, "Sorry" travolge con il suo strano rock di mezzanotte con la voce di Sarah che guarda a Skin nelle note più basse. Elegante, acustica ed intima si muove "Virgin Tree", la veste nera e l'infinito soffio di "Ghost in the House" spaventano per drammatica bellezza, la ballata romantica di "Rundown", accompagnata in rete da un bel video con lo stesso inquietante protagonista del brano Between, rappresenta l'incubo ideale. E ancora come non sottolineare la cupa dreamwave di "Lie", la marcia funebre del blues rallentato di "Charon", che ci accompagna direttamente all'inferno delle emozioni con la sua cadenza quasi doom, senza tralasciare la lunga "Song to the Unborn", cosi orchestrale, compatta, definitiva, che coinvolge tutte le sfaccettature sonore della band, dal rock alla new wave, all'elettronica, con sentori di Ulan Bator, post-rock dei Bark Psychosis ed il trip hop come sfondo magico. Accompagnato da un'immagine di copertina assai bella e ricercata, perfetta come immagine per la band svizzera, 'Rundown' è il giusto epilogo di una trilogia di lavori di tutto rispetto, iniziata con il primo album nel 2015 e sfociata in questa piccola gemma di rock emotivo e notturno. Un obbligo d'ascolto per coloro che sono alla ricerca di musica alternativa di qualità, ecco a voi un piccolo gioiello introspettivo. (Bob Stoner)

(Czar Of Crickets - 2019)
Voto: 80

https://scratches1.bandcamp.com/releases

mercoledì 8 gennaio 2020

Arallu - En Olam

#PER CHI AMA: Black Mesopotamico, Melechesh
Non più di un anno fa abbiamo recensito su queste pagine 'Six', sesto album degli israeliani Arallu. Autunno 2019 e i nostri tornano con un nuovo lavoro, 'En Olam' ed il loro inconfondibile sound black thrash mesopotamico. Non si scherza davvero con la rabbia distruttiva di "The Center of the Unknown", incendiaria opening track che solo dopo una martoriante parte thrash metal, dà sfoggio a quel marchio di fabbrica che da sempre rende gli Arallu e poche altre band (Melechesh su tutte) come alfieri del Mesopotamic sound, ossia di quelle melodie mediorientali abbinate al black, che rendono la proposta dei nostri cosi originale ed esotica. La title track si palesa in questa veste già dalle prime note con un sound decisamente più ritmato quasi tribale, con quelle splendide melodie che immagino accompagnare il sinuoso movimento di deliziose danzatrici del ventre. E mentre la mia fantasia mi guida verso bellissime donne, ecco che a scuotermi dal mio stato onirico, ci pensano le aguzze chitarre del quintetto israeliano. La musicalità di quel mondo antico si manifesta anche nella successiva "Devil's Child", brano dalle ritmiche serrate e dalle voci acuminate che mostra un bel break centrale a rallentare una song sin qui assai infuocata. La chiusura è affidata poi all'incisivo coro che inneggia proprio al titolo del brano. Non c'è tempo di prendersi pause, visto che "Guard of She'ol" irrompe a gamba tesa nello scorrere impetuoso di questo 'En Olam', che vede peraltro qui l'utilizzo da parte del vocalist, di un cantato pulito, per un esperimento davvero azzeccato. Parte decisamente in sordina invece "Vortex of Emotions", con un titolo del genere mi sarei aspettato ben altro: ci vogliono ben quattro minuti infatti ai nostri per provare ad aumentare il numero di giri al motore, con scarso successo a dire il vero, per un capitolo non troppo ben riuscito. "Achrit Ha'Yamim" è il classico intermezzo strumentale che ci introduce a "Prophet's Path" che mi sa tanto diventerà la mia song preferita dell'album, di certo quella più varia per la sua natura multietnica, peccato solo duri poco più di tre minuti. Le cose sembrano tuttavia progredire con le canzoni finali: davvero buona "Unholy Stone", che non so per quale motivo, riesce a trasmettermi quella sensazione di tensione e disagio che avvertii la prima volta che mi trovai in piena città vecchia a Gerusalemme. Lo stesso dicasi per la successiva e suggestiva "Trial by Slaves" che completa un trittico di song davvero interessante. A chiudere, la magia di "Spells", un gran bel pezzo all'insegna di un sound orientaleggiante che chiude degnamente il settimo sigillo targato Arallu. (Francesco Scarci)


(Satanath Records/Exhumed Records - 2019)
Voto: 74

https://satanath.bandcamp.com/album/sat266-arallu-en-olam-2019

Gôr Mörgûl - Elohim

#PER CHI AMA: Black/Death, Morbid Angel, Anaal Nathrakh
I Gôr Mörgûl vanno subito al sodo, senza troppi arzigogolii. "I Begin" è infatti una super mazzata nei denti che funge da opener di questo 'Elohim', atto terzo della discografia della band sarda. Death/black ubriacante e centrifugante che si palesa sin dal primo secondo con ritmi infernali e qualche rallentamento di memoria Morbid Angeliana. L'effetto, per quanto shockante possa apparire, in un paio di minuti diventa tollerabile, addirittura piacevole quando il ritmo infuocato (sempre all'insegna del blast beat) trova ulteriori rallentamenti nell'incipit della title track. Guai però ad abbassare la guardia, visto che il quartetto nostrano riprende a torturare allegramente i propri strumenti tra velocità disumane, growling ferali e qualche sporadica atmosfera satanica. Per certi versi la proposta dei nostri mi ha ricordato gli esordi dei Necromass, quelli di 'Mysteria Mystica Zofiriana', anche se la band toscana mostrava un piglio decisamente più blackish mentre i Gôr Mörgûl hanno un taglio più brutal death americano. Comunque niente paura, qui c'è ben poco da rilassarsi visti i ritmi estenuanti a cui ci obbliga la band anche nelle successive "Portal to Underworld" e nella terremotante "Rising the War for Ashtoreth", e da qui sino alla fine, senza grosse variazioni al tema. E proprio qui sta forse la debolezza del disco, ossia in una eccessiva monoliticità di fondo quando forse una maggiore varietà nella proposta avrebbe strappato un consenso maggiore. Comunque se siete fan degli album sparati ai mille allora, tipo Anaal Nathrakh o Impaled Nazarene, i Gôr Mörgûl possono fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

Evadne - Dethroned of Our Souls

#PER CHI AMA: Death Doom, Draconian, Officium Triste
Tra le mie prime recensioni qui sul Pozzo, c'è quella degli Evadne relativa a 'The Shortest Way', secondo album per la band spagnola. Da quel lontano 2012, l'ensemble si è riaffacciato sulla scena solo con un EP ed un altro full length, datati rispettivamente 2014 e 2017, un po' pochino mi verrebbe da dire. Le idee devono poi iniziare a scarseggiare se il quintetto di Valencia se ne esce ora con una compilation dopo soli tre album. 'Dethroned of Our Souls' è appunto il titolo della raccolta che include peraltro una cover degli Officium Triste ("Like Atlas"), un paio di featuring ed una live session. Il disco apre con "Bleak Remembrance", song contenuta sia nell'EP 'Dethroned of Light' che nel loro demo d'esordio, che vede nella nuova versione la partecipazione di J.F. Fiar, leader dei Foscor. La proposta dei nostri non è affatto male se si considera che è un death doom estremamente melodico ed atmosferico che strizza l'occhiolino proprio agli Officium Triste o ad altre realtà tipo Draconian e When Nothing Remains, soprattutto quando nella seconda song, "Awaiting", fa la comparsa la delicata voce di Natalie Koskinen, cantante dei Shape of Despair che apporta quel tocco gotico sinfonico al lavoro. In "The Wanderer" (inclusa insieme ad "Awaiting" nell'EP) i toni si fanno più cupi a livello generale, ma non mancano i momenti acustici e onirici che rendono comunque l'aria soave ed eterea. È già tempo di "Like Atlas" che ripercorre quasi fedelmente l'originale degli olandesi volanti, con quell'incedere lento e drammatico. Si arriva a "Colossal" e francamente non comprendo la scelta di mettere una live session in un contesto completamente da studio, non credo volessero farci apprezzare la loro bravura dal vivo, soprattutto perchè con "Colossal" nel formato originale, avremo avuto sia l'EP che il demo completi in questa raccolta, ma a questo punto sorge un'altra domanda, ossia che necessità c'era di mettere le due versioni di "Bleak Remembrance" (lo si capirà solamente ascoltando le due versioni che sembrano totalmente differenti)? A parte queste stravaganti scelte strategico-musicali, il disco offre uno spaccato interessante su dei lavori che in realtà risultano facilmente reperibili sul web. Chissà pertanto quale mossa, per cosi dire commerciale, si celi dietro a quest'uscita, riesumare vecchi lavori, dire al mondo che la band è ancora viva e vegeta o che altro? A parte queste domande esistenziali, lasciatevi sedurre dal death doom degli Evadne, dopo tutto, sono una di quelle band che sa ancora far emozionare, anzi qui dimostrano che erano in grado di farlo già una quindicina di anni fa quando tra tastiere, violini e female vocals, potevano quasi essere ascritti tra i pionieri del genere, chissà semmai se sono ancora in grado di farlo oggi, eccolo l'ultimo dubbio ad assalirmi. (Francesco Scarci)

martedì 7 gennaio 2020

Vanessa Van Basten – La Stanza Di Swedenborg

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Post-metal/Post-rock/Drone/Ambient/Shoegaze
Quando mi chiedono quali gruppi rimpiango di non aver visto dal vivo, il mio pensiero non va a mostri sacri ormai scomparsi da tempo: non che non pagherei cifre folli per un fantascientifico viaggio nel tempo che mi permetta di assistere ad un’esibizione dei Joy Division, ma trovo più frustrante essermi perso band andate recentemente incontro a silenziose uscite di scena dopo una carriera lontano dalle luci della ribalta e che, tuttavia, ritengo altrettanto fondamentali. Ecco perché io risponderei: Breach, Botch e soprattutto Vanessa Van Basten.

Il progetto nato dalla mente del guru Morgan Bellini, poi affiancato dal bassista Stefano Parodi (e, in alcuni episodi e in sede -dei rari- live, dal batterista Roberto Della Rocca), si è esaurito nel 2015 dopo due full length e diverso materiale tra EP, raccolte e collaborazioni; tuttavia permane attorno ai Vanessa Van Basten quell’aura di mistero che li ha caratterizzati fin dal 2006, quando questa creatura dal nome enigmatico (da me inizialmente attribuito ad un’improbabile antenata olandese di Chelsea Wolfe) emerse dal vivace sottobosco musicale di Genova, città troppo spesso portata agli onori della cronaca solamente per ciclici disastri ambientali e sociali.

È proprio il senso di catastrofe in agguato, di inevitabilità, ma anche di una sorta di serenità nell’affrontare l’ignoto a caratterizzare il miscuglio di doom, psych-drone, noise e post-rock che è 'La Stanza di Swedenborg', seconda release dei nostri e loro manifesto artistico, un disco di straordinaria intensità e dalle mille sfumature che, a mio parere, domina la costellazione della musica underground nostrana e non. Uscito nel 2006, l’etichetta genovese Taxi Driver Records, in occasione dei dieci anni dalla pubblicazione, lo ha rimasterizzato e ristampato in versione vinile: quando l’ho scoperto sono corso ad ordinarlo (malgrado all’epoca non avessi ancora un giradischi!) ed ora eccomi ora qui a consumare la copia n° 266 delle 500 stampate.

“Si lasci andare, ma non completamente,
non completamente, deve restare nello stato intermedio
non vada in direzione della luce, non lasci La Stanza Di Swedenborg!”


Questo sussurra ad una moribonda la medium protagonista della miniserie di Lars Von Trier 'The Kingdom', unica componente vocale intellegibile del disco e prova dell’influenza di alcune pellicole di culto nel concepimento dei lavori della band genovese (ricordiamo le citazioni di Dune e Mulholland Drive nel primo EP). Noi obbediamo, rimaniamo paralizzati in questo luogo allo stesso tempo inquietante e affascinante, immersi nelle atmosfere sepolcrali evocate dai lugubri accordi di chitarra e storditi dagli improvvisi cataclismi sonici che portano la tensione all’estremo.

“È bello stare lì!”


La tilte-track, che con la successiva “Love” costituisce i sei minuti più disturbanti della storia della musica, è la perfetta fotografia dell’opera: un turbolento oceano di suoni, le cui correnti capricciose rappresentano la psiche umana costantemente in balia di angosce profonde e paure irrazionali. Ed ecco che in pezzi come “Dole”, “Floaters” e “Vanja”, l‘ascoltatore si ritrova impegnato in una navigazione impossibile, ora cullato dalle dolci maree di chitarra acustica e tastiere sognanti, ora sconvolto dai maelstrom generati dalle potenti distorsioni e dalla furia delle percussioni; tuttavia, per quanto la burrasca ci trascini alla deriva, le forze benevole che popolano La Stanza di Swedenborg intervengono a riportarci sulla giusta rotta con “Il Faro”, mentre il sole più radioso che sbuca tra le nuvole in “La Giornada De Oro” scaccia i fantasmi dell’inconscio e ci permette, sorretti dalle massicce linee di chitarra e basso, di approdare all’eroico epilogo di “Good Morning Vanessa Van Basten!”

Un po’ pittori romantici impegnati nel rappresentare sulla tela l’intero spettro delle emozioni umane alternando tenui sfumature a pennellate feroci, un po’ autori di colonne sonore per futuristici thriller psicologici, i Vanessa Van Basten non hanno ricevuto la meritata considerazione della critica, vuoi perché non di rado frettolosamente ridotti a mera controparte italiana degli Jesu, vuoi per l’atteggiamento discreto ed un’attività live messa ben presto nel cassetto. Eppure la loro discografia mostra un’incredibile capacità nello spingersi ben oltre il solco tracciato da Justin Broadrick e nel combinare le influenze più disparate: dalle melodie decadenti dei Dead Can Dance alle dissonanze angosciose dei Neurosis, dalla soffusa malinconia dei The Cure (memorabile lo stupendo album di cover di 'Disintegration') a criptiche sperimentazioni badalamentiane.

'La Stanza di Swedenborg' è un’opera multiforme e che fonde elementi contrastanti: tenebre e luce, paura e serenità, morte e resurrezione. Dopo centinaia di ascolti continua ad intrigarmi, come se dietro quelle colossali impalcature sonore, tra gli intermezzi acustici e gli arcani effetti ambient, si celasse una rivelazione che è possibile cogliere solo in parte, spingendoci ogni volta a continuare la ricerca. (Shadowsofthesun)

(EibonRecords/ColdCurrent/Radiotarab/Noisecult - 2006, Taxi Driver Records – 2015)
Voto: 95

https://taxidriverstore.bandcamp.com/album/la-stanza-di-swedenborg

Darktimes – Utter Coldness

#FOR FANS OF: Black Metal, Old Man's Child
I just recently discovered Slovakia natives Darktimes while surfing through YouTube. What struck me off the top was their brand of black metal was cold, grim, and loaded with atmosphere but it did not sound like it was recorded in an old tin can. In fact, the production on their sophomore effort, 'Utter Coldness', is quite clean and makes for a really nice listening experience. The band has only been around since 2013; they are completely self financed and release their albums independently so I was quite impressed with the professional recording job on the album. But what stood out was the songs. Yes, the songs are cold and grim but what we really have here is a well thought out album that has many layers to it.

After the brief intro, “Black Flame Prophet” ferociously bursts from your speakers. The song is the perfect album opener full of energy, brutality, and serious riffs. This band makes really good use of tremolo picking and their tremolo leads add that element of melody into the mix. The tempo is not all blasts but instead they mix it up to include a lot of traditional metal elements. The vocals are not a continuous high raspy shriek but more of a controlled deeper growl even going guttural at times. “Awakening – Towards the Perpetual Eclipse” is one of the best and most complex on the album. Starting out blasting and ferocious they throw in this cool tremolo lead riff that adds the melody slows it down a bit just to go right for the throat again. Once again, their use of the tremolos leads add that right atmosphere.

“Waters of Infinite Horizons” is one of those songs that adds that traditional metal tempo in the beginning only to flow into these melodic tremolos. This song is where the band kind of reminds me of Old Man’s Child in how they add the melodies in without losing the ferocious atmosphere created by the riffs. “Where Darkness Resides” is a little over seven and a half minutes of sheer black metal grimness. This song takes a more epic turn loaded with brutality, melody and atmosphere. The song slows a bit towards the end and actually makes for a somewhat awkward flow into, “Noci večnej chlad, ” which is a slower, more eerie sounding instrumental that closes the album out.

Nothing makes my metal heart happier than to discover great metal and my discovery of Darktimes is one of those moments. As the weather tuns cold and grim during the winter months, I love good black metal that can add to the atmosphere created by nature. 'Utter Coldness' is a welcome addition to my winter black metal playlist. (
The Elitist Metalhead)

Dead Hippies - Resister

#PER CHI AMA: Electro Rock/Noisy Dance
Il nuovo disco dei Dead Hippies è una buona release, curata e ben fatta, come tutte le loro produzioni ma, a dir il vero, un po' carente in fatto di novità. I brani intersecano strade già percorse da artisti come Gorillaz, Amaury Cambuzat con i sui seminali Ulan Bator, Chumbawamba laddove predomina una forte somiglianza nel canto del nuovo arrivato Dylan Bendall (in "Resister" appare addirittura il rapper americano Mr. Jason Medeiros), fino allo stile del funambolico John Lydon nell'album 'Psycho's Path', senza dimenticare l'hip hop e le cadenze punk alla Jello Biafra. Tutto questo è poi unito ad una sorta di tributo ai The Prodigy e alla techno dance degli anni '90, fondendosi ad una certa dose di dub alla Basement 5, neanche poi così interessante sotto il profilo artistico. Comunque, resta una buona prova, dove il rock assume mille venature, anche se manca il vero senso del rock, quello sbandierato "wall of sound" che non caratterizza granchè questo lavoro, tenuto in sordina da un qualcosa più di tendenza, quasi ad imitare in maniera più soft e meno hardcore, quel fenomeno americano che risponde al nome di Ho99o9, laddove l'elettronica abbraccia la spinta e il furore dell'hardcore in un'orgia di assalti frontali. Non siamo di fronte nemmeno al mito creato dagli Atari Teenage Riot ma la band francese non si è imposta di raggiungere quel tipo di vette, così mi sento di premiare la composizione che porta il nome di "Laugh in Sadness", vero e proprio gioiellino, un cupo e drammatico brano strumentale riuscito alla perfezione. Posto a metà del disco, il pezzo conquista la vetta e surclassa il ritmo in levare di "The Little Ones" che ricorda un mix tra Beastie Boys e Les Négresses Vertes, cantati da un Lydon in gran spolvero. Da questo punto la dance tende a prevalere nelle restanti canzoni, valida ma poco innovativa e senza idee di rottura, con le chitarre a far da contorno e con l'ombra dei Public Image Limited (strepitosa qui la somiglianza vocale!) sempre in agguato. L'ultima traccia, "Dramatic Control", ridà voce al disco, sperimentando un po' di più e lasciando correre le chitarre sulla scia di un poderoso elettro/kraut/post-rock molto sonico e spaziale, grazie all'utilizzo di filtri vocali in stile Kraftwerk. Un melting pot di suoni quello dei Dead Hippies, musiche e ricordi musicali espressi bene ma che non danno la classiva ventata di novità, mantenendo ancorata la band francese alla media delle sue produzioni, sempre interessanti per l'accostamento e il crossover tra i diversi tipi di generi ma in alcuni casi rasenti il plagio, e penso soprattutto alle parti vocali che sono belle e ad effetto ma lontanissime da una genuina originalità. Buon disco per chi si accosta alla loro proposta per la prima volta, ma per chi li ha amati con i precedenti lavori, potrebbe non rimanere del tutto soddisfatto. (Bob Stoner)

(Atypeek Music/Bruillance/Kshantu - 2019)
Voto: 64

https://www.facebook.com/deadhippiesdead/

lunedì 6 gennaio 2020

Mesmur - Terrene

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism
Cosa c'è di meglio se non iniziare il nuovo anno con una bella colata lavica di musica funeral doom? Ad aiutarci in questa impresa, arrivano i Mesmur, combo internazionale formato da membri che arrivano un po' da tutti gli angoli del globo, Russia, Australia, US e anche la nostra piccola Italia, senza contare le partecipazione al flauto di Don Zaros degli Evoken e al violoncello della russa Nadia Avanesova. 'Terrene' è il terzo disco per il quartetto mefitico che si ripropone con quattro song che durano la bellezza di 54 minuti. E allora, se le vostre vacanze natalizie sono state fin troppo felici, meglio farsi investire dalla totale assenza di voglia di vivere dei nostri che già con l'iniziale "Terra Ishtar", ci fanno letteralmente sprofondare nella palude dello Stige, laddove gli accidiosi rimangono sommersi nell'immobilità del loro spirito. Immobilità appunto, la parola chiave che descrive le movenze a rallentatore della band, cosi ritmicamente pesante nella propria proposta da richiamare i paladini Skepticism o Esoteric, due capostipiti di un genere che raccoglie ogni giorno sempre più consensi. La proposta dei Mesmur non si raccoglie però tutta qui nella riproposizione dei dettami dei maestri, ma è impregnata di atmosfere eteree, quasi sognanti che tutto di un tratto sembrano farci risollevare verso quei cieli estatici descritti da Dante nella sua 'Divina Commedia', prima di essere avviluppati da una tragica sensazione di fine del mondo, quella appunto descritta dalla compagine multietnica in questa loro terza fatica. È tempo di "Babylon", la seconda song che narra della città ormai fantasma di Babilonia appunto e dei demoni che la abitano ora e di tutto il sangue di santi e profeti che invece è fluito nel corso dei secoli. Le tematiche aiutano ad enfatizzare un sound permeato solo di gelida morte come quella sprigionata dalla catacombale voce del frontman Chris G nel mortifero incedere odorante di solo zolfo infernale. La chitarra di Jeremy Lewis cosi come il flauto del tastierista degli Evoken, provano a stemperare la pesantissima aura che ammanta la song, ma il risultato persiste nel mantenersi in equilibrio con le sue apocalittiche melodie. Si procede sulla falsariga anche con "Eschaton" e altri 13 minuti in cui è la pesantezza intrinseca esalata dall'ensemble a farla da padrona, anche se qui un barlume di luce sembra affiorare dall'iniziale malinconica (quanto dissonante) melodia di chitarra e in generale da un accenno di dinamismo mostrato in sede ritmica, con un drumming che sembra (ma non accadrà mai) via via aumentare i giri del motore, anzi l'evoluzione della song assume quasi connotati psichedelico-orchestrali, vista la presenza al violoncello, della brava Nadia che adorna e contribuisce a variare il tema proposto dai Mesmur. Arriviamo all'ultimo baluardo da superare, ossia la quarta "Caverns of Edimmu", una song introdotta da una mefistofelica quanto sinistra melodia, accompagnata da una voce che verosimilmente è quella di un demone Ekimmu, uno spettro dei morti riuscito a fuggire dagli inferi per tormentare gli esseri viventi. La song pertanto sulla scia del suo stesso titolo, sembra avvolta da un'atmosfera criptica sospesa tra sogno (o incubo che sia) e triste realtà, in uno sfiancante incedere di oltre 13 minuti. 'Terrene' è alla fine un album tanto interessante quanto complicato da affrontare, una discesa nelle tenebre da cui forse non far mai più ritorno. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2019)
Voto: 77


https://mesmur.bandcamp.com/album/terrene

Daughters Of Saint Crispin - S/t

#PER CHI AMA: Psych/Slowcore/Post, Neurosis
Singolare scegliere come moniker quello di un sindacato del calzolaio femminile americano, i Daughters Of Saint Crispin appunto. La band, che nasce dalla precedente esperienza del suo leader nei Tyranny Is Tyranny, si propone di offrire un sound che loro stessi definiscono arrogantemente "doomy Big Black" o una sorta di "Godflesh che suonano song dei Codeine" (band newyorkese ispiratrice dello slowcore). E proprio da quest'ultimo genere, caratterizzato da ritmi rallentati, arrangiamenti minimalistici ed atmosfere rarefatte che i nostri partono, coniugando ovviamente il tutto con gli insegnamenti dei Neurosis, una costante aura psichedelica, un pizzico di punk (soprattutto nella seconda ridondante "Debt Grief") ed il gioco sembra fatto. Le tracce da "Ex-Spies" a "Head And Heart", si susseguono proponendo un vortice di lente emozioni e turbamenti interiori. Se ho particolarmente apprezzato l'opener, devo ammettere di aver fatto più fatica ad accogliere la seconda song, desiderando più volte di skippare alla traccia successiva. Solo il chorus mi ha evitato di cambiare brano. "Blue Light" è un brano a rallentatore, con la voce del frontman che sembra quella di un accanito bevitore di whiskey. La song striscia poi come un serpente a sonagli nel deserto, tra ruvide scarnificazioni sludgy, ammiccamenti post e una verve blues rock. L'ultima song dell'ensemble del Wisconsin suona come una ninna nanna per un bebè, con la sola differenza che al posto del latte, al bimbo viene somministrato un cicchetto di ottimo distillato. Alla fine l'EP è un buon punto di partenza per sviluppare in futuro nuove alternative sonore. (Francesco Scarci)