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martedì 9 febbraio 2021

The Corona Lantern - Certa Omnibus Hora

#PER CHI AMA: Sludge/Death Doom, My Dying Bride, Cult of Luna, Morbid Angel
Nati nel 2014 in quel di Praga come realtà post metal, i Corona Lantern tornano a cinque anni di distanza dal loro debut 'Consuming the Tempest'. 'Certa Omnibus Hora' è lo scoppiettante comeback discografico del quintetto ceco che propone sei nuovi pezzi che ne svelano la nuova anima. A rivelarlo è "As Wide Eyes Travel", traccia d'apertura di questo secondo capitolo, che mette in mostra un sound più slabbrato che abbraccia anche doom e sludge, toccando qua e là anche influenze più esterne. Sarà l'utilizzo diversificato di una voce (quella di Daniela "Dahlien" Neumanová) capace di muoversi tra un growl aspro e spoken words, di un suono costantemente ritmato dall'inizio alla fine del brano, e di un senso di oppressività che non lascia tregua per tutti i sei minuti e mezzo dell'opener, che persiste nel generare pensieri e tormenti nell'anima. Già diversa e più accessibile è la seconda "Through This Swamp of Oblivion", un brano che evidenzia altre peculiarità del sound dei nostri ma che con il suo incedere inquieto, sembra scandire il tempo che conduce alla fine della vita, perfettamente allineato peraltro con il titolo del disco, ossia l'ora della fine è certa per tutti. Una metafora, la linea e il senso dell'esistenza, la paura, la morte, tutte tematiche che lascio a voi il piacere di approfondire, sfogliando lo splendido libretto incluso nell'elegante cd della compagine ceca. Fatto sta che, per quanto cupa e pesante sia la melodia del brano, la trovo decisamente più ariosa dell'opener, con una linea di chitarra di facile presa che ci conduce anche nei meandri oscuri di un black fosco che per oltre dieci minuti ci condurrà fino alle porte della più funerea "Up the Last Hill". Questo è un altro brano che si muove più a rilento nel contesto musicale del disco, non fissando peraltro grossi punti di riferimento nel panorama doom, sebbene il suo sound possa essere accostabile ad un ipotetico ibrido tra My Dying Bride e Cult of Luna. Interessanti non c'è che dire, ma anche arcigni e ostici da digerire, quindi fate attenzione. Questo implica inevitabilmente un maggiore sforzo in sede di attenzione da dedicare alla proposta del quintetto, il che è piuttosto consueto quando ci si avvicina ad un genere complicato come questo. Con "Hours Between Heartbeats" il suono si fa più dinamico, complice un attacco più death oriented che si assesta su un'alternanza tra parti violente e altre più compassate e melodiche, in cui la melodia della sei corde fa da driver all'intero pezzo, non disdegnando in alcuni momenti anche aperture quasi progressive, per un finale che emula il battito cardiaco a svanire. Un bel giro di tastiere apre la più psichedelica "Make Me Forget", che quando attacca con le chitarre sembra pagare dazio a "Shades of God" dei Paradise Lost. E lo dico con un'accezione positiva, dal momento che ho amato alla follia quel disco. Certo, non siamo di fronte alla grandezza di quel masterpiece che l'anno prossimo compirà 30 anni però, la musicalità, il tremolo picking, l'alternanza ritmica e la prova convincente al microfono di Dahlien, ne fanno probabilmente il brano meglio riuscito del cd. Ma ne manca ancora uno all'appello, "The Truth and Its Will", con i suoi 10 minuti abbondanti di sonorità e atmosfere soffuse che sembrano coniugare nel modo migliore, scavalcando quindi in termini qualitativi la precedente song, quanto ascoltato sin qui in 'Certa Omnibus Hora'. Il brano mette in mostra le migliori melodie del disco, mi appaga in termini di malinconia, qui rilasciata a fiumi, ha dei riffoni di una pesantezza estrema quasi ci trovassimo di fronte ai Morbid Angel, e poi sublimi sono quelle sfuriate tipicamente blackish sul finire. Diciamo che rimane ancora qualche ingenuità da limare qua e là, necessaria per scrollarsi di dosso quell'alone eccessivamente "nineties" che sembra avvolgere l'intero album, ma la band è di certo sulla strada giusta per creare una propria identità che le permetterebbe di accedere ad un pubblico più vasto ed altrettanto esigente. Osare ancora di più please! (Francesco Scarci)

giovedì 14 gennaio 2021

La Città Dolente - Sales People

#PER CHI AMA: Mathcore/Sludge/Hardcore, Converge
Esordio in pompa magna per La Città Dolente, che si presenta con un full length dinamitardo, dopo il primo EP del 2018 dal titolo 'Opportunist'. La band, d'istanza a Milano, composta da quattro elementi di cui tre che provenienti da altre realtà come Pescara, Londra e Roma, si espone con un sound ben calibrato, potente e dai toni naturali. Un combo assai affiatato che, al cospetto dell'universo mathcore, ci propone una manciata di brani ben assemblati e di sicuro impatto. Si gioca in casa di band storiche tra Botch, Converge e Coalesce anche se qualche ruvida sfumatura old school alla 'End of Days' dei Discharge, li fa sembrare più originali e meno omologati. Mi piace la loro ricetta sonora, perchè non è né troppo patinata, né troppo tecnica o troppo diretta, perfettamente sobria, equa, ruvida e riflessiva al tempo stesso, snodandosi in una commistione sonora in equilibrio tra i vari maestri del genere, senza pendere direttamente dalle loro note, evitando cosi il facile rischio di plagio. I nostri con 'Sales People' riescono cosi a ritagliarsi una dinamica personale che dopo pochi ascolti risulta di buon gradimento e di grande effetto, accompagnata da un'ugola potente e qualificata, che ne esalta la forza d'urto e ne caratterizza le composizioni, suonate in modo più che eccellente, calde, emozionali, che difficilmente soffrono di una ripetizione creativa. Quello che sta dentro alle canzoni, l'alienazione urbana descritta nei testi è un punto in più, anche se mi sarebbe piaciuto sentirle cantate in lingua madre (apprezzabile infatti il moniker della band), scelta che avrebbe ampliato la comprensione dei concetti al popolo italico amante della musica estrema. Comunque, brani come "Corrupt" e "Profiteering", risalgono la corrente e si posizionano ai vertici della mia personale classifica di gradimento, senza nulla togliere all'intero cofanetto, che è prodotto e confezionato egregiamente, compreso il bel lavoro svolto per l'artwork di copertina. Un bel disco dal sapore internazionale che ha i numeri per farsi notare anche extra confini nazionali, teso, rumoroso, carico di risentimenti e che sapientemente usa innesti sludge e metalcore, per creare chiaroscuri e ritmiche più contorte, interessanti e variegate. Mi è piaciuto anche scoprire, leggendo un'intervista rilasciata sul web, che la band ha come fonte d'ispirazione formazioni interessanti come Infall e Anna Sage, provenienti dall'underground tricolore e francese (dove la scena transalpina ha peraltro band interessanti), tenendo un profilo basso senza sparare nomi esaltanti e troppo costruiti. Questo modo di porsi, a mio avviso, rende La Città Dolente ancora più vicina alla realtà di una scena italiana che ha bisogno di essere riportata ai fasti e all'originalità genuina di un tempo. In conclusione 'Sales People' è un album da prendere seriamente in considerazione, un disco interessante, di qualità, che non deluderà gli ascoltatori, nemmeno quelli più esigenti. (Bob Stoner)

(Toten Schwan Records/Fresh Outbreak Records/Hidden Beauty Records/Mother Ship/Shove Records/Violence in the Veins - 2020)
Voto: 75

https://totenschwan.bandcamp.com/album/tsr-120-sales-people

sabato 9 gennaio 2021

Ambassador - Care Vale

#PER CHI AMA: Alternative/Post-Grunge/Dark
Ecco una band che sul finire del 2020 ha conquistato un posto nella mia personale classifica dell'anno passato. Sto parlando degli Ambassador, compagine proveniente dalla Lousiana, che ha rilasciato sul finire dell'estate scorsa questo EP di sei pezzi intitolato 'Care Vale'. Che dire, il platter è fresco quanto mai tenebroso. Il tutto è certificato dall'opening track, "Colonial", un brano guidato da uno spettrale giro di chitarra e dalla voce di Gabe Vicknair, uno che deve essere cresciuto a pane e Fields of the Nephilim, visto che il mood oscuro degli inglesi lo riversa all'interno di un sound oltremodo delicato che tocca qua e là alternative rock, post-punk o dark metal. Il sound dei nostri tuttavia non si limita certo a questa o quell'etichetta, ma volge il proprio sguardo verso sentieri differenti, spaziando anche all'interno di post-metal, sludge, shoegaze e altre sonorità che potrebbero scomodare facili paragoni con gli ultimi Katatonia. Notevoli, è stato il mio primo pensiero. E malinconici quando la seconda "Voyager" ha cominciato a fluire nel mio stereo con i suoi raffinati orpelli chitarristici, come un soffio leggero che sposta impercettivamente i capelli davanti agli occhi. La voce di Gabe rimane il punto di forza dell'ensemble, ma anche la musicalità cristallina messa in piedi dalla band di Baton Rouge si rivela davvero formidabile con ariose aperture che potrebbero evocare un che dei Russian Circle. All'inizio menzionavo le divagazioni sludge, eccomi accontentato in "Subterfuge", con quel suo pesante riffing melmoso allegerito soltanto dal raddoppiare della seconda chitarra che, oltre a conferire un tocco di malinconia ad un brano per larghi tratti strumentale, ne stempera anche l'irruenza. Ma con l'ingresso della voce e della tribalità di un drumming che chiama in causa ancora i Katatonia, ecco che il gioiellino è servito, con quelle sue chitarre riverberate di chiara matrice post-rock. Ve lo dicevo che dentro a 'Care Vale' c'era di tutto e per tutti i gusti, quindi non esitate avanzando nell'ascolto. Verrete sorpresi dal temperamento nostalgico della title track, cosi emotivamente inquieta e cosi forte nello sconquassarci l'anima con il suo incedere delicatamente dilaniante. Con "Severant", quelle nubi che si stavano addensando nell'aria poc'anzi trovano modo di scaricare la propria rabbia attraverso un riffing dapprima pesante ma che in pochi secondi perde vivacità acquisendo un tono ancora malinconico. Ma i quattro americani sono abili nell'alternare luci e ombre, cosi come eterei passaggi acustici a fragorose scariche elettriche, ammiccando qui anche ai Deftones. La chiusura è affidata alle note di "Spasma", dove emergono infine accenni post-grunge che si vanno a sommare a una ricerca spasmodica del suono emozionale, maledetto e dannato, malinconico e irrequieto, che fanno di questo 'Care Vale' un lavoro intenso e da gustare tutto d'un fiato. (Francesco Scarci)

mercoledì 16 dicembre 2020

Empress - Premonition

#PER CHI AMA: Stoner/Sludge/Post Metal
Scovati quasi per sbaglio sul web per un evidente errore ortografico del sottoscritto, mi ritrovo oggi tra le mani l'album di debutto dei canadesi Empress. 'Premonition' segue infatti a distanza di tre anni l'EP 'Reminiscence' con il quale il duo di Vancouver diede voce alla propria personale proposta musicale che combina stoner, doom, sludge e post metal. Il tutto è chiaro fin da subito, quando "A Pale Wanderer" fa il suo debutto nel mio hi-fi. L'impianto ritmico è infatti quello stoner dei Mastodon con le chitarre granitiche e la voce di Peter Sacco (che peraltro suona anche nei Seer) che ammicca ai Baroness. Quello che mi conquista è la seconda parte del brano affidato quasi interamente al sibilare delle chitarre in tremolo picking e ad un arrembante cavalcata finale che sfiora il post black sia a livello ritmico che vocale, il che permette ai nostri di ampliare ulteriormente il proprio raggio d'azione, inglobando tra i propri fan anche i non puristi di sonorità estreme. E qui di apertura mentale ne serve parecchia, visto che con la seconda "Sepulchre" (uno dei single dell'album) si ritorna ancora in territori tipicamente stoner, anche se poi non mancano le esplorazioni verso un robusto hard rock sporcato di sludge non troppo melmoso a dire il vero, ma che comunque anche troppo pulito non è. "Passage" sembra un mix tra stoner, psych rock di scuola teutonica (penso ai berlinesi Elder), un pizzico di doom, ma anche una certa vena progressiva che esalta non poco l'output finale dei nostri. Con "Trost" si infiamma l'anima del duo originario della British Columbia, e si torna cosi a pestare sia sul piede dell'acceleratore che sullo sbraitare dietro al microfono, con la voce di Peter che aspira ad uno screaming quasi black, ma solo per quella manciata di secondi in cui anche la ritmica corre impazzita come un cavallo indomito. La song poi evolve attraverso forme stilistiche più evolute che chiamano in causa i Pallbearer, prima che la bastarda anima hard rock torni a rimpossessarsi dei due musicisti canadesi. Eppure c'è ancora tempo per sentire anche le velleità post rock dei nostri proprio in finale di brano. "Hiraeth" parte lenta e oscura, magnetica come poteva essere l'intro di "1,000 Shards" degli Isis e poi continua a muoversi in territori tipicamente post-metal ammiccando indistintamente a Neurosis e Isis. La title track è ancor più ispirata, disegnando splendide atmosfere post metal, complici gli ottimi arrangiamenti ed una song tra le più dotate di una forte emotività. Ma questo è uno standard degli ultimi pezzi visto che anche la conclusiva "Lion's Blood" guarda in questa direzione con un sound forse più abrasivo della precedente ma che comunque sottolinea le ottime eccellenti doti compositive della compagine nord americana, in una song riconducibile musicalmente al post metal più malinconico e crepuscolare. Il che la rendono un altro degli episodi meglio riusciti di questa prima prova su lunga distanza degli Empress. Insomma l'Imperatrice ha colto nel segno e non posso far altro quindi che invogliarvi all'ascolto di questo 'Premonition', credo che gli spunti che ci troverete, saranno di sicuro interesse. (Francesco Scarci)

domenica 15 novembre 2020

Towards Darkness - Tetrad

#PER CHI AMA: Death/Doom/Sludge
Il riffone che apre "Terraform", opening track di 'Tetrad', atto terzo dei canadesi Towards Darkness, mi fa pensare a sonorità post metal, fatto piuttosto inusuale per un'etichetta come la Solitude Productions. Eppure nello scorrere del brano, ed in generale nei solchi di tutto il disco, la proposta che viene fuori è proprio quella di un post qualcosa, sicuramente dotato di una forte vena doomish, ma comunque fuori dagli stilemi classici dell'etichetta russa. Compiaciuto della scelta del duo canadese, mi immergo nel sound dei nostri che dopo le sonorità post sludge dell'opener, ci accompagnano al prologo più space rock di "Weight of Years", un brano che combina un rifferama corposo (con growl annesso) con una buona dose di arrangiamenti affidati a delle ispirate tastiere. Come immaginavo però, il sound dei nostri, già da questa traccia prende sembianze più doom oriented, ma non è dopo tutto cosi tragico. La breve e spettrale "Forest" assolve al suo compito interlocutorio, collegandoci con la successiva "Evolution", forse la song più instabile del lotto, sicuramente quella che ho apprezzato maggiormente, in quanto nella sua linea melodica, percepisco un forte senso di irrequietezza che si riflette nel mio stato d'animo attuale e forse per questo la sento cosi vicino a me. "Evolution End" ha un inizio sinistro che si dipana attraverso un pezzo costruito su una coppia di riff essenziali, efficaci quanto basta però per instillare nella mia testa la melodia sprigionata da questo brano. "Structure" e "The Void" sono gli ultimi due pezzi di questo controverso disco, quelli che più degli altri si spingono in territori ancor più angusti al limite di un claustrofobico funeral sorretto però da ottimi arrangiamenti (soprattutto la seconda), che rendono la proposta del duo di Montreal per questo leggermente più accessibile di tante altre release nello stesso genere. 'Tetrad' è alla fine un album particolare, che necessita di svariati ascolti per poterne catturare l'essena. Tuttavia, quando ci si riesce, l'album non tradisce e svela ogni volta piccoli particolari di sè che lo rendono ogni volta più intrigante. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2020)
Voto: 70

https://solitudeproductions.bandcamp.com/album/tetrad

sabato 7 novembre 2020

Oghre - Grimt

#PER CHI AMA: Progressive/Sludge
Era il 2017, quando gli Oghre esordivano con 'Gana'. La band per quell'album, fu nominata ai Music Recording Awards lettoni nella categoria Rock/Metal album. A distanza di tre anni da quel cd, il quintetto originario di Riga torna con 'Grimt' e il loro concentrato di progressive sludge che tanto li caratterizza. Questo nuovo lavoro, cantato in lingua madre, consta di sette tracce che si aprono con le soffuse melodie di "Viens" e la voce assai particolare del vocalist, capace di passare da un cantato pulito assai stralunato ad un growling possente, mentre la musica si muove su coordinate a metà strada tra post metal e sludge, con un velato tocco di psichedelia. Le ritmiche sono roboanti, mai lanciate però a grandi velocità, semmai poggiano su un rifferama assai cadenzato con giri di chitarra stranianti ma avvincenti, soprattutto per ciò che concerne la seconda parte di "Trauksme", che si muove su sonorità alquanto sperimentali, fatte di chiaroscuri imprevedibili ma affascinanti. E dire che la voce nella sua versione cosi pulita ma altrettanto anormale, non è che mi faccia proprio impazzire, tuttavia devo ammettere che s'inserisce brillantemente in un contesto alquanto bizzarro. E le sorprese non si fermano qui visto che anche con la successiva "Sarkans", i nostri continuano a sorprenderci con sonorità poco scontate: un inizio assurdo affidato alla folle ugola di Oskars e ad una ritmica assai delicata, giusto per pochi secondi prima che ad affondare il colpo sia una sezione ritmica bella potente, che si muove ancora una volta su un'alternanza di tempi che trovo alla fine comunque originale. E dire che 'Grimt' non è un album cosi semplice da avvicinare proprio per una continua ricerca di sonorità fuori dal comune che partendo da una base sludge/post-metal, poi si lancia in una sperimentazione quasi avanguardista. Questa si rivela una costante un po' in tutta la release, in quanto anche nella successiva "Māli", il quintetto non rinuncia a imperversare con riffoni tosti (direi di competenza stoner al limite del doom) e al contempo, di proporre variazioni al tema varcando ulteriori confini musicali alquanto deliranti. "Vaidava Celies!", con i suoi dieci minuti, ha un incipit di violenza disturbante (e anche una coda quasi post black), ma nel suo proseguio si dimostra più vicina ad un mix tra orrorifico post rock (complici sinistri cori) e ancora chitarre post metal, per quanto sia una song quasi interamente strumentale (fatto salvo per la ripetizione da parte del vocalist del titolo del brano). Nonostante questo, il risultato è ancora una volta affascinante, merito di questi cinque pazzi furiosi. In "Slāpes" sembra di aver a che fare con un'altra band, ma risiede proprio in quest'imprevedibilità di fondo il grande interesse che nutro per questi Oghre, che potrebbe essere accostabili ad una versione deprivata di elettronica, dei lettoni Forgotten Sunrise (andateveli a cercare mi raccomando). Forse gli Oghre sono ancora un po' acerbi rispetto ai colleghi baltici, ma il mood potrebbe essere il medesimo e a confermarcelo ecco in chiusura "Rītausmas Zirgs" e le sue atmosfere ancora una volta velate che sembrano condurci dalle parti di un sound dapprima tooliano (poi direi bell'incazzato) che completa in modo efficace una proposta assai intrigante a cui vi invito a dare più di un ascolto superficiale. (Francesco Scarci)

lunedì 21 settembre 2020

Bleeding Eyes - Golgotha

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
La trasformazione dei Bleeding Eyes è ormai completa e ci mostra una band in una splendida forma decadente e buia, dal forte sapore poetico e dal suono asfissiante, concentrata in territori funerei tra sludge e doom metal. La loro nuova opera, 'Golgotha', è marcata da un'importante presenza vocale che caratterizza oggi più che mai il risultato sonoro, non solo per la capacità canora, che rincorre gli stilemi del genere, ma per le sue proprietà espressive che, con lunghissimi testi apocalittici cantati in italiano, superano ogni aspettativa artistica, proiettando l'esperta band di Montebelluna in una dimensione propria assai originale. Dimensione che in "1418", un bel pezzo sulfureo e potente cantato in inglese (lingua prevalentemente usata per i primi quattro album), rischia di sfigurare di fronte alla magniloquenza mostrata negli altri brani cantati in italiano. Il salmodiare del canto, unito alla ricerca nera delle melodie, che si muovono tra chiaroscuri potenti ed infernali, inoltrano l'ascoltatore in un pozzo senza fine, diabolico ed infinito. Sono pochi gli album cantati in lingua italica che si lasciano apprezzare come questo nuovo full length del combo veneto, intitolato a fondata ragione, 'Golgotha'. Dicevamo che la metamorfosi è ora completa ed il fatto che per la prima volta nella discografia dei Bleeding Eyes, i brani in lingua madre siano in numero maggiore rispetto a quelli in inglese, è un segnale di forte emancipazione. I suoni sono sporchi, macabri e sinistri, non vi è luce nemmeno nell'arpeggio apripista del singolo "Confesso", che non lascia speranze tra le parole di un disco che trasuda macabro esistenzialismo da tutti i pori, per una traccia killer di oltre otto minuti. Traccia che parla del rapporto uomo e ira divina, dolore, morte e mancata redenzione. Le atmosfere lugubri ricordano il side project di Lee Dorian, Teeth of Lions Rule the Divine, per la loro ruvidezza e sofferta esternazione, il contraltare sludge alla decadenza black metal dei Forgotten Tomb, una sorta di Massimo Volume in salsa hardcore stile RFT, rinchiusi tra inquietanti e mastodontici riff diabolici, dove il diavolo s'impadronisce del linguaggio messianico per predicare una visione di morte imminente. La band trevigiana sfodera un album al fulmicotone con i controfiocchi, visionario, violento e abrasivo quanto basta, in tutta la sua durata. Brano dopo brano, il veleno si mostra in tutta la sua forza, con stile e sapienza, una svolta che eleva il quintetto italico ad un piano dimensionale superiore e si fa amare sempre più, nota dopo nota, per quel cantato in lingua originale ed il potere evocativo ed angosciante dei testi. In questo lavoro licenziato dalla GoDown Records, la poesia dell'apocalisse incontra la musica del destino, in un calderone di devastante cupa emotività. Un piccolo gioiello di poesia doom dalle immense potenzialità. Musica tesa, esistenziale, depressiva, dai toni biblici e catastrofici, un mix originale per un disco che solleva la sorte della scena sotterranea, estrema nazionale. (Bob Stoner)

domenica 23 agosto 2020

Рожь - Один сажень/Остов

#PER CHI AMA: Funeral/Black/Doom
Quella di oggi è una one-man-band proveniente dalla Carelia, quella regione russa al confine con la Finlandia descritta peraltro nel lavoro 'The Karelian Isthmus' degli Amorphis. A parte queste divagazioni geografico-musicali, la band si chiama Рожь che in italiano starebbe per segale, quanto meno stravagante come moniker. Detto questo, il lavoro contiene in realtà 'Один сажень' e 'Остов', i due EP del mastermind russo e sembra narrare una breve storia su un vecchio morto che nessuno sapeva chi fosse. Purtroppo la lingua cirillica non mi aiuta a capire molto di più, e allora meglio concentrarsi sulla musica. I primi quattro brani sono estratti da 'Один сажень' e si aprono con le soffocanti atmosfere di "Один", il cui sound sembra immediatamente delineare la direzione funerea intrapresa dal polistrumentista sovietico. Si, stiamo parlando di funeral doom, in una versione che si avvale di corpose e melodiche linee di chitarra che evocano il duo Draconian/Saturnus con dei vocalizzi growl che a malapena si percepiscono in background. Grande spazio è lasciato a lunghe pause ambient che caricano di una certa tensione l'aria già di per sè rarefatta del disco e così, di quasi 10 minuti di musica, quasi il 50% è affidata a queste minimaliste parti atmosferiche, in cui sembrano esserci eteree voci in sottofondo. Il risultato è convincente e mi spinge a volerne sapere di più e quindi affrontare con maggior spensieratezza le successive tracce. Ecco quindi susseguirsi la brevissima "Платье под железом", ponte per la più abrasiva "Головы", vera tormenta post-black che evolve in sonorità più black doom oriented. A chiudere il primo capitolo la ritualistica "Сажень", affidata al solo cantato del musicista russo e a delle spettrali tastiere in background. La seconda parte del disco include le tre song di 'Остов', aperte dagli archi di "Пасха", sicuramente un bel biglietto da visita per l'ascoltatore. L'introduzione è sempre abbastanza lunga e sembra essere la virtuale continuazione della precedente traccia, prima che inizi ad infuriare il mastodontico sound delle sei-corde (prima lento e poi impetuoso) e l'efferato screaming del vocalist, in un altro pezzo tipicamente post-black, sebbene il finale riservi curiose contaminazioni. La pseudo strumentale "Рукава и сажа" rivela le influenze per il nostro polistrumentista derivanti, a livello chitarristico, dallo sludge che ben si coniugano col doom e il post che spopolano un po' ovunque all'interno del disco. In chiusura, la title track, altri quattro minuti di non musica, fatta da voci evocative e parti ambient affidate agli archi che stimolano non poco l'immaginazione di chi sarà pronto e senza paura ad immergersi in questo viaggio targato Рожь. (Francesco Scarci)

domenica 26 luglio 2020

Bait - Revelation of the Pure

#PER CHI AMA: Black/Doom/Hardcore, Converge, Neurosis
Prosegue il trend esterofilo della Les Acteurs de l'Ombre Productions che questa volta va a pescare la sua nuova creatura in Germania. Signori, vi presento i Bait e il loro terzo lavoro (due EP in precedenza) intitolato 'Revelation of the Pure'. La proposta dei nostri (che vede la presenza di un membro dei Der Weg Einer Freiheit tra le proprie fila) combina in modo inequivocabile il black metal con l'intemperanza dell'hardcore. Questo almeno quanto si intuisce quando a decollare nei nostri stereo è "Nothing is Sacred", una centrifuga sonora velenosa che in poco più di tre minuti, palesa la mostruosità della proposta sonora dei teutonici attraverso sfuriate black e divagazioni hardcore appunto. Con la successiva “Leviathan III” ad entrare in scena in questo macello sonoro, ci sono addirittura rallentamenti doomish che arricchiscono ulteriormente l'ammasso sonoro che ritroviamo in questo lavoro. Il disco si muove in modo totalmente irrequieto, tra accelerazioni post-black, fantastica quella di "Into Misery" a tal proposito, e tirate di freno a mano, come accade nella stessa. Questi i punti di forza del terzetto di Würzburg che rivela le abili doti dei tre musicisti, e allo stesso tempo la loro incazzatura con il mondo. È lo screaming ferale del frontman a dircelo cosi come le ritmiche al fulmicotone sparate nell'acidissima "Lightbringer", una song a dir poco incendiaria, visto l'utilizzo spasmodico dei blast-beat su linee di chitarra lanciate a tutta velocità. Più lenta e melodica "Ruin", il pezzo relativamente più tranquillo del lotto ma anche quello venato di una forte dose di malinconia, che lo erige a mio preferito dell'album, soprattutto a fronte di quel fumoso break centrale, con il famigerato tremolo picking a prendersi tutta la scena. Anche "Odium" pare avere un approccio similare a "Ruin" con quel suo incipit compassato, malinconico e che sembra costituire la classica quiete prima della tempesta, e cosi sia. Infatti, la violenza irrompe a gamba tesa con un rullo compressore di chitarre e ferali screaming vocals. La title track invece è più melmosa nel suo incedere, strizzando l'occhiolino ad uno sludgecore comunque intriso di black ma anche di prog. Nulla di cosi semplice da digerire sia chiaro, però certo non un sound che appare cosi scontato. Con "Forlorn Souls" si torna sulla retta via della violenza roboante fatta di chitarre e urlacci disperati, ma anche di tremolii atmosferici di chitarra. Ancora una manciata di pezzi mancano a rapporto: "Eternal Sleep" si apre con un giro di basso mefistofelico e un approccio apparentemente più orchestrale che divamperà ben presto in un torrente dapprima furioso e poi placidamente intrappolato nelle sabbie mobili di uno sludge doom davvero claustrofobico. In chiusura, ecco "In Aversion", una song che in poco più di quattro minuti, ci prende prima a bastonate, poi ci coccola, e poi ci dà il definitivo colpo di grazia con una mattanza di suoni devastanti che chiamano in causa, in ordine casuale, Converge, Neurosis e Celeste. Non sarà certo una passeggiata affrontare questo 'Revelation of the Pure', ma vi garantisco che i contenuti non vi lasceranno certo insoddisfatti. (Francesco Scarci)

mercoledì 22 luglio 2020

Ohhms - Close

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, Pallbearer, Baroness
Gli inglesi Ohhms con il loro ultimo lavoro 'Close' si propongono come una delle band post-metal più attive e convincenti del Regno Unito, paese in cui il movimento sembra aver faticato più che altrove ad affermarsi (si ricordino le esperienze di Fall of Efrafa, Light Bearer, Bossk e Latitudes, questi ultimi gli unici in grado di dare continuità al progetto e ad ottenere una certa visibilità).

La musica del quintetto originario della contea del Kent, giunto alla quarta release ufficiale, risulta tuttavia più trasversale, fondendo influenze della tradizione sludge\doom britannica con elementi post-rock e progressive rock, dando vita ad una creatura ibrida che negli ultimi sei anni è andata in cerca della propria identità. Con 'Close' gli Ohhms giungono alla fase della maturità artistica, confezionando un lavoro lontano dagli stereotipi e al tempo stesso piuttosto accessibile.

L’opening “Alive!” parte in sordina, immergendoci nelle atmosfere sognanti dipinte dalle chitarre arpeggiate, prima di adombrarsi e crescere di intensità come un temporale estivo, tra grandinate di percussioni, basse frequenze a pioggia e l’energia sprigionata dal cantante Paul Waller. Alle sfuriate sludge\doom di “Alive!” e “Revenge” fanno da contraltare le più elaborate progressioni di “Destroyer” e “Unplugged”, brani in cui la furia strumentale si sposa con una pronunciata vena melodica, richiamando alla memoria alcune composizioni degli ultimi The Ocean. Le atmosfere crepuscolari e quasi shoegaze di “((Flaming Youth))” e “((Strange Ways))”, intermezzi ben inseriti nel contesto dell’album, sembrano ben più che semplici cerniere tra un pezzo e l’altro, offrendo all’ascoltatore momenti di raccoglimento e riflessione.

Complice l’apprezzabile scelta di un minutaggio contenuto, gli Ohhms riescono ad amalgamare stili e spunti differenti in modo naturale ed efficace, rendendo 'Close' sufficientemente variegato da risaltare in mezzo ad una scena ormai molto affollata, mantenendo però una struttura coesa e priva di passaggi forzati. Forse non tutte le idee proposte vengono valorizzate a dovere, ma si tratta sicuramente di un deciso passo verso future uscite forse più ambiziose. (Shadowsofthesun)

(Holy Roar Records - 2020)
Voto: 75

https://ohhms.bandcamp.com/album/close

sabato 11 luglio 2020

Maiastra - Nurt

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge
Quest'album mi è piaciuto quasi da subito per quel suo feeling mellifluo emanato dalle note iniziale di "W Mróz". Il neo che ho semmai trovato in quest'opera prima dei Maiastra, è l'utilizzo del polacco nelle sue liriche che limitano l'approccio alle tematiche ai fan più attenti anche ai testi ma anche per una certa armonia tra musica e voce. 'Nurt' infatti è interamente cantato nella lingua madre dall'ensemble originario di Szczecin, un errore veniale che si può anche perdonare, soprattutto a fronte di una proposta musicale piuttosto convincente. Si perchè quanto viene offerto dai nostri è uno sludge/post metal, che può rimandare a Neurosis o Cult of Luna, qui riproposti in toni più minimalistici e a tratti post-rock oriented. Lo si comprende dal timido esordio della seconda traccia, "W Ciszy", affidato ad un riffing che nei suoi primi 100 secondi, appare quasi sussurrato e che poi esplode nelle sembianze tipiche del genere, coadiuvato da un bel lavoro dietro le pelli e dalla voce sporca quanto basta del suo frontman. Interessanti, lo ribadisco, specialmente nel saper offrire tutti gli ingredienti nel genere in pochi giri di orologio (tre e mezzo per essere precisi) e lasciar il posto a "W Nurt". L'inizio del brano è affidato ad un giro di chitarra acustico che se ne va a braccetto quasi di nascosto con la batteria fino alla classica detonazione che comporta l'ingresso della grugnolesca voce e del basso, a tracciare buone linee melodiche, dotate di certe venature malinconiche grazie al lavoro del tremolo picking alla sei corde. Il risultato ancora una volta centra il bersaglio, ma c'è ancora un discreto spazio di miglioramento. Tuttavia, i nostri conoscono le loro potenzialità e con "Bez Barw" sembrano metterle maggiormente in mostra: l'intro è sempre tiepido, ma ci sta se poi l'intensità va accrescendosi di pari passo con il growling caustico del frontman ed una furibonda ritmica al limite del post black. "Bez Tchu" è un altro pezzo che si apre in modo soffuso, ma il copione sembra essere sempre lo stesso, ossia garantire un inizio gentile a cui cedere presto il passo ad una ritmica di matrice post, che qui tarda però ad arrivare, essendo relegata ai soli 45 secondi conclusivi del brano. L'ultima "Bez Szans" è contraddistinta da un discreto duetto tra chitarra, in versione tremolante, e dai rintocchi di basso, entrambi a poggiare su una batteria qui elementare e con le urla sporadiche del cantante a supporto, quasi a costituire una sorta di outro semistrumentale di questo compatto 'Nurt'. Il lavoro va ampiamente oltre la sufficienza, ora starà ai nostri cercare quelle migliorie tecnico-compositive che permettano alla compagine polacca di uscire dal mazzo. (Francesco Scarci)

mercoledì 8 luglio 2020

Unearthly Trance - The Trident

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Sludge, Neurosis
Dopo aver fatto uscire due buoni album con la Rise Above Records di Lee Dorrian, gli Unearthly Trance hanno debuttato su Relapse Records con questo psichedelico 'The Trident'. Il trio statunitense da sempre è portavoce di una personale visione dell’apocalisse attraverso un doom ipnotico che contraddistingue il sound dei tre newyorchesi. Visioni lisergiche, suoni asfittici, atmosfere claustrofobiche e un incedere quasi barcollante, rendono la proposta musicale dell'ensemble statunitense certamente di non facile presa. Gli Unearthly Trance possono rappresentare il collegamento mancante tra Neurosis e Winter: la musica dei nostri viaggia all’interno di torbide e rarefatte atmosfere che rappresentano gli incubi dello sconosciuto subconscio umano. È un viaggio in un abisso pervaso di mistero, fatto di momenti di malsana follia, insana oppressione e caos musicale. Screaming vocals sussurrano il dolore dilaniante che pervade questi tre loschi individui su ritmiche ripetitive e soffocanti, che trascinano l’ascoltatore in un baratro senza fondo. Ascoltare 'The Trident' è come catapultarsi in un pozzo senza fine, in un tunnel senza via d’uscita, in un giorno senza luce. La disperazione che trasuda dalle note di “Scarlet”, l’angoscia che pervade “The Air Exits, The Sea Accepts Me” o la rabbia di “Wake Up and Smell The Corpses”, rendono questo terzo lavoro dell’act nord americano, un inno profondo alla misantropia. Amanti di Neurosis, Sunn0)) e High On Fire hanno di sicuro amato questo lavoro, colonna sonora dei sogni più spaventosi. Brava come sempre la Relapse all'epoca, nello scovare nell’underground realtà interessanti da inserire nel proprio rooster e ancora una volta, la politica oculata della label americana, ha fatto centro. Ipnotici, oscuri, tetri, ragazzi eccoli gli Unearthly Trance. (Francesco Scarci)

domenica 14 giugno 2020

Chat Pile - Remove Your Skin Please

#PER CHI AMA: Noise/Sludge, The Jesus Lizard
I Chat Pile è una band originaria di Oklahoma City che lo scorso anno se n'è uscita con due EP, di cui questo 'Remove Your Skin Please' è il secondo rilasciato sul finire dell'anno. Quattro pezzi all'insegna di un noise sludge con qualche venatura psych e grunge. Ascoltando l'opener "Dallas Beltway" penserei ad una versione più violenta dei The Doors, con la voce del frontman a blaterare come se fosse un novello Jim Morrison e la musica in sottofondo a mostrare un certo disagio interirore nel suo disarmante incedere, cosi sporco ed infimo, dotato però di una forte carica grooveggiante che alla fine me la fa adorare, ricordandomi un che dei The Jesus Lizard. L'inizio di "Mask" è ancor più coinvolgente, con quella sua vena post-punk che esce preponderante e le vocals sempre lamentose, a tratti parlate, comunque intrise di una elevata dose alcolica che le portano a sbraitare il loro disappunto con un fare grunge (mi sono venuti in mente anche i primissimi Nirvana) ma sul finire sfociano addirittura in un growling death metal. "Davis" è il terzo brano e sapete che potrebbe stare su un disco degli Ulcerate per quella sua ferocia sbilenca che non lo fa etichettare come death metal puramente per i vocalizzi puliti e urlati del cantante che ad un certo punto sembra addirittura dire "fottetevi". La canzone è comunque singolare tra parti psych noise e devastanti deragliamenti a livello ritmico che la spingono alle soglie del death metal. Peculiari e intriganti. La conclusiva "Garbage Man" è l'ultimo delirante episodio di un mini album che non è facilmente collocabile in un contenitore preciso. Qui infatti ci potrete sentire un mix tra hardcore, punk e sludge, il tutto cantato da un vocalist ormai alcolizzato. Sarebbe interessante ora saggiarli su un terreno più scivoloso, quello del full length, vediamo se sapranno accontentarci. (Francesco Scarci)

sabato 30 maggio 2020

Wojtek - Hymn for the Leftovers

#PER CHI AMA: Sludge/Hardcore, Converge
Formatisi solo un anno fa (era infatti maggio 2019 quando i cinque musicisti si ritrovavano in quel di Padova) ma con già due EP alle spalle, i Wojtek ci presentano l'ultimo e appena sfornato, 'Hymn for the Leftovers'. La band patavina, forte delle esperienze dei suoi singoli musicisti in altre corrosive realtà underground, rilascia cinque mefitiche tracce che si aprono con le urla dal profondo della brutale "Honestly", di certo un bel biglietto da visita in fatto di ferocia da parte della caustica band veneta. Detto delle urla iniziali e del lungo rumore in sottofondo che ci accompagna per quasi tre minuti, la band inizia a srotolare il proprio sound abrasivo con un riffing lutulento ma decisamente sporco, che chiama in causa i Converge in una loro versione a rallentatore, soprattutto quando i nostri mettono da parte il drumming e si affidano quasi completamente alle voci taglienti di Mattia Zambon e alle chitarre del duo formato da Riccardo Zulato e Morgan Zambon. Finalmente però sul finale, ecco un accenno di melodia, con la linea di chitarra che assume toni vagamente malinconici. Il basso di Simone Carraro apre poi la seconda "Curse", con il drumming di Enrico Babolin che va ad accostarsi da li a poco, e poi via via gli altri strumenti in una song dall'incedere lento e maligno, che sembra non promettere nulla di buono se non asprezze e spigolature sonore di un certo livello, non proprio cosi facili da assorbire, se non quando il quintetto italico ne agevola l'ascolto con una linea melodica in sottofondo, dai tratti comunque alquanto inquietanti. E proprio in questi frangenti che la proposta dei Wojtek (il cui moniker deriva dall'orso bruno siriano adottato dai soldati dell'artiglieria polacca durante la Seconda Guerra Mondiale) acquisisce maggiore accessibilità e fruibilità, altrimenti le cinque tracce diventerebbero un'insormontabile montagna da scalare. Anche quando parte "Crawling" infatti, l'inquietudine regna sovrana nel drumming schizoide del five-piece padovano poi, complici un paio di break ben assestati ed un rallentamento più ragionato, l'asperità insita nel sound dei Wojtek trova una maggior scorrevolezza in un sound altrimenti davvero ostile, come accade ad esempio nella parte centrale di questa stessa track, prima dell'ennesimo cambio di tempo a mitigarne la ferocia. Ancora il basso tonante di Simone e la sinistra ma nervosa batteria di Enrico ad aprire "Striving", un brano che si muove in territori mid-tempo, lenti ma questa volta pregni di groove a mostrarci un'altra faccia della band che, non vorrei dire un'eresia, in questa song mi ha evocato un che dei Cavalera Conspiracy. Più post-punk oriented invece la conclusiva "Empty Veins" che ci racconta da dove i nostri sono nati e cresciuti, accostando al punk anche la sua degenerazione hardcore. Lo screaming lacerante di Mattia lascia andare tutto il suo dissapore sopra una ritmica costantemente disagiata che trova anche modo di lanciarsi in una sgaloppata al limite del post-black, che si alterna con rallentamenti che spezzano intelligentemente la brutalità in cui i nostri spesso e volentieri rischiano di incorrere. Alla fine 'Hymn for the Leftovers' è un'uscita interessante, ma a mio ancora con la classica etichetta "Parental Advisory: Handle with Care", il rischio di farsi esplodere in mano questa bomba potrebbe rivelarsi letale. (Francesco Scarci)

(Violence in the Veins/Teschio Records - 2020)
Voto: 69

https://wojtek3522.bandcamp.com/album/hymn-for-the-leftovers

domenica 24 maggio 2020

VV. AA. - Solar Flare Records

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Noise
Un'altra compilation nelle mie mani questo mese, devo essere stato davvero cattivo negli ultimi tempi. Autori del misfatto questa volta i francesi della Solar Flar Records (supportata dalla Atypeek Music), che raccolgono qui 10 band del loro roster per testimoniare quanto portato avanti sin qui dall'etichetta e quanto dovrebbe prospettarsi roseo il futuro. Il cd si apre con il caustico refrain noise/post-hardcore degli statunitensi Pigs e della loro "Give It", estratta dall'album del 2012, 'You Ruin Everything'. Questo per dire che le tracce non sono proprio recentissime. I nostri torneranno più avanti con una più ritmata e convincente "The Life in Pink". Dei Sofy Major credo abbiamo abbondantemente parlato su queste stesse pagine, mentre non abbiamo mai avuto l'opportunità di saggiare il sound melmoso, schizzato e super fuzzato dei francesi Pord che, con "Staring Into Space", ci riportano al 2014: interessanti ma difficili da digerire senza un bel malox a supporto. Continuiamo col super ribassato sound dei Watertank e della loro "Pro Cooks", una combinazione di doom, noise e post-hc con voci molto (troppo) ruffiane, che mal si conciliano con i miei gusti, confermato anche dalla seconda "DCVR". Ancora chitarre sporche, voci abrasive e atmosfere psichedelicamente distorte con i Bardus, ma potete capire come sia difficile fare valutazioni sulla base di un pezzo, niente male comunque. Gli American Heritage fanno un punk hardcore inverinato che nelle due schegge a disposizione mostrano la verve abrasiva della band. I Fashion Week, per quanto fautori di un sound a tratti intrigante, alla fine non mi fanno proprio impazzire con il loro post grunge di scuola Smashing Pumpkins. Più strani i The Great Sabatini, con un punk noise hardcore all'inizio fastidioso, molto più interessante invece nelle linee più sludge della loro proposta. Ultima menzione per i Carne e "1000 Beers", estratta da 'Ville Morgue' (2013) che mette in mostra un post-hardcore dissonante che sembra ricongiungersi virtualmente al black destrutturato dei compaesani Deathspell Omega. In chiusura gli Stuntman e il loro devastante e irriverente hardcore, la forma più brutale di questo concentrato nerboruto di suoni tremendamente sporchi. (Francesco Scarci)

(Solar Flare Records/Atypeek Music - 2020)
Voto: S.V.

https://www.facebook.com/solarflarerecords

venerdì 8 maggio 2020

Megatherium - God

#PER CHI AMA: Stoner Psych Sludge
Ci siamo lasciati con i Megatherium nel 2016 quando uscì il debut album 'Superbeast'. Ci ritroviamo oggi con un nuovo solido lavoro dall'onnipotente e "poco ingombrante" titolo, 'God'. Otto tracce per i nostri, di cui solo cinque in realtà veri e propri brani, visto che "(generate)" funge come sorta di dronica intro, "(organize)" come intermezzo strumentale, mentre "(destroy)" è una più breve e avvinghiante rumoristica song. Con "The One" il quartetto di Verona inizia a macinare i propri classici mastodontici riffoni e la prima cosa che vorrei sottolineare rispetto al precedente lavoro, è un netto miglioramento a livello vocale: Manuele ha infatti aggiustato il proprio modo di cantare e ora lo trovo meglio collocato all'interno di uno stile musicale che rimbalza costantemente tra stoner, sludge e doom, senza tralasciare che altre componenti, quali math, heavy classico, alternative e psichedelia, s'intersecano in più punti nei brani. "The Holy" parte più in sordina, tra riverberi di chitarra e giri ritmici melmosi che sembrano evidenziare una minor accessibilità alla proposta dei nostri rispetto al passato, privilegiando qui un approccio più pesante e oscuro. Forse questo potrebbe essere il secondo punto che differenzia 'God' dal precedente 'Superbeast' e devo ancora maturare l'idea se si tratti di un punto a favore o sfavore di questa nuova release. Probabilmente la differenza risiede nel cambio di line-up, che ha visto la fuoriuscita di Davide alla chitarra e il successivo innesto di Alberto "Tode" a rimpiazzarlo. La quarta song, "The Truth", ha un incipit ben più atmosferico, frutto dell'utilizzo di synth in background che ne mitigano non poco, la fruibilità. Ampio spazio viene dato comunque alla parte strumentale, come a voler stordire l'ascoltatore prima di porgere un paio di carezze ristoratrici, carezze che coincidono con l'ingresso alla voce del vocalist. Ma il sound continua a rimanere urticante e duro da digerire, frutto di continui tortuosi giri ritmici che finiscono col produrre un effetto sfiancante. È il turno della song più lunga del lotto, "The Eye", quasi undici minuti in totale apnea, visto il grado di angoscia che il pezzo riesce a generare. Il brano apre con un arpeggio dal vago sapor mediorientale, prima che un ribassato rifferama si metta a costruire un enorme muro sonoro dove ancora una volta, il cantato di Manuele, cerca di addolcirne le asperità. Il sound dei Megatherium si fa ancor più minaccioso con un giro ritmico dai tratti fortemente dissonanti che trovano in uno psichedelico break percussivo di scuola tooliana, l'apice compositivo (e di irrazionalità) di 'God'. Ecco, questi sono i momenti che adoro di questa band, in cui ti prendono, ti portano all'inferno e li ti abbandonano. Quest'ultimo alla fine è l'episodio del disco che ho preferito, finalmente identificato dopo una serie estenuante di ascolti che mi ha portato quasi al delirio psichico. Tuttavia, il finale è affidato ad una song dal temperamento più hard rock oriented, "The Strenght", in cui i nostri mostrano inizialmente i muscoli con il loro stoner lento ma possente, intriso di una buona verve grooveggiante che rende questa song di facile presa anche laddove la band si infila in un tunnel ove una luce soffusa sembra voler intorpidire i nostri sensi con fare seducente. La porzione interamente strumentale qui votata peraltro alla psichedelia più pura, mostra un'altra faccia dei Megatherium, quella più lisergica e sperimentale prima dell'ultimo ingresso vocale di Manuele. La song chiude un riffing monumentale cosi ritmato che nel suo fading out mi ha evocato i Metallica di 'Master of Puppets'. 'God' alla fine è un album complesso che non si capisce certo al primo ascolto ma necessità di grande attenzione per poter coglierne dettagli a volte sommersi da un riffing pachidermico e assaporarne cosi tutti i suoi colori e odori. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2020)
Voto: 76

https://megatheriumstonerdoom.bandcamp.com/album/god

sabato 2 maggio 2020

Nudist - Incomplete

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge
Parto con il commentare l'ottimo artwork di copertina, curato da Coito Negato, per la nuova opera dei fiorentini Nudist. L'album, mixato e masterizzato da Eralbo Bernocchi, è da ascoltare con massima attenzione, per assaporarne tutte le sfumature e le variegate contorsioni compositive. Siamo all'interno dello sludge e del postcore, quello più viscerale e abrasivo, essenza che potevamo trovare già nelle atmosfere del seminale 'Aggravation' dei Treponem Pal, unito alla drammaticità nevrotica e decadente dei lavori micidiali dei Forgotten Tomb, di cui la voce dei Nudist, Lorenzo Picchi (anche al basso), ne ricorda non poco lo stile vocale. Originali nel loro sopravvivere nella sfera del genere, uniscono ritmi claustrofobici (ottimo il drumming Francesco Caprotti) e coloratissime sfumature di nero, sottolineate dai taglienti riff al vetriolo di Gabriele Fabbri (c' è anche lo zampino magico di Xabier Iriondo - chitarrista degli Afterhours - in questo bel disco), che penetrano nella carne (l'opener "Roped and Tied" ad esempio) come lame affilate, per un totale di una quarantina di minuti tutti da gustare con vorace desiderio di musica nera e avvolgente, uno sfogo di rabbia palpabile, meditato, finemente realizzato e niente meno che registrato al teatro Fabbrichino di Prato. Si sente, traccia dopo traccia, l'esperienza maturata di una band navigata, che fa valere le sue qualità musicali acquisite. Sferzate soniche e rallentamenti in slow motion per un film in bianco e nero dagli accentuati chiaroscuri, dove le parti 1 e 2 del brano "River", rivelano un'ottima vena sperimentale, con variazioni nel canto (con l'aiuto vocale di RYF) che si elevano dalle usuali vocals in screaming, aprendo il suono della band ad ulteriori frontiere ipnotiche e psichedeliche. Il terzo brano, "Demolition", si erge nella sua sofferta cronaca lisergica, con un'escalation di drammaticità a dir poco epica, in una sensazione di sospensione avvenuta in uno spazio senza tempo, marcato dall'oscurità incombente. "Crawl in Me", si muove a passo lento in un ambito fumoso e cupo, per uno scenario filmico e d'ambiente noir, un sound originale, vicino al depressive black, con voce salmodiante, straziante e lacera per una marcia funebre, maligna e lugubre che non fa prigionieri. I pregi artistici dei Nudist vengono messi in bella mostra da una eccelsa qualità di registrazione per l'intero percorso del disco ed anche nel lungo brano conclusivo, che porta il titolo dell'opera, "Incomplete" appunto. Una lunga soffertissima interpretazione acida, dall'incedere progressivo ed ossessivo, che si abbatte sull'ascoltatore come un macigno, per porre fine ad un set di canzoni che rapiscono per coinvolgimento emotivo ed un'atmosfera ammaliante virata al nero cosmico. Un album da mettere forzatamente tra le vostre collezioni migliori. Ascolto obbligato ed intensificato. (Bob Stoner)

lunedì 6 gennaio 2020

Daughters Of Saint Crispin - S/t

#PER CHI AMA: Psych/Slowcore/Post, Neurosis
Singolare scegliere come moniker quello di un sindacato del calzolaio femminile americano, i Daughters Of Saint Crispin appunto. La band, che nasce dalla precedente esperienza del suo leader nei Tyranny Is Tyranny, si propone di offrire un sound che loro stessi definiscono arrogantemente "doomy Big Black" o una sorta di "Godflesh che suonano song dei Codeine" (band newyorkese ispiratrice dello slowcore). E proprio da quest'ultimo genere, caratterizzato da ritmi rallentati, arrangiamenti minimalistici ed atmosfere rarefatte che i nostri partono, coniugando ovviamente il tutto con gli insegnamenti dei Neurosis, una costante aura psichedelica, un pizzico di punk (soprattutto nella seconda ridondante "Debt Grief") ed il gioco sembra fatto. Le tracce da "Ex-Spies" a "Head And Heart", si susseguono proponendo un vortice di lente emozioni e turbamenti interiori. Se ho particolarmente apprezzato l'opener, devo ammettere di aver fatto più fatica ad accogliere la seconda song, desiderando più volte di skippare alla traccia successiva. Solo il chorus mi ha evitato di cambiare brano. "Blue Light" è un brano a rallentatore, con la voce del frontman che sembra quella di un accanito bevitore di whiskey. La song striscia poi come un serpente a sonagli nel deserto, tra ruvide scarnificazioni sludgy, ammiccamenti post e una verve blues rock. L'ultima song dell'ensemble del Wisconsin suona come una ninna nanna per un bebè, con la sola differenza che al posto del latte, al bimbo viene somministrato un cicchetto di ottimo distillato. Alla fine l'EP è un buon punto di partenza per sviluppare in futuro nuove alternative sonore. (Francesco Scarci)

mercoledì 18 dicembre 2019

Calendula - Hiveminds - De Brevitate Vitae

#PER CHI AMA: Post Metal/Stoner
Li avevamo lasciati su queste stesse pagine in occasione dell'uscita di 'Aftermaths': era il lontano 2012. Ora i Calendula tornano sulla scena con un po' di novità in seno alla band. A quanto pare infatti, i nostri sembrano aver virato il tiro primordialmente black/crust/hardcore di quel disco, verso un sound più intimista. Questo è ciò che si evince dall'ascolto dei primi minuti di questa single track di oltre 25 minuti, che dà il nome al lavoro, ossia 'Hiveminds – De Brevitate Vitae'. Certo, il retaggio passato vive sempre nelle note di questi musicisti, palesandosi qua e là sottoforma di riff post-metal, atmosfere melmose in pieno stile sludge, schitarrate stoner, o più rade e sguaiate grida hardcore, senza tralasciare anche una certa vena psych che va a collidere con un più atmosferico post-rock. Insomma, l'avrete capito, saranno pure venticinque minuti di musica, ma quella dei Calendula è una proposta un po' atipica, che ha modo di strizzare l'occhiolino anche all'alternative, soprattutto in ambito vocale, con il frontman a testare nuove linee vocali che vanno ad affiancarsi anche a momenti di spoken words. La proposta della band è davvero interessante, stralunata quando al quattordicesimo minuto le chitarre sembrano in preda al delirium tremens o quando la band ricorda di essere transitata in passato in territori black, che al minuto sedicesimo diventano doom, in quella che resta comunque una nevrotica cavalcata corredata da molteplici stili musicali, e che al diciottesimo (sembra quasi una telecronaca di una partita di calcio) sembrano sforare anche nel math e poco dopo nuovamente nel black. Questo per dire che alla fine 'Hiveminds - De Brevitate Vitae' è un lavoro complesso che necessita di grande attenzione e pazienza per essere goduto appieno. Forse non vi piacerà subito, ma dategli più di un'opportunità e non ve ne pentirete affatto. (Francesco Scarci)

venerdì 11 ottobre 2019

Late Night Venture - Subcosmos

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna, Ufomammut, Type O Negative
Strano ma vero, la Czar of Crickets Productions ha deciso di varcare i confini nazionali, selezionando una nuova band da inserire nel proprio rooster, andando a pescare in Danimarca. Si avete letto bene, l'intransigente etichetta elvetica si è spinta in nord Europa per selezionare questi Late Night Venture, un quintetto originario di Hovedstaden, che con 'Subcosmos' arriva al traguardo del quarto album (in discografia anche un paio di EP), il terzo peraltro a chiudere una trilogia cosmica sul genere umano, la vita e l'universo. Il genere proposto dai nostri si affida ad un post metal oscuro e asfittico, ma assai melodico, che acchiappa sin dalle note iniziali dell'opener "Fram From the Light", un brano intenso, pesante, ipnotico, in cui ampio risalto viene affidato agli strumenti, un po' meno alla possente e sbraitante voce dei due frontman. Con "Bloodline", la seconda traccia, la marzialità del brano si fa più urgente, con un effetto senza dubbio vincente, e che richiama per certi versi i Cult of Luna. Ma il ventaglio di influenze dei nostri non si ferma ai gods svedesi, va esteso anche ai Neurosis, a cui i nostri strizzeranno l'occhiolino a più riprese nel corso del disco. Il risultato è davvero buono, avendomi spinto ad andare a spulciare la vecchia discografia della band danese per saperne un pochino di più dei nostri che sono riusciti a toccare le mie corde. Poi quando "2630" (per la cronaca, il CAP del sobborgo di Høje-Taastrup dove due dei membri della band sono cresciuti) prende forma nel mio stereo, ecco che si materializza anche lo spettro dei Type O Negative grazie ad un sound doomeggiante e ad una voce baritonale in stile Peter Steele (pace all'anima sua). Ma la song riserva ancora qualche sorpresa grazie a delle contaminazioni elettroniche che si scorgono in background e ad una esaltante frazione conclusiva, all'insegna di un crescendo ritmico da paura. Sempre più interessanti. E l'oscurità va ingurgitandosi ogni forma di luce con la criptica "Desolate Shelter", una song semi-strumentale davvero angosciante che pesca ancora a piene mani da un post metal contaminato da psichedelia, doom e sludge. Il disco, cosi permeato di influenze techno-cibernetiche (penso all'inizio della title track), è una sorta di insano viaggio distopico nella società malata. "No One Fought You" ha un inizio sognante: le influenze di scuola Isis/Cult of Luna si palesano quando l'apparato ritmico va ad ingigantirsi, ma francamente risulta comunque gradevole assaporare la proposta peculiare del combo danese. L'ultima lunga song, "No Burning Ground", ci consegna altri 10 estasianti e cosmici minuti di questo 'Subcosmos', un disco che vede man mano svelare altre più celate influenze, che citano anche Celtic Frost, Yob e Ufomammut, soprattutto nell'epilogo quasi stoner dell'ultima traccia. Ben fatto. (Francesco Scarci)

(Czar of Crickets Productions - 2019)
Voto: 77

https://www.facebook.com/latenightventure/