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mercoledì 24 dicembre 2014

Isaak & Mos Generator - Stoner Split Of The Year

#PER CHI AMA: Stoner/Hard Rock/Psichedelia
Gli Isaak sono tornati e lo fanno in grande stile: uno split su vinile insieme ai Mos Generator. E' vero, il disco non è ancora disponibile, ma quando è stato lanciato in streaming qualche giorno fa, non ho saputo resistere. I primi (ex Gandhi's Gunn) sono una delle realtà italiane più interessanti degli ultimi anni in campo stoner. Il loro precedente album è stato prodotto dalla Small Stone Records, etichetta americana che sforna ottime band come se non ci fosse un domani, mentre questo split è targato Heavy Psych Sounds, label italiana che sta crescendo in modo vertiginoso. I Mos Generator sono una rock band americana che ha già quattordici anni di onorata attività alle spalle, cinque album prodotti e una valanga di concerti in giro per il mondo. Qualcuno li ha definiti come i naturali eredi dei Black Sabbath al tempo di 'Sabotage', noi non possiamo che essere d'accordo. Le due band si contendono ciascuna un lato del lussuoso vinile in colorazione splatter (rosso e nera) che aumenta a dismisura la necessità fisica e mentale di possederlo e metterlo in un posto di rilievo tra la propria collezione privata di dischi. I Mos Generator ci portano in un viaggio onirico, sospeso nel tempo e in balia di forze oscure che tentano di prendere il sopravvento sulla nostra lucidità mentale. Quasi dodici minuti pieni zeppi di suoni vintage, a partire dai synth e sequencer che provengono direttamente dalle migliori colonne sonore sci-fi anni 70/80. Dopo una breve intro strumentale che ci fa tremare per via di un basso talmente distorto che solo il feedback potrebbe buttare giù un grattacielo, inizia il brano vero e proprio e ci sorprendiamo perchè i suoni non sono così esasperatamente pesanti. Quello che ascoltiamo è un sano hard rock ricco di frequenze calde e avvolgenti, tanto groove e riff vagamente prog. Al sesto minuto arriva il primo vero break dove un Hammond ricrea le tanto care atmosfere psichedeliche in pure stile Pink Floyd. Gli assoli cremosi di chitarra e l'ipnotico vocalist recidono il cordone ombelicale che a stento ci tiene stretti a questa terra e il volo pindarico raggiunge la sua massima espressione. I suoni sono semplicemente perfetti e se lo dico ascoltando uno streaming, non oso immaginare cosa succederà quando la puntina del giradischi inizierà a scorrere sui solchi di cotanta manna dal cielo. Ora tocca agli Isaak che dopo un inizio di così alto livello, me li immagino impavidi sul palco, pronti ad esibirsi dopo essere stati virtualmente introdotti da una band possente come i Mos Generator. Le atmosfere e i suoni cambiano all'improvviso, ora la musica diventa più viscerale, quasi religiosa. Una lunga introduzione prepara la nostra mente e questa volta la botta arriva, ci investe completamente e ci inebria. In lontananza si sente profumo di peyote e incenso che ardono su un braciere, mentre il basso e la batteria intonano una marcia epica che le chitarre acuiscono con riff monolitici. Il vocalist completa l'opera con un grido rivolto al cielo in omaggio a madre natura che tutto vede e tutto decide. Il campionamento vocale che aveva prima guidato l'introduzione ora torna a farsi sentire insieme ad una linea strumentale (probabilmente uno strumento ad arco tipo viola o violino) che richiama i potenti arrangiamenti che si ascoltano in gran parte della discografia degli *Shels. Un quarto d'ora che vorreste non finisse mai, che ti lascia si sfinito, ma appagato. Questo split è un lavoro costruito ed eseguito in modo ineccepibile, da avere assolutamente e custodire gelosamente. Se qualche vostro erede lo vorrà reclamare in un lontano futuro, ditegli che dovrà dimostrare di esserne degno. Ora iniziate il conto alla rovescia, personalmente io sto già contando i giorni.(Michele Montanari)

mercoledì 9 aprile 2014

The Brain Washing Machine - Seven Years Later

#PER CHI AMA: Stoner Rock
Della serie ottima etichetta, ottimi gruppi! Questa volta tocca ai The Brain Washing Machine (TBWM), padovani di nascita e stoner/rock per vocazione. Il quartetto lancia questo album alla fine del 2013, dopo il successo del primo EP (datato ormai 2006) e conferma quanto atteso. Band solida (un solo cambio di line-up in questi sette anni di attività), numerose esibizioni live (anche a fianco di band di spicco) e molti passaggi in radio per condividere il loro lavoro con il nutrito mondo di desert-addicted. Dodici brani registrati professionalmente e un bel digipack, ti fanno salire la cosiddetta SAS (Stoner acquisition syndrome), patologia riconosciuta a livello mondiale che porta l'amante del genere stoner/doom alla ricerca incessante del gruppo perfetto. Perfetto o no, i TBWM sono cazzuti, bravi e sanno vendersi. Per quanto riguarda i primi due punti nulla da aggiungere, arrangiamenti ad hoc, tanti riff e cura feticista del suono. L'ultimo punto invece potrebbe dividere le folle, nel senso che se cercate un disco che vi aiuti a passare in modo graduale dal pop/rock allo rock/stoner, questo è quello giusto. Se invece siete dei fan smaliziati del genere, troverete questo album un po' troppo ruffiano. Talmente border line da far sorridere, ma chissenefrega. Ascolta e taci. "Seven" è bella carica, una sfonda timpani da gustare appieno con le casse dello stereo che vi rinfrescano da quanta aria muovono a ritmo di una locomotiva che sfreccia nella notte. Brano strumentale, che non sente affatto il bisogno del cantato perché i riff vi parleranno a livello subliminale, prima veloci e poi dimezzati, tutto a beneficio del movimento ritmico della vostra testa. Ecco, diciamo che discreta parte nello stoner lo fanno le chitarre, possibilmente accordate in do e ricche di fuzz. I TBWM hanno optato per suoni meno desertici e più metropolitani, sappiatelo. "Angry Boy" apre con un grande riff di basso, veloce e tagliente che anticipa l'entrata degli altri commilitoni che arrivano subito a dar man forte. Parte ritmica promossa a pieni voti, insieme alla chitarra ci danno dentro come non ci fosse un domani e questo ripaga l'ascoltatore. Il vocalist sa il fatto suo, non è dovuto certo passare da 'X-Factor' e 'Amici' per imparare come si canta da rocker. Per questo serve tanta gavetta e migliaia ore di ascolto dei propri maestri (STP, Jane's Addiction, etc.) "Simple Song" è un'altra gran traccia, in linea con le precedenti e quindi non aggiungo molto altro. Le chitarre sono più grosse e forse sarebbe il suono adatto anche per le altre canzoni. Lo svolgimento è leggermente ripetitivo, si intuisce facilmente il prossimo cambio e questo toglie un po' di gusto all'ascoltatore. Direi che i TBWM sono a buon punto (prodotti dalla GoDown Records), non devono certo farsi abbagliare dai risultati ottenuti sin'ora, ma andare avanti per la propria strada. Infatti potrei dire che qualche aggiustamento al loro stile si può fare, ma poi, serve veramente? (Michele Montanari)

(GoDown Records - 2013)
Voto: 70

martedì 11 marzo 2014

Sandveiss – Scream Queen

#PER CHI AMA: Hard Rock, Black Label Society, Stoner, Ozzy
Chi si ricorda dei Pride and Glory, il progetto solista di Zakk Wilde prima dei Black Label Society? Ebbene, in più di un punto questo esordio dei canadesi Sandveiss mi ha ricordato proprio quel (bellissimo) disco, con il suo hard ciccione e ultracompresso, magari con qualche strizzatina d’occhio verso il vecchio continente laddove quell’altro era caratterizzato da un’impronta fortemente sudista. Quindi quello che abbiamo tra le mani è un vero e proprio disco hard rock, moderno e potente, appena al confine con lo stoner o un certo grunge (Soundgarden e Alice in Chains), sullo stile, per esempio, dei Sasquatch, suonato con stile e perizia, prodotto benissimo e forte della carismatica presenza di un cantante davvero bravo, a metà strada fra il già citato Zakk Wilde e Chris Cornell. “Blindsided” apre l’album come meglio non si potrebbe: un mid-tempo dal riff assassino con tutto, ma proprio tutto, al posto giusto. Segue il trascinante stomp pestone di “Do You Really Know”, e si procede senza segni di cedimenti per tutta la durata dell’album. Non c’è traccia di ballate o ammorbidimento alcuno, anzi, un pezzo come “Scar” potrebbe aver fatto bella mostra di sé in un album di Ozzy degli anni '90, con quel super riff che a me ha ricordato addirittura gli In Flames. C’è spazio anche per un’incursione nello stoner più influenzato dal doom con “Bottomless Lies”, che potrebbe uscire da un disco dei Red Fang e che risulta uno dei vertici del disco. Tutto sembra perfino troppo perfetto per essere vero: un gran cantante, una ritmica implacabile e dinamica e una chitarra affilata ma mai sopra le righe, sempre puntuale e piuttosto classica nei riferimenti. Otto pezzi perfettamente congegnati, suonati divinamente e registrati benissimo, in modo da suonare classici ma mai nostalgici o passatisti. Ottimo esordio in un ambito nel quale risulta sempre più difficile avere qualcosa da dire. (Mauro Catena)

(Self - 2013)
Voto: 80

sabato 11 gennaio 2014

Underdogs - Ready To Burn

BACK IN TIME:

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Kyuss
Gli Underdogs sono un trio nato intorno al 2004 che affonda le sue radici nel movimento stoner/desert rock, genere che tutt'ora ha un bel riscontro a livello nazionale. "Ready to Burn" è il loro primo lavoro (cinque anni or sono) che ha permesso alla band di farsi conoscere al pubblico, grazie anche al supporto della omni presente GoDown Records. Notevoli le collaborazioni degli Underdogs, quali Kyuss, Fugazi, etc., cosi come le ottime parole spese dalla stampa estera. Di ciccia quindi ce n'è, ma non facciamoci offuscare la mente dal buon marketing e ascoltiamo invece come suona questo "Ready to Burn". Dieci tracce (anche se la prima è una sorta di intro) che si librano tra le classiche sonorità desert rock, buona chitarra e sezione ritmica che pompano il giusto e risentono di tutta l'influenza Sleep e Kyuss. L'elemento che diversifica gli Underdogs è la voce, lontana dal classico timbro roco e da uomo vissuto, ma più melodica e rock in stile '70s. Le linee melodiche sono piacevoli da ascoltare e si incastrano bene con gli arrangiamenti, diversificando anche il modo di cantare, rendendo i vari pezzi sempre diversi tra loro. Altro punto a favore è il basso che in tutti i brani non si limita ad essere un mero compagno ritmico tipico del genere, ma diventa spesso protagonista con bei riff introduttivi e break. "Cowboy Style" inizia come una classic ballad un po' malinconica, come un vagabondo che si trascina tra cactus e scheletri di coyote alla ricerca della salvezza. Poi si trasforma e ingrana la marcia alta, aumentando il ritmo e l'aggressività sonora. "You Don't" è il pezzo classico stoner, meno aggressivo nella ritmica, ma più nei suoni distorti sempre grossi e potenti. Pezzo lungo che potrebbe stancare, ma il finale rallenta e ci regala un'atmosfera psichedelica come il ritornello. Buona la qualità a livello di registrazione, personalmente avrei inciso qualche linea di chitarra in più, ma in questo modo l'album è fedele al set up dei live. Direi che come esordio non è affatto male, ora posso passare al prossimo album e scoprire come si sono evoluti gli Underdogs. (Michele Montanari)

(GoDown Records - 2009)
Voto: 70

https://www.facebook.com/underdogstown?fref=ts

mercoledì 26 giugno 2013

Deville - Hydra

#PER CHI AMA: Stoner, Queens of the Stone Age
Questo cd gira già da qualche giorno nella mia macchina, mi porta al lavoro, durante il week-end e via dicendo. Giuro, è difficile separarsene e ancora dopo un paio di settimane non mi molla. Questo è l'effetto Deville, simile ad una sindrome di Stendhal, ma meno garbata e più ruvida. I Deville sono quattro ragazzoni svedesi che calcano la scena stoner dal 2003 in dieci anni di attività e che hanno una sana dipendenza da live pesanti e furibondi. Anche l'attività in studio non è da meno, ma impallidisce di fronte al numero di concerti fatti in questi anni. Questo fa capire di che pasta sono fatti i Deville e come suonano. "Hydra" è fresco fresco di release e in undici pezzi vi catapulterà in quel mondo sabbioso e pieno di bassi che contraddistingue lo stoner. La peculiarità dei Deville è quella di aver dato una leggera sferzata di stile rispetto al classico stile svedese con l'aggiunta di sonorità più raffinate e uno studio ad hoc per la sezione arrangiamenti. Ma lasciamo perdere le chiacchiere e passiamo al sodo. "Lava" è la prima traccia ed è stata scelta a dovere perchè oltre ad essere la più orecchiabile, sicuramente è quella che incarna meglio il Deville-style. Ritmica a go go, riffoni grossi di chitarra con distorsioni meglio definite delle classiche da stoner e cambi di direzione che vi porteranno alla fine del brano in un baleno. Qua inizia la sindrome da dipendenza che vi porterà nella spirale del dover ascoltare il resto quanto prima. Poi è il momento di "The Knife" che apre con un bel basso distorto e una vaga influenza Queens of the Stone Age a livello melodico, questa però scompare immediatamente con il break che odora di post rock. Il trucco funziona alla grande perchè i riff che seguono sembrano ancora più cattivi. Ringraziamo il dio chitarra, inginocchiamoci tutti e adoriamo. Con "Over the Edge" si ritorna alle origine, grazie ad un bel giro melodico che fa molto hard rock-blues e permette di rispolverare il wah-wah e un solo di chitarra tra l'iper tecnico e il ruffiano. Breve, ma intenso, come il sesso consumato nel bagno di un polveroso bar nel bel mezzo del deserto. Chiudiamo con "Imperial", pezzo impegnato e tecnico per le diverse sfaccettature melodiche e sonore che in sei minuti abbondanti ci portano a spasso attraverso il mondo dei Deville. La ritmica è più cadenzata e lenta rispetto ai pezzi precedenti, ma siamo lontani anni luce dal doom. Il cantato è sempre all'altezza e riesce a staccarsi dalla melodia principale rendendo questa traccia e le altre sempre godibili. Devo dire che l'album è di pregevole fattura, ottimi suoni e gran lavoro di arrangiamento e mastering, difficile trovare difetti. Ora la palla passa a voi, nel frattempo "Hydra" rimarrà nel mio stereo per molte settimane ancora. (Michele Montanari)

(Small Stone Records)
Voto:90

http://smallstone.bandcamp.com/album/hydra

domenica 23 giugno 2013

Electric Taurus - Veneralia

#PER CHI AMA: Stoner Doom, Clutch, Led Zeppelin, Orange Goblin, Monster Magnet
C'è una sola cosa che rimpiango degli anni '70: che non avessero a disposizione le tecnologie moderne di registrazione e missaggio. Certo, il suono un po' distante e quasi per nulla on-your-face fa anche parte del fascino di quegli anni: ma è innegabile che per orecchie abituate alle produzioni e ai volumi di oggi, certi dischi di quarant'anni fa lascino l'amaro in bocca. Poi, per fortuna, arrivano gruppi come gli Electric Taurus, che ripescano a piene mani il meglio di Led Zeppelin, Grandfunk Railroad e Black Sabbath per miscelarli con un certo stoner doom di oggi (gli ultimi Clutch, ma anche Orange Goblin e Sleep): e il miracolo di ascoltare gli anni '70 con i suoni di oggi si avvera. C'è più heavy blues che doom, intendiamoci: la batteria è più spesso veloce che lenta, ma le chitarre sono violente al punto giusto e annegate nel fuzz, il basso (un po' troppo pulito, forse) fa il suo lavoro e la voce scivola ogni tanto nelle melodie hard-rock di vecchia scuola – ma in generale il mix che ne esce è di tutto rispetto. La componente settantiana emerge prepotente in certi brani ("New Moon", "Magic Eye", "Mountains"), ma c'è spazio anche per lo stoner di "Two Gods/Caput Algol" e per una lunga parentesi psichedelica (l'unica del brano) in "Mescalina/If/At The Edge of Earth". Stona invece "Prelude to the Madness", con parti doom uscite dall'inferno alternate un po' troppo forzatamente a schitarrate acustiche stile pezzi-peggiori-dei-Monster-Magnet. In definitiva un buon lavoro, quello degli Electric Taurus, peraltro confezionato in un packaging gradevolissimo con un'inquietante illustrazione di copertina. Se cercate l'originalità, qui non ce n'è molta. Ma se siete nostalgici dell'heavy blues dei tempi andati suonato con l'oscurità dello stoner doom di oggi, e se volete ascoltare un bel prodottino tutto italiano, questo disco fa per voi.(Stefano Torregrossa)

(Moonlight Records, 2012)
Voto: 65

http://electrictaurus.bandcamp.com/

martedì 11 giugno 2013

Sleestack - Book of Hours

#PER CHI AMA: Heavy Psychedelia, 50ft of Pipe, Cathedral, Monster Magnet
Affrontare questa band di Milwaukee non è facile, descriverla senza essere fraintesi altrettanto, ma ascoltarla è sensazionale. Un'evoluzione stilistica spettacolare ha fatto in modo che questa band, al terzo album autoprodotto (i primi due hanno caratteristiche diverse, sempre ancorati al genere space rock ma con meno virate vintage) partorisse un disco così maturo e ricercato dal titolo “Book of Hours”. Parliamo di stoner rock e psichedelia pesante come da tempo non si sentiva in giro, e non di sludge metal non di doom metal come troviamo scritto sul loro bandcamp. Prendete la pesantezza dei Cathedral senza l'aurea plumbea, aggiungete la psichedelia dei 500ft of Pipe senza l'ascendente garage, mescolatelo ai primi lavori dei Monster Magnet come quando agli inizi degli anni novanta fecero uscire il singolo “Tab” e avrete una minima parte di ciò che si ascolta in questo terzo album della band americana in questione dal nome Sleestack. Lucida follia rock di casa Thee Hypnotics ma più dilatata, lenta e ribassata come il sound dei primi Orange Goblin con voci dal vago sapore vecchio film horror e un suono che più naturale e ipnotico di così si muore... in “Lone Wolf” sembra di ascoltare i The Doors appesantiti e in acido dal sapore ‘70s stile Soft Machine in un delirio rock gravido di viaggi interstellari e catarsi totale sulla scia dei Cream. Eppure l'intero lavoro mantiene caratteristiche d'ascolto accessibilissime, anzi si fa ripetutamente ascoltare e amare alla follia. L'originalità qui è di casa e il risultato è impressionante: chitarroni grassi e cosmici, organo e strutture progressive, effetti space oriented e allucinazioni, acido a ‘go ‘go, un fantastico viaggio verso l'infinito. Il cd è un lusso e uno spasso per gli amanti della vera psichedelia, quella suonata e fusa nel segno del rock, quella senza remore, quella dei funghetti allucinogeni. Qui non troverete spazio per Kyuss o Queen of the Stone Age, non è musica del deserto come va di moda ultimamente ma super psichedelia inquietante, pertanto non avvicinatevi troppo se non per adorarli, rischiate di bruciarvi con un simile capolavoro. Colori e psichedelia deviante e deformante, lasciatevi andare e divinizzateli, non rimarrete delusi... erano anni che non ci arrivava dallo spazio cosmico un mostro alieno di tale bellezza. (Bob Stoner)

mercoledì 29 maggio 2013

Wo Fat - The Black Code

#PER CHI AMA: Stoner, Doom, 70’s Hard Rock
Primo lavoro dei Texani Wo Fat per la Small Stone (e quarto in totale), etichetta che è ormai sinonimo di sano, genuino, schietto stoner. Così come il ben noto eroe del fumetto francese Obelix era caduto da piccolo nel pentolone della pozione magica che dona forza sovrumana, così i Wo Fat (il nome sembra derivi da un personaggio della serie televisiva “Hawai Five-O”) sembra abbiano fatto lo stesso, ma con un ipotetico pentolone del fuzz più spinto. Classica formazione in power trio, i Wo Fat sono una pianta carnivora, con le radici ben piantate nei classici stilemi dell’hard blues anni ‘70 della sacra triade Hendrix-Sabbath-ZZ Top, nutrita con dosi criminali di stoner e doom, in agguato nelle paludi del delta del Mississippi, pronta a stritolare qualsiasi cosa gli capiti a tiro con le sue fauci appiccicose, ad ingerirlo e risputarlo fuori sotto forma di riff devastanti, ritmiche da treni merci carichi di minerali di ferro e improvvise digressioni chitarristiche uscite da una jam acida sotto il sole del deserto del Mojave. Solo cinque brani, tre dei quali superano i dieci minuti, dal peso specifico altissimo e la temperatura davvero rovente. Menzione d’obbligo per “The Shard of Leng”, assolutamente spettacolare per come accelera e rallenta ripetutamente nel corso di 12 minuti che vorresti non finissero mai, condensandovi tali e tante idee sulle quali altri gruppi avrebbero costruito un disco intero. Tutte le tracce sono comunque notevoli, dal blues saturo di “Hurt at Gone”, alla monolitica coltre di feedback che seppellisce la title track prima che cominci il suo inesorabile incedere. A fronte di queste maratone, l’iniziale “Lost Highway”, sembra quasi un pezzo “radio friendly”, con in suoi soli 5 minuti di tempesta desertica (sembra quasi di sentire lo spostamento d’aria calda proveniente dagli amplificatori). Il più grande torto che si possa fare a questo album, sarebbe quello di prestargli un orecchio distratto e catalogarlo frettolosamente come l’ennesimo disco stoner senza nulla da dire. Qui c’è molto di più, e se è vero che la parola “innovazione” non trova posto nel vocabolario dei Wo Fat, quello che mi trovo tra le mani è uno di quei lavori che sono sicuro riascolterò certamente, anche tra qualche anno. (Mauro Catena)

(Small Stone Recordings, 2012)
Voto: 75

http://smallstone.bandcamp.com/album/the-black-code

sabato 1 settembre 2012

Kayleth - The Survivor

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Psych/Doom Metal, Orange Goblin, Sleep
Il deserto è tornato. La sabbia sugli stivali, uno scorpione che si nasconde tra le rocce e finalmente la sagoma di una città che si staglia all'orizzonte. Miraggio, realtà, non importa. La gola arsa reclama un whisky ghiacciato e del buon fuzz. I Kayleth ritornano dal deserto per regalarci il loro nuovo lavoro e con l'obiettivo di bissare il successo del precedente "Rusty gold". “The Survivor” è un EP con cinque pezzi inediti e una cover (The Nile song), che inizia con un messaggio in codice Morse e subito lascia posto alla prima traccia "The Anvil". Di nome e di fatto, questi tre minuti si abbattono pesanti come granito e veloci come un treno senza controllo. La ritmica è infatti il pregio maggiore di questa canzone, con un paio di stacchi che comunque non rallentano la corsa forsennata e mi lasciano stordito. Bel pezzo. "Desert Caravan" è un brano meno veloce, ma dall'aggessività inaudita, con un 'intro che alterna una strofa cantata molto minimalista ad un'esplosione di chitarra grossa e arrogante (come solo il fuzz può fare), batteria e basso. La traccia continua poi sullo stesso tema, dove la voce di Wiko (tutto rigorosamente in inglese) urla al cielo tutta la propria rabbia. Passiamo alla mia song preferita, "The Survivor". Dopo una breve intro di synth, la batteria di Pedro scandisce uno dei ritmi doom più violenti che io abbia mai sentito negli ultimi tempi. Il Dalla (chitarra) e Zancks (basso) creano una trama all'unisono, con diversi assoli caratterizzati dall'immancabile delay, wah e phaser. Sembra quasi una ballata in onore al dio Cactus, con una bolgia di corpi che danza intorno al sacro totem del deserto che brucia nella notte più lunga. Psichedelia, doom e stoner fusi in un unico capolavoro, da assaporare lentamente, come il mezcal che scende giù per la gola e ci regala immagini oniriche. Piacevole anche la cover finale dei Pink Floyd, ottima reinterpretazione di un vecchio pezzo fine anni ‘60, quando la pantera rosa aveva altre sonorità. Quindi, procuratevi questo EP prima che diventi sold out e se vi capita, andate a vederli dal vivo. L'adrenalina scorre a fiumi e i volumi vi faranno ricordare di essere vivi. Bel lavoro ragazzi, complimenti. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 85
 

giovedì 5 luglio 2012

Kayleth - Rusty Gold

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Psych/Doom Metal, Orange Goblin, Sleep
Sole, cactus, una radio in sottofondo (non sembra Radio Popolare Verona dall'accento) ed una motoretta. Sì presentano così i Kayleth, antica band del veronese, arrivati alla pubblicazione di un modesto EP dalla durata di 20 minuti, poco più. Eh sì, me la ricordo ancora quella sera dove venni in possesso di codesto disco. Ero al buon vecchio Sabotage Bar di Vicenza, troppo sobrio per quell'epoca, perchè volevo assolutamente assistere alla performance di questo rinomato gruppo che passava dalle mie parti. E come è tradizione ai concerti, ogni gruppo estremamente bravo, ha estremamente poco pubblico. In questo caso, avevano solo me. E non so se per premiarmi, o spinti dai miei complimenti, mi donarono questa loro prima fatica. L'EP pecca nella sua presentazione in busta ma controbilancia perfettamente con un vynil cd e un suond eccellente per qualunque appassionato dello stoner. Il disco alterna composizioni movimentate come la title-track, a brani di matrice più space-psichedelia, ad esempio la mia preferita “Old Man's Legacy“ e la opening-track, con il tutto reso più pesante da una spruzzata di doom classico qua e là. La produzione è calda e pulita, rendendo udibile perfettamente i singoli effetti che gli strumentisti ci propinano continuamente. Subisco sbalzi da assoli stuprati da wah, enormi riff flangerati e phaser sotto acidi. Anche il basso non scherza, alternando un fuzz selvaggio ad un clean delay, che ci immerge in un totale climax sotto l’effetto di peyote. La band mi disse che aveva pronto un altro EP che attendo ansiosamente, io continuo ad esortarli per la produzione di un LP e spero che prima o poi arrivi. Intanto vi consiglio molto, ma molto caldamente, di ascoltarli, e di andarveli a vedere dato che suonano raramente. (Kent)

(Self)
Voto: 75