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mercoledì 22 agosto 2018

Extremities - Gaia

#PER CHI AMA: Djent, Meshuggah, Tesseract
Orfana dei Textures, la scena djent trova gli eredi della band olandese nella stessa Olanda con gli Extremities. Esordienti nel 2016 con un EP, 'Rakshasa', il quintetto di Eindhoven sbarca in questo 2018 con un debutto sulla lunga distanza, 'Gaia'. Otto pezzi di durata più o meno cospicua ("The Inward Eye" dura addirittura 18 minuti) che identificano la proposta musicale del quintetto tulipano che vede in Meshuggah, Gojira e gli stessi Textures, i riferimenti principale per il proprio sound. L'apertura è affidata alla granitica "Colossus", che strizza inevitabilmente l'occhiolino ai godz svedesi con le immancabili chitarre poliritmiche ed un vocione che richiama il buon Jens Kidman, mentre la musica vede alcune variazioni di natura electro-grooveggiante che permettono ai nostri di meglio caratterizzare la propria proposta e non risultare dei puri emuli delle band sopra menzionate. E il risultato non può altro che beneficiarne, visto anche un break dal sapore post-rock che si staglia a metà brano. Le ritmiche si confermano, come da tradizione, sghembe e disarmoniche sul finire dell'opener ma anche in altri pezzi successivi, e penso alla devastante "War" o alla più ritmata e "Reanimate", forse la song più legata al djent dell'intero lotto. Più ruffiana invece "Circular Motions" con quell'utilizzo di vocals pulitissime in stile Tesseract, per una song che si muove in territori più alternativi (e che tornerà anche successivamente in "Hydrosphere" e nella melliflua "Through the Dreamscape") e che peraltro vanta una sezione solistica da urlo. Violento l'attacco di "Emissary", con uno stile a cavallo tra death e thrash che cita indistintamente Pantera e Nevermore. Arriviamo all'ultima "The Inward Eye", un mattone di quasi 18 minuti, in cui le chitarre duettano con un sax mostrando la vena sperimentale di cui sono dotati i nostri in un saliscendi emozionale che arriva a chiamare in causa anche i Pain of Salvation, per una traccia che miscela abilmente deathcore progressive, jazz, dream-pop, djent e post rock e che non pone limite alcuno alla proposta musicale degli Extremities, forse i veri designati eredi dei Textures. (Francesco Scarci)

(Painted Bass Records - 2018)
Voto: 75

https://extremitiesnl.bandcamp.com/

lunedì 21 maggio 2018

Kartikeya - Samudra

#PER CHI AMA: Djent/Deathcore/Death Progressive, Meshuggah, Melechesh
Ormai sta diventando quasi una moda, quella di unire la musica estrema, con forti riferimenti culturali e sonori, alla religione induista. Penso principalmente ai Rudra e da oggi anche ai moscoviti Kartikeya, che tornano a distanza di sei anni dal positivo 'Mahayuga', con questo nuovo 'Samudra', uscito per la Apathia Records il 27 Ashvina 5119 dell'era del Kali Yuga. L'approccio sonoro del sestetto russo mi ha evocato immediatamente quello di Ganesh Rao in quel meraviglioso video che fu "Empyrean", un bell'esempio di djent grondante tonnellate di groove. Qui a differenza del musicista americano, c'è però la presenza di vocals, in formato growl (e clean sul finire del brano) che completano alla grande la proposta dei miei nuovi idoli. L'opener, "Dharma - Into the Sacred Waves", la trovo a dir poco fantastica e rappresenta esattamente tutto quello che andavo cercando nel 2011 con l'esplosione del djent. Certo, qualcuno di voi potrebbe obiettare che siamo fuori tempo massimo, ma francamente me ne frego e mi godo tutte le innumerevoli sfumature che l'act russo riesce a inanellare nei primi sei minuti di questo lunghissimo album (oltre 70 minuti). "Tandava", la seconda song, è una bomba capace di coniugare un riffing in pieno Meshuggah style, con influenze death/metalcore, e quell'alone orientaleggiante che aleggia costante nell'aria e mi consente di essere traslato, almeno mentalmente, in qualche tempo indiano. Lo schizoide inizio di "Durga Puja" dice poi che i Kartikeya non sono affatto degli scopiazzatori delle top band del genere, ma che hanno una loro spiccata personalità e osano affiancando al djent anche suoni progressive e di scuola Melechesh. L'esito, come potrete intuire, è ancora una volta notevole e non fa altro che indurmi ad appassionarmi ulteriormente all'ensemble. C'è tecnica, un buon gusto per le melodie, una certa raffinatezza di fondo, una ricerca costante dell'effetto a sorpresa, e poi l'intrigante combinazione di suoni etnici con una bella dose di violenza; alla fine, tutti i palati ne dovrebbero uscire soddisfatti. Anche laddove è un techno death a farla da padrone ("The Horrors of Home") capace di massacrarci i timpani con un riffing serrato e iper-compresso, ecco che i nostri cedono a qualche coro un po' ruffiano per smorzare la veemenza che sembrerebbe affliggere qualche brano, ma anche ad un comparto solistico da urlo, ascoltare per credere, semplicemente da applausi. "Mask of the Blind" è aperta da splendidi arabeschi musicali prima di cedere il passo ad un riffing death iper-compatto che si lascia andare in altrettanto spettacolari break dal sapore esotico, e formidabili assoli a cura del funambolico Roman Arsafes. Davvero notevole, forse il mio pezzo preferito sebbene sia accostabile a qualcosa degli Eluveitie, ma alla fine sarà difficile scegliere tra ben 14 pezzi, vista l'elevatissima qualità compositiva. "The Golden Blades" è un altro bell'esempio di come combinare musica estrema con suoni mediorientali, che nelle parti più progressive sembrano evocare gli Orphaned Land e in quelle più etniche, gli Arallu. Quel che è certo è che qui non c'è modo di annoiarsi nemmeno un minuto, anche in quelli che sono interludi tra una song e l'altra. "We Shall Never Die" è un brano bello tirato, forse più convenzionale rispetto ai precedenti, anche se quel violino nel finale mi fa venire la pelle d'oca. "Kannada (Munjaaneddu Kumbaaranna)" sembra provenire direttamente dalla valle del Gange (visto il cantato indiano di Sai Shankar) sebbene una musicalità estrema (l'assolo è a cura di Karl Sanders dei Nile) che continua ad evocare la cultura indiana, mentre "Tunnels of Naraka" (che vede il featuring del compositore serbo David Maxim Micic) è un feroce attacco all'arma bianca che culminerà in un iper tecnico assolo conclusivo che scomoda ulteriori paragoni illustri. "The Crimson Age" riprende le sonorità djent alla Ganesh Rao, e i suoi tortuosi giri di chitarra sono miele per le mie orecchie. Si arriva nel frattempo alla lunghissimo gran finale, affidato agli oltre 13 minuti di "Dharma pt. 2 - Into The Tranquil Skies", un concentrato sopraffino di tutto quello che sono oggi i Kartikeya: una combinazione straordinaria di sonorità estreme, decisamente orecchiabili, che mostrano la perizia tecnica di questi notevoli musicisti, l'abilità nel creare criptiche atmosfere, combinare vocalizzi estremi e non, rilasciare una spessa coltre di groove, il tutto tenuto insieme dal minimo comune denominatore delle melodie orientali. Eccezionali. (Francesco Scarci)

(Apathia Records - 2017)
Voto: 85

https://kartikeya.bandcamp.com/album/samudra

giovedì 25 gennaio 2018

Samadhi Sitaram - KaliYuga Babalon

#PER CHI AMA: Death/Math/Djent, Dillinger Escape Plan, Meshuggah
I Samadhi Sitaram sono un terzetto proveniente da Mosca, approdati da poco alla corte della Sliptrick Records. L'intro di questo 'KaliYuga Babalon' è piuttosto fuorviante, complice una forte influenza della musica classica nel suo incedere, che mi porterebbe a pensare ad una proposta all'insegna di un melodeath di stampo svedese. La mattonata invece che mi arriva con "Kali-Yuga" mi pesa invece sulla faccia come un gancio tirato sulle ganasce dal buon Mike Tyson. L'attacco è isterico con le ritmiche che si muovono tra mathcore, djent e death, un po' come se sparaste alla velocita dei Dillinger Escape Plan, i Meshuggah. Chiaro il concetto? Se cosi non fosse, pensate che il finale infernale della song potrebbe ricordare il caos sovrano che regna in "Raining Blood", pezzo conclusivo del mitico 'Reign in Blood' degli Slayer. Passo oltre, smaciullato dalla potenza sonora di questi pirati del metallo: "The Death of a Stone" ha il riffone portante che chiama palesemente i Meshuggah, ma la porzione electro-cibernetica che popola il brano, permette al trio russo di prendere le distanze dai gods svedesi. Le convincenti growling vocals di IOFavn mi hanno ricordato invece lo stile del vocalist dei nostrani Alligator. Nel frattempo il cd non ha tempo da perdere e si lancia con "Apotheosis" in un'altra fuga roboante di ritmiche martellanti, sparate alla velocità della luce tra paurosi stop'n go e improvvise accelerazioni death. Interessante sottolineare il concept lirico che si cela dietro a 'KaliYuga Babalon', che tratta uno dei testi sacri della tradizione induista, ossia il dodicesimo canto del Śrīmad Bhāgavatam che anticipa l'avvento dell'età del Kali yuga e la futura distruzione dell'universo materiale da parte di Kalki, un discendente del dio Visnù, a causa del decadimento morale e spirituale in cui è sprofondata l'era attuale. Insomma, un messaggio alquanto tranquillizzante, eufemisticamente parlando. Detto questo, la devastazione prosegue anche con l'ipnotico preludio a "...Qliphoth", una song che tra melodie della tradizione indiana, riffoni dotati di uno spettacolare groove, la identificano come una delle mie preferite (insieme alla conclusiva, ancor più completa e "meshugghiana", "SHANGRI LA") nel lotto delle tracce qui incluse. Dopo parecchi pezzi di durata "normale" (tra i 3 e i 4 minuti), ecco un mostro di oltre 16 minuti ("Orgy - Ritual BABALON") che affida a delle sparatorie e ad urla disumane, i suoi primi due minuti. Poi, nelle sue note c'è un po' di tutto: deathcore, progressive, arrangiamenti da urlo, suoni cinematici, e un'infinita porzione di spoken words in russo che probabilmente si dilunga un po' troppo per i miei gusti. Un buon lavoro di certo, penalizzato però dall'inconcludente lungaggine di "Orgy - Ritual BABALON". (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/samadhisitaram/

sabato 4 novembre 2017

Machines of Man - Dreamstates

#PER CHI AMA: Math/Progressive, Between the Buried and Me
È risaputo che in U.S. ce ne sia per tutti i gusti e con questi Machines of Man andiamo a placare il desiderio di coloro che stanno attendendo con ansia il comeback discografico dei Between the Buried and Me, schedulato nel 2018. E allora cosa c'è di meglio che farsi trastullare dalla musica di questi cinque ragazzi di Salt Lake City e dal loro ottimo 'Dreamstate', un album di sette raffinatissimi pezzi di math progressivo che colpisce già in apertura per l'utilizzo del sax nella breve title track e che poi ci consegna una band in grado di disegnare arcobaleni musicali in un vortice emotivo fatto di splendidi assoli (esaltante già in "Symbiosis"), parti tirate e rabbiose, cambi di tempo impressionanti e vocals che si muovono tra un etereo pulito che richiama il buon Tommy Giles e un growling orchesco? D'accordo, i punti di contatto con i BTBAM sono molteplici e assai evidenti, soprattutto se si pensa alla più recente discografia della band del North Carolina, ma parliamoci con estrema sincerità, a chi diavolo gliene frega se i Machines of Man alla fine sono in grado di generare le stesse emozioni dei ben più famosi colleghi? Al sottoscritto francamente non importa nulla, perché brani come il secondo, si ascoltano solo in band dotate di una classe sopraffina. Se poi volete sapere quale altra band potrebbe aver influenzato i miei nuovi eroi di math progressivo, ecco che mi vengono in mente i Contortionist, senza dimenticarsi i Cynic, mi raccomando. A chi si lamenterà invece che i Machines of Man siano alquanto derivativi, beh allora mi viene da rispondervi che il 90% delle band in realtà lo è. E allora io continuo a sostenere la proposta dei Machines of Man, la loro classe che si palesa in assoli da paura anche nella terza cinematica "Days Later", con quel rincorrersi delle due asce in vertiginosi giri di chitarra, in un lirismo davvero un paio di spanne sopra il livello medio, rischiando seriamente di minare il trono detenuto dai BTBAM, ma questo lo potremo valutare soltanto fra 4-5 album della band proveniente dallo Utah. I Machines of Man sono ottimi musicisti, sappiatelo: se smusseranno quel retaggio death/metalcore che permea ancora alcune parti dei loro brani, staremo già parlando di una band che per i prossimi vent'anni si farà portavoce del neo movimento progressive. Un pianoforte accompagna la voce deliziosa di Austin Bentley, spiazzando tutti in "Bones of the Sky", in quattro minuti di atmosfere sognanti. La compagine statunitense ha ancora le ultime cartucce da esplodere con le rimanenti "I Am the Colossus" e "Fractals": la prima è inizialmente aggressiva, ma poi il quintetto torna a drappeggiare splendidi scenari esotici, aperture caraibiche e schitarrate flamencheggianti con la voce del frontman che si presenta in molteplici vesti, addirittura ammiccando in un breve frangente al vocalist dei Muse. L'ultima perla rappresenta il connubio di quanto ascoltato fin qui, un gioiello che raccoglie in un sol boccone ritmiche belle tirate, melodiche, tecniche, costantemente ispirate, che sanciscono la nascita di una nuova band di fenomeni, i Machines of Man. (Francesco Scarci)

domenica 15 ottobre 2017

Diana Rising - Stars Can't Shine Without Darkness

#PER CHI AMA: Deathcore/Metalcore
I Diana Rising sono un'altra band proveniente d'oltralpe, dedita questa volta ad un metalcore colmo di groove che rischierà di piacere un po' a tutti, giovani e vecchi, amanti degli estremismi sonori ma anche chi certe sonorità cosi corrosive, non le digerisce particolarmente. Una breve intro ci consegna il primo pezzo di questo 'Stars Can't Shine Without Darkness', "Piece by Piece", una song che mostra una struttura tipicamente metalcore a livello ritmico, ma che nelle sue ariose aperture melodiche, si rende appetibile appunto un po' a tutti i gusti. Non necessariamente un difetto sia ben chiaro, ma forse nemmeno un pregio perché alla fine rischia di non accontentare nessuno, se non i soliti fan del metalcore più intransigente. Io mi diverto però, mi faccio coinvolgere dalle ottime melodie dei nostri e anche da una pulizia tecnica affatto male. Il deathcore si mischia al sound dei nostri nella seconda "Get up and Try Again", con i suoi riffoni gonfi di rabbia, ma poi la seconda chitarra si lancia nell'elaborazione di melodie ancora una volta accattivanti e sempre pregne di energia. Poi ecco arrivare i classici ritmi sincopati, i rallentamenti da manuale e le accelerazioni spasmodiche in grado di generare un feroce mal di testa. Fortunatamente, i pezzi non durano poi molto, siamo su una media di tre minuti, quindi ci si può fare anche il callo di lasciarsi investire da un'onda anomala di suoni, atmosfere, montagne di riff, vocioni growl e urlacci hardcore, synth cibernetici e tonnellate di sagaci melodie. Notevoli in tal senso "Infinite Dimensions", la strumentale "The Void" che ci libera dall'eccessivo cantare del frontman (da migliorare questo punto, mi raccomando) e la più oscura e orientaleggiante "Cursed", le tre song che ho individuato all'interno di 'Stars Can't Shine Without Darkness', come le mie tracce preferite. I francesini ci sanno fare, ma suggerisco di staccarsi dai cliché di un genere che tende troppo ad autoreferenziarsi, si corre il rischio di essere troppo ridondanti. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)
Voto: 65

lunedì 25 settembre 2017

Dethrone the Sovereign - Harbingers of Pestilence

#PER CHI AMA: Deathcore/Djent, Fallujah, The Contortionist, The Faceless
Non sono un fan del deathcore, ma ho sempre pensato che se una band sia in grado di suonare bene il genere (i Fallujah ad esempio), me ne potrei innamorare. Ecco quindi ritrovarmi tra le mani il lavoro dei Dethrone the Sovereign, sestetto proveniente da Salt Lake City che proprio verso i già menzionati Fallujah, volge il proprio sguardo, puntando ad un sound progressivo, sicuramente aggressivo, in grado di chiamare in causa parallelismi anche con realtà più votate al djent. E il risultato è questo sorprendente 'Harbringers of Pestilence', album che si sviluppa lungo nove tracce che, partendo dal deathcore ispirato di "Era of Deception Pt I", si snocciola poi attraverso il sound più articolato e strumentale di "Era of Deception Pt II" che strizza l'occhiolino a Cynic e The Contortionist, per quella forte componente jazz progressive insita nella loro musica (che qui ritornerà anche negli incipit di "Torch of Prometheus" e "The Eternal Void"). E questo diventa anche il punto di forza dei nostri sei musicisti che spezzano la ferocia tipica del genere con passaggi mozzafiato affidati a splendide melodie e giochi di chitarra che ci fanno affrontare con maggiore fiducia le successive e più schizzate tracce, dove inevitabilmente ad attenderci ci sono le classiche chitarrone deathcore con ritmi sincopati, scale ritmiche da brivido, vocioni mostruosi, ma anche tutti quei giochini celestiali tanto cari ai Fallujah, affidati a brillanti parti atmosferiche ("Weavers of Illusion" ne è un bell'esempio). E ancora spettacolari sono le orchestrazioni della title track, ubriacante quanto basta nella sua rincorsa ritmica e nei suoi brillantissimi break che interrompono il frenetico chitarrismo della band. Poi si corre, veloci e schizoidi con una batteria al limite della contraerea, voci che si alternano tra lo screaming acido e il growling profondo, e una sezione ritmica davvero impressionante, che chiama in causa Periphery e altri mostri sacri del genere; spettacolare a tal proposito il finale di "The Vitruvian Augmentation". A chiudere il disco ci pensano le atmosfere eteree di "Perennial Eclipse", un altro pezzo davvero ben calibrato che si muove tra il death e partiture djent, forse le più palesi nell'intero disco. 'Harbringers of Pestilence' è un signor album che saprà ingolosire tutti i fan del genere. (Francesco Scarci)

(Famined Records - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/dethronethesovereign/

giovedì 31 agosto 2017

Forever in Terror - Restless in the Tides

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Metalcore/Deathcore, As I Lay Dying
Metalcore, metalcore e solo metalcore... Mi sono domandato più volte se la Metal Blade non fosse in grado di produrre altro. Avrete quindi intuito che ci troviamo di fronte all’ennesimo gruppo dedito a queste sonorità, che la casa discografica tedesca è da sempre pronta a sfruttare per rastrellare un po’ di quattrini. Il quintetto dell’Ohio, qui aiutato dal buon Mark Hunter dei Chimaira, propone il solito death metal melodico contaminato da suoni americani, sulla scia di Unearth e As I Lay Dying, e con qualche reminiscenza che riporta a Dark Tranquillity e Soilwork. Non esaltatevi troppo però, perché il combo statunitense, nonostante strabordi di energia, aggressività e rabbia, è abbastanza carente dal punto di vista delle idee. In 'Restless in the Tides' ci sono tutti gli ingredienti che hanno reso celebre il genere: riffing selvaggio e potente, stop’n go, urla sgraziate (in pieno stile Unearth), cori ruffiani, ritmica serrata e una gran dose di melodia. Peccato che in tutto ciò, non ci sia un briciolo di personalità, che possa rendere distinguibili, i Forever in Terror, all’interno del marasma esagerato di band, che popolano il panorama metalcore. Pessima poi la cover del disco, ad opera di Derek Hess che ha collaborato anche con In Flames e Converge. Sarà stata la loro tenera età all'esordio, di certo non si sono confermati molto più maturi con i successivi lavori assai banali. Consigliato alla fine solo a chi non può fare a meno di acquistare l’ennesimo album metalcore. (Francesco Scarci)

(Metal Blade - 2007)
Voto: 50

https://www.facebook.com/foreverinterror

lunedì 3 luglio 2017

Dirt – Daysleeper

#PER CHI AMA: Crust/Mathcore
Un digipack piuttosto essenziale e “materico” accompagna il cd di questi Dirt, band canadese che di primo acchito non fornisce indizi di sorta sul proprio messaggio musicale. Copertina essenziale, font discreto e nessun rimando grafico a qualsivoglia genere / ambito musicale, fanno da cornice alla proposta musicale della band. Mi appresto quindi ad intraprendere l’ascolto di questo album senza un’idea ben che minima di cosa mi aspetti. L’intro passa liscia all’orecchio, non particolarmente malinconica, né lugubre, né bizzarra...e si passa così al vero e proprio contenuto dell’opera. Bam! entrata a piè pari sui timpani del malcapitato ascoltatore! Appare subito evidente il range, la categoria a cui la band appartiene. Si tratta di una miscela di crust e mathcore, o almeno fa figo oggi giorno chiamarlo così. Stiamo parlando di quel thrash tecnicissimo, iperviolento e freddo, portato in auge nel cuore degli anni '90 dai Meshuggah con quel capolavoro di 'Destroy Erase Improve'. I Dirt denotano una pregevole perizia tecnica, una padronanza degli strumenti innegabile e possono senza dubbio piacere a tutti gli amanti del genere. Io ho ascoltato il cd ripetutamente, lasciandomi pervadere dalla glacialità industriale della loro musica, e cercando nell’album quel “quid” che mi potesse emozionare o rimandare quantomeno a qualcosa di intimo. Ebbene, duole ammetterlo, questo “quid” non è mai giunto. Al di là della parossistica ossessività e del furore post-umano non ho purtroppo trovato alcunché degno di menzione. Ritmiche sghembe, tempi dispari ( mi raccomando eh, MAI e dico MAI un tempo pari adatto ad un sano headbanging!!!) e urla lancinanti procedono senza soluzione di continuità per l’interezza delle tracce presenti. Davvero il cd risulta monocromatico e stantio, sterile e sordo ad ogni coinvolgimento lirico o esistenziale. Agli amanti dei tecnicismi, del freddo mathcore e del heavy-listening questo album potrà anche piacere, la preparazione tecnica dei Dirt è fuori discussione. Per qualcosa di più profondo, coinvolgente ed emotivo...next please! (HeinricH Della Mora)

domenica 2 luglio 2017

Yugal – Chaos and Harmony

#PER CHI AMA: Thrash/Deathcore
Hanno cercato il salto di qualità necessario per farsi notare e ci sono riusciti. La band bretone degli Yugal, sotto le ali protettrici della Dooweet Records e dopo un paio di buoni EP, arriva finalmente al full length in ottima stato di forma, affilando le armi in maniera più che perfetta e aggiustando la mira sul sound ricercato. La scrittura dei brani non varia molto dai precedenti lavori ma qui s'intensificano le belle parti acustiche usate spesso per tagliare l'aria opprimente di un pesantissimo metal dai tratti moderni e di matrice thrash. Il risultato è un convincente miscuglio di chiaroscuri musicali, ben calibrato e progettato a dovere. Un ordigno sonoro carico e pronto ad esplodere, dove le capacità tecniche della band si sentono ma non si sporgono mai ad inutili manierismi virtuosi e dove l'equilibrio tra esotica, mistica, melodia etnica medioorientale e metal estremo è sempre dietro l'angolo, come in "From This Day I Will Rise" che potrebbe essere imparentata con i Sepultura di un tempo rivisitati da un'angolatura etnica diversa, oppure gli Orphaned Land rivisti in salsa e violenza che collima col thrash dei Testament. Il suono di 'Chaos and Harmony' si snoda nervoso e frastagliato lungo l'intero cd, pieno di cambi di direzione e atmosfere pesanti e violente, sfoggiando una batteria stellare e composizioni ricche di particolari venature in territori sonori tutti da scoprire. Dieci brani per qualcosa in più di una mezz'ora di musica compatta ed intelligente, per farci innamorare di una band matura e preparata. L'artwork suggestivo è degno di nota, cosi in perfetta sintonia con la musica della band. Alla conclusiva title track va poi tutta la mia ammirazione per gusto, sensibilità, potenza e aggressività. Yugal, una band sicuramente da tener d'occhio! L'ascolto consigliatissimo! (Bob Stoner)

giovedì 27 aprile 2017

Karma Zero - Monster

#PER CHI AMA: Deathcore/Hardcore
I Karma Zero sono una band francese attiva dal 2008 che ci presenta questo loro secondo lavoro, 'Monsters'. Trattasi di un concept album che propone un interessante parallelismo tra saghe horror e corrispettivi incubi socio-metropolitani del mondo di oggi. A livello tematico direi che l’esperimento è interessante, pur non riscontrando nei testi dei brani un’effettiva analisi profonda del malessere dell’uomo di oggi, cosa che mi sarei aspettato di trovare. O che forse speravo di trovare. Il contesto sonoro in cui la compagine transalpina si muove è quello dell’hardcore-deathcore. Troviamo quindi ritmiche granitiche alternate a sparatissimi riff scavezzacollo (a tratti esaltanti) con voce raschiata e straziata come gli stilemi del genere prevedono. Muovendosi su tali coordinate, il rischio di diventare troppo monolitici e quindi di annoiare è però dietro l’angolo. Tuttavia, i nostri riescono a superare questo limite del “-core” producendo un album invero piacevole, piuttosto cangiante e assolutamente brioso. In primis, attribuirei il merito alle vocals, davvero fiore all’occhiello soprattutto nella modalità harsh magnificamente distorta, che davvero istiga alla violenza e brilla per tutta la durata del lavoro. Le metriche del cantato sono ortodosse rispetto alla consuetudine HC-deathcore ma l’elaborazione/effettazione del suono le rende preziose. La doppia voce (main e quella del chitarrista) mantiene efficacemente viva l’attenzione, anche con variazioni significative. Vedasi ad esempio la title-track, dove un refrain melodico (ma assolutamente non stucchevole) spezza la tensione, pur mantenendo assolutamente brutale il tutto. A livello chitarristico vorrei menzionare la traccia “Horror”: in essa il riff riesce ad essere devastante ma velatamente intimista, cosa che dà alla canzone una profondità ed un’atmosfera che ho particolarmente apprezzato. Buona e coinvolgente la registrazione, seppur avrei personalmente messo più in rilievo le chitarre. La band propone anche la sua versione di "Blind" dei Korn, brano che probabilmente i nostri utilizzano nei live acts per scaldare l’audience. Non male, ma nel complesso superflua. Sugli scudi invece “Trapped”, devastante e paradigmatica del brand-Karma Zero! (HeinricH Della Mora)

mercoledì 19 aprile 2017

Holocausto - War Metal Massacre

#FOR FANS OF: Black/Thrash, Sarcofago, early Sepultura, Sodom
In the eighties, Brazilian metal had a lot of provocative bands, but Holocausto was for sure the one that stood out the most in that area. With their constant references to the Nazi regime in their image and lyrics, it didn’t take long for them to be accused of being nazis, even if they expressed that they only adopted those symbols to express the horror of the Holocaust. And their music was as extreme as their image, because 'Campo de Extermínio' ('Extermination Camp'), their debut from 1987, still sounds as brutal and violent as it was at that time, with their sloppy technique, their blastbeats, monstrous vocals, and simple but effective thrashy riffs.

This period of rawness ended up being a little short-lived, as Holocausto decided to start changing their sound in their follow-up 'Blocked Minds', where they left the nazi image and Portuguese lyrics, and adopted a crossover thrash sound in the vein of Suicidal Tendencies. The following albums saw Holocausto with the same approach to songwriting as fellow Brazilian bands Sepultura and Sarcófago, never releasing the same album twice and experimenting with more technical riffs and some industrial and noise influences, but unlike those bands Holocausto never managed to capture the same impact of their debut. Internal turbulences and a constant change of members didn’t helped, and they split-up at some time in the mid nineties. Although they reunited in 2005 to record the hardcore-tinged 'De Volta Ao Front' ('Back to the Front'), they didn’t do a lot more.

That is why 'War Metal Massacre' is so welcome as an addition to Holocausto’s discography. With all the members that recorded 'Campo de Extermínio', with the exception of the drummer Armando Sampaio, and a cover that reminds of the one in that album, the intention is very clear and simple: they want to go back to their roots.

The most interesting part of this six-song EP is in the last three songs, the ones that Holocausto composed for this release. It’s complicated to talk about them individually because there isn’t much difference between them, but what they don’t have in variations is compensated with an incredible display of force: “Eu Sou a Guerra” (“I Am the War”), “Corpo Seco / Mão Morta” (“Dry Body / Dead Hand”) and “War Metal Massacre” show Holocausto going back where they feel like a fish in the water, with blastbeats, punchy riffs and lyrics about the horrors of war. Sometimes they sound like 'Obsessed By Cruelty'-era Sodom, but with much better sound. If sometimes critics have used terms like “war metal” and “noise metal” to describe Holocausto’s style, this are songs thet justify those claims.

“Massacre”, “Destruição Nuclear” (“Nuclear Destruction”), and “Escarro Napalm” (“Napalm Sputum”), the three other tracks from this EP, are re-recordings of songs that the band released in their first years. And here they’re present in their best versions: even if there aren’t a lot of changes, with the exception of a short rainy “Black Sabbath”-like intro, the musicians playing them, have improved their technique and the better quality sounds manages to make that the rhythms of Nedson “Warfare” Conde, who was the first drummer of Holocausto, sound as violent as they’ve to be. To “go back to their roots” is something that not a lot of bands manage to do, because a lot of times they end up sounding like tired versions of what they used to be. But with “War Metal Massacre” these Brazilians manage to combine the search into the band’s origins with the experience they’ve gained along these years. I don’t know if a lot of people were expecting new material by Holocausto, but it’s a great surprise nonetheless. There isn’t a single bit of filler in 22 minutes of music, and it’s a perfect comeback for a band that deserved a lot better. Will they manage to get that with the release of an LP? We’ll only have to wait. (Martín Álvarez Cirillo)

(Nuclear War Now! Productions - 2017)
Score: 80

https://nuclearwarnowproductions.bandcamp.com/album/war-metal-massacre

lunedì 17 aprile 2017

Raptor King - Dinocalypse

#PER CHI AMA: Metalcore/Math
C’è chi costruisce elaborati concept album per raccontare serissime vicende personali, viaggi fantascientifici o futuri distopici. E poi ci sono i Raptor King, che si presentano con un packaging imbarazzante, un video in cui un tizio vestito da dinosauro con gli occhiali da sole viene in faccia ad una sosia di Rey dall’ultimo 'Guerre Stellari' ed una storia quanto mai improbabile e ridicola. In questo secondo EP 'Dinocalypse', si racconta di King Raptor V, un dinosauro potentissimo e senza rivali, che governava il mondo 74 miliardi di anni fa. Grazie ad un portale interdimensionale, King Raptor V viaggia nel tempo e arriva nella periferia parigina nel 2015. Assolda due improbabili scagnozzi (il chitarrista illusionista Nightsmoke e il batterista Don Coco) e decide di conquistare il nostro mondo fondando una band: i Raptor King appunto. Musicalmente parlando, siamo di fronte ad un frullato di generi e stili difficilissimo da catalogare. L’opening è affidata alla title track “Dinocalypse”, un assalto deathcore di casse e rullanti, su cui un basso tossico e le chitarre in palm-mute, costruiscono un groove intricato sullo stile dei The Dillinger Escape Plan. Pregevole il lavoro alla voce, gorgogliante e brutale. Cala la luce in “The Witch”, guidata da un riffing lento e oscuro, sabbathiano, quasi doom in certi versi, capace però di inaspettate aperture in blast-beat e accelerazioni metalcore. Sulla successiva “The Long Way To Rock (Pom Pom Pom Pom Pom)” non potrete non muovere la testa: un mid-tempo perfetto e un groove contagioso a cavallo tra rock e metal fanno da tessuto ad una canzone in grado di dare spazio alle capacità tecniche di ciascun membro. “Fight’n’Roll” accelera nelle corde di un metal più contemporaneo, violento e potente, dove King Raptor urla come un punk fatto di adrenalina, ma si ammorbidisce sui ritornelli più catchy. Chiude “Lonesome Raptor”: un blues lento e malato, melodicamente impeccabile, con una voce rauca che ricorda Tom Waits. Un lavoro talmente eterogeneo e sconnesso da spaventare, ancor di più se consideriamo l’assurda ironia dei testi e dell’intero concept. Ma i Raptor King sanno suonare, eccome: se cercate un approccio competente ma ridicolo al metalcore contemporaneo, questo gruppo fa per voi. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2017)
Voto: 65

http://www.raptorkingrocks.com/

mercoledì 5 aprile 2017

Genus Ordinis Dei - The Middle

#PER CHI AMA: Symph/Melo Death, Insomnium
Ho avuto modo di conoscere questa band poche settimane fa in occasione di un'intervista radiofonica. I Genus Ordinis Dei (G.O.D., sarà un caso?) sono una band di Crema assai determinata nel raggiungere l'obiettivo grosso. Partiti come tutte le band con la normale gavetta, i nostri hanno rilasciato un full length d'esordio ed un EP: è proprio con il primo album che i quattro lombardi hanno attirato su di sé le attenzioni dell'etichetta danese Mighty Music, che ha ristampato quel debutto, 'The Middle', che oggi andiamo ad analizzare. Premesso che stiamo parlando di musica uscita originariamente nel 2013 e che è stata concepita ancor prima, quello che appare chiaro fin dai primi minuti è che nelle nostre mani abbiamo un buon esempio di death metal, carico di groove e di melodie ammiccanti. Lo si capisce immediatamente con "The Fall", pezzo iper ritmato che mette in luce una tendenza a sfruttare ottime linee di tastiera che smorzano il growling demoniaco di Nick K (sicuramente da migliorare), cambi di tempo a più riprese e anche una certa vena malinconica in quei delicati tocchi di keys che evocano un che dei finlandesi Insomnium. Un bel giro di tastiere apre la terza "Word of God" in una traccia che sembra essere uscita da uno qualsiasi degli album degli Eternal Tears of Sorrow, anche se rispetto a quest'altra band finnica, l'act italico mantiene più preponderante la componente death metal in un rifferama compatto ed affilato, che fa largo uso di blast beat ma anche di devianze metalcore. Tuttavia le orchestrazioni lentamente guadagnano spazio, e vanno ad ammorbidire la prestanza ritmica dell'ensemble; un bell'assolo, tipicamente heavy metal, chiude una traccia onesta e piacevole. Dicevamo delle crescenti orchestrazioni: in "My Crusade" diventano quasi predominanti, sebbene gli strali chitarristici e quella voce che continua a non convincermi appieno. Apprezzabili comunque i cambi di tempo, che rendono la traccia assai varia, ove ancora una volta, si rivela notevole la sezione solistica. Un intermezzo sinfonico e si arriva a "Path to Salvation", altra song in cui si apprezza il connubio vincente tra riff graffianti, montagne di groove ed enormi quantitativi di tastiere sinfoniche. Non si può certo gridare al miracolo, non c'è proprio aria di novità nelle tracce di questo comunque onorevole album, anche se c'è sempre da tener presente il periodo in cui è stato scritto, perciò concedo l'attenuante di un lavoro concepito ormai un lustro fa. Ancora una manciata di tracce da ascoltare: l'epica "Cadence of War", che ripercorre (o forse anticipa) quanto fatto dagli Ex Deo con il loro tributo all'antica Roma, è una traccia che vede un cantato assai differente a metà brano e sfodera un largo break di tastiere nella coda conclusiva. "Ghostwolf" ha un suono bello potente e tirato, un mix tra Swedish sound, deathcore e death finlandese, in cui a lasciarmi però perplesso sono quei vocalizzi più urlati. Con "Battlefield Gardener" si picchia davvero pesante e sembra discostarsi da quanto suonato fin qui, in quanto le tastiere svolgono un ruolo ben più marginale, mentre le due asce affilano non poco le loro chitarre e si sfidano in una rincorsa che mischia feralità, tecnica, dinamica e ricerca melodica. Si giunge cosi alla conclusiva "Roots and Idols of Cement" e i G.O.D. hanno ancora modo di divertirsi con un riffing instabile e pesante, interrotto solo da quegli ottimi synth e orchestrazioni, vero valore aggiunto per quest'interessante band che ha sicuramente ampi margini di miglioramento, soprattutto dopo aver sostenuto un lungo tour europeo in compagnia dei Lacuna Coil. Per ora ci accontentiamo di questo 'The Middle' in attesa di ascoltare il nuovo lavoro, a quanto pare schedulato proprio per quest'anno. Se ne sentiranno delle belle. (Francesco Scarci)

(Mighty Music/Target - 2016)
Voto: 70

lunedì 26 dicembre 2016

Beneath a Godless Sky - S/t

#PER CHI AMA: Djent/Deathcore, Meshuggah, Tesseract
Quando rifletto su generi che si sono un po' persi per strada, mi viene da pensare al djent: un'esplosione incredibile, una crescita esponenziale e un'implosione altrettanto veloce. Tuttavia, a parte le solite tre-quattro band di grido, c'è ancora un sottobosco che sta germogliando. E quel mondo nascosto non poteva che essere in Francia, paese rigoglioso in fatto di trend musicali. Ecco da dove arrivano i Beneath a Godless Sky, autori di un EP omonimo di sei pezzi, sotto l'egida della Dooweet Records. Il genere ovviamente ci riporta al djent, sia per quel che concerne l'approccio poliritmico delle chitarre che scomoda inequivocabilmente nomi quali Meshuggah o Textures, che all'utilizzo di vocals più o meno pulite. La classica intro e poi è il tempo di "The Wall", che parafrasandone proprio il titolo, innalza un muro ritmico fatto di chitarre meshugghiane, voci ancestrali ed aperture progressive, il tutto condensando cascate di groove a non finire. "Divided", pur seguendo il medesimo pattern chitarristico, trova addirittura modo di impantanarsi in rallentamenti doomish, con le vocals del frontman sempre a cavallo tra il pulito e un growling mai troppo cattivo, tipico del genere. Continuano comunque le bordate sonore anche in "Broken Streets", con il classico rifferama tra Meshuggah e Tesseract, architetture chitarristiche ubriacanti ed aperture quasi space rock. "Fake Smile" prosegue sulla falsariga senza vere e proprie soluzioni alternative, e forse risiede proprio qui il rapido declino di questo stile: non bastano infatti i muri roboanti di chitarre se poi non si creano delle variazioni al tema. E quindi, sebbene fin qui l'EP non mi stesse dispiacendo, mi rendo conto che mi ritrovo alla quinta traccia con le orecchie già un po' sature di tali sonorità. E dire che i nostri sono ben preparati tecnicamente, hanno qualche buona idea, usano con oculatezza l'impianto tastieristico e il cantante ha una buona voce (eviterei però quel cantato quasi rappato che ad un certo punto si sente in "Faith + One"), ma evidentemente non basta. Dopo un po' infatti mi stufo e l'effetto è confermato anche in questo disco. Manca il sussulto, la trovata ad effetto, la divagazione ritmica, la genialata che faccia svoltare questo (e mille altri) dischi. Un EP quello dei Beneath a Godless Sky comunque piacevole, che necessita tuttavia di una maggiore ricercatezza, il rischio infatti è di scivolare nell'oblio totale. (Francesco Scarci)

(Dooweet Records - 2016)
Voto: 65

mercoledì 22 giugno 2016

Master Crow - Die for Humanity

#FOR FANS OF: Melo/Techno/Deathcore, Arsis, Gorod
Hailed as a supergroup of French talent, this second full-length from the melodic/technical death metallers Master Crow bringing along plenty of highly enjoyable elements to make for one of the most explosive and enjoyable offerings in the style. The main segment at play here is the fact that the riff-work is just simply overwhelmingly technical and frantic, whipping up sizeable storms of complex chugging patterns driven along with plenty of ferocious industrial intensity, leaving this one to bring along the sort of blistering rhythms and cold, mechanical feel that’s simply devastating. The approach works in spades with the differing rhythm styles come along with the melodic leads that adds an accessible tone to those mechanical chugging patterns, furthering the overall enjoyment factor of the album with the wholly appealing facet where it’s complex and challenging rhythms that retain a wholly listenable approach with some appropriate and engaging melodies thrown into the mix. Though this does make the album seem somewhat one-note and without a whole lot of variation it’s still engaging and enjoyable enough for a wholly enjoyable listen. The tracks here represent that with a lot to like overall here. The opening title track takes an epic series of swirling rhythms before turning into ravenous pounding drumming and ferocious chugging riff-work leading through the stylized industrial rhythms and polyrhythmic patterns swirling along throughout the solo section and carrying into the frantic chugging patterns in the finale for a highly enjoyable opener here. ‘Down from the Sky’ features blistering technical polyrhythmic riff-work and light melodic drumming chugging along at a frantic mid-tempo pace offering plenty of stylish technical breakdowns alongside the swirling melodic leads bringing the tight riffing patterns through the final half for another highlight effort. ‘Road of Vice’ brings polyrhythmic technical charging patterns and blistering technical drum-work along through plenty of ravenous riffing and plenty of dynamic drum-blasts that bring the melodic flurries in small doses against the dynamic chugging whipping along through the finale for a decent enough effort. ‘Katyusha’ takes a slow, swirling series of droning riff-work and dexterous, technical drumming whipping along through highly complex rhythms full of feverish tempos blasting along through the breakdowns in the chugging rhythms through the solo section and keeping the frantic technical energy along through the chugging final half for another strong highlight. ‘Scream in the Night’ blasts through dynamic chugging riffing and pummeling drumming with plenty of driving technical rhythms firing along through the explosive series of overwhelming technical patterns blasting away against the melodic leads augmented with the clean vocals into the breakdowns of the finale makes for a wholly impressive offering. ‘Staind in Blood’ uses buzzing chug rhythms and mechanical patterns through a series of furious breakdowns that whip along through a wholly frantic and furious blast of blazing technical chugging alongside the blasting drum-work that chops along through the final half for a blazing highlight. ‘Born to Be Crucified’ takes stuttering technical rhythms and frantic mechanical rhythms with pummeling drum-work carrying along through the stuttering tempo as the melodic rhythms carry along through the explosive swarm of up-tempo rhythms along through the breakdown-laden solo section and on through the finale for a strong and overall enjoyable effort. ‘Eye of the Troll’ takes blistering, blazing drumming with plenty of tight, choppy technical rhythms alongside the furious technical, challenging riffing with plenty of stellar polyrhythmic runs along through the tight breakdowns as the choppy melodic leads carry the frantic paces along through the sprawling final half for a decent and enjoyable offering. Closing with the Theo Holander version ‘Down from the Sky’ which doesn’t really offer much of a difference from the earlier normal version and doesn’t offer enough of a change that there’s any reason for it to be included here as it’s the same blasting drumming over frantic technically-challenging chugging that appeared on the other version, leaving it a curious inclusion overall. Overall this one had quite a large amount to fully like here. (Don Anelli)

domenica 14 febbraio 2016

Under The Ocean - Dark Waters

#PER CHI AMA: Deathcore, At the Gates, The Black Dahlia Murder
Abrasivi. Fine. La mia recensione si potrebbe chiudere tranquillamente qui. Descrivere il sound macinato da questa band di Parma è abbastanza facile: un mastondontico deathcore, un rullo compressore che non si ferma davanti a nulla e asfalta qualsiasi cosa gli si pari davanti. 'Dark Waters' è un EP di 20 minuti, che in quattro brani, dà prova dell'energia di cui questi cinque giovani sono dotati. Un suono senza compromessi che sarebbe facile etichettare con un modo di dire abbastanza abusato ultimamente, "un sound che non fa prigionieri". Un principio culturale della politica americana, in cui la sostanza è che gli avversari devono essere distrutti con ogni mezzo. Altrettanto fanno gli Under the Ocean, che da "The Leper Town" alla conclusiva "The Creeper", ci offrono tonnellate di riff sparati in faccia alla velocità della luce, con un batterista che deve essere uscito dal circo per i numeri che riesce ad offrire con la sua tecnica e velocità, mentre i chitarristi provono a tessere qualche melodia di scuola death svedese (At the Gates) ma anche americana (The Black Dahlia Murder), corredata da stop'n go, begli assoli (interessante quello di "The Bell Tower" che mi ha richiamato i Sepultura di 'Arise'), break acustici e ritmiche decisamente, fortemente serrate, mentre il vetriolico vocalist sbraita nel microfono. Inusuale l'inizio di "The Riverbank", la traccia che forse di più si distanzia dalle altre e che, nel suo incedere a tratti marziale, rappresenta anche la mia preferita dell'EP, per quel suo mood più asfissiante delle altre. A chiudere, le vertiginose e aggrovigliate ritmiche di "The Creeper", che sanciscono la fine di questo EP niente male, ma che necessita ancora una revisione nel proprio sound per poter emergere dalla massa di band che offrono questo genere. Coraggio! (Francesco Scarci)

(Drown Within Records - 2014)
Voto: 65

https://drownwithinrecords.bandcamp.com/album/dark-waters

giovedì 21 gennaio 2016

Kardashev - Peripety

#PER CHI AMA: Progressive Deathcore, Fallujah
La parola peripeteia sta ad indicare il rovesciamento improvviso e inatteso delle circostanze. Cosi hanno voluto intitolare gli americani Kardashev il loro nuovo album che segue, a distanza di due anni, l'EP 'Excipio'. La band dell'Arizona suggerisce di ascoltare il loro lavoro accendendo un incenso, provo a seguirne il suggerimento e a godermi le dieci tracce qui contenute. Si parte con una breve intro e poi l'aria viene incendiata dal fragoroso e dinamitardo sound di "Sopor". Il genere proposto è un intelligente deathcore dalle oscure tinte progressive, un sound che miscela la rabbia dei Fallujah con un vocalist che spazia tra il growl e lo screaming black, mentre l'aria viene sferzata da un uso imponente di iper blast beat e sinistri synth. La song però appare un po' incompiuta anche dopo ripetuti ascolti, penalizzata da una produzione non proprio all'altezza, direi troppo impastata e amatoriale, che privilegia la gamma media di frequenza. Skippo a "Somnus" e ancora spettrali tastiere aleggiano nell'etere, prima che un rifferama djent ne prenda la guida, ancorato a delle ottime atmosfere e ad un vocalist che qui arriva a proporre anche la propria componente clean. Il sound vive di diversi cambi d'umore e saliscendi ritmici, che sfociano in "Somnium", un pezzo che ricorda per certi versi "Sapphire" dei già citati Fallujah, forse l'influenza primaria per l'act statunitense, senza tuttavia tralasciare i Cynic, nei frangenti più progressivi. La song è piacevole, carica di groove (cosi come l'intero lavoro) soprattutto nella sua componente solistica, che conferma la presenza di un ottimo strumentista alla 6-corde. Peccato solo che ancora una volta la sensazione sia quella di ascoltare un demo con tutte le grossolane imperfezioni che ne seguono. "Aurora" è una deliziosa traccia strumentale che incarna appieno lo spirito dei Kardashev e prepara nel frattempo l'ascolto di "Lucido", arrembante traccia dotata di un riffing secco e glaciale, "riscaldata" però dall'utilizzo di fantastiche keys, da un vocalist che si dibatte tra scream e vocals cibernetiche, ed infine eteree melodie. La traccia migliore del cd senza dubbio, ma anche quella dove una produzione più piena e bombastica, avrebbe sicuramente giovato maggiormente all'act di Tempe. Che diavolo di fine hanno fatto i bassi? Qui serviva potenza, profondità e in generale una maggiore pulizia dei suoni, la parte di solos conclusiva sarebbe stata a dir poco sublime con una registrazione professionale. "Umbra" è un'altra song bella tirata, che evidenzia il drumming esasperato stile "contraerea", contrappuntato da melodie che tracciano solchi di improbabile bellezza nel flusso sonico creato dai Kardashev. Un break ambient e poi tocca a "Conscium" sciorinare riff al vetriolo, belluine vocals, una batteria qui fin troppo caotica e delle melodie che renderebbero giustizia a 'Peripety' e ne farebbero davvero un grande disco; maledetta produzione! Le danze si chiudono con "Lux", l'ultimo brano che sancisce l'amore viscerale per i Fallujah e aumentano la mia frustrazione nei confronti di un cd che avrebbe sicuramente placato il mio desiderio di ascoltare la nuova release dei miei idoli Fallujah. I Kardashev hanno sprecato malamente la propria occasione, sfoggiando pessimi suoni che alla fine hanno gravato ampiamente sul mio giudizio conclusivo. Rimandati alla prossima occasione. (Francesco Scarci)

(Subliminal Groove Records - 2015)
Voto: 65

venerdì 25 dicembre 2015

Laniakea - At the Heart of the Tree

#PER CHI AMA: Techno Death/Deathcore/Black, Gojira, Tesseract
I Laniakea sono una giovane band di Avignone che con l'uscita di questo full length cerca di rimarcare una posizione di rispetto in quello che possiamo definire il braccio più tecnico del death metal, unito trasversalmente a quell'attitudine mistica e di pensiero che qualche tempo fa rese grandi band come Alcest e Agalloch. I video trovati in rete non lasciano molti dubbi sul fatto che la band deponga nella forza della natura l'unica via d'uscita per l'uomo del futuro, i vari stacchi d'atmosfera disseminati tra i cinque brani del disco fungono da legame immaginario, tra i paesaggi autunnali pieni di pathos che la band usa per mostrarsi al pubblico nel web e una coltre di riff death pesanti, dallo stile chirurgico, taglienti e caricati da un sound modernissimo, freddo e potente. I tre musicisti francesi riescono a dotare il proprio suono, che affonda le proprie radici nella matrice sonora dei Gojira, di una particolare aura futurista grazie alla presenza nella line-up di una dinamica drum machine, mentre sul versante chitarristico riescono a differenziarsi dai conterranei per un tocco deathcore, simile ai Misery Index o ai mai dimenticati The Haunted, con un cantato robusto vicino ai viaggi di Dan Swanö solista, il tutto filtrato da una buona dose di impulsi modernisti di scuola Fear Factory. 'At the Heart of the Tree' gode alla fine di un buon effetto sorpresa, anche se la band mostra la sua forma migliore nelle parti più sperimentali o in quelle più tranquille, dove le doti tecniche dei due chitarristi emergono più chiaramente. Infatti, le parti più dure dei brani si dimostrano più interessanti quando il terzetto osa nell'essere più noise e sperimentale, infarcendo il tutto di suoni tecnologici e taglienti. Solo in alcuni casi i nostri soffrono di qualche veduta musicale stereotipata, complice forse il limite comprensibilissimo che può offrire una drum machine, una macchina infernale che per quanto usata ad arte, appiattisce e appesantisce l'evoluzione del brano. Un limite che comunque non arriva mai a compromettere né l'integrità e neppure la bellezza di ogni singola traccia. In generale è un debutto con i fiocchi e l'ascolto è consigliato a tutti gli estimatori del metal, suonato con una cura smisurata quasi maniacale e prodotto anche meglio. Anche l'approccio della band ad una evoluta forma di metal estrema, complessa e assai spirituale sulla via di Tesseract o Gorguts, alla fine è dimostrazione di una bella prova di maturità. Ascoltate "Pillars of Creation", la conclusiva "Le Vent Sous les Cendres" o la title track, con le sue pause atemporali sospese nel nulla, i ritorni al pulito, i riff distruttivi, per un contrasto sonoro di tutto rispetto. Ennesima delizia sonora transalpina. (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/Laniakea

giovedì 17 settembre 2015

AM:PM - Aberrant Minds Provoke Murder

#FOR FANS OF: Metalcore/Melodic Brutal Death Metal Suicide Silence, Trivium
This debut EP from the Swiss metallers AM:PM is a rather nice amalgamation of modern Extreme Metal in a very succinct, brief package that does what it does quite nicely, but unfortunately what it’s doing isn’t exactly all that inventive or unique. Alternating between two tempos for the most part, fast and slow, the faster sections are pretty enjoyable thrash-infused Metalcore inspired riffs with a fine sense of melody and aggression with a fair bit of technicality offered while the slower sections are chug-heavy breakdowns ripped from the latest Brutal Death Metal section of the spectrum, and almost without exception the band tends to play in either section which tends to make this album feel a lot longer than it really is as there’s a lot of familiarity bred into these songs. They’re all nearly the same length and feature the same kind of tempo changes which makes them bleed into each other quite easily, which certainly isn’t helped by the gruff vocal growls that effectively match the intensity displayed but also keeps this one from being quite similar to everything. Even with this, it’s still a good enough example of the style that there’s some good to be had from the songs here. Instrumental intro ‘Prelude’ starts this off nicely with a melancholy riff that blasts into the driving Metalcore blasts and rhythms quite well as it segues into proper first track ‘Lady Hurricane’ as the spindly riffing and thrashing drumming with a series of sharp breakdowns chugging through the tight series of riffs make for quite a vicious, tight offering that gets this one charging along quite well. The heavy ‘Make a Choice’ blasts through with a thunderous roar blasting through tight, pounding rhythms and thick, heavy chugging riff-work breaking down into several vicious breakdowns that tends to wrap around throughout the finale for its most impressive track quite easily. ‘Humans are Their Own Rivals’ whips back into the Metalcore phase with some impressive swirling riff-work alongside the pounding rhythms as the chugging breakdowns return to carry the violent charge through the scalding finale that’s fun but again feels rather familiar. Finale ‘Salvation’ gets a little more exciting with an extended series of twisting rhythms thrashing through a mid-range series of riffs with the out-of-place clean vocals leading into the crushing breakdowns and trinkly keyboards sprinkled into the melodies for a fine ending impression here. It’s certainly a decent start here, but it’s just way too familiar at this stage to warrant more than a passing interest. (Don Anelli)

(Self - 2014)
Score: 70

lunedì 15 giugno 2015

Sinfulness - Sentenced to Life

#PER CHI AMA: Progressive Deathcore
Deve essere quello di una vera mitragliatrice il suono assassino che apre l'album dei belgi Sinfulness, una delle nuove promettenti leve del roster Kreative Klan. Pochissime le informazioni trovate sul web, questo a testimoniare ahimè la scarsa rilevanza data ai nostri dagli addetti ai lavori, un vero peccato. I Sinfulness sono un quintetto di Liegi, (credo) al debutto con questo 'Sentenced to Life', e con un sound all'insegna di un roboante deathcore progressivo. Undici i brani con cui il five-piece ci prende a mazzate: della opening track, "Borderline" abbiamo già detto, una scarica di martellate furenti di batteria su una schizofrenica linea ritmica a richiamarmi tanto i nostrani Infernal Poetry quanto qualche band metalcore d'oltreoceano. Quello che sorprende è la capacità innata dei nostri di cambiare tempi, umori e ritmi in modo a dir poco vertiginoso, assemblando un concentrato di cattiveria e melodia davvero originale. Di pari passo va anche la voce di Vin, che si dimena tra urla metalcore, qualche growl e clean vocals. "Inner Struggle" è una traccia ipnotica che viaggia sul binario ritmico caro ai Meshuggah, trovando modo di stupire l'ascoltatore anche con un break elettronico totalmente inaspettato e una porzione corale altrettanto inusuale. "Apathy" parte in crescendo, con la ritmica che dopo poco divampa impazzita come un treno deragliato. Non temete, le sfuriate durano pochi attimi, una manciata di secondi, in cui i nostri saranno in grado di stupirvi con tutto e il suo contrario, in una girandola musicale fuori controllo. I Sinfulness sanno certamente come tenerci incollati ad ascoltare il loro vibrante sound, con costanti variazioni al tema portante, sia a livello musicale che vocale. Il fatto poi che le tracce siano di breve durata aiuta a digerire il tutto molto più velocemente, ma soprattutto ad apprezzare maggiormente i contenuti dell'album. Uno splendido intermezzo acustico di basso e ci troviamo dinnanzi al riffing di "Misophonia" e a un gruppo che vuole fare dell'imprevedibilità il suo vessillo. Le melodie sono davvero buone, cosi come altrettanto buona è la multisfaccettata performance del vocalist dietro al microfono. Forse la produzione è un po' troppo glaciale, avrei reso il tutto molto più caldo e pieno. Ancora un intermezzo noise e sbatto il muso contro l'imponente muro di "Conformity", contraddistinto da una ritmica ipertecnica che non lascia scampo. Il disco scorre via velocissimo e le ultime tracce appaiono un po' più sottotono rispetto alla pirotecnica verve che caratterizzava le prime song. A chiudere 'Sentenced to Life' ci pensa la nevrotica "Ubiquitous Imperfection", la traccia verosimilmente più deathcore del disco anche se nella sua parte centrale, collidono influenze di scuola progressive (Cynic) con il dinamitardo incedere metalcore. Notevoli! (Francesco Scarci)

(Kreative Klan - 2014)
Voto: 75