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domenica 3 luglio 2011

Benighted in Sodom - Reverse Baptism

#PER CHI AMA: Black Doom
Atmosfere decadenti che inneggiano a temi magico surreali per questo ottimo lavoro dei Benighted in Sodom. Monumento ermetico dall’aura enigmatica che della vacuità del titolo riprende lo stile per dedicare due intere canzoni ad un fantomatico Ocean (ascoltandole attentamente sono sempre più convinto si tratti di una metafora dell’infinito, più che dell’oceano materiale vero e proprio), dalla modica durata di dodici minuti ciascuna. Le conoscenze di un retroterra magico si appagano nella mefistofelica "Flauros", traccia intitolata ad un demone multiforme che i trattati del settore indicano come rappresentante per eccellenza di una potenza incontrollata. Aneddoti riportano anche la scelleratezza di Crowley, che osò invocare la natura di questo demone rimanendo comodamente seduto nel cerchio d’invocazione. Che tutto questo non sia un caso lo testimonia la canzone stessa, unica nel suo genere all’interno dell’album: è la sola traccia ad iniziare con una batteria lanciata a tutta velocità, evidenziando la capacità di una band prevalentemente doom ad affrontare squarci di ballate black. Interessante l’accostamento di voci pulite a screaming, inserite al momento giusto nella fasi di ‘rilascio’ delle tracce per evitare una monotona ripetizione dello stesso tema. Decisamente un ottimo album, che grazie all’equilibrio di andamenti lenti e veloci non stanca l’attenzione del pubblico (ovviamente di nicchia). Mancano tuttavia quegli arpeggi hopeless tipici del doom, motivi firma di un genere slow che fa delle atmosfere ignote il proprio cavallo di battaglia. Manca anche la viscerale violenza del black più puro, poiché altre appaiono essere le ricerche stilistiche dei Benighted. Ho apprezzato particolarmente i suoni di chitarra che si sviluppano in una sorta di trance onnipresente, quasi fossero liquidi. Pur essendo riusciti (loro) nell’intento di creare un’opera degna di questo nome, non sono riuscito (io) a trovare quel piccolo particolare che rende questo gruppo unico nel panorama a cui appartiene. È tuttavia innegabile che sanno quello che fanno. Flauros non lo conoscono in molti. (Damiano Benato)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

Demonia Mundi - In Hoc Signo Vinces

#PER CHI AMA: Black Symph., Graveworm, Stormlord, Mortuary Drape
Era da un bel po’ che non mi capitava di recensire un album di black sinfonico, pensavo anzi che di band dedite a questo genere non ne esistessero ormai quasi più. Fortunatamente mi ritrovo tra le mani qualcosa di diverso dal solito metalcore che recensisco e cosi posso nuovamente rituffarmi in atmosfere ormai abbandonate da tempo. Cinque brani che ci consegnano una band che di gavetta ne ha fatta gran tanta (il combo reggino esiste infatti dal 1996) e che con questo nuovo Mcd autoprodotto, dimostra una più che discreta maturità stilistica che speriamo possa consentire all’act calabrese di raccogliere quei frutti fin qui mai raccolti e poter finalmente firmare un contratto che consentirebbe alla carriera dei cinque demoni di fare un gran bel passo in avanti. Dopo la consueta diabolica intro si parte con la title track, cavalcata dai forti rimandi alla tradizione scandinava (Dissection e Unanimated in testa). Si prosegue con “Malleus Maleficarum” titolo forse troppo inflazionato nella scena metal, ma che comunque scorre feroce e grondante di sangue con l’uso delle keyboards che ricorda vagamente quello dei Graveworm. Un altro pezzo dal titolo in latino è “Daemonia Bolla Summa”, song dalle tematiche accusatorie contro le ingiustizie della Santa Inquisizione, braccio armato della Chiesa Cattolica nel passato: il brano ci mostra ancora una volta l’abilità della band nel fondere furia ancestrale con la melodia del black sinfonico. È solo però con le ultime due tracce che si tocca l’apice compositivo del disco: un concentrato di black epico e pagano dalle forti tinte melodiche dove trovano posto atmosfere evocativo-esoteriche che da sempre contraddistinguono il black italiano da quello del resto d’Europa. Insomma, se siete amanti della furia mistica alla Necromass, unito all’esoterismo di Mortuary Drape, vi piacciono le sinfonie di Stormlord e Graveworm, e siete nostalgici delle melodie che hanno reso grandi gli Emperor di “In the Nightside of Eclipse”, beh un ascolto ai Demonia Mundi lo darei sul serio, magari potreste scoprire anche voi, che il black sinfonico non è morto… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

Winter of Life - Mother Madness - English

#FOR FANS OF Death Progressive, Novembre, Oceans of Sadness, Opeth
I must admit I have had great difficulty in reviewing this "Mother Madness" because it is very difficult to find the right words to let you know what it is contained in this little gem produced by the combo originated from Naples. The album opens with the whispers of "Mattutino" song with a strong progressive flavor, which has the quality of immediately putting in evidence the tremendous potential of Elia Daniele on vocals, and generally manages to put on display from the start the excellent quality of the band coming from Campania, the song quickly slips away to make room for "Noumena", which highlights the influence of the sextet and an incredible mix of influences: signs of November in the guitar lines merge into their sound, perhaps because the recording was done at "The Outer Sound Studios "of Giuseppe Orlando; as regards the use of vocals however, I was reminded of the recently broken up Oceans of Sadness. The title track enters in an explosive way into the coffers of my stereo, and then give way to delicate touches of piano and a soothing and melodic rhythm, but very clearly never pander, and then the wonderful voice of Elia, able to use his extensive vocal range, to be in his own way, the best instrument of the Winter of Life: poignant, reflective, aggressive when needed, in short, comprehensive and excellent. And the music? A progressive metal marked by some extreme outburst, but also capable of digressions into jazz territory like on the title track (experiment already done, however, by the aforementioned Belgian Oceans of Sadness). But not only because "witHer" opens with a slap bass, taken on loan from almost any band with the funky vocalist that for a moment seems to make the rapper; but the music does not take long to take off again in a crescendo of emotions, this time thanks to the chasing scintillating guitars, immersed in the warmth of soft environments and also by the guest vocals of Tiziana Palmieri. This album won me over and every time I listen to it (maybe I'll be at the 50th time and I am still not tired), I find intriguing new details that lead me to listen once again. The quality of the Winter of Life lays in suggesting music that in the course of the tracks (all of them of considerable length), is constantly changing tune, alternating trips to neighboring death territories with beautiful riding rhyths, and in times when maybe the resurfaces the strong influence of the Novembre or other act of the progressive scene like Pain of Salvation. The result is a succession of great songs that will soon to creep into your head and make you wince, make you fully enjoy the great ideas that populate the mind of these six boys. What a pleasure listening to this "Mother Madness," what a pity I did only recently. Go on like this, I am waiting now for another confirmation; highly recommended! (Francesco Scarci - Translation by Sofia Lazani)

(Casket Music)
Rate: 85

venerdì 1 luglio 2011

Somnolent - Renaissance Unraveling

#PER CHI AMA: Sludge, Post Metal, Drone
Un nome un programma e se il buon giorno si vede dal mattino, mi dovrei aspettare dai Somnolent un bel funeral doom, cosi come era stato per il loro album di debutto, “Monochromes Philosophy”. Con mia somma sorpresa, constato felicemente che la nuova direzione musicale intrapresa dal quintetto di Odessa è invece uno sludge post metal dalle tinte progressive, che fin dall’iniziale “Exhale!”, riesce a conquistarmi per la varietà dei suoi suoni di chitarre distorte, ritmiche martellanti e growling vocals, abbinata ad una raffinata ricerca di quell’improvvisazione che rese grandi i nostrani Ephel Duath. La conferma di questo nuovo percorso stilistico, arriva anche con la successiva “Emptiness Beyond the Horizon”, che nonostante un’apertura dalle forti sfumature doomish, mi fa ben presto soffermare a riflettere sui suoni psicotici del combo ucraino con un assolo quasi preso in prestito da un certo blues rock anni ‘70. Devo ammetterlo, sono disorientato e lo sarò ancora di più con la terza “Visible World Eraser”, che apre con un bel wah-wah delle chitarre, accompagnate da un flebile basso e da una voce quasi sussurrata (di scuola Isis). Ecco che si sprofonda nella melma del sound fangoso tipico sludge-drone, con un arpeggio ipnotico reiterato, che lascerà ben presto campo aperto alle “grida” profuse da una chitarra impazzita. Otto minuti per una traccia che si muove all’interno di sonorità dal forte sapore onirico e da un intenso flavour seventies. “P.R.O.S.E. (Poem Risen On Somnolence Error)” rappresenta un breve, quanto mai inatteso, frangente hardcore/progressive/jazz (che improbabile trio, vero?) in grado di accompagnarci negli oscuri meandri di “Solipsistic Exfoliation”, song che questa volta fa del drumming il suo elemento portante, con una voce in sottofondo che parla di scienza e teologia, prima dell’esplosione finale dei suoi suoni. Mi piace, “Renaissance Unraveling” mi piace sempre di più, man mano che si spinge in avanti e osa, anche se magari talvolta non riesce a raggiungere i risultati auspicati, come le meno brillanti prove di “Chrysalis Verge” part 1 e 2. Quel che conta però è che la band non si fermi davanti a nulla e che abbia deciso di mettersi completamente in gioco, come se non avesse nulla da perdere e questo è ciò che realmente apprezzo di questi Somnolent, in quanto indice di personalità e carisma. Alla fine non ho ben capito cosa diavolo sto ascoltando o come definire esattamente questa musica, so solo che mi è entrata dentro e lentamente si è impossessata delle mie facoltà cognitive. Peccato solo per la conclusiva “Division of Nihil”, altra song estremamente interessante, dalle atmosfere tenui e pacete, ma che sembra quasi interrompersi di colpo, ponendo fine in modo alquanto affrettato ad un album che mi ha regalato ottimi spunti riflessivi: il post metal è vivo più che mai e sono certo che i confini per questo genere sono ancora estremamente lontani. Promossi a pienissimi voti, brillanti! (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records)
Voto: 80

H.o.S. -The Beginning

#PER CHI AMA: Thrash anni '80, Destruction, Sodom, Kreator, Metallica
Certe volte mi chiedo se io abbia inserito un Cd, oppure se sia attivata una macchina del tempo che mi ha sbattuto nel passato. Chi di voi ama il thrash metal tirato? Quello dei primi Metallica o dei Kreator, per capirci. Ecco qui avrà pane per i propri denti o musica per le proprie orecchie, fate voi. Gli altri magari storceranno il naso. Ah, mi sono dimenticato le presentazioni: rimedio. Il nome della band “H.o.S.” dovrebbe essere l’acronimo del titolo della notissima “Harvester of Sorrow” dei Metallica (come sarebbe a dire che non la conoscete? Scherzate vero?), anche se sinceramente non mi pare sia scritto sul loro sito. I ragazzi sono veneti, muovono i primi passi nel 2006 e nel 2007 e 2008 pubblicano due demo. Nel frattempo la line-up si modifica fino a quella attuale: Dado - chitarra e voce; Cetz - chitarra; Pedro - batteria; Millo - basso. Quindi nel 2011 danno alle stampe “The Beginning”.Il disco è una produzione pulita di 35 minuti e 10 song. Dopo la prima, mi colpisce la nostalgia per i tempi passati (o per la trascorsa giovinezza?), andando avanti nell’ascolto torno lucido e mi lascio prendere dalle altre canzoni. Alla fine mi trovo un platter veramente retrò, di un thrash metal direttissimo figlio del trio teutonico (Kreator, Destruction, Sodom) con influenze più leggere della Bay Area. Ecco... va bene essere dei buoni allievi e continuatori fedeli dei canoni del genere, però ci sarebbe qualcosa da aggiustare. Gli assoli di chitarra non mi convincono, la parte compositiva mi lascia a volte perplesso e trovo il cantato un po’ troppo monocorde. Una stroncatura? No, l’ensemble ci picchia dentro più che può, alla fine il risultato è più che positivo. Le loro “mancanze” sono compensate dal loro carattere aggressivo e dalla potenza della batteria. Apprezzabili i cambi di tempo repentini ben fatti e la lunghezza media delle tracce, che non porta al drammatico effetto stanchezza. Considerando una certa reiterazione dei suoni, song più lunghe avrebbero appesantito troppo il loro lavor rendendolo indigesto. Qualcosa che si distacca appena dal mazzo la potete trovare nella finale “We are the H.o.S.”. Una cadenzata dichiarazione di intenti dei nostri, che mi ha colpito più del resto. Bravini questi giovani ragazzi ma, se volessero uscire dall’anonimato, dovrebbero applicarsi sulla tecnica e magari provare a rendere riconoscibili subito i loro lavori. Sempre che ne abbiano il desiderio e la voglia. Io ci spero. Ah, se non lo facessero mi faccio dare gli indirizzi dal buon Franz... (Alberto Merlotti)

(Punishment 18 Records)
Voto: 65

giovedì 30 giugno 2011

Shadowdances - Misery Loves My Company

#PER CHI AMA: Gothic, Prog, Dark, Autumnblaze, Riverside
Quanto adoro le band provenienti dai paesi baltici (Lettonia, Lituania ed Estonia), non so per quale arcano motivo, ma la loro musica ha sempre qualcosa di magico nelle proprie note. Non sono da meno quindi neppure i lituani Shadowdances che mi trovo qui oggi a recensire con questo lavoro autoprodotto di ben 13 pezzi. La musica di Joudas (cantante e batterista) e compagni, è un mix di gothic dark dalle fini atmosfere e dalle profonde emozioni. È un peccato che pochi si siano accorti di questa band, che ci tengo a dirlo esiste fin dal 1994. La musica del quintetto baltico si può descrivere con i colori tenui e aranciati dell’autunno, con quelle sue melliflue atmosfere contrapposte all’incedere rockeggiante delle linee di chitarra. Mi piace, mi piace davvero la proposta del combo lituano, perché produce intime suggestioni durante il suo ascolto, forse perché amo immergermi in malinconici flussi musicali e lasciarmi turbare l’animo dalla potenza della musica. E per chi come me ama abbandonarsi in questo genere di suoni, rimarrà sicuramente vittima del fascinoso sound degli Shadowdances. “I Crawl”, “The Girl” e la successiva “Autumn Haze” sono tre splendidi pezzi che richiamano gli esordi degli austriaci Autumnblaze, aggiungendo però quel pizzico di poesia, che ribadisco solo i gruppi provenienti da quei luoghi, sono in grado di conferire alla musica. Musica elegante, raffinata creata e suonata da ottimi musicisti: “Misery Loves My Company” è un intenso viaggio nelle profondità dell’animo umano, carico di disperazione, angoscia e paura. La parte centrale del cd si rivela ancora più struggente, con le forti malinconiche linee vocali di Juodas a dominare la scena e oscure ambientazioni a far sembrare la musica dei nostri nuvole cariche di pioggia pronte a scrosciare in pesanti ed interminabili piogge. Desolanti, nostalgici e inquieti, gli Shadowdances potrebbero rappresentare il perfetto connubio tra gli Anathema di “Eternity” e i Riverside degli esordi. Che dire di più di questo meraviglioso disco? Speriamo solo che la fortuna possa aiutare gli audaci e qui di audacia ce n’è parecchia… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

Necrophagia - Harvest Ritual Volume I

#PER CHI AMA: Black/Thrash dalle tinte horror
Signore e signori, il teatro dell’orrore riapre i battenti con questa opera dei Necrophagia ormai datata 2005. Per chi non li conoscesse, i Necrophagia sono uno dei gruppi più longevi della scena metal: formatisi per mano di Killjoy nel 1983, per emulare le gesta dei Venom, esordiscono nel 1987 con “Season of the Dead” con un album estremo e malato. La band poi si scioglie, ma nel 1994 Phil Anselmo (cantante dei Pantera, all’epoca) propone a Killjoy di scrivere un nuovo lavoro: ne esce “Holocausto de la morte”... la creatura Necrophagia riprende a vivere con un nuovo orrorifico sound... il resto della storia la conoscete tutti... Dopo “The Divine Art of Torture” del 2003, ritorna sulla scena il sestetto statunitense con un nuovo e perverso album, “Harvest Ritual Volume I“, titolo che lascia presagire l’arrivo anche di un “Volume II”. L’impianto sonoro di questa nuova fatica, rimane il tipico black/thrash che ha contraddistinto i passati lavori della band, su cui si instaurano le corrosive e malate vocals di Killjoy e le spettrali tastiere di Mirai Kawashima (preso in prestito dai giapponesi Sigh) che conferiscono quel caratteristico e fascinoso aspetto lugubre ai Necrophagia, con forti richiami al cinema horror di Lucio Fulci (maestro italiano dell’horror mondiale). Le 10 song che costituiscono questo lavoro, sono come sempre tutt’altro che rassicuranti: campionamenti horror, riff granitici e voci malvagie catalizzano l'attenzione degli ascoltatori. Vi segnalo le tracks che più mi hanno colpito: la bellissima “Unearth” caratterizzata da tastiere orientaleggianti e pesantemente influenzate dal grande Claudio Simonetti, e “London 13 Demon Street” in cui a farla da padrone sono sempre le keys cupe e sinistre di Mirai, ma dove fa la sua comparsa anche una tenebrosa voce femminile. Rispetto ai passati lavori, questo nuovo “Harvest Ritual Vol. I” potrebbe mostrarvi (ma non lasciatevi ingannare) il lato più melodico e maturo della band di Killjoy e Phil Anselmo, quasi a voler scrollarsi di dosso l’etichetta di gruppo da serie B. Affascinanti... (Francesco Scarci) 
 
(Season of Mist)
Voto: 75

mercoledì 29 giugno 2011

Autumnblaze - Words are not What They Seem

#PER CHI AMA: Dark, Rock, Gothic, ultimi Anathema
La malinconia è un tratto distintivo che ha accompagnato gli Autumnblaze fin dai loro esordi. La band tedesca ha sempre fatto delle emozioni più grigie un'imprescindibile fonte d'ispirazione, attingendovi con sapiente moderazione, ma dimostrandosi oltremodo incurante dei potenziali benefici che un approccio meno rigido alla composizione avrebbe portato con sé. "Words are not What They Seem" rappresenta quasi un album di passaggio per il gruppo, decisosi finalmente a spostare l'accento umorale delle proprie canzoni su sfumature di colore ben più accese rispetto ai lavori precedenti. Pesanti pennellate di nero rimangono la base con la quale gli Autumnblaze amano dipingere la propria tela, ma brani come "Barefoot on Sunrays", "Heaven" o "I'm Drifting" vengono colmate da un'inedita lucentezza espressiva, evidenziando la volontà di aprirsi a nuove frontiere musicali. Appare quasi obbligato il paragone con gli Anathema, vista la comune tipologia di fan che entrambe le band sono solite raccogliere. Chi ha saputo apprezzare le recenti evoluzioni della band di Liverpool, non avrà difficoltà a ritrovare anche negli Autumnblaze delle qualità consone al proprio modo di intendere il rock, anche se il percorso seguito dal gruppo tedesco sembra comunque dirigersi verso sonorità più sanguigne rispetto a quanto proposto dagli Anathema. Eppure la classe è la stessa, come la predilezione per certe atmosfere intime e il tocco "floydiano" con cui vengono sottolineati alcuni passaggi di chitarra (si ascolti ad esempio l'onirica "Blue Star"). Particolarmente suggestiva l'interpretazione di "Falling", che i più attenti riconosceranno come il tema musicale di "Twin Peaks". E la rivisitazione in chiave rock del brano di Angelo Badalamenti non è l'unico riferimento al celeberrimo sceneggiato: in realtà, "Words are not What They Seem" è un concentrato di continui rimandi alla serie televisiva di David Lynch, dal titolo dell'album fino alle scelte grafiche di copertina (opera di Niklas Sundin dei Dark Tranquillity). Se nella tracklist dovessi proprio trovare un punto debole, potrei citare la stucchevole "Message from Nowhere", ma si tratterebbe, in fin dei conti, di una puntualizzazione superflua, che nulla toglierebbe al valore di un album eccellente. Un album la cui bellezza cresce con il tempo, svelando qualcosa di nuovo ad ogni ascolto. (Roberto Alba)

(Prophecy Productions)
Voto: 80

sabato 25 giugno 2011

Mustywig - Knowledge of Another Sun

#PER CHI AMA: Dark, Indie, Alternative, Sludge
Incredibile quanto, suoni provenienti da altri generi musicali stiano contagiando violentemente le band metal, dando quindi la possibilità a noi ascoltatori di esplorare nuovi orizzonti musicali, provare nuove emozioni e soprattutto annoiarci un po’ meno. Una delle band che risente di queste contaminazioni è sicuramente quella dei napoletani Mustywig, che rilasciano "Knowledge of Another Sun" dopo qualche EPs e un paio di album che hanno permesso ai nostri di farsi conoscere all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Proprio dalle sconfinate praterie statunitensi derivano le maggiori influenze per la band campana, che pescando dalla scena indie rock americana ha concepito questo platter ricco di contenuti interessanti e di pregevoli spunti. Diciamo che l’album poggia su una solida base punk rock, figlia della generazione maledetta di fine anni ’70, infarcita poi dagli elementi più disparati: lungo le note di questa release è tanto facile imbattersi infatti in cavalcate heavy metal dal vago sapore ottantiano, quanto in sprazzi di elettronica o musica pop. Ma non solo, altrimenti questa descrizione sarebbe assai riduttiva per il quintetto partenopeo, che invece è stato in grado di miscelare tra loro con una certa disinvoltura, una serie di elementi in realtà di difficile incastro. Forti dell'ex Disciplinatha, Cristiano Santini, personaggio assai carismatico e dalla voce assai versatile, i Mustywig ci offrono 12 ottimi brani dove se ne sentono di tutti i colori: si passa dalla darkeggiante “Au Revoir” alla metallica “Shade-grown Future”, passando attraverso tempeste elettroniche cariche di influenze in stile ultimi Radiohead. Delicati frangenti ambient si frappongono a scatenate sonorità al limite dell’hardcore o dello sludge, con trip psichedelici sempre pronti a condurci nella dimensione malata e psicotica del mondo dei Mustywig, band di cui non conoscevo assolutamente nulla ma che si è mostrata la vera rivelazione della mia estate. Coraggiosi! (Francesco Scarci)

(Black Fading Records)
Voto: 75

Zifir - Protest Against Humanity - English

#FOR FANS OF: Black mid-tempo, early Nachtmystium, Burzum
Here's an album that you feel compelled to listen in full, a one-way trip to face alone through nine dying stations of pure hypnotic sound. It's not a far-fetched metaphor. The whole work is really designed as a journey through the darkest (and pure) places of the soul. It starts with an instrumental, slow and emotional intro, changed to a permanent abandonment of innocence places to soak slowly into a more hostile, bitter and biting sound. The "mosquito" guitars is the real ruler of this universe of sound. They permeate every tone with the same frequency with which they penetrate into the brain of the listener. They buzzing indiscriminately in slow and fast, violent and melancholy steps, at times recalling the early Nachtmystium, identically doped by this swarming omnipresence. Zifir absorb elements from many black metal bands (I affectionately call this spiritual slow black), able, however, to experiment and create an interesting work, demonstrating skills and professionalism in the composition of the tracks, which, while proposing an hypnotic background, do not show never repetitive. I do believe that it is necessary to have an early knowledge of this type of metal, otherwise it is impossible to fully appreciate it and are payable only a bunch of instruments and suffering voices. The result is something else. These bands create synergy and you can not say, "Hey, listen to this refrain". The refrain is not there, don't exist. Each song must be heard in full in its evolution. Only thus you can understand, for example, because the slower and pseudo instrumental tracks are "Uncertain", "The Poison From My Veins" and "Goat's Throne", respectively the first, fifth and last. "Goat's Throne", in particular, is a summary of the soul of the album. Eight minutes of inhospitality, where browsing gothic keyboards, clean vocals alternated with screaming and laments in Burzum's style. The only flaw, from my little point of view, the title of the album, which fortunately does not have a title track. There can not be a protest against humanity, if this same work start from the denial of what human society entails. Just as every work of art of mankind, whatever is the message intends to convey, would have no reason to exist if that meant not being transmitted. I greatly appreciate the quality of this music, but the too much extremes of lyirics at times seems superficial and stereotypical. This does not mean the quality of an album like "Protest Against Humanity", and that it embodies: a wild, carnal epiphany. All on the rise. (Damiano Benato - Translation by Zifir)

(Kunsthauch)
Voto: 80

Hexvessel - Dawnbearer

#PER CHI AMA: Folk, Avantgarde, Code, Virus, Beyond Dawn
Chi già possiede familiarità con il cosiddetto metal d’avanguardia, non tarderà a riconoscere il protagonista di questo insolito progetto artistico, in cui convivono folclore, rock acustico e musica rituale. Voce e mente degli Hexvessel appartengono infatti a Mathew Joseph McNerney, meglio conosciuto come Kvohst, artista poliedrico che ha già prestato i suoi servigi per band quali Code, DHG e Virus, principalmente come cantante, ma altre volte come semplice autore dei testi. Se la formazione di questo singolare talento di origini britanniche risiede principalmente nel metal, di tutt’altra matrice è il contenuto musicale di “Dawnbearer”, album che raccoglie una serie di brevi ballate dal carattere intimo, poetico ed ispirato ad una tradizione rock-psichedelica che per stessa ammissione del gruppo ritrova un’affinità stilistica con band quali Changes, Woven Hand, Espers, Midlake e Comus. Ad onor del vero, rispetto alle formazioni appena citate gli Hexvessel sembrano voler ricercare un approccio più oscuro e permeare le proprie composizioni di un’aura trascendente, coniugando il lirismo occulto delle parti vocali ad arpeggi di chitarra acustica che paiono aver trovato l’ispirazione dal diretto contatto con la foresta e i suoi segreti più nascosti. In “Dawnbearer” arde un fuoco arcano e non è solo la chitarra a creare un’atmosfera così suggestiva, perché Kvhost è qui coadiuvato da un ensamble di musicisti che accrescono la bellezza di ogni brano con l’uso di innumerevoli strumenti tradizionali quali il dulcimer, il violino, il gong, l’armonium, la cetra, il salterio, l’arpa, il mandolino, il banjo e il bandoneon. Un’elencazione che potrà sembrare tediosa ma che può far intuire quale caleidoscopio di luci ed ombre l’album riesca a tratteggiare. Non è semplice individuare un brano che emerga in maniera particolare tra i quindici che compongono l’album, ma forse un commento particolare lo merita “The Tunnel at the End of the Light” che vede Kvhost partecipe di un mistico duetto vocale con Carl-Michael Eide (aka Czral) della progressive-rock band Virus. (Roberto Alba)

(Svart Records, 2011)
Voto: 75

Battle of Britain Memorial - The Aftermath of Your Bright Beings

#PER CHI AMA: Post Rock, Screamo, Mogway
Iniziamo questa recensione con un plauso speciale alla cover cd di "The Aftermath of Your Bright Beings" a dir poco spettacolare, con un contrasto di colori meraviglioso, dovuto anche al digipack cartonato che ne enfatizza il risultato finale. Insomma si capisce fin dal primo impatto, che la band francese è alla ricerca di qualcosa di assai raffinato. Faccio partire il cd e quello che sento, riesce a mettermi subito a mio agio, con suoni tipicamente post, che tanto vanno in voga nell’ultimo periodo. E allora ecco che mi accomodo sulla mia poltrona d’ascolto e mi faccio investire dal vortice sonoro di questo combo transalpino che si è formato solo recentemente, nel 2009 e oggi se ne esce con un prodotto degno di una band veterana. Accennavo alla loro proposta, una miscela di intimistico post metal, unito alla trasgressione dell’hardcore e la rabbia dello screamo. Dopo il benvenuto di “Welcome to Rapture” ecco le urla disumane di “Metaphysics of the Lighthouse” ad aprire il secondo pezzo, che si stagliano su un tappeto decisamente post rock: il sound che giunge alle mie orecchie infatti è assai rilassato, toccante e passionale, dove fanno capolino anche le vocals eteree di una gentil fanciulla che provano a spezzare la sgraziata ma efficace performance del vocalist Ludo. Tocchi di tamburo e piatti accompagnati da una flebile chitarra ci aprono le porte a “Those Who Hide Their Plight”, dove Ludo questa volta, si presenta in versione pulita, anche se avverto una certa forma di disagio su questo genere di tonalità, soprattutto mi sembra faccia molta più fatica quando si spinge verso un registro più alto (lo preferisco nella sua versione screamo); la song si muove in territori costantemente votati al post rock intimistico dei maestri Mogway. Ancora la batteria ad aprire una traccia, con le plettrate malinconiche della sei corde in sottofondo: è la volta di “Cum Tacent Clamant” che palesa in modo evidente la vena inquieta che permea l’intero lavoro del quartetto di Tolosa. La musica non è mai cattiva, mantenendosi costantemente su un registro pacato (nel quale la batteria gioca un ruolo chiave) e pervaso di nostalgia, grazie ad un lavoro egregio alle chitarre; ciò che finisce per incattivire la proposta del combo francese è senza ombra di dubbio la performance al vetriolo del buon Ludo, che tuttavia non infastidisce più di tanto. La creatività della band, il gusto per sonorità ricercate, capaci di scavare nell’intimo umano, le atmosfere soffuse (si ascolti la melliflua “Midnight Blue”), la genialità palesata in alcuni frangenti, ci consegnano una band dalle idee chiare, che merita la vostra attenzione. Amanti di sonorità “post” (rock, metal, hardcore, sludge) fatevi dunque sotto e date un chance ai Battle of Britain Memorial, non ne resterete delusi, parola del vostro Franz: rabbia e dolcezza si sposano alla grande nelle note di questo disco. Ah, dimenticavo la cosa più interessante: il cd è scaricabile gratuitamente al seguente sito: http://battleofbritainmemorial.bandcamp.com/album/the-aftermath-of-your-bright-beings I Battle of Britain Memorial sono assolutamente bisognosi di un vostro ascolto! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

lunedì 20 giugno 2011

Who Dies in Siberian Slush - Bitterness of the Years that are Lost


#PER CHI AMA: Death, Funeral Doom, My Dying Bride, Anathema
Rieccoci alle prese con la Solitude Productions e immagino che ormai anche voi come me, avrete già capito che cosa potrà racchiudere, a livello musicale, questo cd dalle tinte chiaro e oscure, addirittura fin dalla sua minimalista cover completamente in bianco e nero. Avete indovinato? Si esattamente, avete risposto correttamente. I russi Who Dies In Siberian Slush propongono un decadente funeral doom. Sorpresi? Io nemmeno un po’, anzi rimango un po’ deluso perché tanto e bene si era parlato del quintetto di Mosca a proposito dei demo usciti negli ultimi anni, mentre ”Bitterness of the Years that are Lost” si presenta come un canonino album death funeral, che fa del classico riffing desolante, pesante e tipicamente doom il suo marchio di fabbrica, fin dall’iniziale”Leave Me” sino alla conclusiva title track. È chiaro (fortunatamente) che ci siano dei picchi di interesse come l’apertura della prima traccia affidata ad un malinconico pianoforte e un riffing ancora una volta preso in prestito dai primissimi lavori di My Dying Bride e Anathema, quasi ci fosse nell’ultimo periodo, il desiderio dilagante di riprendere sonorità ormai andate e riproporle fino alla disperazione. Cosi come riportato nel nome della band, “Slush” (melmoso), il sound dei nostri si presenta molto statico, monolitico nel suo incedere, anche se per spezzare quella monotonia di fondo, l’ensemble moscovita, si gioca la carta della melodia, provando a rincorrere (con poco piglio però) la proposta degli svedesi Draconian, ma li siamo già su alt(r)i livelli. La band le prova tutte per staccarsi dalla rigidità e dal grigiore della propria proposta, quasi come se si fosse accorta di averla fatta grossa e cerchi rimedio in un intermezzo acustico di un pianoforte o in quello di un arpeggio di chitarra. L’atmosfera permane cupa e tenebrosa, con un senso di disagio interiore che continua a crescere lungo i 45 minuti di questo album di debutto. La lunga title track, aperta dal sospiro del vento, ci apre a gelidi paesaggi invernali, quelli tipici della tundra siberiana, con la sezione ritmica che finalmente si gode qualche inatteso sussulto, e la voce di E.S. che si districa tra un growling animalesco e qualche parte sussurrata. ”Bitterness of the Years That Are Lost” non sarà certo un lavoro che rimarrà negli annali del genere funeral, tuttavia è un cd che gli amanti di sonorità depressive e malinconiche dovrebbero avere nella propria discografia. Infelici. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 65

domenica 19 giugno 2011

Canaan - Contro.Luce

#PER CHI AMA: Cold Wave, Colloquio, Neronoia, Monumentum
E’ un ritorno inaspettato quello dei Canaan, band italiana per la quale il termine “culto” non risulta improprio, in quanto ha coltivato fin dagli esordi del proprio cammino (incominciato nel 1996) una serie di qualità artistiche tese alla ricerca dell’unicità, dell’eleganza e dell’eccellenza compositiva, sempre e tenacemente incurante dei modesti riscontri commerciali che sono tipici della musica di genere come l’ambient e la dark-wave. In passato, con album come “Brand New Babylon” e “A Calling to Weakness”, Mauro Berchi e i suoi fidati compagni di viaggio hanno dato luce a due perle di grigio fulgore, toccando quello che ad oggi può essere riconosciuto come l’apice della loro carriera e solo con l’uscita del penultimo episodio “The Unsaid Words”, risalente al 2006, la band ha probabilmente incontrato la prima flessione creativa, consegnando alle stampe un lavoro leggermente sotto tono che ricalcava in maniera meno ispirata gli stessi umori e le stesse sfumature del suo predecessore. Congelati in un serrato silenzio per quasi cinque anni dalla pubblicazione di “The Unsaid Words”, i Canaan tornano dunque con un album inatteso, che tale può essere definito anche per una nuova linfa espressiva, densa di elementi inediti che manifestano una band rinnovata, rinvigorita da uno slancio stilistico fino ad ora inesplorato. Permane la vena “cantautorale” e poetica che ormai da tempo accompagna le composizioni del gruppo, ma è il timbro e lo stile vocale di Mauro che si avverte come profondamente diverso, forse perché meno greve e sofferto di un tempo o più semplicemente per la conquista di una piena maturità interpretativa per la quale risulta d’obbligo spendere un elogio sincero. Rimangono invece immutati gli intermezzi strumentali che come d’abitudine spezzano i brani cantati e impreziosiscono “Contro.Luce” delle consuete suggestioni etniche ed ambient-industriali. Le nubi che affollano la mente di Mauro non sono ancora del tutto dissolte, mentre il dolore e il rimpianto continuano a riaffiorare dai ricordi del passato, tuttavia si avverte un nuovo modo di affrontare le avversità, con la dignità di chi sa soffrire in silenzio, non escludendo che tenui bagliori di speranza ci portino finalmente a respirare un alito di vita. Un sorriso di una persona cara o il volto ingenuo di un bambino possono allora ridestare emozioni di conforto e tenerezza, arginando anche solo per un istante le afflizioni. Nell’ascolto di “Contro.Luce” si percepisce questa lenta rinascita e la musica si muove all’unisono con le sensazioni trasmesse dalle parole, aprendosi a soluzioni che talvolta stupiscono per la loro sinuosità e “leggerezza”. A testimonianza di questa evoluzione vi sono canzoni come “Noia” e i suoi toccanti interludi di voci femminili mediorientali, gli energici e repentini cambi di ritmo in “Terrore” e i riverberi possenti delle chitarre in “Oblio”. Altri brani ripercorrono i plumbei canoni della produzione passata, ma sempre con quella rinnovata freschezza che dona un valore aggiunto all’intera opera e suscita nell’ascoltatore una commozione autentica. Grazie Mauro, grazie Canaan. (Roberto Alba)

(Eibon Records)
Voto: 75

giovedì 16 giugno 2011

Amber Tears - The Key to December

#PER CHI AMA: Death/Doom, Anathema e My Dying Bride
Vedendo la copertina del cd degli Amber Tears, ho pensato per un attimo di avere tra le mani qualcosa di power/folk, a causa del vecchio col bastone, raffigurato sul booklet, che cammina tra la neve; non so spiegarvi per quale motivo abbia immaginato questo, ma l’immagine della cover ha suscitato in me tale infondato timore. Vedendo poi la casa discografica sul retro della custodia, la BadMoodMan Music, mi sono tranquillizzato e ho pensato che sicuramente la proposta del combo viaggerà all’interno dei confini death/doom. E in effetti non mi sono sbagliato. Dopo una inutile intro, si passa a “Gray Days Eternity” in grado di confermarci immediatamente che il sound partorito dall’act russo è realmente un death doom cadenzato, che ancora una volta si rifà ai classici del passato (Anathema e My Dying Bride su tutti); a volte mi domando dove la Solitude Production vada a scovare tutte queste band e se forse, il fossilizzarsi troppo in un unico genere, non rischi di penalizzare l’etichetta russa. A farmi passare questi brutti pensieri, ci pensa il sound degli Amber Tears, che nelle loro otto tracce, ci presentano la loro proposta che, pur puzzando di già sentito, si lascia piacevolmente ascoltare; vuoi per la presenza di strumenti etnici in alcune tracce (è forse una cornamusa quella che si sente qua e là nel disco?), forse per le intriganti melodie pagane o per gli intermezzi acustici della terza “Away from the Sun”, o ancora per la dinamicità inaspettata di un lavoro che pensavo potesse annoiarmi dopo pochi minuti, mi lascio trasportare dal piacevole (talvolta toccante) feeling che questa release è in grado di emanare. Effettivamente ho sbagliato, giudicando superficialmente. Gli Amber Tears non garantendo nulla di innovativo, ma semplicemente rileggendo, in chiave moderna, i dettami di vent’anni fa dei grandi maestri inglesi, ci offrono un prodotto di sicuro interesse, ben confezionato, e che di certo farà la gioia dei fanatici di questo genere e non solo. Forte nei solchi di "The Key to December" anche l’influenza dei danesi Saturnus, che appaiono assai spesso come fonte di ispirazione, quando ci si trova a parlare di sonorità di questo tipo. Il feeling malinconico che si respira nell’arco dell’intero lavoro è mitigato dal riffing corposo del duo di asce formato da Alexey e Dmitry. La prima metà del cd, scorre via tra echi nostalgici di suoni di metà anni novanta e ispiratissime melodie che richiamano la tradizione scozzese, quasi mi ritrovassi proiettato sulle Highlands scozzesi e attorno a me il solo verde dei prati e delle colline con il vento a sibilare nelle mie orecchie. È un senso di pace che mi godo lassù tra le nuvole che si appoggiano su quelle sinuose alture e la colonna sonora perfetta è proprio quella degli Amber Tears, che muovendosi tra death/doom e strepitosi passaggi acustici (ascoltate “Like a Silent Stream” e ditemi che ne pensate) riescono a donarmi 40 minuti di palpabili emozioni. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75