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domenica 9 settembre 2012

The Shimmer - New Days

#PER CHI AMA: Dark/New Wave, Joy Division
E' vero, l'avvento di internet ha impattato sulla musica pesantemente e in mille modi. Uno tra tutti è possibilità a molti gruppi di emergere e farsi ascoltare, visto che i classici canali sono gestiti solo dalle grosse etichette e produttori. La cosa divertente è che ho scoperto i The Shimmer in tutt'altro modo, cioè in quello classico di qualche anno fa: ad un festival. Devo dire che tra i tanti gruppi e i diversi generi, loro mi hanno colpito come uno schiaffo quando meno te lo aspetti. I due ragazzi in questione (Max - chitarre e synth, Ricky - voce, basso e Mac) propongono canzoni che prendono a piene mani dal dark & new wave, il tutto in chiave elettronica (per quanto riguarda batteria e synth), e perfino con molta professionalità e umiltà. Poi pensi: ho mai visto in passato un gruppo così dal vivo? No. Fino ad ora mi rispolveravo i vecchi cd dei Joy Division, the Cure e Depeche Mode, ma dal quel festival le cose sono cambiate. "New Days" è il loro primo lavoro autoprodotto a cavallo tra il 2009 e il 2011, contiene nove pezzi e si presenta con un bel digipack. "Star Birds" apre il cd e le sonorità elettroniche si sentono immediatamente, synth e un semplice tastiera a cui si aggiungono poi la drum machine e chitarra creano l'atmosfera per la voce, carica di effetti e molto eterea. Il ritmo incalza e crea un pezzo malinconico, ma allo stesso dinamico. La terza traccia "Lullaby for You" ha un'atmosfera diversa, simile ad un volo pindarico tra le nuvole che cambia ed evolve. Interessante il semplice riff di chitarra che, aggiunto di delay, crea un motivo difficile da togliersi dalla testa. Maledetto Max. "House of Love" (di cui vi consiglio anche il video) è la canzone più rappresentativa dell'album e del progetto The Shimmer. Ritmica semplice ma incalzante, basso distorto e un bel riff "liquido". La voce di Ricky fa il resto, grazie al solito tocco di riverbero che ci riporta indietro ai tempi di Disorder. Il cd si chiude con "Silene", bellissimo il giro di xilofono che crea un'atmosfera fiabesca, e altrettanto l'assolo di chitarra. Grande semplicità negli arrangiamenti che arriva all'ascoltatore, senza bisogno di capirla o interpretarla. A breve uscirà il nuovo album e in base alle ultime canzoni proposte ai recenti concerti, esplorerà più profondamente il dark side of the new wave. Prepariamoci. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 80

Obscure Sphinx - Anaesthetic Inhalation Ritual

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal, Subrosa
Continua il brulicare incessante di talentuose band proveniente dalla Polonia e gli Obscure Sphinx ne rappresentano l’ennesimo esempio vincente, qui ad infiammare la mia estate. Il genere? Ascoltando l’inizio di “Nastiez”, mi verrebbe da indicare in Bjork e al contempo la nostra Cadaveria, le muse ispiratrici della vocalist dei nostri (in formato clean), mentre i chitarroni pesanti e lo screaming più stile “carta vetrata” della stessa damigella, aka Wielebna, mi indurrebbero ad appiccicare l’etichetta di post metal/sludge. Ma il sound dei nostri è, a dire il vero, assai camaleontico, complesso ed articolato, capace di conquistarmi tuttavia fin da subito. La proposta del quintetto di Varsavia mi ha ricondotto ad una delle più interessanti release uscite lo scorso anno, quella della female band statunitense dei Subrosa. Si, decisamente. In “Anaesthetic Inhalation Ritual” si combinano un po’ tutte le divagazioni di un genere dalle mille sfaccettature, in grado di incorporare elementi psichedelici e doomish, come negli undici minuti della già citata “Nastiez” in cui le due anime di Wielebna si incontrano e scontrano, nell’evoluzione parossistica del brano. “Eternity” mi ammalia con il suo incedere lisergico, complici splendide linee di chitarra, su cui ancora una volta, è il growling dell’inquietante e sensuale dama a stagliarsi, sovrana. La classe non è acqua, e se consideriamo che la band esiste solamente dal 2008, possiamo prevedere che, a fronte di una buona dose di promozione, i nostri mostrino tutte le carte in regola per fare breccia nel cuore di quei fan, amanti di suoni più sperimentali. “Intermission” è una breve traccia strumentale che mi prepara a “Bleed in Me” prima e seconda parte, dove l’ensemble dà sfoggio delle proprie potenzialità in una versione più intimistica, ma anche un po’ più soft e commerciale nella prima parte e più polifonica, pesante e ridondante (neppure fossero i Meshuggah) della seconda; esperimento comunque brillantemente superato. A chiudere questo inatteso debut album, ci pensano i dieci minuti di “Paragnomen”, song dai tratti post marcatamente post rock, che suggella la prova convincente di questi giovani polacchi. Bene cosi… (Francesco Scarci)

(Fuck the Tag)
Voto: 75

Sauroctonos - Our Cold Days are Still Here When the Lights are Out

#PER CHI AMA: Post Black, Folk, Agalloch
Devo ammettere di aver deciso di contattare questa band quasi esclusivamente per la cover cd di “Our Cold Days are Still Here When the Lights are Out”, che fotografa un’enigmatica scogliera, quasi interamente in bianco e nero; solo dopo, con sommo piacere, mi sono accorto infatti, che la proposta della band ucraina soddisfaceva per di più i miei gusti, proponendo un black metal dalle tinte post-folk-progressive. Questo lavoro, costituito da sei pezzi, per poco più di 50 minuti di musica, si apre col black mid-tempo di “Lights Out”, song (ma anche intero lavoro) che gioca sul brillante alternarsi di atmosfere post-rock/shoegaze, con la furia serrata tipica del black. Ed è immensamente affascinante immergersi in questi paesaggi, che ricordano le foreste della West Coast o i boschi del nord Europa, con chitarre acustiche dal forte sapore etnico, cosi come gli Agalloch (forse la maggior influenza dei nostri) insegnano, la cui quiete è scossa da lunghe sfuriate metalliche, suoni neri come la pece (Wolves in the Throne Room docet), e dal classico screaming malvagio (da sistemare). “My Name Escapes Me” è un altro sorprendente pezzo che miscela le due facce dei Sauroctonos, band non di primo pelo, ma che esiste infatti dal 2005 e che solo oggi arriva, dopo anni di gavetta, alla tanto sospirata prima release. Un ruolo importante, seppur marginale, lo svolgono anche le tastiere, essenziali nell’economia della band ucraina, portando quel plus addizionale nell’intro di “Dearest Veil” e come sottofondo delle sue epiche ma ronzanti chitarre, cosi come nella successiva traccia, dove assumono addirittura un tono cibernetico. L’album dei nostri si rivela un crescendo di emozioni, che tocca il suo apice nei dieci minuti conclusivi di “Farewell” dove forte è l’influsso post rock. Pur proponendo ancora un sound non del tutto delineato e che fatica a scrollarsi di dosso quel forte alone black old school, i Sauroctonos hanno già tante buone idee, da incanalare ora nel migliore dei modi verso una proposta più personale e meglio, se dalle atmosfere più calde e autunnali. Nel frattempo, promozione a pieni voti per I nuovi esponenti del post black, “made in Ukraine”. (Francesco Scarci)

(Visionaire Records)
Voto: 75

mercoledì 5 settembre 2012

Enthroned - Obsidium

#PER CHI AMA: Black, Marduk
La polacca Agonia Records si sta rivelando una delle più intelligenti case discografiche dell’ultimo periodo, avendo ingaggiato, nel suo sempre più nutrito roaster, le formazioni europee underground più interessanti, e penso a realtà nostrane come Aborym, Ephel Duath, Opera IX e Forgotten Tomb ad esempio; mentre fuori dai confini nazionali, Necrovation, i francesi Vorkreist e gli storici blacksters belgi Enthroned. Andiamo proprio ad indagare maggiormente, quale piega ha preso il sound di questi ultimi, dopo il mezzo passo falso di “Pentagrammation”. “Obsidium” sin dalla opening track, affascina per il lato oscuro della sua forza e fuga immediatamente tutti i dubbi che erano sorti col precedente disco più spinto verso sonorità thrasheggianti. Signori miei, gli Enthroned sono tornati più incazzati e neri che mai, con un album che traspira malvagità da tutti i suoi pori, avendo l’enorme merito di abbinare la furia iconoclasta del black metal, fatta di serratissime ritmiche e demoniache vocals, con favolose parti atmosferiche, che si materializzano con l’utilizzo di cerimoniali chorus, che si vanno ad affiancare alle screaming vocals di Nornagest. “Obsidium” si rivela una epica cavalcata che dalla sua apertura sino alla chiusura dei suoi quaranta minuti, torna finalmente ad identificare gli Enthroned, come band di spicco del panorama black mondiale e a candidare seriamente “Obsidium”, tra i migliori dischi in ambito estremo di questo avido 2012. Se vi mancavano le chitarre iper veloci della band belga, eccovi serviti “Petraolevm Salvia” che rappresenta quanto di meglio si possa avere oggi in ambito estremo. A questo aggiungete anche una discreta dose di atmosfere (da citare “Thy Blight Vacuum Docet”), che devono essere state concepite direttamente da Satana in persona, qualche melodica linea di chitarra che riesce a trovare spazio nella ferocia dei nostri, qualche lancinante momento di funeral come nella morbosa “Oblivious Shades” ed in mano avrete qualcosa di cui parlare con il vostro amichetto black preferito, per diverso tempo. Ottimo questo comeback degli Enthroned, nonostante i continui rimaneggiamenti in sede di line-up che hanno teso a destabilizzare la band nell’ultimo periodo. Oscuri e malefici. (Francesco Scarci)

(Agonia Records)
Voto: 80

Squat Club - Corvus

#PER CHI AMA: Math Rock, Experimental, Avantgarde
L’etichetta australiana continua a farmi compagnia in questa torrida estate, proponendomi un altro interessantissimo pezzo del proprio roaster: trattasi questa volta degli Squat Club, un quartetto che vede tra le propria fila la presenza di strumenti un po’ atipici, bouzouki, chitarra baritonale o sax tenore. Insomma, già presentandosi con questa formazione, un po’ di curiosità me l’hanno messa addosso, poi dopo aver inserito il cd nel lettore e aver visionato la durata dell’album, che sfiora gli 80 minuti, beh mi sono armato di santa pazienza per affrontare una bella montagna da scalare. “Intro” affidata ai nove minuti della title track, la song più breve (le altre viaggiano sui 14 minuti) dove inizia un bel viaggio nel sound incandescente, progressive e psichedelico dei nostri, affidato quasi principalmente a fughe strumentali, che talvolta sforano anche in territori non propriamente metal. 10! Questo è il voto che darei alla prima eccezionale song, completa, coinvolgente, tecnicamente perfetta e portatrice di calde emozioni. Parte “Reticulum”, e il sound è dapprima vellutato, morbido, caldo come una dolce carezza sul viso, ne sono sopraffatto, mi sento coccolato, al sicuro da tutto e da tutti; ogni strumento ha il suo ruolo ben definito e riconoscibile, uscendo allo scoperto con delle sorte di brevissimi assoli, prima la chitarra, poi il basso ed infine anche la batteria. Quindi, la musica del quartetto si fa più energica, stravagante, ipnotica, elettrizzante nella sua parte centrale, per tornare a chiudersi cosi come era iniziata. Con “2.75 Kelvin”, l’atmosfera si fa più claustrofobica, mi sembra quasi di essere chiuso all’interno di una cassa da morto, già seppellito sotto due metri di terra, incapace di respirare, con il freddo a penetrare nelle ossa e il terriccio a cadermi in faccia. Sensazione orribile, angosciante, opprimente, che perdura per tutti i 12 minuti del brano e la cui musicalità può ricordare quella più ambient degli Ulver. “Serpens” è un altro esempio di quanto gli Squat Club siano legati alla musica progressive e di quanta originalità possano comunque avere in corpo e poter diffondere cosi liberamente nel mondo. Frastornato, anzi quasi ubriacato dai suoni extraterrestri di questi insani individui, mi ritrovo addirittura una fuga grind nel bel mezzo della canzone, con annessa un assolo di basso di scuola Primus. Assorto ormai nei miei agonizzanti pensieri, non riesco più a capire che razza di musica stia ascoltando per la facilità con cui passa da suoni estremi ad altri più ambient, relegando in ultimo piano la performance vocale di Josh Head, ma dando largo spazio alla perizia tecnica dei singoli. Arrivato alla quinta traccia, che sul retro del cd dovrebbe rispondere a “M44 Beehive Cluster” e dovrebbe essere l’ultima, mi ritrovo nuovamente disorientato in quanto il mio lettore ne legge sei con la conclusiva che dura un altro quarto d’ora. E allora dopo un altro giro sulle montagne russe degli Squat Club, giungo alla conclusione, abbandonandomi al noise/drone dell’untitled track. Che dire, quella di “Corvus” è stata sicuramente un’esperienza interessante, che pecca forse in prolissità e scarsissimo (quasi nullo) uso delle vocals, un’esperienza però che auguro a voi tutti di fare almeno una volta nella vita. Con questo quindi, è scontato il mio invito a dare un ascolto a questo folle album, che siate amanti del prog, del post o di sonorità più estreme. Deliranti! (Francesco Scarci)

(The Birds’ Robe Records)
Voto: 80

Eternal Deformity - The Beauty Of Chaos

#PER CHI AMA: Black Symph,/Avantgarde, Dimmu Borgir, Arcturus
Se potessi dare un voto virtuale alle etichette nostrane, beh il primo posto andrebbe sicuramente alla Code666, che da sempre, ha mostrato una certa propensione nell’andare a scovare band talentuose in giro per il mondo, lanciarle ed eventualmente lasciarle andare, a fronte di proposte di più grandi label. Se dovessi fare un paragone con il mondo del calcio, la Code666 sarebbe sicuramente come l’Udinese, club scopritore di fenomeni, pronti ad essere proiettati nel gota del calcio internazionale dai grandi club. Oggi mi spingo nel celebrare le gesta di questi polacchi Eternal Deformity, band dedita ad un black d’avanguardia, che ha ben poco da invidiare ai ben più famosi colleghi. Partendo da un sound all’insegna del death, il quintetto polacco convoglia poi tutta una miscela esplosiva ed intrigante di influenze che non fanno altro che rendere The Beauty of Chaos” accessibile alle grandi masse. “Thy Kingdome Come”, “Lifeless” sono pezzi che si impressionano immediatamente nel mio cervello, grazie ad una graffiante ritmica, melodie ruffiane (dove si odono echi alla Children of Bodom), aperture progressive (ben più palesi in “Pestilence Claims No Higher Purpose”), e vocals che si dipanano tra il growling, lo screaming e il pulito, con le tastiere che rappresentano alla fine l’elemento portante dell’album e che disegnano splendide atmosfere e sorreggono eccellenti armonie. A tutto questo c’è poi da aggiungere un’elevata preparazione tecnica dei nostri che si lasciano andare in brillanti assoli, strutture ritmiche assai elaborate, trovate avantgarde (di richiamo Arcturus), aperture black sinfoniche stile primi Limbonic Art o ultimi Dimmu Borgir, sfuriate al limite del power (ma non temete, nulla di grave) ed intermezzi acustici, che esaltano ulteriormente la prova del combo di Zory. In sostanza, la Code666 si conferma ancora una volta ottima etichetta in grado di lanciare talenti e gli Eternal Deformity, mostrano di avere le carte in regola per diventare dei fenomeni in chiave futura. Da monitorare accuratamente. (Francesco Scarci)

(Code 666)
Voto: 80

Edenian - Winter Shades

#PER CHI AMA: Gothic/Doom, Draconian

La casa discografica, la copertina del cd (una donna di schiena in un paesaggio innevato), la provenienza della band (Ucraina) e le note iniziali di questo lavoro (soavi tocchi di pianoforte), preannunciano già quello che mi devo aspettare dall’ascolto di “Winter Shades”. Lo avrete capito anche voi, ne sono certo. Gli Edenian sono gli ennesimi esponenti di una scena, che sta per esplodere per quanto sia intasata. Se qualche anno fa, il metalcore e suoi derivati avevano saturato il mercato con migliaia di uscite, ora è il death doom e derivati più estremi (funeral o depressive) ad andare per la maggiore. Devono essere fieri My Dying Bride, Paradise Lost e Anathema ad aver avviato un movimento che ha avuto cosi presa, a quasi vent’anni dalla sua nascita. E il combo ucraino in questione deve essere rimasto ammaliato dalla performance dei maestri inglesi, proponendo infatti un lavoro di death doom melodico, che oltre alle succitate band, si ispira anche alla seconda ondata di death doom band, Draconian e Swallow the Sun, avendo tra le sue fila (ma anche gli Anathema l’avevano) la componente “angelica” di una voce femminile, quella di Samantha Sinclair, che fa da canonico contraltare alle growling (e pessime cleaning) vocals dei due vocalist, Alexander e Volodymyr. Insomma tutti i clichè del genere sono racchiusi nelle note di “Winter Shades”, un lavoro che ha ben poco da chiedere in fatto di originalità. Per carità, gli amanti del genere, saranno contenti sapere che una nuova realtà in ambito death doom (e anche gothic, visti i chiari riferimenti ai Tristania) malinconico, popoli il panorama metal; io ne avrei fatto sicuramente a meno. Suggerirei infatti alla Solitude Productions e sublabel di dare meno spazio alla quantità, ma di focalizzarsi maggiormente sulla qualità, che nell’ultimo periodo è andata un po’ scemando. Ultima curiosità dell’album, è che il brano “The Fields Where I Died” si apre con la narrativa vocale di David Duchovny, “superoe” di “Californication” e in passato l’agente Fox Mulder di X-Files. Ma che diavolo ci fa in una release di questo tipo, mi domando. Per concludere, gli Edenian sono ancora una band acerba, che, se vorrà raggiungere determinati obiettivi, dovrà lavorare sodo per scrollarsi di dosso, le innumerevoli e palesi influenze a cui sono soggetti. Sufficienza risicata raggiunta, ma per il momento, niente di più. (Francesco Scarci) 



(BadMoodMan Music) 

Voto: 60

domenica 2 settembre 2012

Sleepmakeswaves - ... And so We Destroyed Everything

#PER CHI AMA: Post Rock strumentale
È ricominciata a pieno ritmo la stagione delle recensioni (le mie, il Franz non si è mai fermato) e come non iniziare con del buon post rock strumentale dall' Australia? Allora prendiamo quattro bei ragazzotti di Sidney, chitarre-basso-batteria-computer e tanto delay, mescoliamo e otteniamo gli Sleep-Makes-Waves. La prima canzone "To You They are Birds, to Me They are Voices in the Forest" ha un'eccezionale apertura epica che ad una prima impressione si stacca dal classic post rock, ma la successiva entrata della chitarra solista ci riporta a sonorità conosciute, ma allo stesso tempo innovative. Una track che regala spazio e respiro, nonostante la mancanza di un testo, si riesce ad immaginare un inno alla natura suonato all'ombra di grandi alberi in una sconfinata foresta. Otto minuti ben strutturati, con diversi cambi di ritmo e melodia. Bel colpo. "Our Time is Short but Your Watch is Slow" inizia con dei synth/chitarra molto alla Sigur Ros che si uniscono ad un loop ritmico, come a dimostrare che la tecnologia e la natura possono in qualche modo coesistere. Almeno nella musica. La track che prediligo è "A Gaze Blan and Pitiless as the Sun" perché riesce a fondere aggressività e delicatezza come poche volte ho potuto ascoltare. Infatti ritengo che il punto forte dei Sleep-Makes-Waves siano proprio gli arrangiamenti, mai banali e con un livello tecnico lodevole. La chitarra riesce a passare dal classico connubio delay-riverbero del genere ad uno stile più progressive con molta facilità. L'unico modo per non annoiare con una traccia da undici minuti? Unire molte linee melodiche differenti tra loro, che qualche gruppo avrebbe utilizzato per creare almeno tre canzoni differenti. Chiudiamo con l'ultima canzone che da il titolo a questo "...And so We Destroyed Everything"", intro di pianoforte minimalista e malinconico che lascia il passo ad un attacco chitarra-basso-batteria prorompente e intimidatorio. Poi tutto entra in un veloce vortice ritmico che passa da suoni puliti a distorti in rapida successione, dove la chitarra si ingrossa paurosamente verso i 4'12''. Meravigliosa. Un grande gruppo, questo perché gli Sleep-Makes-Waves si lasciano apprezzare per le piccole contaminazioni elettroniche che riescono a differenziarli da molti altri gruppi del genere, ma la verità è che la tecnica e la loro creatività musicale è sopra la media. Molto sopra, quindi teniamoli d'occhio. E speriamo tornino in Italia a breve. (Michele Montanari)

(The Birds’ Robe Records)
Voto: 75

sabato 1 settembre 2012

Kayleth - The Survivor

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Psych/Doom Metal, Orange Goblin, Sleep
Il deserto è tornato. La sabbia sugli stivali, uno scorpione che si nasconde tra le rocce e finalmente la sagoma di una città che si staglia all'orizzonte. Miraggio, realtà, non importa. La gola arsa reclama un whisky ghiacciato e del buon fuzz. I Kayleth ritornano dal deserto per regalarci il loro nuovo lavoro e con l'obiettivo di bissare il successo del precedente "Rusty gold". “The Survivor” è un EP con cinque pezzi inediti e una cover (The Nile song), che inizia con un messaggio in codice Morse e subito lascia posto alla prima traccia "The Anvil". Di nome e di fatto, questi tre minuti si abbattono pesanti come granito e veloci come un treno senza controllo. La ritmica è infatti il pregio maggiore di questa canzone, con un paio di stacchi che comunque non rallentano la corsa forsennata e mi lasciano stordito. Bel pezzo. "Desert Caravan" è un brano meno veloce, ma dall'aggessività inaudita, con un 'intro che alterna una strofa cantata molto minimalista ad un'esplosione di chitarra grossa e arrogante (come solo il fuzz può fare), batteria e basso. La traccia continua poi sullo stesso tema, dove la voce di Wiko (tutto rigorosamente in inglese) urla al cielo tutta la propria rabbia. Passiamo alla mia song preferita, "The Survivor". Dopo una breve intro di synth, la batteria di Pedro scandisce uno dei ritmi doom più violenti che io abbia mai sentito negli ultimi tempi. Il Dalla (chitarra) e Zancks (basso) creano una trama all'unisono, con diversi assoli caratterizzati dall'immancabile delay, wah e phaser. Sembra quasi una ballata in onore al dio Cactus, con una bolgia di corpi che danza intorno al sacro totem del deserto che brucia nella notte più lunga. Psichedelia, doom e stoner fusi in un unico capolavoro, da assaporare lentamente, come il mezcal che scende giù per la gola e ci regala immagini oniriche. Piacevole anche la cover finale dei Pink Floyd, ottima reinterpretazione di un vecchio pezzo fine anni ‘60, quando la pantera rosa aveva altre sonorità. Quindi, procuratevi questo EP prima che diventi sold out e se vi capita, andate a vederli dal vivo. L'adrenalina scorre a fiumi e i volumi vi faranno ricordare di essere vivi. Bel lavoro ragazzi, complimenti. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 85
 

Heretoir - Existenz

#PER CHI AMA: Black Shoegaze
A dimostrazione che lo shoegaze non è un movimento esclusivamente francese e che il depressive non è tipico dei paesi scandinavi, arrivano i tedeschi Heretoir che prendono due piccioni con una fava, proponendo un sound a metà strada tra i due generi sopra elencati. “Existenz” è l’album di debutto dei teutonici, che hanno poi visto rilasciare un album omonimo in coda a questo. Le cinque lunghe tracce di “Existenz” si aprono con la strumentale “Erwachen im Dunkel”, sei minuti abbondanti di riffs glaciali intrisi da un feeling malinconico di scuola “burzumiana”, che creano decisamente le basi per potersi lasciar investire da questo freddo vento proveniente da nord. “Ein Schrey in Die Nacht” apre invece come un pezzo punk con delle terrificanti screaming vocals ad accompagnare l’iper veloce ritmica, che trova, fortunatamente, un po’ di pace in qualche break centrale, in cui è solo un glaciale riff di chitarra a dominare, prima che tiepide tastiere di matrice shoegaze facciano la propria comparsa a stemperare tutta l’irruenza di quest’opera prima. Peccato solo per la vetriolica voce, che fatico enormemente a tollerare, perché priva di espressione. Un breve intermezzo acustico, “Verblasst”, mi prepara psicologicamente all’avvento di “Ausgeburt”, che vede in primo piano l’utilizzo dei piatti, prima che vocals spettrali aleggino sulla deprimente base chitarristica, che non può che spingere a disperati e inconsulti gesti che pongano fine alla nostra sconclusionata esistenza. Non è decisamente musica per grandi masse quella degli Heretoir, il rischio di farsi del male con pensieri autolesionisti, è estremamente elevato, soprattutto dopo aver ascoltato anche la conclusiva e quanto mai desolante traccia conclusiva, “Weltenwandler”, che nei suoi quasi dodici minuti, ci regala anche quattro minuti di silenzio, forse per contemplare il nulla o per decidere che fare di noi e della nostra vita, dopo aver ascoltato questa release. Fortunatamente le soavi note di pianoforte della ghost track mi restituiscono un briciolo di serenità e ottimismo per il futuro, poca roba però, perché il secondo lavoro degli Heretoir mi sta già aspettando… (Francesco Scarci)

(Pest Productions)
Voto: 65
 

Mish - The Entrance

#PER CHI AMA: Alternative, Math, Post Rock, Tool
Di questa band non so assolutamente nulla, se non che proviene dall’Australia; pertanto la recensione si fa sfidante fin da subito, in quanto con nessuna informazione tra le mani, non posso far altro che trasmettervi in poche righe, quelle emozioni o descrivervi semplicemente quei suoni, che fuoriescono da questo “The Entrance”. Attacco arrembante con “Precocial”, che sembra un pezzo di math-core, con una ritmica serrata e affilata, che evolve lentamente in suoni più oscuri con delle vocals pulite in sottofondo. Al di là del sound massiccio, quasi in stile Meshuggah, è senza dubbio la tecnica chirurgica dei nostri a ben impressionare. Song dirette, orecchiabili e forse “Janitor” ne è l’esempio più azzeccato, con i nostri, dopo aver preso appunti a scuola dei Tool, ne ripropongono la loro personale versione, ed il risultato, ve l’assicuro, non è affatto male. A differenza dei maestri però, le canzoni qui sono sicuramente meno lunghe, non mostrano la complessità dei brani che si riscontra nelle release dei gods statunitensi, tuttavia sembrano seguire uno schema ben preciso, che si consolida a poco a poco dapprima nel cervello, per scendere poi più giù, fino ad imprimersi nell’anima. E cosi ecco scorrere splendide immagini, accompagnate da un’ottima musica che si muove all’interno dei confini di quello che possiamo semplicemente definire come musica alternative, per un risultato davvero sorprendente ed intrigante. Forse la voce di Rowland Hines non è ancora al meglio nella sua veste più squillante, tuttavia quanto confezionato dal nostro quartetto australiano, è sicuramente di pregevolissima fattura, anche con pezzi del tutto strumentali (“Resilience”), dove i nostri sembrano trovarsi maggiormente a proprio agio. Con “Fire Inside”, esploriamo la parte più intimistica dei Mish e mi rendo conto che forse dovrò aumentare di un altro mezzo punto la votazione degli aussie boys, in quanto ora è un certo post rock a penetrare nel tessuto musicale dei nostri e a rendere il risultato finale decisamente più introspettivo e ricco di significati. Ma “The Entrance” non cessa certo qui di stupire con le sue raffinate linee melodiche, l’originalità della proposta e la perizia tecnica dei propri strumentisti: “Altricial” sembra quasi un pezzo dei Primus, complice la presenza di un basso in prima linea; “Cosmo” è un lungo pezzo che abbina il post rock a suoni math-crossover-funky, per un risultato finale assai originale. Chiudono “Telepathic”, song tecnica e forse troppo ridondante nel suo giro di chitarra e la title track, una specie di outro del disco con una ritmica in stile Metallica e la presenza in sottofondo dei didjeridoo, lo strumento tipico degli aborigeni australiani, a decretare che i Mish sono un’altra eccitante realtà proveniente dal “nuovo continente”. Ottimi! (Francesco Scarci)

(The Birds’ Robe Records)
Voto: 85

Grisâtre - Esthaetique

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Burzum
Questa torrida estate vede fare la comparsa tra le mie etichette “amiche” anche la nostrana Dusktone, che mi propone gli ultimi suoi tre lavori. E allora iniziamo con l’analizzare quello che mi ha incuriosito di più, per stile e per nome, ossia il secondo album dei francesi Grisâtre, band capitanata da Rokkr e responsabile in questo “Esthaetique”, di suoni oppressivi, nichilisti, e di quel genere che viene etichettato come depressive suicidal black metal, che va tanto per la maggiore nell’ultimo periodo. Ebbene, dopo la breve intro, ecco gettare la mia residua felicità nel cesso, lanciarmi all’ascolto autodistruttivo di “L’Abstrait”, dove mi lascio fagocitare dalle maledette tristi melodie di Rokkr, che vedono lunghi tratti di epiche cavalcate annebbiarmi dapprima i sensi, stordirmi con visioni oniriche in bianco e nero, immagini che non hanno nulla di positivo da regalare, ma che sembrano essere solo un presagio di morte. Anche l’aria che respiro durante l’ascolto è pesante, quasi putrida, pronta a scandire l’ora del mio decesso. L’intorpidimento delle braccia e delle mie gambe, mi fa temere il peggio, ma è chiaro che ho solo perso il contatto con la realtà, cosi tanto assorbito dall’ascolto di questo lugubre lavoro, che vede tipicamente offrire una produzione scarna e sporca. L’eco del sound nord europeo si ritrova nella proposta del nostro Rokkr, l’ambient di scuola burzumiana aleggia come un’inquietante spettro nella musica dei Grisâtre, cosi come pure le chitarre zanzarose, che si lanciano in rari turpiloqui di ferale brutalità, rompono la monotonia del loro incedere. Il black doom della band transalpina viene poi squarciato dallo screaming selvaggio e sgraziato di Rokkr, ma si sa, queste sono le dinamiche di un genere sempre più in ascesa e di cui sentiremo sempre più spesso parlare. Se non volete rovinare la positività della vostra estate con la disperazione emanata dalle atmosfere dei Grisâtre, posticipate l’ascolto di “Esthaetique” in autunno; ma se anche voi, non avete paura ad affrontare le paure più recondite che si celano dentro alla vostra anima dannata, allora date una chance a questo lavoro. Funereo. (Francesco Scarci)