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giovedì 1 dicembre 2011

Riul Doamnei - Fatima - English

#FOR FANS OF: Symph Black, Dimmu Borgir, Cradle of Filth
If Cradle of Filth had the miraculous growth of Riul Doamnei during these last years, they would have probably sold hundreds of millions of records until today, perhaps even as Michael Jackson. But instead the progression of the British band has been very gradual, but they were lucky enough to be always closely linked to the typical screaming of Dani Filth, which has so far also influenced the vocal performance of "Cardinal" Federico DB, vocalist of the Italian band that I am here to review today. This entire intricate preamble was to tell you that in the meantime, the singer of the Veronese ensemble is shockingly improved since the days of "Apocryphal", distancing largely from the "old" Dani, and with him the overall performance of the other members of the band. Certain accomplice is the experience gained by touring with monsters of the caliber of Rotting Christ, Krisiun, Decapitated, Vader and other extraordinary realities of extreme metal, but the Riul Doamnei, with this new job can have their saying in the field of symphonic black, next to the already mentioned Suffolk and the band of Norwegian Dimmu Borgir, perhaps the reality which extends more the five-pieces of Fede and Associates. A really ambitious work this of the Riul which presents us the new controversial concept of the album based on the figure of the Virgin Mary: twelve pieces for a total duration of nearly an hour, an hour full of dense emotions, related to fierce raids in black territories, from the harsh vocals of Fede, to the majestic orchestrations of "Bishop" Giorgio M. and to the symphonic chorus Therion like. Starting from the enigmatic opening track, "13th Oct. 1917, Miracle and Apocalypse," which commemorates the Miracolo del Sole by Fatima, in which a substantial number of people claimed to have seen the solar disk change color, size and position for about ten minutes, we are immediately overwhelmed by their extreme music. The release, which revolves around the events related to Marian apparitions brings out, one after the other, excellent tracks, which shows the class of the five "servants of evil." Going back to what has been done in previous work, the Riul continue to develop their own sound, enriching it with phenomenal arrangements of explicit derivation of Dimmu Borgir (period "Death Cult Armageddon"), and for this reason a big applaud goes to the talented Giorgio and a special mention as well to the deserter drummer "Friar" Enrico P., who at the end of the recordings has left the band after eleven years of militancy. It will be hard to replace him with another drummer of equal value. But back to the music, which is overflowed with sublime melodies, epic black cavalcades, screaming of great value and exceptional chorus (beautiful "Bestiary of Christ" and "Sodom Convention"). A brief interlude, and we arrive at "Stigmatized Under Marian Grace", a song that reveals once again their destructive "dangerousness” and that shows the goodness of the songwriting (much improved from the first chapter) and also a new vein as regards the solo (finally) of the capable "Deacon" Maurizio S, although this is not the episode where it is most appreciated. The military beginning of the "Of Misery And The Final Hope" (song in which also appears Sakis of Rotting Christ as a guest vocalist) shows how the Riul have improved even if the speed is not well supported and there is space for large quantities of melody and eerie female vocals with the guitars which in this case seem to refer to the Swedish Death of Dark Tranquillity. Yes, I feel, the desire to progress and not stagnate is there, is strong and Riul are constantly searching for truth as the famous "Warriors of Light" by Coelho. The search of Riul continues until the final "The Fourth Daughter," which speaks about the fourth daughter of Muhammad, Fatima precisely, then finishing by weaving the Christian iconography with that of the Islamic religion, in what is probably the fourth secret, in a song with clear Arabian implications, which closes in an intriguing, fascinating mode and that predicts nothing positive, of what could be the clash between Christianity and Islam. Excellent return! (Francesco Scarci - Translation Sofia Lazani)

(Axiis Music)
Rate: 85

http://www.riuldoamnei.it/

Llvme - Fogeira de Sueños

#PER CHI AMA: Black/Folk Metal, Doom, My Dying Bride, Moonspell
Album di debutto per gli spagnoli di Salamanca “LLVME”. La band si forma nel 2007 e il nome dovrebbe significare “Fuoco” in una antica lingua spagnola (la, a me ignota, lingua delle terre del Leone). Il fondatore e guida risponde al nome di Nandu (tastiere, chitarra, voce, batteria) che con Lord Valius (voce), Oskar K-os (chitarre), e Nacho (basso) completano la line up. Altri musicisti partecipano per le parti di violino, di pianoforte e dei vari strumenti tipici. Il quartetto ci presenta un lavoro dagli svariati elementi: il folk, black metal, aspetti doom, death e i suoni delle terre spagnole del Leon. Passaggi brutali convivono piuttosto bene accanto a parti melodiche, il tutto avvolto da una atmosfera cupa e alquanto triste. Vi faccio una confidenza: un po’ mi fa arrabbiare questo disco. Sono portato a vedere di buon occhio chi sperimenta, altera, prova miscelare cose diverse. Ecco, questo lavoro ha molti spunti interessanti e abbastanza originali (non hanno inventato nulla di nuovo, per carità), ma d’altra parte a me suona sufficientemente vuoto e scontato. Immagino i vostri commenti: “Smettila con le sostanze obnubilanti, è originale o scontato?”. Vedete, alla fine quello mi resta è una sensazione di incompletezza. Probabilmente è difficile trovare un equilibrio tra la musica folk, piuttosto allegra, e quella lenta e triste black/doom. I nostri non sono riusciti a trovare questo equilibrio e, complici una certa linearità nella fase compositiva e una parte vocale non brillante, mi lasciano insoddisfatto. Mi sembra di aver già sentito mille volte quelle sonorità da altre parti e secondo me le influenze di gruppi come i “My Dying Bride” sono lampanti. Tirando le somme, se siete appassionati di folk/black metal dovreste apprezzare, altrimenti lasciate perdere. Sufficienza d’incoraggiamento per le bune idee mostrate. (Alberto Merlotti)

(My Kingdom Music)
Voto 60

Red Sky - Tra l'Ombra e l'Anima

#PER CHI AMA: Rock, Metal strumentale
Con il passare del tempo, svariati progetti solisti sono saliti alla ribalta, vuoi per le nuove tecnologie disponibili negli ultimi anni, vuoi per il desiderio insaziabile di partorire un progetto non (ancora) condiviso da altri musicisti. Red Sky è riconducibile al frontman degli Ammonal (Melodic Death Metal Band milanese) e questo "Tra l'Ombra e l'Anima" è un EP strumentale di sei tracce. Ottime oserei dire. Si inizia con "Respira", brevissima intro dall' aria molto ambient che lascia subito spazio a "Chiudi gli Occhi". La chitarra cristallina si snoda con dei bei fraseggi ricchi di semplicità e personalità, mentre l' uso sporadico di doppia grancassa e cambi di ritmo repentini, permettono al pezzo strumentale di non annoiare. La chitarra si ingrossa verso il finale, portando ad un'esplosione prog di pregevole fattura. Passiamo poi a "Il Mio Modo di Dirtelo" dove si conferma lo stile chitarristico precedente, dando così un marchio di fabbrica ai Red Sky che permette di emergere dall'universo rock-metal odierno. Sei minuti abbondanti che fanno da colonna sonora originale ad una love story. "La Luna Bacerà le tue Labbra"  è una ballata che inizia in modo classic-rock ma poi accelera subito rivelandosi un pezzo strumentalmente ineccepibile e che lascia traspirare un velo di tristezza. Il penultimo pezzo, "Giada", rispecchia molto la struttura dei precedenti brani, lo stesso utilizzo di distorsioni, wah e puliti lascia pensare ad una mancanza di originalità, ma invece raggiunge l'obiettivo di concentrare l'attenzione dell'ascoltatore sui riff di chitarra, basso e batteria. Ottimo lavoro. L'outro "E poi, Silenzio" chiude ottimamente questo "Tra l'Ombra e l'Anima", rimarcando la vena di tristezza che corre potente in tutti i pezzi ma che trova sempre un riscatto finale, come un'anima in pena che cerca la sua salvezza. Dopotutto, ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera per potersi esprimere a questo mondo di banale normalità. Nota: Red Sky sembra sempre alla ricerca di validi musicisti per i suoi live, quindi impavidi musicisti, risorgete dalle vostre ceneri e volate nel cielo rosso. Inoltre i live sono caratterizzati da un'estrema cura nei dettagli, con una pennellata naif di arte che non guasta mai. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 80

Coreya - Al silenzio

#PER CHI AMA: Rock, Crossover
Reggio Emilia, patria del liscio e del (quasi) rock italiano, dà i natali ai Coreya, cinque ragazzotti venuti su a tortelli, lambrusco (non lo stesso di Ligabue) e distorsioni. Forse proprio questo mix ha fissato nei loro cromosomi un sound originale, rimanendo comunque nel range del numetal e crossover, riuscendo allo stesso tempo ad unire testi impegnati e difficile da proporre senza cadere nella banalità. Quindi ribellione nella musica ma anche nelle parole, lasciando spazio al vocalist che utilizza al meglio il cantato. Il fatto che la voce sia squillante e ben equilibrata conferisce un tono grintoso ai Coreya. Anche l' influenza voluta o non di Marlene & Co. traspare in certi pezzi, questo rimarca una certa maturità dei Coreya che si distinguono anche per questo. Niente da dire sulla parte strumentale, se non che unisce sonorità tipiche del genera ma fa vedere il pelo sulla stomaco di chi suona per passione e non per fare il figo. Complimenti. Parlando dei pezzi, questo LP inizia con "l'Odio", un concentrato di rabbia non fine a stessa e velocità. Apre il cd ma non la ritengo la miglior traccia. "Mentre mi Perdo" stuzzica già di più il mio orecchio, il brano è vario con differenti cambi di ritmo e un bel grasso riff di chitarra nel finale. Bravi Coreya. Il sesto pezzo è una bella sorpresa, infatti "el Sueno es la Vida" è interamente cantata in spagnolo ed accende in me una piccola nostalgia per i grandi Héroes Del Silencio (se non li conoscete non preoccupatevi, sono io il vecchio). Piccola variante in un album totalmente cantato in italiano (scelta coraggiosa per il genere), ma che risulta pure azzeccata. Nell' ultima "Pari a Uno" esplode tutta la rabbia e cattiveria musicale dei Coreya, bel pezzo da concerto che sottolinea a fine lavoro cosa hanno in testa, anche se passano attraverso ballatone classiche , ma non banali, tipo "Distanze". Ragazzi, siete rimasti sulla buona strada quindi avanti tutta e in bocca al lupo. (Michele Montanari)

domenica 27 novembre 2011

All the Cold - One Year of Cold

#PER CHI AMA: Black, Ambient, Burzum
“One Year of Cold” (letteralmente “Un anno di Freddo”) è una compilation che racchiude i migliori brani del duo di Murmansk costituito da Winter e Nordsjel, contenuti negli innumerevoli split rilasciati in passato. Quel che balza subito all’orecchio sin dall’iniziale “Cast Winter” è l’impronta “Burzumiana” assunta dalla band russa: atmosfere gelide, in cui è il solo vento siberiano a soffiare e pungere il viso; melodie malinconico/depressive, figlie di un underground (quello russo) pullulante di realtà funeral doom; un incedere lento, quasi ipnotico per il ridondante enunciare delle stesse ritmiche quasi a voler ricalcare costantemente uno stato di disagio perenne. Non so esattamente da dove nasca questo malumore di fondo, questo senso di inquietudine che avvolge tutte le band provenienti dall’ex grande Unione Sovietica, so solo che c’è un qualcosa che le accomuna tutte, ossia il rifiuto del mondo che li circonda e che li spinge a vomitare (qui non solo in senso figurato, dovreste sentire la voce del vocalist, nelle sue sporadiche apparizioni) tutto il proprio dissapore, odio e disperazione nei confronti della vita e della società. La seconda traccia vede proprio l’affacciarsi del vocalist nella sua veste dannatamente oscura e malvagia con uno screaming spaventosamente disumano mentre la musica continua ad essere maledettamente atmosferica, melodica e capace di dipingere paesaggi invernali, ma senza montagne o foreste, solo il camminare nella neve ghiacciata in mezzo al nulla, con la sensazione di quel suono ovattato, attutito, quel silenzio in grado di stordire per l’enorme rumore che fa. Ecco le innumerevoli sensazioni che vengono sprigionate da questo “One Year of Cold”, che oltre a descriverle in musica, le narra anche all’interno delle sue liriche. Il senso di disagio contagia anche me, mi aliena da tutto e da tutti, soprattutto nella quarta desolante “New Day Without Me” e nella successiva “Message of Silence Space”, in grado di lasciarmi una profonda sensazione di disperazione al termine dei suoi infinitamente ripetitivi e strazianti lunghissimi minuti (sedici e undici rispettivamente) fatti di suoni ambient, decisamente lugubri e avvilenti. Non c’è luce, non c’è positività, non v’è alcun briciolo di speranza nei nove brani contenuti in questo lavoro; e ciò che affascina maggiormente è che non ci troviamo al cospetto della solita band funeral doom da cui aspettarsi realmente questo genere di sentimento, appesantito solitamente da una ritmica soffocante e pachidermica. Qui gran parte dello spazio è lasciato ai sintetizzatori mortificanti, a quei tocchi di pianoforte tristissimi che lasciano solo segni indelebili nel più profondo dell’anima, ferite che con somma difficoltà si rimargineranno. Sono cresciuto con la musica di Burzum e da poco la sto rivalutando, ma qui siamo al cospetto di due grandissimi artisti che riprendendo le sonorità del conte, rielaborandole con il feeling polare tipico russo, hanno rilasciato una testimonianza meravigliosa della loro genialità; da sottolineare tra l’altro che le ultime due splendide tracce sono inedite bonus track, cariche di un feeling autodistruttivo senza precedenti. Peccato solo che una simile release non possa essere apprezzata da un pubblico numeroso e sia, ahimè, destinata ad un esiguo gruppo di anime dannate che, come il duo Winter & Nordsjel, è tormentato nel corpo e nell’anima. Io lo sono e non posso far altro che celebrare questo lavoro e custodirlo gelosamente nella mia collezione di cd speciali. (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 85
 

sabato 26 novembre 2011

Cut the End - Dawn’s Death to Dusk

#PER CHI AMA: Death/Post Metal, ultimi Entombed, Neurosis
Non appena ho ascoltato la prima traccia di questo cd, me ne sono immediatamente innamorato. “Born From the Earth” apre in modo tiepido, malinconico e dannatamente accattivante, lasciandomi intuire (erroneamente) fin da subito che quello che ho oggi fra le mani è un cd di post rock. Sicuramente si può cadere nella tentazione di una simile definizione durante l’ascolto degli iniziali sei minuti della traccia d’apertura, perché non appena prende il sopravvento il suono roboante delle chitarre e le vocals rabbiose dei due cantanti, il timido sound della band catalana diventa un’ondata di metallo contaminato trasudante rabbia, in grado di mischiare le carte più e più volte nei suoi 43 minuti di musica, distribuiti su cinque brani. Dicevo delle bellissime melodie poste all’inizio del cd, che si trasformano ben presto in una cavalcata apocalittica, in cui converge tutto quanto di buono in ambito post metal è concepito oggi. Come al solito, rimango disorientato quando di fronte mi ritrovo qualcosa di innovativo, perché sono felice di poter credere che nel metal ci sia ancora un sacco di cose da dire e sono certo che gli spagnoli Cut the End rientrino nella schiera di band capaci di sperimentare e stupire, anche con poco, ad essere sinceri. Eh già, perché la successiva “Treason, Pleasure & Pain” sembra più un pezzo degli ultimi Entombed (che centri qualcosa il mastering ai Cutting Room Studios di Stoccolma?), quelli più grooveggianti ma che comunque non disdegnano una certa pesantezza e velocità nelle ritmiche, il growling feroce delle vocals, ma che tuttavia strizzano l’occhiolino a qualcosa anche di più “commerciale” (vi prego passatemi il termine). Il sound del quartetto di Barcellona si fa più soffocante ed oppressivo con la terza “Les Malheurs de la Vertu”, dove a sostenere il tutto c’è un riffing nervoso di chiara matrice svedese death metal, sporcato però nelle sue parti strumentali, da influenze tipicamente statunitensi (stoner/western mi verrebbe da dire). La mia testa viene avvinghiata da un riff di chitarra che si insinua, come una cimice nel corpo, impossibile da identificare, e che quindi mi tiene costantemente compagnia. Nel suo incedere, la song si fa più cerebrale, si condisce di nuovi elementi, talvolta assai psicotici, pescati anche in ambiti più disparati quasi progressivi, tenendo comunque come elemento portante, quella ritmica iniziale selvaggiamente inquietante. Passano i minuti e vengo annichilito dal furente sound dei nostri, che in “The Sound of Fallen Leafs”, danno sfoggio a tutta la rabbia, investendoci con un pezzo tirato di death/hardcore assai tecnico (mostruoso il lavoro alla batteria, assai fantasioso). Siamo quasi giunti alla conclusione di “Dawn’s Death to Dusk” ma ci aspettano ancora i dieci minuti finali di “Expired Shortest Distance”, con i quali i Cut the End, fanno breccia definitivamente nel mio cuore con una miscela condensata di post metal, con il growling che si intreccia con linee pulite di voce, un drumming costantemente preciso e ipnotico, le chitarre alla costante ricerca del riff sperimentale, il riff che si incunea nel nostro cervello e non ci molla più. Sono folgorato, esaltato dalla proposta musicale dei quattro musicisti di Barcellona, che oggi mi hanno dato una bella lezione: la Spagna non è solo calcio, belle donne, spiagge assolate o sangria; oggi c’è una cosa in più: i geniali e selvaggi Cut the End. Post Moderni! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85

Paragon Belial - Nosferathu Sathanis

#PER CHI AMA: Black old school, Marduk, Aura Noir
Svaniti nel nulla più di 10 anni fa, tornano sulle scene i teutonici Paragon Belial, autori di un solo cd di tiratissimo e rozzo black metal, ancora nel lontano 1996, dal titolo “Hordes of the Darklands” e poi di un demo-cd nel 2001, passato pressoché inosservato. Dopo questo lungo silenzio, quello che ci ritroviamo fra le mani oggi, è un disco forse non molto al passo con i tempi, ma che comunque potrebbe fare la gioia degli amanti di questo genere. Il terzetto tedesco sciorina nove tracce di furioso, oscuro e anticristiano black metal, privo di ogni tipo di melodia: una scarica di lava proveniente direttamente dagli inferi, che non ci lascerà tregua. “Nosferathu Sathanis” ci catapulta indietro nel tempo, per quei suoi suoni primordiali, glaciali e grezzi, grazie al suo riffing tipico scandinavo e allo screaming demoniaco di Andras, in grado di risvegliarmi ricordi ormai assopiti e abbandonati nel tempo, come i debut dei mai dimenticati Bathory o Venom. Non siamo certo di fronte ad un capolavoro di arte nera, tuttavia questi forti richiami al passato e l’idea di inserire la cover degli Hellhammer, “Horus/Aggressor”, non fanno altro che rafforzare questa mia impressione. Per chi non avesse la prima release dei nostri, sappiate che le prime mille copie verranno rilasciate in un doppio elegante digipack, contenente anche il loro primo lavoro, che sarà venduto sotto il nome “Dying under the Wings of Satan”. Forti di una buona produzione, i Paragon Belial ci regalano uno squarcio di sano e incontaminato black metal, in una scena ormai priva di spunti interessanti. Coraggiosi. (Francesco Scarci)

(Bloodred Horizon Records)
Voto: 65

http://www.paragonbelial.de/

Le Maschere di Clara - 23

#PER CHI AMA: Rock, Stoner, Psichedelia
Un'altra interessante realtà veronese arriva tra le mie affamate mani e anche questa volta devo dire che la fattura è pregevole. Questo "23" è l' EP di esordio de Le Maschere di Clara e contiene quattro pezzi che anticipano l' uscita del full lenght "Anamorfosi" (già disponibile). Sentire fratello e sorella che si danno battaglia rispettivamente a colpi di basso e violino, arbitrati da una batteria che ha il compito di portare sulla retta via gli eccessi artistici delle anime in pena quali sono Le Maschere di Clara, genera una fusione intima ed esplosiva di rock-stoner e venature prog. I suoni rozzi del basso distorto duellano con un sinuoso violino che non nasconde affatto la sua rabbia tramite riff che non hanno nulla da invidiare alle migliori chitarre dei 70s. Il fatto stesso di distorcere uno strumento così storicamente elegante è un chiaro messaggio di sperimentazione e disobbedienza. L'utilizzo di strumenti come il clavicembalo (o simile) e testi tra la letteratura e la poesia, mantengono Le Maschere di Clara sul filo di lana, tra gruppo spontaneamente alternativo e banalmente di tendenza. Non voglio addentrarmi a descrivere i singoli pezzi, ma mi appello al vostro buon senso e vi chiedo di sentire con mano questo piccola chicca che anticipa (glielo auguro) la pregiata fattura di "Anamorfosi". (Michele Montanari)

(Jestrai)
Voto: 80
 

Raventale - Bringer of Heartsore

#PER CHI AMA: Black Doom, Shining
Ecco che a cadenza quasi annuale, mi ritrovo fra le mani il nuovo lavoro della one man band ucraina Raventale che, guidata dal suo leader Astaroth, continua quel percorso all’insegna del black doom atmosferico, iniziato nel 2006 con “На Хрустальных Качелях” e passato attraverso le recensioni del Pozzo, degli album “Mortal Aspiration” e “After”. Eccomi quindi qui a recensire il quinto album dell’act di Kiev, che conferma quanto di buono fatto fin’ora e anzi ci sembra ormai pronto a fare il grande salto per una etichetta un po’ più “commerciale” della russa BadMoonMan Music. L’album si apre con “Anything is Void”, che ci dà immediatamente prova della bontà della nuova proposta dei Raventale. Non tradendo comunque il proprio passato, Astaroth ci consegna un sound che viaggia costantemente sulla linea a cavallo tra un black atmosferico, con quella tipica vena doom che si arricchisce di qualche sprazzo avantgarde/progressive. Quello che ne viene fuori sono otto tracce, abbastanza lineari, dirette, ma sempre permeate di quel feeling malinconico autunnale, che da sempre contraddistingue la musica del combo ucraino. “Twilight… the Vernal Dusk” mostra il lato più oscuro di Astaroth Merc, influenzato dal periodo di mezzo degli Shining, ma che al suo interno apre anche a quelle sonorità progressive appena citate, grazie ad un lavoro di chitarre assai entusiasmante, sorretto egregiamente dal supporto atmosferico delle tastiere. Il disco, facendo tesoro degli errori del passato, scivola via più facilmente rispetto al suo predecessore, forse vuoi per la durata mai eccessiva dei brani o anche per un’accresciuta semplicità nelle linee di chitarra. È sempre tuttavia piacevole ascoltare quelle tipiche sfuriate black, come nella terza “These Days of Sorrow”, che ancora una volta richiama le epiche cavalcate del buon vecchio Burzum, grazie a quel suo riffing ridondante e stracolmo del tipico feeling glaciale nordico. A differenza di “After”, sembra mancare la componente tipicamente desolante/angosciante del genere ed avere invece più spazio una parte più ariosa, che sembra rifarsi in questo caso a sonorità più prettamente finlandesi (penso agli ultimi Insomnium, ma anche al prog degli ormai defunti Decoryah, che si fondono insieme). Certo non siamo di fronte a qualcosa di unico ed estremamente originale, ma come detto più volte, quel che conta sono le emozioni che la musica dei Raventale è in grado di sprigionare e come sempre devo ammettere di trovarmi di fronte a qualcosa che realmente riesce nel suo intento, ossia scuotere la percezione dei miei sensi. Ben poco spazio è lasciato al cantato di Astaroth, che continua comunque a dimostrarsi eccellente nella sua prova vocale, con una timbrica a cavallo tra screaming/growling che non va mai fuori dal seminato. Ultima segnalazione relativa alle liriche che includono nei suoi testi, parti della poesia di Alexander Blok, uno tra i più grandi poeti russi insieme a Puskin. Ancora una volta Astaroth non tradisce le mie attese, pertanto sarà in grado di soddisfare anche le vostre. Consigliato! (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music)
Voto: 75
 

Absurd Universe - Habeas Corpus

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Slayer, primi Entombed
Una intro inquietante apre il debut album degli olandesi Absurd Universe, intro che cede il passo a “Freedom Less”, song che dichiara immediatamente (e apertamente) la direzione stilistica dei nostri: un classico death metal che mischia, con una certa abilità, sonorità di scuola “slayeriana” con quelle tipiche più oscure scandinave (primi Entombed). Non male vero? In effetti rimango piacevolmente stupito dalla carica distruttiva del quintetto proveniente dalla terra dei tulipani e mi lancio con loro alla scoperta di questo lavoro. Come sempre, quando ci si imbatte in generi che fanno del rigore “morale” il loro credo, si rivela sempre assai difficile uscire dagli schemi e proporre qualcosa di realmente originale. E cosi molto spesso, la recensione di un disco di death risulta alla fine essere un esercizio di puro scarico di adrenalina. “Habeas Corpus”, non è esente da questa situazione, pur proponendo alcune soluzioni, in grado di spingermi ad un ascolto più attento. Di sicuro, quello che balza all’orecchio sin dall’inizio è la profonda densità ritmica, nonché lo spessore tecnico-stilistico dei nostri. Immaginate le nove cavalcate qui contenute, come un pugile che dà dei pugni ben assestati ai fianchi del suo rivale, con una più che discreta velocità, interrotta solamente dal suono del gong. E in quei rari momenti, i nostri rallentano il proprio dinamismo (come nella parte centrale dell’angosciante “Under Command”), forse per prendersi gioco di noi, prima di riaggredirci con una serie di schiaffoni là, nel punto giusto, senza dimenticare quelle belle rasoiate, che ricordano non poco il duo Hanneman/King (“Red Water” o “Boiled by Dead Water” tanto per citare le mie preferite). Non male davvero; alla fine gli Absurd Universe riescono nell’intento di non risultare sterili nella loro proposta, ma anzi di catturare l’attenzione anche del più distratto degli ascoltatori. Gong, fine del match, i tulipani vincono per ko tecnico! (Francesco Scarci)

(Punshment 18 Records)
Voto: 75
 

Natrium - Elegy for the Flesh

#PER CHI AMA: Techno Brutal Death
Mmmm, la copertina raccapricciante (ad opera di Pär Olofsson - Deeds of Flesh, Hour of Penance, Immolation, Spawn of Possession, Immortal) non lascia presagire nulla di buono: sono certo infatti che quel macabro scheletro sottoposto a chirurgia aliena, raffigurato nella cover della nuova release degli italiani Natrium, significhi colate laviche di selvaggio brutal death. E non mi sbaglio di sicuro quando, dopo aver premuto il tasto play e ad aprire c’è la title track, vengo immediatamente investito da un carro armato dalla potenza di fuoco smisurata. Complice una pulizia nella produzione spaventosa (ai 16th Cellar studio), una perizia tecnica maestosa e una ritmica invasata, vengo subito messo a tappeto dal sound articolato, quanto mai brutale dei nostri. Se pensavate che solo gli Stati Uniti, potessero vantare band estremamente valide nell’ambito del brutal death (ed i primi a venirmi in mente sono i Decrepit Birth), dovrete immediatamente ricredervi ascoltando questo lavoro. Abbandonati gli esordi thrash metal, il quintetto di Cagliari, sfoggia una prova di mirabolante brutal techno death con questo “Elegy for the Flesh”, che nelle sue otto brevi tracce, ha il pregio di evidenziare, il processo evolutivo della band, le sue enormi capacità tecniche (ottima come sempre la prova del drumming) e la qualità in sede compositiva. È complesso e assai strutturato il lavoro dietro questo album, che palesa oltre alle qualità già espresse sopra, anche un raffinato gusto per le melodie in fase solistica (eccezionale il finale di “Breastfed with Mendacity”, ma in generale di ogni song), una prova magistrale dei singoli, e anche una inaspettata pulizia vocale nel growling cavernoso di Lorenzo Orrù. Ma attenzione perché “Elegy for the Flesh” non è solo ritmiche al fulmicotone: il cd racchiude infatti anche rallentamenti da brivido con chitarre ultra massicce (“Sarin Benison”), stop’n go ubriacanti di scuola “Meshugghiana” e linee di chitarra assai complesse che si intrecciano fra loro con un esito davvero avvincente che farà di certo la gioia di chi adora un genere come questo. Questa seconda release dei Natrium, non sarà di facile assimilazione perché mai scontata: la violenza espressa nelle note di questo lavoro infatti non è fine a se stessa e pertanto un ascolto più approfondito e attento è decisamente d’obbligo. (Francesco Scarci)

(The Spew Records)
Voto:80

domenica 20 novembre 2011

Israthoum - Monument of Brimstone

#PER CHI AMA: Black Metal, Dissection, Gorgoroth, Unanimated
Un amico (ciao Beppe!), una volta mi disse scherzando: “Più un gruppo ha un nome illeggibile sulla copertina del cd, più è estremo”. Ecco, non è che io ci creda più di tanto. Per esempio questi Israthoum: guardando il loro criptico logo (c’è di molto peggio però), dovrebbero essere una specie di esseri demoniaci dalle forme distorte, grottesche parodie dell’anatomia umana dediti a una musica sulfurea priva di qualsiasi grazia o melodia. Almeno questo è quello che immaginerei. Sorpresa: un bel disco black metal alla maniera della così detta “second wave”, quella dei Gorgoroth per capirci, con parti melodiche di piano e folk che nell’insieme funzionano. Gli Israthoum sono portoghesi nascono 1992, cambiano diversi nomi, si trasferiscono in Olanda e sono sotto contratto per un’etichetta finlandese. Del loro passato ho trovato poco: qualche demo e un’altro LP. Sembrerebbe che si siano presi il loro tempo per lavorare sul loro sound. Hanno fatto bene, il monumento di zolfo (libera traduzione del titolo del cd) è venuto carino. Non hanno creato nulla di nuovo, è vero, però 45 minuti mefistofelici, aggressivi e non banali ci sono. Otto tracce equilibrate, che danno l’idea che i nostri siano coscienti della loro direzione creativa, senza farsi legare troppo dal passato. Certo, gli elementi che evocano la “seconda ondata” ci sono: furia, riffoni pieni di odio (tipo in "Wearing You"), l’atmosfera luciferina, la voce gutturale reiterata. Ma non si percepisce quella sensazione di scimmiottamento sesquipedale tipica dei gruppi amorfi.Prendete "Soul Funeral", dove si può sentire una certa presenza Black’n roll, e "Fire, Deliverance", dal particolare intro acustico, per farvi un’idea. Trovo un po’ debole la parte ritmica, troppo anonima e forse la produzione è ancora grezza, anche per questo genere.In conclusione un album che piacerà agli amanti del genere, ma che potrà colpire anche chi non lo è. (Alberto Merlotti)

(Spikefarm records)
Voto 75
 

Progress of Inhumanity - Escalating Decay

#PER CHI AMA: Grind, primi Napalm Death, Terrorizer
Avete fretta di ascoltare un album che vi brutalizzi velocemente ed efficacemente con ritmiche assassine e schizoidi? Eccovi presto accontentati: 21 tracce di ferale grind core per un totale di 27 minuti; 21 schegge impazzite che vi segheranno in due con il loro sound, concentrato di brutalità, efferatezza e semplicità, che di certo non griderà al miracolo, ma che rappresenta di certo la ricetta ideale per chi ha voglia di pogare come un dannato. “Escalating Decay” è il debut cd degli ateniesi Progress of Inhumanity, che forse nostalgici degli esordi di Carcass (“Reek of Putrefaction”) o Napalm Death (era “Harmony Corruption”), ha pensato bene di rilasciare questo lavoro, esclusivamente indicato ai fan del genere. Inutile soffermarsi su una traccia piuttosto che un’altra, data l’esigua durata delle varie composizioni: vi basti sapere che ciò che contraddistingue il sound dei nostri è una ritmica serrata, nervosa, secca, ma mai estremamente pesante, una sorta di punk portato all’ennesima potenza. La linearità dei suoni, le growling vocals che si intrecciano con uno screaming nevrotico, un drumming ultra tecnico con un uso sconsiderato dei blast beat, qualche inatteso rallentamento, completano il quadro della situazione di una release che non ha molte pretese, se non quella di farvi sbattere la testa come dei pazzi scatenati. Devastanti! (Francesco Scarci)

(The Spew Records)
Voto: 65

Carinou - Bound

#PER CHI AMA: Electro Rock
Un "terrorista" come Fredrik Söderlund nei panni del musicista pop-rock? Non ci volevo credere! Mentre leggevo la biografia di Carinou non riuscivo proprio a figurarmi il famigerato mastermind di Puissance e Parnassus alle prese con un genere di musica così distante dai territori insani dell'industrial o del black metal. Lo ammetto, sulle prime qualche perplessità stava prendendo il sopravvento, ma già al primo ascolto "Bound" ha saputo fugare ogni mio dubbio, confermandomi che persino gli artisti più estremi sanno cavarsela con melodie ruffiane e motivetti dall'appiglio facile. Ma andiamo con ordine. Carinou è un progetto che, oltre a Söderlund, vede coinvolta la cantante Sofie Svenson e la compositrice di musica elettronica Maggie Elfving, già nota nell'ambiente pop svedese per i suoi lavori di produzione e per una recente collaborazione con i The Ark alle backing vocals del loro album. Non c'è che dire, un collettivo stravagante e che "funziona" nonostante i differenti background artistici dei tre. La diffidenza covata inizialmente verso il progetto lascia il posto allo stupore quando i primi ritornelli di "Bound" entrano in testa e a destare tanta meraviglia non è certo la stranezza della proposta musicale, ma una sensazione di immediata sintonia con le contrastanti frequenze umorali di cui l'album è pervaso. Passione, odio, rancore, apatia... queste le emozioni che in "Bound" trovano asilo, alimentandosi tra le insanabili conflittualità del nostro inconscio e consumandone lentamente gli istinti vitali, come se una sottile linea di inquietudine scivolasse invisibilmente attraverso ogni brano. Se però rifletto sul termine "negative metal" coniato dalla Code666, è solo e unicamente sull'aggettivo che mi posso trovare d'accordo, perchè Carinou ha davvero poco in comune con il metal e assomiglia piuttosto ad una versione vitaminizzata dei Placebo, con tanto di melodie vellutate, chitarre energiche e arrangiamenti elettronici di ottima fattura. A questo punto tutto sembrerebbe perfetto se non fosse per la prova vocale "impostata" di Fredrik, talvolta insopportabile nel suo tentativo di fare il verso a Brian Molko. A parte questo, un album da ascoltare, anche solo per curiosità. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 70