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giovedì 9 maggio 2013

Combat Astronomy - Kundalini Apocalypse

#PER CHI AMA: Noise, Doom, Jazzcore, Zu
Ma che belle sorprese che arrivano nella cassetta della posta del Pozzo! Dopo gli ottimi Lilium Sova, un altro album dalle atmosfere simili, che rivendica un posto importante nel panorama post-metal strumentale contaminato con il free-jazz più estremo. I Combat Astronomy sono un progetto essenzialmente ascrivibile alla creatività dello statunitense James Hugget, responsabile della scrittura di tutti i brani, delle chitarre, i bassi e il programming delle percussioni. Una parte importantissima del suono è poi appannaggio di Martin Archer, che a Sheffield, UK, incide strati di clarini, sassofoni, organo ed effetti vari. Il risultato è un particolare metalcore dipinto con le tinte fosche del doom, stemperato però da continue aperture, cambi di tempo e atmosfere di stampo free-jazz, che riesce nell’improba impresa di risultare “heavy” ma non “pesante”, di picchiare duro senza essere soffocante o troppo ostico, ma mantenendo anzi una sorprendente fruibilità. Fin dall’iniziale “Kundalini Dub”, la ritmica serratissima non lascia scampo e, come suggerisce il titolo, dei riverberi dub proiettano l’ascoltatore in una dimensione parallela, dove la realtà appare in qualche maniera dilatata. Qua e là spuntano vocalizzi malsani alla Eugene Robinson (prima o poi bisognerà che qualcuno rivaluti universalmente l’opera degli immensi Oxbow), a rendere l’atmosfera ancora più suggestiva e indecifrabile: provate ad immaginare i Godflesh che incontrano John Zorn, alle prese con la musica di Mingus. Tutti i brani sono ugualmente incisivi, ed è difficile trovare vette, ma mi piace menzionare la lunga, conclusiva “Cave War” che funziona benissimo come condensato dell’intero lavoro: un tappeto di voci corali alla Ligeti ci proietta nello spazio profondo, dove la temperatura è prossima allo zero assoluto e tutto si ferma, anche il cuore e il respiro. Frasi smozzicate di sax danno segni vita, un organismo si dibatte al ritmo lento del doom, lotta per liberarsi ed erompe infine in un frenetico dibattere di svolazzi free su inesorabile incedere post-metal. Un essere alieno che cresce e cambia forma e voce più volte, ora furioso e gorgogliante, ora riflessivo e quasi pacificato, nel corso dei quasi quattordici minuti che chiudono questo magistrale album. Da quanto si apprende dal sito della band, sono in atto delle session con un batterista in carne ed ossa e, personalmente, non vedo l’ora di ascoltare le prossime evoluzioni di questa eccitante creatura musicale. (Mauro Catena)

(Zond Records)
Voto: 80

http://combat-astronomy.bandcamp.com/

Darktrance - Pessimum

#PER CHI AMA: Black dark, Bethlehem
E sono tre… sto parlando ovviamente degli album della one man band ucraina, Darktrance. Da notare immediatamente che lo spettro musicale coperto dal mastermind Deimos si è notevolmente ispessito, dando corpo ad un sound abile nel combinare sonorità estreme con una vena assai melodica e darkeggiante, per un risultato finale davvero singolare. L’album tocca il suo apice già con l’iniziale “Anthems of Melancholy”, traccia che vive del connubio vocale del frontman, con un cantato disperato ma assai convincente, che si contrappone al classico pulito (ormai a dir poco inflazionato), il tutto giocato su un riffing cupo e minaccioso, in cui la malinconia è acuita da soffusi tocchi di tastiera. Un bel riffone death apre “Soul Collectors”, con la voce che sembra aver assunto dei connotati più vicini al post-hardcore che al black; eccomi però improvvisamente piombare nelle tenebre con un breve break catacombale da cui esplode un’accelerazione di chiara derivazione nordica. Ma è comunque il ritmo apocalittico alternato al riffing spietato, a dettare i tempi della song, con chiari riferimenti al sound dei Bethlehem. La title track offre altri spunti interessanti a livello delle tastiere, spettrali e inquietanti cosi come le ritmiche acuminate e il cantato, ancora in versione clean, che pian piano tende ad assumere una propria delineata fisionomia. Mi piace, non c’è che dire. “Day X” esplora altre strade: quelle della paranoia, del riffing ipnotico e di un uno stile vocale ossessivo, sorretto da splendide, esplosive e spaziali linee di chitarra. “Pessimum” cresce, è una forma che va plasmandosi all’interno della mia testa, assume contorni che neppure immaginavo e lentamente appaga non poco i miei sensi. Un interludio abissale e poi è “Fall of the Emptiness” a suonare nel mio stereo con un sound vicino a quello dei nostrani Forgotten Tomb, anche se poi la creatura del buon Deimos sembra dirigersi verso altri lidi pescando un po’ dal post-black, dal dark dei Tiamat di “The Deeper Kind of Slumber” o dal doom. Sono allibito. C’è ben poco di scontato dentro le note di “Pessimum”, anche se non tutte le song ovviamente brillano di luce propria. Però è un album che alla fine risulterà coinvolgente, fresco e divertente: ultima menzione per “Whispers of the City in Blood”, traccia in linea con la produzione death doom melodico finlandese (Black Sun Aeon) e l’ultima schizoide e tenebrosa “Last”, che con i suoi otto minuti chiude degnamente un lavoro che non dovrà passare inosservato alla vostra attenzione. I Darktrance hanno fatto un grande passo in avanti rispetto al precedente album, dimostrando di essere pronti al grande salto per una etichetta dalle ambizioni più grandi. Complimenti! (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music)
Voto: 80

http://www.myspace.com/darktranceband

Noluntas - Noluntas Divina

#PER CHI AMA: Dark Ambient, Electro-black, Kraftwerk
Mettiamola così: se tra qualche centinaio di anni esisteranno ancora le droghe sintetiche, probabilmente i nostri eredi useranno questa musica per ispirare i loro viaggi psichici. In un certo senso, "Noluntas Divina" è già un viaggio in sé e per sé: quarantacinque minuti di volo allucinato a occhi chiusi nelle più oscure vastità dello spazio, attraversando regioni di disperata solitudine, memorie e ricordi d'infanzia, silenzi senza pace. Più che un disco, una vera e propria colonna sonora. Il viaggio muove dalle atmosfere rarefatte di "Intro" ai lunghi respiri di "Starfall of the Lost Faces", fino alla sensazione di aver perso completamente un riferimento, una stella polare, una direzione, nella lunghissima title-track che chiude l'album. A metà del disco, per un motivo che non riesco ad individuare, c'è "Concealed": una traccia costruita quasi banalmente con percussioni, cori orchestrali, nitriti di cavalli, pianti di bimbi e voci che declamano brani di un'opera teatrale: un brano talmente scontato e "terrestre" da sembrare scritto da mani diverse e che, per l'eccessivo contrasto che esercita rispetto alle altre quattro tracce, ha più l'effetto del riempitivo improvvisato che della song voluta, pensata e curata al pari delle altre. Il lavoro sui suoni di "Noluntas Divina" è talmente accurato da rasentare la follia: nessun rumore è lasciato a se stesso, nessuna nota è casuale, nessuna frequenza è stata trattata con scarsa attenzione. L'intero disco è una lezione di purezza minimale e immaginazione, un viaggio allucinato nel più gelido e soffocante degli spazi siderali. Un disco quasi perfetto, macchiato purtroppo da quell'unica traccia che sembra sfuggita dal concept, come un fiore sbagliato in un perfetto mazzo di rose rosse. (Stefano Torregrossa)

sabato 4 maggio 2013

Alley - Amphibious

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth
Tornano i russi Alley, che avevamo analizzato nel 2008 con il loro debut cd “The Weed”, un album di forte derivazione dal sound dei primi Opeth. A distanza di cinque anni da quel lavoro, ecco l’ensemble siberiano tornare in sella con “Amphibious”, un progetto che pur mantenendo palese l’impasto sonoro dei gods svedesi, cerca nuove strade e il risultato, devo darne atto all’act della piccola città di Krasnoyarsk, mostra un discreto passo in avanti per i nostri. Certo, in cinque anni era lecito aspettarsi qualcosa in più, di questo passo dovremo attendere il 2028 per ottenere qualcosa di certamente più personale. La durata delle song si continua a confermare molto lunga, a dir poco estenuante, ma poco importa perché alla fine il sound non risulterà mai statico. Citavamo per l’appunto gli Opeth, e la componente più aggressiva degli Alley, senza ombra di dubbio, continua a pagare un forte dazio, sia a livello di ritmiche che di growling vocals, ai ben più famosi colleghi svedesi. È quando i nostri si lanciano in psichedelici break atmosferici che rimango affascinato dal “nuovo” sound della band della Federazione Russa. “Lighthouse” è splendida nella sua lunga fuga lisergica, quasi uno space rock sporcato di sonorità post e death progressive, parti acustiche e buonissime cleaning vocals. Ottima song davvero, forse fin troppo articolata, laddove per suonare questo genere di musica, di attributi e classe ne servono davvero tanti. “Weather Report”, la seconda traccia, inizia dando largo spazio al cantato in pulito (e tale sarà per il resto della sua durata), mostrando l’ennesima progressione e una nuova apertura da parte del combo russo. La traccia scorre via assai fluida, attraversando le foreste del death metal, scalando le impervie montagne del progressive e tuffandosi in inaspettati abissi al limite del jazz, come si evince dalla sua delirante conclusione affidate a schizoidi chitarre sorrette da un duo formato da basso e batteria. Il sound è divenuto molto più caldo, avvolgente come la coperta di pile che mi riscalda nelle notti invernali. La band non si fa mancare ovviamente nulla, quindi non stupitevi se l’inizio della title track è affidato ad un arrembante attacco death con tanto di blast beat e gli amati ubriacanti giri di chitarra tipici di Akerfeldt e soci. Poi la band prende ulteriormente coraggio e si lancia in meravigliosi giri di chitarra, atmosfere oscure e arpeggi da paura. Stanno crescendo, non c’è dubbio, pur essendo lo spettro degli Opeth costantemente presente. Ma a questo punto non darei più molta importanza. Gli Alley stanno facendo le cose per bene, certo avessero scelto una copertina migliore per questo disco, lo avremo apprezzato ulteriormente, avrebbero avuto un impatto più positivo per il sottoscritto anziché quella brutta faccia in fase di senescenza; ridurre la durata dei brani e renderli un po' più fluenti, auspico sia il prossimo passo per i nostri, certo non vorrei attendere altri cinque anni prima che un nuovo album veda la luce. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 70

Pestroyer - Inquisiteurs des Temps Modernes



#PER CHI AMA: Black, Emperor, Dark Funeral, Carphatian Forest
Quattro brani dalla furia efferata e dalla velocità elevata caratterizzano questo lavoro della band canadese Pestroyer e subito mettiamo in chiaro che non bastano a rialzare un lavoro alquanto discutibile. La band si riallaccia ad un sound primitivo della scuola black metal stile primi Emperor e lo fa degnamente, ma saran-no i suoni un po' troppo inespressivi e poco ricercati o le costruzioni stantie e ripetitive e poco originali a spingere questo mini cd al limite della normalità e del già sentito con risultati che sfiorano in molti punti la monotonia. Bisogna ammettere che la qualità esecutiva è nell'insieme di discreta fattura tranne che per lo screaming forzato e nevrotico, tutto uguale senza mai una variazione sul tema, cosa che va assolutamente corretta per i futuri lavori. Il vocalist sprigiona la sua rabbia in una prestazione urlata e afona, monocorde e inespressiva che rende insufficientemente credibile tutte le quattro tracce di cui è composto il cd. Appare molto strano e da noi incomprensibile come la Obscure Abhorrence Productions riesca a produrre cose di così basso rilievo, quando tra le sue file ci sono lavori pregevolissimi e cose molto mediocri come questo Inquisiteurs des Temps Modernes. Decisamente rimandati in materia di fantasia e costruzione musicale, c'è ancora molto da studiare per acquisire la giusta direzione. (Bob Stoner)

(Obscure Abhorrence Productions)
Voto: 50

http://www.myspace.com/pestroyer

The Owl Of Minerva - Bright Things Turn Gray

#PER CHI AMA: Alternative Rock, A Perfect Circle, Katatonia
Promo cd di questo quartetto originario di Padova, composto da Nicola 'Mel' Coinn (chitarre, voce, produzione), Stefano 'Cocis' Pagura (chitarre), Francesco 'Checco' Forin (batteria) e Simone 'Carra' Carraro (basso). Formatisi nel 2008, alla fine di quell'anno pubblicano già un primo EP, ”Willow”. Durante le registrazioni del primo full lenght, nel 2012 rilasciano questo demo composto da 4 canzoni: un assaggio di ciò che verrà nell'autunno del 2013. Si parte con la title track, ”Bright Things Turn Gray”: l'incipit ricalca fedelmente l’alternative rock americano (più precisamente vengono influenzati dal sound degli A Perfect Circle e Tool): più si prosegue con l'ascolto, più le influenze dei due gods statunitensi emergono assai forti, tanto quasi da scambiare alcuni passaggi del demo per loro pezzi. L'atmosfera che ne nasce risulta quindi surreale e calda. ”Bag of Stones” si avvicina più al sound dei Deftones, piena di ritmo, carica e ricca di chitarre e batteria all'unisono, deliziando le orecchie e mettendomi alla ricerca dei testi per poter cantare nei ritornelli. ”Your City by the Snow” tende ad essere più calma, unplugged: si fa un largo uso della chitarra classica e le percussioni vengono appena sfiorate, lasciando grande spazio ai piatti e alle tastiere, eccellentemente suonate da Simone Noventa. Il complesso che traspare in questa traccia sono i primi Smashing Pumpkins, quelli di ”Siamese Dreams” per intenderci e, seppur a tratti, un po' David Bowie. Con ”Crown of Gold” si giunge alla fine del cd: si torna alle atmosfere a la Deftones, più melodici e malinconici per la prima metà, mentre la seconda diventa più furiosa con un connubio chitarre-batteria-basso sguinzagliato e portato ai massimi livelli. Sebbene questo sia solo un demo, ha tutte le carte in regola per diventare un LP superbo, ricco di diverse sonorità, ritmi e tanta voglia di sperimentare. Speriamo esca presto quest'opera. Forza tosi! (Samantha Pigozzo)

giovedì 2 maggio 2013

El Tercer Semestre - TenderTropic

#PER CHI AMA: Post-rock strumentale
Per fortuna mi è arrivato questo cd dalla Spagna, cominciavo a pensare che la crisi economica avesse definitivamente decimato la musica iberica. Meno male, non è (ancora) così. El Tercer Semestre (ETS) è un trio strumentale proveniente da Barcellona, che si muove tra sonorità post math rock e contaminazioni folk che fa il suo esordio con questo 6-tracks-EP dal titolo "TenderTropic". La loro idea non è affatto nuova: miscelare la ben nota nostalgia del post rock a qualcosa che valesse la pena di proporre al pubblico. La tecnica dei tre musici è di tutto rispetto, partendo dalle trame del basso che sono sempre fresche e mai banali, per arrivare a batteria e chitarra che reggono il peso e non sfiguravano mai nel confronto. "Topic" trasuda folk e melodie celtiche riproposte in chiave post rock. La melodia trascinante è suonata velocissima da una chitarra pulita e minimalista, intervallata da riff distorti che calcano la mano per colorare di drammaticità alcuni passaggi chiave della traccia. Infine segnalo "Flowers", la traccia che rappresenta quello che gli ETS dovrebbero essere e che possono divenire. Arrangiata ad hoc, suoni belli e ritmica ricercata, tasselli che compongono una piccola chicca godibilissima. Questo "TenderTropic" non è affatto un brutto esordio, ma dopo questo la band dovrà impegnarsi al massimo per uscire dal coro e confermare la propria identità. La miscela post rock folk non è affatto male, purtroppo il cantato è ancora una fetta importante della musica che permette all'ascoltatore medio di riconoscere un gruppo da un altro. Riuscire nello stesso intento a livello strumentale è un'altra cosa, difficile ma non impossibile. (Michele Montanari)

mercoledì 1 maggio 2013

The Pit Tips

Bob Stoner

Tyr - Ragnarok
My Dying Bride - A Map of All Our Failures

Coheed And Cambria - The Afterman Descension

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Francesco “Franz” Scarci

The Matador - Descent Into the Maelstrom
Todtgelichter - Apnoe
The Ocean - Pelagial

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Alberto Merlotti


Yeah Yeah Yeahs - Mosquito
6:33 & Arno Strobl - The Stench from the Sweeling (A True Story)
Fall Out Boy - Save Rock and Roll

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Samantha Pigozzo


Depeche Mode - Delta Machine
Def Leppard - Adrenalize
Lordi - To Beast or not to Beast

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Michele “Mik” Montanari


Deville - Hydra
Brown Paper Bag - Various from Soundcloud
Flicker - How Much are you Willing to Forget?

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Roberto Alba


Progenie Terrestre Pura - U.M.A.
The Slow Death - II
Shade Empire - Omega Arcane

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Stefano Torregrossa


Dead Meadow - Shivering King and Others
Pitchshifter - P.S.I.
Darkane - Rusted Angel

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Mauro Catena

Nick Cave and the Bad Seeds - Push the Sky Away
Lilium Sova - Epic Morning
We Hunt Buffalo - We Hunt Buffalo

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Kent

Syndrome - Now And Forever
Calendula - Calendula 7"
Om - Advaitic Songs

Schematics for Gravity - Schematics for Gravity

#PER CHI AMA: Post-rock, Post-metal, Pelican, Rosetta, Cult of Luna
Capisco benissimo le difficoltà a livello compositivo delle band che amano suonare post-rock o post-metal. Bisogna essere originali ed ossessivi allo stesso tempo; bisogna dimostrare una certa tecnica senza però sembrare dei fissati del virtuosismo; bisogna creare la giusta atmosfera senza sembrare troppo mollaccioni; bisogna saper esplodere al momento giusto, concedere il giusto respiro, mantenere il controllo del brano senza per questo rinchiuderlo in strutture troppo ripetitive. Un lavoraccio che gli Schematics For Gravity svolgono discretamente senza però eccellere. Intendiamoci: l'EP omonimo del quintetto svedese si lascia ascoltare, eccome. Diciamo pure che se qualcuno mi chiedesse: "Consigliami un bel disco di post-metal, per me è un genere nuovo", potrei valutare l'inserimento di questo disco nell'elenco, anche di fianco a nomi più grandi. Ma ad orecchie più allenate, a chi mangia Pelican a colazione e fa merenda con i Cult of Luna, il lavoro degli Schematics For Gravity non potrà che apparire poco interessante. Tre brani, venticinque minuti, con partenze e chiusure dei pezzi sempre molto interessanti: bellissimo l'arpeggio iniziale in "The Art of Taming Waves", altrettanto ispirato il finale strumentale di "An Entire Ocean Under Scarred Skin" (in realtà l'intera canzone è il vero punto massimo del disco), straordinariamente aggressivo l'inizio di "Antithesis to Bliss". Ma è nel centro delle composizioni che gli Schematics For Gravity appaiono più deboli: la voce del cantante permette assai poche variazioni sul tema e, sebbene dal punto di vista dell'ascolto le chitarre si presentino sempre da vere protagoniste, è innegabile una certa carenza di originalità nel modo di suonare e una certa ossessività di alcuni riff, che può far parte del genere. In sostanza: un buon lavoro, una produzione più che ottima, ma di certo gli Schematics For Gravity non hanno creato una pietra miliare del post-metal. (Stefano Torregrossa)

lunedì 29 aprile 2013

Regarde Les Hommes Tomber - Regarde Les Hommes Tomber

#PER CHI AMA: Post Black, Addaura, Wolves in the Throne Room, Cult of Luna
Da non confondere col film omonimo “Regarde les Hommes Tomber” del 1994, tratto dal romanzo “Triangle” di Teri White, la band è l’ennesima new sensation proveniente dal suolo transalpino. Il suono di un tamburo è il preludio che apre il debut di questo misterioso quintetto di Nantes, un lavoro all’insegna di sonorità assai contaminate. Neppure ce ne fosse bisogno è già l’intro a sottolinearmi lo stile dei nostri, che come impatto iniziale, ricorda vagamente l’oscurità mortifera dei Neurosis. E qualcosa di inquietante si cela sotto la cenere, ne sono certo, lo percepisco. “Wanderer of Eternity” ne è la conferma: la proposta dei nostri è un’apocalittica visione del mondo al collasso, uno spaccato di una società decadente, fotografato da un sound borderline tra post/sludge (Cult of Luna style) e il black metal. Nelle melmose sabbie mobili si nasconde una bestia mostruosa che sinuosa striscia come il peggiore dei serpenti. Le chitarre rotolano pesanti, affiancate dai vocalizzi arcigni di U.W. “Ov Flames, Flesh and Sins” ha un’atmosfera pesantissima, l’aria si fa irrespirabile, le nubi si addensano minacciose. Le sonorità malsane dei RLHT sono inquietanti, con ritmi sempre apparentemente sotto controllo; ridondanti nel loro incedere, alla fine hanno un meraviglioso effetto frastornante, acuito dalla efferatezza di una fuga post black. Ecco che i lineamenti della bestia si fanno più nitidi e riesco a vederla di fronte a me: la testa è quella dei Neurosis, ma poi ecco emergere il corpo e la sua spaventosa forma che incarna quella dei Wolves in the Throne Room che si esplica in ritmiche funeste, e “Sweet Thoughts and Visions” ne è la prova. L’inquietudine della title track prepara il terreno a quello che mi aspetto sia il tremebondo finale. Mi faccio trovare pronto a vedere la morte in faccia, ma “A Thousand Years of Servitude” prima, e la conclusiva “The Fall” non mostrano ancora pienamente gli artigli dei nostri. Sembrano incompiute, pur comunque offrendo ottimi spunti di un post black che sta crescendo sempre più, fa proseliti nelle masse e presto annienterà questa schifosa società. Dannatamente oscuri. (Francesco Scarci)

(Ladlo Productions)
Voto: 70

https://www.facebook.com/rlhtband

Eloa Vadaath - Dead End Proclama

#PER CHI AMA: Folk Death Progressive, Ne Obliviscaris, Skyclad
Ma possibile che tutte le band nostrane debbano emigrare all’estero in cerca di fortuna e in Italia ci sia ancora chi punta su realtà straniere con la convinzione che l’esterofilia abbia una cosi grande presa sui fan italiani? Io non ne sarei cosi convinto, pieno supporto alla scena italica. Questa vena polemica iniziale per introdurre quello che è il nuovo cd dei veneto/emiliani Eloa Vadaath, che ha visto i nostri andare in Austria a trovare l’appoggio dell’attenta Noisehead Records, che pare aver creduto in loro. Conosciuti ed intervistati in occasione del loro debut, “A Bare Reminiscence of Infected Wonderlands”, bisso ora che è uscito il sequel di quel lavoro. Ebbene il sound dei nostri mantiene la sua enorme creatività con qualche piccola novità che a mio avviso ora è molto in linea con alcune delle produzioni mondiali più sponsorizzate e sto pensando all’exploit che hanno avuto nell’ultimo anno gli australiani Ne Obliviscaris. Proprio dal progressive sound dell’act australiano, miscelato al black, death e alla musica classica, il sound del combo italico accresce quella che in realtà era già la matrice di fondo della loro proposta. Si perché quando uscì il primo album, i nostri suonavano già questo genere, ma forse il pubblico nostrano non era pronto ad affrontare questi suoni avanguardistici. Ancora una volta vengo investito dal delirante folk death dalle forti tinte progressive del quintetto italico. L’immancabile intro, poi il funambolico violino di Riccardo Paltanin prende per mano i suoi compagni e inizia a dipingere drappeggi color porpora, spennellare paesaggi di un blu intenso e tessere tele di colori tenui e delicati. Mi spiace per gli altri membri della band, ma la mia attenzione è catalizzata quasi esclusivamente dall’esplosività dello strumento ad arco. Non faccio caso nemmeno alle tonalità dell’altro Paltanin, Marco, che insieme a Nicolò Cavallaro, si divide il compito delle vocals, pulite le prime e talvolta poco convincenti, un rabbioso growling invece, quello del giovane bassista. “The Sun of Reason Breeds Monsters” è la terza song che mischia la dinamicità del death metal con ambientazioni dal chiaro sapore rinascimentale, senza tralasciare quel folk rock anni ’70 incarnato alla perfezione dai Jethro Tull. Sebbene la band di Blackpool rimase famosa per l’utilizzo del flauto, lo spirito incarnato dagli Eloa Vadaath potrebbe essere sicuramente avvicinabile a quello dei rockers inglesi, vuoi per il desiderio di donare un tocco etnico e progressivo al proprio sound, e per il caratterizzante utilizzo del violino da parte dei nostri EV. “Vever” è un pezzo magico, assai malinconico ma con un finale da urlo affidato ad uno splendido assolo che avvicina di nuovo i nostri alla fiamma che mosse le band a fine anni ’60. Sia ben chiaro, per chi potesse male interpretare le mie parole, che non abbiamo in mano un disco di rock nel senso più stretto, anzi il contrario, “Dead End Proclama” è un lavoro ad ampissimo respiro, che incorpora nuove influenze, si è dimenticato di alcune vecchie (qui di black metal non c’è più traccia, se non in una qualche sporadica e talvolta fin troppo caotica ritmica serrata), ha messo da parte le influenze nordiche di scuola Opeth e ha costruito col duro lavoro, un sound che riesce quasi ad essere personale al 100%, anche se magari rimangono ancora cose che non mi convincono del tutto. Splendida la title track, ma forse un po’ troppo ricca di cambi di tempo che finiscono per sembrare fin troppo forzati; un mezzo punto in meno anche per la performance vocale di Marco (che a tratti mi ha ricordato il vocalist degli Aneurysm), non ancora a proprio agio in questa nuova veste. È sempre comunque il violino indemoniato di Riccardo a farla da padrone, è quello che fondamentalmente imbastisce la ritmica dell’ensemble, su cui poi poggiano gli altri strumenti. “Relics” è un altro fantastico pezzo, peccato solo che duri una manciata di minuti. “From the Flood” ha una vena iniziale doomish, e la band dimostra di sapersi muovere con una certa disinvoltura in tutti i generi musicali, e di sapermi conquistare per la loro fortissima carica emotiva, le splendide melodie e una enorme raffinatezza nei suoni. Tecnici, brillanti, orchestrali, sinfonici e teatrali, gli Eloa Vadaath si confermano tra le sorprese più gradite di questo primo quarto del 2013, soprattutto quando a risuonare nel mio stereo c’è il mio pezzo preferito dell’album, “Ad Rubrum Per Nigrum”; volete conoscerne il ragione? Fate vostro questo lavoro e ne capirete il motivo. Assolutamente da non perdere. (Francesco Scarci)

domenica 28 aprile 2013

Blizzard at Sea - Invariance



#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge/Stoner
Recensiti un paio di mesi fa col loro ultimo lavoro, torno indietro nel tempo per affrontare il debut EP degli statunitensi Blizzard at Sea, uscito nel luglio del 2011. Poco importa se si tratta di un cd di quasi due anni fa, l’importante a questo punto è non lasciarselo scappare, e ora che lo sapete, andateli pure a cercare sul loro sito bandcamp. La proposta logicamente non si discosta poi di molto dall’ultimo “Individuation”. Sarà pertanto assai semplice per me parlarvi della opening track “Islands of Stars” e delle sue intense e sospese sonorità post, con un giro di chitarra che entra nella testa e non ci lascia più, in grado di sfociare in deliranti fughe math e in una splendida chiusura di chiara rock. Il suono è sempre avvinghiante per ciò che concerne le rarefatte atmosfere, ma sa anche sprigionare una bella dose di inaspettato e impastato stoner rock, come si evince dalle note di “Closed Universe”. Le vocals si mantengono sempre costantemente incazzate, con un growling di casa Neurosis su cui giri di chitarra ci sorprendono con un’altalenante girandola emozionale, in cui fanno anche la comparsa dei sorprendenti chorus. “Simulacra” attacca in modo ubriacante con un riff magnetico e magmatico, che evolve verso suoni più sludge/stoner oriented. L’incedere di “Invariance” è ben poco lineare in tutti i brani, fino all’ultima “Action at a Distance” con le ritmiche e le chitarre più in specifico, ad alternare sapientemente riffoni che indistintamente traggono la loro origine da suoni post, sludge, stoner e math. “Invariance” non fa altro che confermare pertanto che la band di Iowa aveva le idee chiarissime anche all’esordio. Un invito obbligato quindi a dargli un ascolto. (Francesco Scarci)

Antigama/Psychofagist - 9 Psalms Of An Antimusic To Come

#PER CHI AMA: Experimental, Noise, FreeJazz, Grindcore
Una piacevole sorpresa questo split di Antigama e .psychofagist.: già leggendo gli artisti, si capisce che questo disco sia molto particolare e ammettere che riesca completamente a (s)co(i)nvolgermi. La prima parte dedicata agli Antigama annega nelle sperimentazione più totale, coinvolgendo parti di death metal moderno, post-hardcore e noise, tanto che durante l'ascolto di "Paranoia Prima" mi chiedo cosa stia succedendo, mentre mi prende un sorriso in "For Just One Breath" grazie ai suoi suoni non convenzionali e al walking bass, che fanno apparire il tutto ideale per un lounge bar. Si capisce immediatamente che con "Apophtegma Nonsense" comincia la parte riservata ai .psychofagist., grazie al loro tipico sound che prevede una chitarra in stile jazzata estremamente veloce, un cinque corde dal suono ferroso ed una batteria fin troppo tecnica. Emerge "Aritmia" come traccia più varia che comprende al suo interno dei rallentamenti e l'apice ritmico del combo piemontese; in chiusura non si può non citare la cover di Tom Waits, "Misery Is the River of the World", smontata e rimontata a piacimento. Uno split con due anime diverse, la prima per chi è anche appassionato di ambient e noise, mentre la seconda per chi è più patito di free jazz e grindcore estremo. (Kent)