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lunedì 20 marzo 2017

The Universe By Ear - S/t

#PER CHI AMA: Prog/Blues Rock
Allacciate le cinture perché stiamo partendo per esplorare l’universo dell’ascolto. Chiaro il pay-off del messaggio con cui la sempre attiva Czar of Crickets Productions di Basilea ci introduce la band The Universe By Ear. Inizio a razzo con "Seven Pounds", un brano di 8’24’’ dove il power trio svizzero scalda per bene i motori dell’astronave. Il sound è dilatato e le parti strumentali prevalgono sul cantato, la chitarra traccia la rotta di un progressive rock che potrebbe intrigare i fans della vecchia scuola prog ma anche i più attenti alle nuove sonorità di band come Flaming Lips e Mars Volta. Con il secondo brano "Repeat Until Muscle Failure", il terzetto sfodera la grinta per una possibile hit inserita nella categoria prog sotto i 3 minuti. Sembrerebbe una contraddizione nei termini ma l’esperimento riesce bene e la canzone conquista l’ascoltatore grazie al suo ritornello assai catchy. I pezzi successivi rientrano nei canoni di un prog psichedelico a prevalenza strumentale, dove i musicisti gestiscono bene le parti. "Dead Town" inizia con un riff chitarristico di matrice blues che la band elabora assai bene aggiungendovi effetti, sovraincisioni di chitarra e voci filtrate. "Idaho" nasce eterea e pianistica per crescere poi in intensità, con le voci in coro che vengono doppiate dalle parti di chitarra. In "Ocean/Clouds" la band sfodera il pezzo più lungo che prelude alla chiusura del lavoro: una partitura prog di quasi dieci minuti. Il disco si conclude con la breve e semiacustica "Dead Again", con echi di Pink Floyd appena accennati. La paletta dei suoni a disposizione dei The Universe By Ear è abbastanza ampia e l’omonimo disco riesce a contenere tutto il repertorio fatto di scale hard rock, assoli di chitarra caratterizzati da un sapiente abuso di leva, intesa come trem-bridge, cascate di note e fughe melodiche. Se vi piace il genere, la loro musica sarà la scoperta di un universo nuovo per le vostre orecchie. (Massimiliano Paganini)

(Czar of Crickets Productions - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/TheUniverseByEar/

mercoledì 8 marzo 2017

The Red Barons – Together

#PER CHI AMA: Rock/Blues/Post Grunge
Uscita un po' acerba quella di 'Together' dei transalpina The Red Barons che, nonostante la bella e facoltosa voce di Oriane si perde nei meandri del già sentito, non proprio originale ma sempre vivo classic rock, fatto con passione e impegno. Capiamoci, a creare il misfatto non è l'incapacità dei musicisti ma una produzione sommaria, che non appaga la verve dei musicisti, attempata e senza mordente, che rincorre atmosfere air metal anni ottanta, quando la band avrebbe bisogno di entrare in un ambiente molto caldo, retrò e vibrante stile Blues Pills (guardatevi la performance live su TV7 FR, sulla loro pagina facebook), come nella bella e intrigante "Brunch", dallo stile esotico e introverso dove Oriane si mette veramente in mostra, sfiorando le vette di una Skin in perfetta forma. Dietro ad ogni album c'è sempre un lavoro enorme, anche se capita a volte, soprattutto nelle produzioni di questo tipo, che per svariati motivi vengano offuscate le buone idee e le capacità, non si centrino le giuste sonorità, snaturando poi musiche che hanno bisogno di un suono reale e naturale, con un tocco vintage, dinamico e moderno. Il contesto sonoro creato dal quartetto francese ha delle potenzialità, giostrato in una costante atmosfera post grunge con influenze rock blues, e caratterizzato da una voce sublime che potrebbe essere paragonata, in taluni momenti, anche alla mitica voce dei primi irraggiungibili Pentangle dell'omonimo album del 1968, cosi ipnotica, intensa e calda. Quello che stona in questo lavoro uscito sotto la guida della Dooweet Agency è, come già detto, la gelida interpretazione del suono della band, che non entra mai in sintonia con la voce, nemmeno nello stacco in levare sulle ali di una Patty Smith d'annata. La preparazione è buona, i generi da cui attingono i nostri sono parecchi, molte le idee anche se da focalizzare, il groove, di estrema importanza in una band con queste caratteristiche, c'è ma non è esposto con il dovuto maniacale senso dell'esibizionismo. L'esperimento in campo metal della conclusiva "The Life" mette poi in risalto i limiti di una band che deve ancora crearsi una vera identità. Guidati da una voce così carismatica, nei momenti più ipnotici, si vede nitida all'orizzonte la potenzialità di riuscita e il bersaglio sembra a portata di mano con una semplice e leggera opera di affinamento del suono. Grandi le potenzialità dunque, ma penalizzate da una produzione non eccezionale. Comunque vada, vi suggerisco di ascoltare quest'album, alcune song non suonano affatto male. (Bob Stoner)

(Self - 2016)
Voto: 65

https://www.facebook.com/trbarons

lunedì 30 gennaio 2017

Scratches - Before Beyond

#PER CHI AMA: Rock Blues, Nick Cave
Una voce femminile, calda e sofferta al punto giusto, è il primo elemento che contraddistingue gli Scratches, band svizzera originaria di Basilea, ma dalle sonorità decisamente americane. La band nasce nel 2010 nell’ambito dalla collaborazione tra Sarah-Maria Bürgin, cantante-tastierista e Sandro Corbat, chitarrista. Il teatro come passione comune per entrambi. Dopo un primo album come duo realizzato nel 2014, 'Fade', la formazione si completa con Jonas Prina alla batteria e Marco Nenniger al basso. Il loro secondo album 'Before Beyond', uscito in questo freddo mese di gennaio, è un pregevole lavoro, dove è possibile riscontrare un’antica passione per certe linee ritmiche di derivazione tipicamente trip hop, coniugata con l’amore per le colonne sonore intrise di blues. Il disco si apre con “Medusa’s Hair”, riff di chitarra in loop e ritmica rallentata. La voce di Sarah-Maria è carica di soul e roca quanto basta per richiamare alla memoria grandi cantanti americane degli anni sessanta e nel terzo brano, intitolato “Beautiful”, qualcuno potrebbe persino scorgere il fantasma di Janis Joplin. Echi di Nick Cave invece si possono sentire nella successiva “Give Me Your Pain”, profonda nelle parti di chitarra e sussurrata nella voce. Il disco prosegue con “The Crow & The Sheep”, in cui il quartetto elvetico privilegia sonorità decadenti, da murder ballad. È questo il mood generale dell'ottimo lavoro targato Scratches, una narrazione delle sofferenze umane filtrata attraverso i colori scuri del blues. Un buon album in definitiva, consigliato agli amanti di sonorità ipnotiche e malinconiche, prodotto egregiamente dalla sempre attenta Czar Of Crickets. (Massimiliano Paganini)

(Czar Of Crickets - 2017)
Voto: 80

https://www.facebook.com/scratchesband/

lunedì 16 gennaio 2017

Cosmic Jester - Millennium Mushroom

#PER CHI AMA: Blues Rock/Jazz/Psichedelia
I Cosmic Jester sono una band nata nel 2015 e questo è il loro debutto discografico, nonostante sembrino in tutto e per tutto usciti dalla California acida degli anni '60. Di stanza a Berlino, i nostri sono in effetti un duo composto da Lucifer Sam, chitarrista e polistrumentista originario delle coste del Mar Baltico, e Roboo, batterista statunitense di impostazione jazz. La musica racchiusa in quest’elegante confezione cartonata fatta a mano, declina per poco più di settanta minuti un concentrato di rock blues rilassato e jazzy, che sembra trarre ispirazione tanto dalla San Francisco dei Jefferson Airplane, quanto dal kraut rock più acido e meno rigoroso degli Ash Ra Tempel. Il disco ha la capacità di calare immediatamente l’ascoltatore in una dimensione pacificata e positiva, con quell’ibrido tra Crazy Horse e Quicksilver Messenger Service che è “Muddy Waters”, acida ed elettrica opening track, al contempo pacata e riflessiva. Lo stesso mood, un po’ più jazzato, viene mantenuto in “Skin” e nella strumentale “Noise From Beyond the Sea”, mentre l’album assume forme sempre più dilatata ed elettroacustiche, che non disdegnano alcune incursioni nel folk indiano (“Millennial Mushroom” e “The Psyfolk Experience Jam”) o nella psichedelia weird inglese tra Syd Barrett e Robyn Hitchcock (“Joker in the Paper Cup”), passando per il quasi prog di “Polarity”, fino ad un nuovo irrobustimento delle trame nella parte finale, con la lunga “The Wake”. Il caleidoscopio sonora allestito dai Cosmic Jester impressiona per varietà e sicurezza con la quale i due si muovono tra stili e una strumentazione ricca e variegata, e promette molte ore di ascolto piacevole e fruttuoso, soprattutto se si è avvezzi alle coordinate di riferimento. Unico neo, a mio avviso, una certa frustrazione provata per via di un missaggio non sempre perfetto, che rende alcune parti di chitarra quasi inudibili. (Mauro Catena)

giovedì 15 dicembre 2016

Foxton Kings – Crooked Tales

#PER CHI AMA: Alternative Rock
A vederli nella foto presente nell’artwork (un digipack sobrio ed elegante), questi cinque australiani di Perth, li si assocerebbe ad un combo di hardcore più o meno emotivo. Questione di look, di pettinature, di sensazioni generali. E invece. Già, perché questo 'Crooked Tales' mette in fila otto tracce per poco meno di mezz’ora (album? Ep? Poco importa) di un rock (chiamiamolo alternative, per quel che vale) tanto ispirato ai classici southern e blues, quanto moderno ed assolutamente attuale nelle sonorità e nell’esecuzione. Perché se è vero che i riff e la costruzione dei brani sono quelli tipici del blues-rock, è anche vero che i Foxton Kings non fanno sconti in termini di compattezza sonora e nessuna concessione a facili cliché del genere, suonando con un approccio che si può definire quasi post-hardcore. Chitarre sature, grosse, potenti e affilate che non si perdono mai in ricami leziosi, una sezione ritmica chirurgica e tellurica. La voce e il modo di cantare, quelli si, sono piuttosto classici, ma ben si sposano con il resto, creando un mix davvero ben riuscito. I brani sono discretamente vari e di buona fattura (su tutti segnalo “Thief” e “Bottom of the Bottle”, oltre a “Got a Gun”, con un bel numero giocato solo con voce e chitarra acustica) e riescono a farsi largo negli ascolti seppur accompagnati da un’inevitabile senso di deja-vu, forti di un piglio un po’ ruffiano (la tripletta iniziale “Hell Cat”, “22 Minutes” e “Autumn”) che rende tutto il lavoro assai godibile anche per un pubblico ampio. Forse, alla fine, l’insieme risulta un po' troppo pulito ed educato e rimane la sensazione che i Foxton Kings possano fare decisamente di più con poco, magari spingendo poco di più sui contrasti. Comunque interessanti nel loro approccio alla materia. Da tenere d’occhio. (Mauro Catena)

lunedì 21 novembre 2016

Youngblood Supercult - High Plains

#PER CHI AMA: Psych/Blues/Stoner Rock
Vi sarà sicuramente capitato di camminare in un campo di grano in estate e ammirare le nuvole in cielo con una spiga in bocca ed il nulla in testa, ma molto nulla in testa. Se la risposta è no, questo disco rende vi permetterà di provare perfettamente quella sensazione. I Yougblood Supercult vengono dal Kansas, e portano con sé un carico di influenze che vanno dal blues allo stoner al progressive con un sound simile ai Black Mountain, suonato con l’attitudine dei Pentagram. La copertina ha un sapore smaccatamente psych: cieli stellati, fienili e strane macchie di colore in giro per l’artwork. 'High Plains' significa altopiani, ogni pezzo descrive un paesaggio bucolico e allucinato, quei posti in cui non ci si stupirebbe di vedere un UFO atterrare davanti ai propri occhi. Le canzoni sono godibili e spensierate, le strutture sono ben architettate. Sulla voce purtroppo vedo il punto più debole anche se non rende l’ascolto del disco spiacevole o superfluo. Il timbro è adatto al genere, con tanto di grattato blues sulle note più spinte, davvero ben riuscito, tuttavia sembra essere esile rispetto alla musica, direi poco incisivo. Penso che il problema sia causato dalla scelta delle linee vocali a volte forse troppo audaci. La caratteristica più interessante di questa band sono le cavalcate di chitarra alla Uncle Acid and the Deadbeats, per avere un esempio di cosa intendo, ascoltatevi “Nomad” e “Before the Dawn”, contengono due fantastici esemplari di riff andanti e ciccioni. Il disco scorre bene, i pezzi sono vari nella composizione e tengono alta l’attenzione per tutta l’opera. Da notare sicuramente la ballata “White Nights”, soffice intermezzo tra l’incedere trascinato delle altre song, la mia preferita dell'album, che peraltro contiene anche un assolo sensato e composto che impreziosisce il pezzo senza appesantirlo. Anche “Forefather” è un altro pezzo interessante, il più lungo del cd, un blues lento e sornione che cambia spesso forma, dal piano al forte dal vuoto al pieno, da paesaggi di praterie sconfinate all’interno del propria mente, quasi a perdere la coscienza di essere in un luogo definito nel tempo e nello spazio. Il commiato è suggestivo e sognante, “Down 75”, fatto di sola chitarra acustica e voce. È come stare nella stazione di una città fantasma, con un peso di un peccato addosso che spinge a terra ad assaggiare la polvere, mentre l’ultimo treno della giornata si allontana. (Matteo Baldi)

giovedì 21 luglio 2016

Faith & Spirit - Glorious Days

#PER CHI AMA: Hard Rock/Blues, Led Zeppelin
I "giorni gloriosi" per la band francese dei Faith & Spirit sono quelli che hanno visto l’egemonia del rock blues sulla scena musicale internazionale. Che siano quelli lontani dei Led Zeppelin e degli Stones o quelli più recenti e di tendenza di gruppi come Black Keys e White Stripes poco importa. 'Glorious Days', il loro nuovo secondo EP, si muove appunto sulla scia dei citati illustri colleghi. Cinque brani originali sono un assaggio ben calibrato delle potenzialità della band capitanata da Vivien Thielen, voce e chitarra ritmica nonché autore di tutte le canzoni. Il disco si apre con “I’ll Be Your Man”, una cavalcata ritmica dove tastiere e chitarra dialogano in perfetta sintonia, scaldando l’ambiente per il secondo brano, stesso titolo dell’album, in cui i toni partono ruvidi e si fanno via via più dolci, grazie al sapiente intreccio di tastiere, chitarra e voci femminili. Un buon inizio, non c’è che dire, ma la sorpresa arriva dritta alla terza canzone: “Everybody Gets It Wrong” è una ballata acustica che ha tutte le caratteristiche del classico, secondo le coordinate espresse all’inizio di questa recensione. In sintesi, questo è il loro piccolo capolavoro. L’EP prosegue rialzando il tono del groove con “Black Moon”, pezzo potente e quadrato e si chiude con “Down the Road”, dove organo hammond e armonica fanno vibrare le casse in un crescendo che culmina con un solo di chitarra suonato con il più classico dei wah wah. La produzione del disco è solida e ben bilanciata, sicuramente frutto di una conoscenza e di una forte passione per la scena rock blues sia vintage che moderna. Nessun imbarazzo nella voce del leader, che risulta calda e sicura nella pronuncia. La musica dei parigini Faith & Spirit può tranquillamente varcare i confini francesi. Il mio consiglio è uno solo: cercateli in rete e aprite le vostre orecchie per un ascolto accurato. (Massimiliano Paganini)

domenica 17 luglio 2016

At the Graves - Cold and True

#PER CHI AMA: Post Rock/Metal, Solstafir, The Black Heart Rebellion, Neurosis
Inizierei col chiarire che la band del Maryland di oggi non va confusa con l'omonimo ensemble dedito ad un melo death ma proveniente dalla Pennsylvania. Ben Price, la mente, il factotum che si cela dietro agli At the Graves, suona infatti uno sludge/post rock contaminato assai accattivante, ricco in termini di groove e carico di una forte componente emotiva. 'Cold and True' è il secondo album (il primo in cui Ben si cimenta completamente da solo in tutti gli strumenti) dopo 'Solar' datato 2012; in mezzo e prima, una sfilza di ben cinque EP. Veniamo comunque a questo nuovo capitolo della discografia della one man band di Arnold, che ci viene introdotto dalla delicata vena melodica di "Viscous State" che sottolinea quelli che sono i capisaldi dell'At the Graves sound: sognanti atmosfere post rock che poggiano su di una ritmica post metal di scuola Cult of Luna in una versione più meditabonda, per un risultato in grado di stamparsi nella mia testa con una certa facilità, grazie a delle soffuse linee di chitarra che facilitano non poco l'approccio alla musica dell'artista statunitense. Con "Fulgor" le cose non cambiano e lo stile, ricercato, colpisce sicuramente per l'immediatezza della proposta, qui resa ancor più onirica e protesa a dare ampio respiro alla componente strumentale, con un'eleganza di fondo impostata dai delicati tocchi alla sei corde di Ben (peraltro vocalist caleidoscopico ed assai originale) e da un drumming fantasioso costantemente in primo piano. Il disco (o se preferite la cassetta, fate pure la vostra scelta) prosegue dilettandosi tra le lugubri, distorte e tribali melodie di "Between Two Thirds", che potreste immaginare come una danza sciamanicadi una tribù indiana attorno al fuoco, con i sensi che lentamente abbandonano la realtà. Il colpo di grazia viene inferto però dalla successiva "Repress I", che contribuisce, nonostante la sua brevità, a palesare le visioni lisergiche del bravo Ben. "Shimmer" continua nella sua opera di destrutturazione del sound degli At the Graves, con alcuni frangenti che strizzano l'occhiolino addirittura al grunge rock, pur mantenendo un'atmosfera decisamente noir che comunque, attraverso la mutevole voce di Ben, ha modo di spaziare all'interno di più generi, tutti caratterizzati da una profonda dose di emotività. La title track potrebbe essere assimilabile ad una versione più nera dei Neurosis, seppur mantenga i contorni delicati del post rock e incanti per la distorsione delle sue linee di basso, il suo essere ridondante e per le corde vocali di Ben, qui bagnate di whisky, che chiamano in causa gli islandesi Solstafir. Lentamente arriviamo alla conclusione di questo spettrale lavoro: "As a Dirt" ha il compito di trasmettere le ultime malinconiche note di dolore di 'Cold and True' e direi che assolve pienamente al suo compito. Un'altra band nel frattempo mi è venuta in mente mentre ascoltavo e riascoltavo questo disco: i belgi The Black Heart Rebellion nel loro capolavoro 'Har Nevo' e la definizione che inquadrava quell'album, blues apocalittico, che ben calzerebbe anche per gli At the Graves. Insomma, 'Cold and True' è un riuscitissimo lavoro di sperimentazione sonora in cui convogliano un sacco di influenze e idee stravaganti, per cui sarebbe davvero un peccato negare la vostra attenzione. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 80

venerdì 15 luglio 2016

Mallory - Sonora R.F. Part 1

#PER CHI AMA: Rock/Grunge/Blues
Avevamo lasciato i Mallory a marzo dello scorso anno, quando il quartetto parigino ci aveva fatto pervenire il precedente lavoro '2'. Oggi abbiamo tra le mani il nuovo 'Sonora R.F. Part 1' e devo dire che è già qualche settimana che gira in loop nella mia auto, il posto migliore per godere appieno dei Mallory e della loro musica on the road. La band era matura allora e un altro passo in avanti è stato fatto con quest'album, mantenendo quel loro mix personale di rock, grunge e blues. Ad un primo ascolto, le atmosfere sembrano essersi incupite ulteriormente, in realtà molte tracce hanno un'alta capacità introspettiva, unita ad una malinconica dose di rabbia, come in "On The Shelf". Dopo un'intro parlata in castigliano, le chitarre si sporcano di polvere, la ritmica lenta tiene le redini, ma non cela perfettamente quella collera mascherata da tristezza ed accidia. Una ballata grunge come non si sentiva da anni, interpretata perfettamente dal vocalist, a cui dobbiamo riconoscere una timbrica pressoché perfetta. In "Zero" scatta qualcosa nei Mallory che ora cantano in francese, mentre le melodie di basso e chitarra si fanno nervose grazie alla batteria che scandisce accenti come un profeta inascoltato. Il crescendo non si fa attendere, ottima l'esplosione che non necessita di distorsioni estreme e si affida ad un unisono di suoni ed esecuzione. La scelta della lingua francese potrebbe rivelarsi rischiosa, tuttavia è stato fatto un ottimo studio delle metriche che qui calzano a pennello. Rimane solo il dubbio che il testo non sia uscito così spontaneamente, comunque onore ai Mallory. In "Shu", l'influenza dei vecchi Pearl Jam si fa sentire, ma la band riesce a tirar fuori qualcosa di buono da un semplice classico giro armonico. Consapevoli di ciò, il quartetto ha finito egregiamente i compiti per casa in termini di suoni (difficile non riconoscere la timbrica del single-coil della Fender) accostata ad un'interpretazione che esprime al meglio lo struggimento di una generazione che va per i quaranta ma si sente ancora tradita da una società in cui non si rispecchia. Anche "Silex" segue il medesimo filone e si incastra perfettamente nelle note di questo 'Sonora R.F. Part 1' che probabilmente è stato pensato e suonato nell'ottica di un concept album. I suoni ruvidi ma curati di chitarra si abbinano perfettamente alla timbrica vellutata del basso, a creare un ipotetico amplesso sessuale coronato dalla voce sempre graffiante del frontman con le ritmiche che si rivelano semplici e variopinte. Il gran equilibrio dei Mallory sta nel regalare un'accelerazione nel momento giusto in cui la si desidera, lo stesso vale quando i nostri decidono di abbassare i toni per dare maggior risalto al cantato o alle melodie intimistiche, che svolgono un ruolo importante nel tessuto sonoro dell'act transalpino. Un gran bell'album, forse non una vera evoluzione verso un obiettivo ben definito, ma un'altra tappa sulla loro personale mappa che ha bordi sfuocati come quelli di una vecchia foto. A dimostrazione che abbia più importanza il viaggio che la meta, siamo felici di seguire i Mallory e portare la loro bella colonna sonora nella nostra vita di tutti i giorni. Che tu abbia venti, quaranta o sessant'anni... (Michele Montanari)

giovedì 7 luglio 2016

T.K. Bollinger - Shy Ghosts

#PER CHI AMA: Rock Blues, Jason Molina
C’è qualcosa di profondo, ancestrale, nella musica di T. K. Bollinger. Come già apprezzato nel suo precedente 'A Catalogue of Woe', del 2014, sembra che l’australiano riesca a canalizzare il proprio dolore in composizioni sofferte, aspre, spesso lunghe, che riescono ad ipnotizzare in modo inesorabile, anche a dispetto di un’apparente uniformità di stile e linguaggio che, in assenza di ispirazione, potrebbe risultare semplicemente noiosa. Rispetto al disco precedente, qui il cantante-chitarrista di Melbourne (che nelle foto appare sempre più una versione minacciosa e solenne di una qualche tipo di mormone) lascia per strada i suoi sodali That Sinking Feeling e fa tutto da solo, amplificando ulteriormente quell’alone magico ed evocativo che la sua musica, e la sua voce, donava al suo ultimo lavoro. Una voce sempre più dolente e peculiare, che ricorda a volte un Antony rurale o addirittura un Morrissey selvaggio, prende il centro della scena, accompagnata da chitarre acustiche, qualche percussione diradata, appoggi di pianoforte e un’elettrica lancinante, sullo stile del Neil Young della colonna sonora di 'Dead Man'. Voce che è assoluta protagonista nei 13 brani, per più di 70 minuti, costruiti a partire da pattern ritmici e armonici semplici e ripetitivi, che Bollinger riesce e declinare di volta in volta in blues straziati, delicate elegie soul e folk gotici caratterizzati da intriganti rimandi ad uno stile quasi gregoriano. I testi, al solito, sembrano voler indagare da più parti la solita vecchia domanda che attanaglia l’uomo nel suo tormento tra fede e ragione, ovvero “perchè la sofferenza esiste?”. La risposta, ovviamente, non è così semplice, e forse va ricercata negli occasionali squarci di speranza che fanno capolino nella cappa plumbea di questo 'Shy Ghosts'. Non è semplice individuare i pezzi migliori, tale è l’equilibrio e il livellamento qualitativo (molto alto) dell’intero disco, ma impossibile non citare almeno il terzetto iniziale composto da “All Seems Lost”, “The Milk of Human Kindness” e “No More”, capace di catturare e trascinare l’ascoltatore nelle profondità degli abissi di un’anima in perenne tormento, o il quasi-dub di “The Limits of What We Can Love”. Difficile dire con precisione cosa sia, ma c’è qualcosa di profondamente magnetico in questo disco, qualcosa che si annida tra le spire e le volute di un’ispirazione assoluta, tra l’oscurità di Jason Molina e l’estatica bellezza dei primi Sigur Ros. Non un album per tutti, e non per tutti i momenti della giornata – o della vita – ma se avete mai fatto conoscenza più o meno diretta con il dolore, in una qualsiasi delle sua forme, non potrete non rimanerne in qualche modo stregati. Minimalista, essenziale, scuro, bellissimo. (Mauro Catena)

(Yippie Bean - 2016)
Voto: 80

https://tkbollinger.bandcamp.com/

giovedì 16 giugno 2016

John Holland Experience - S/t

#PER CHI AMA: Psych Blues Rock
I John Holland Experience (JHE) sono un power trio nato nel 2013 nella provincia di Cuneo che si è subito concentrato sulla produttività: nel 2014 lanciano il primo Demo EP mentre a marzo di quest'anno arriva questo self title di debutto. Un album fortemente spinto a livello di produzione, co-prodotto da una lista interminabile di labels, tra qui Tadca Records, Electric Valley Rec, Taxi Driver, Scatti Vorticosi, Dreamingorilla Rec, Brigante Records, Longrail Records, Edison Box, Omoallumato Distro e altro ancora. Il digipack è stilisticamente ben fatto, la grafica in particolare richiama gli anni '70 grazie ad una invasatissima fanciulla che in ginocchio, ai piedi di una landa desolata, innalza le braccia al cielo, laddove si staglia il logo della band. I JHE sono anagraficamente giovani, ma sono stati tirati su a buon vino e blues rock, a cui hanno aggiunto influenze garage e qualche goccia di beat. I testi sono in italiano e se in prima battuta potrebbe sembrare una scelta assennata a discapito dell'audience, dimostra invece di essere vincente, con i testi azzeccati che accompagnano perfettamente il sound dei nostri. Inutile parlare di impegno sociale o abusivismo edilizio mentre la musica in sottofondo diventa sempre più festaiola. Vedi la donzella che ci fa girare la testa in "Festa Pesta", una sorta di serenata in salsa hard blues che ha lo scopo di lusingare la tipa di turno mentre i riff classici e ben suonati, si snodano sopra e sotto le ritmiche incalzanti. "Elicottero" è un ottimo crescendo, dove il trio si sfoga al massimo, aumentando il tiro e la velocità mentre si decanta l'infanzia sognante che si trova a far i conti con la dura realtà della vita. Il rallentamento a metà brano ci dà qualche secondo di respiro, giusto per lanciarci di nuovo nel vortice hard rock organizzato ad hoc dalla band. Menzione d'onore va infine a "Tieni Botta", un classic blues che vede la collaborazione di un vocalist dalla voce più calda che mi sia capitato di sentire negli ultimi anni. Se i JHE hanno l'energia e il sacro fuoco del rock 'n'roll dalla loro, l'ospite ci delizia con la sua timbrica suadente e graffiante, affinata a suon di wiskey e sigarette, consumati nei peggiori bar di New Orleans. Pochi minuti di blues scatenato che si tramutano in uno stacco quasi psichedelico, lento e abbellito da un assolo hendrixiano. Un album ben fatto, suonato altrettanto bene, che merita di essere ascoltato (la release è scaricabile peraltro gratuitamente su Bandcamp), soprattutto perchè ci suone buone possibilità che la band prenda la giusta via e tornino presto a far parlare di sè su queste stesse pagine. Nel frattempo i JHE sono in tour per l'Italia: io vi consiglio di andarveli a vedere. Io l'ho già fatto ed è stata una gran scarica di energia. (Michele Montanari)

(Tadca Rec, Brigante Rec, Electric Valley Rec, Dreamin Gorilla Rec, Scatti Vorticosi Rec, Edison Box, Longrail Rec, Omoallumato Distro, Taxi Driver Rec - 2016)
Voto: 75

https://johnhollandexperience.bandcamp.com/album/john-holland-experience

lunedì 6 giugno 2016

Pugni nei Reni - Bello ma i Primi Dischi erano Meglio

#PER CHI AMA: Alternative Blues Rock
Pugni nei Reni è il nome di un duo bergamasco, chitarre e cassa, che si presenta con un disco di debutto dal titolo 'Bello ma i Primi Dischi erano Meglio'. Le loro canzoni sono scritte in un inglese molto primitivo, pressoché privo di significato ma anche in un italiano alquanto stralunato. Con queste premesse sarebbe facile collocare il loro album nel filone del rock demenziale ma sarebbe riduttivo, assai riduttivo. Nei nove brani inclusi nel disco, si respira una costante ricerca del giusto riff di chitarra come in "Babbuzzi", il brano d'apertura, con la musica che non è mai secondaria al testo; la voce poi viene trattata quasi fosse uno strumento aggiuntivo, filtrata, raddoppiata, con frequente ricorso al falsetto, talvolta anche sguaiata. I Pugni nei Reni sanno maneggiare bene stili espressivi molto diversi tra loro: in “Risposte_di_circostanza alle_domande_esistenziali_di_Jane_Fonda”, l’uso della voce e i battiti di elettronica low-fi ci portano in quelle terre esplorate da Thom Yorke nei suoi dischi da solista, mentre nella veloce “Il_Rock_’n’_Roll” la struttura del brano rimanda ai più scafati Skiantos, senza ruffianeria, condividendone semmai lo spirito ribelle. Al primo posto nella mia personale classifica metto sicuramente “Morning_Brunch” il cui ritmo, sostenuto da una bella chitarra funky, si dilata piacevolmente per quasi sei minuti, diventando quasi un mantra dance. A livello di post-produzione ho trovato poco convincente l’inserimento di alcuni dialoghi estratti da pellicole cinematografiche, l’effetto può sorprendere al primo ascolto ma non agevola i successivi. Molto bello invece l’artwork del disco, incentrato su una grafica old style da IBM Personal Computer DOS. Nel complesso le canzoni hanno le potenzialità per una carica live coinvolgente, cosi dotate di un buon groove e ruvide al punto giusto. I ragazzi sono originali, loro malgrado.(Massimiliano Paganini)

mercoledì 27 aprile 2016

Un Giorno Di Ordinaria Follia - Rocknado

#PER CHI AMA: Rock/Blues/Stoner
Oggi parliamo di un quintetto che fa tremare il padovano già da qualche anno, gli Un Giorno Di Ordinaria Follia (UGDOF) che giungono alla seconda autoproduzione (la prima risale infatti al 2012). Il gruppo nel suo moniker omaggia chiaramente il film ben interpretato da Michael Douglas nel 1993, assumendone appunto il nome e portando sul palco un look ad esso inspirato, anche se li dovremmo bacchettare perchè si limitano al completo da impiegato e alla mazza da baseball, quando un bel bazooka farebbe la sua sporca figura. La band brucia del sacro fuoco del rock e come la tradizione vuole, lo vive al 100%, dalla sala prove alla vita di tutti i giorni. Il digipack di 'Rocknado' è ben fatto, la grafica è in stile fumetto ed prende esempio dal grande Frank Miller e in particolare dal suo capolavoro 'Sin City'. Un investimento che appaga anche la parte visiva e tattile della musica. Al suo interno troviamo sette brani che gocciolano puro rock mischiato a blues, grunge e pure qualche rimembranza stoner, ossia tutto il bagaglio musicale che l'allegra combriccola ha maturato negli anni. L'album parte in gran carriera con "Polar", una rocambolesca cavalcata rock fatta di batteria che scalcia come un toro rinchiuso, basso che trasuda palpitazioni sub soniche e chitarre che si divertono come bambini in un negozio di dolci. I riff si susseguono in rapida sequenza come un tornado che si abbatte su una città inerme e rassegnata all'accidia, mentre gli assoli potrebbero risvegliare attitudini sexy anche nel novantenne più assopito. Il cantato è rigorosamente in italiano ed il timbro del vocalist è maturo, quello di uno che qualche palco se l'è sudato e non rifiuta uno o due shot di buon doppio malto. Nonostante la band abbia una palese attitudine ironica e goliardica, i testi affrontano anche temi sociali ed esistenziali, questo per insegnare che il rock e la musica in genere, sono sempre un buon strumento per far passare dei concetti importati senza banalizzarli. "The Fonz" è il singolo a cui la band ha dedicato un video continuando con i riferimenti cinematografici/televisivi, in questo caso viene preso in causa il meccanico dal giubbotto in pelle e pollice all'insù più famoso al mondo. Anche qui le ritmiche sono dritte e coinvolgenti, senza bisogno di artifici strani per far si che il piede inizi a battere il tempo in maniera autonoma. I due chitarristi srotolano una miriade di note e riff che fanno passare i centocinquanta secondi di canzone in un attimo. "Cotton Club" piace invece per le grosse influenze blues e soul, un mix di nostalgia e rabbia in cui viene chiesto in continuazione all'interlocutore di trovare qualcosa di più profondo oltre alle lenti degli occhiali indossati dal protagonista. Le scariche di chitarra distorta in contrapposizione alla linea tranquilla di voce-batteria-basso, rappresentano la perfetta metafora dell'irrequietudine che alberga dietro l'apparente calma di una persona qualunque che incrociamo ogni giorno. Un brano meno facile, che mostra il lato più inquieto del quintetto padovano, quello oltre l'inesauribile energia, dove si nascondono le profonde ferite accumulate negli anni. Un bell'album 'Rocknado', di puro rock con le giuste influenze, fatto da persone che hanno lasciato la sperimentazione ad altri e si dannano per fare al meglio la musica che hanno ascoltato e vissuto negli anni. Il valore aggiunto è che gli UGDOF si impegnano a mettere in piedi uno spettacolo oltre il puro live, ricreando una certa scenografia e coinvolgendo il pubblico per portarlo nel loro mondo dove la follia è all'ordine del giorno. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 70 (75 Live)

http://www.ungiornodiordinariafollia.com

venerdì 22 aprile 2016

Temple of Dust - Capricorn

#PER CHI AMA: Stoner/Psych/Blues Rock
Oggi, con estremo piacere mi accingo a parlare dell'edizione in vinile di 'Capricorn', debutto degli italianissimi Temple of Dust, uscito per l'etichetta Phonosphera Records. Il trio monzese nasce nel 2013 e debutta l'anno successivo con la versione EP di 'Capricorn', ovvero due brani in meno pubblicati su cd e in digitale. I Temple of Dust si caratterizzano per un blues pesante contaminato da sonorità stoner, doom, noise e post rock, ovvero una mazzata dritta allo stomaco che vi farà ricordare gli Hawkwind e la loro psichedelia acida. Il disco è stato stampato in trecento copie e si contraddistingue per il colore bianco del PVC e l'artwork ben fatto, quindi un bel pezzo da collezione per gli amanti del suono meccanico. Il lato A apre con la title track e veniamo accolti subito dalle note di basso che escono piene e suadenti dalle casse dell'impianto mentre il disco (180 gr.) gira in maniera perfetta sul mio piatto. Le chitarre entrano di prepotenza ed oltre a creare il classico muro sonoro, creano in sottofondo una linea melodica distante, in puro stile post rock. Poi è la volta dell'effetto phaser applicato alle sei corde, tipico dello stoner e del rock psichedelico che crea un turbine di suoni pronto a trascinarci negli inferi. Ritmica pesante e cadenzata, quasi a volere dettar legge su quali siano i giusti bpm che regolano i ritmi circadiani della nostra esistenza. La voce ha subito un processo di distruzione sonoro e successivo ricomponimento con l'aggiunta di una buona dose di effetti. Se tutto questo è stato fatto per regalarci qualcosa di diverso dal classico cantato, non possiamo che apprezzare. La miscela è ben riuscita e dona una carattere evocativo a tutto il brano mantenendo un elevato impatto. "Requiem for the Sun" accelera rispetto a quanto sentito fin'ora e acquista parecchio in groove, con i riff di chitarra belli spavaldi anche se qualche arrangiamento ha quel non so di già sentito che permane nella nostra testa. L'assolo aumenta lo stato di ansia già di per sè elevato del brano, insieme a un cantato che è molto più comprensibile, ma sempre carico di riverbero e/o delay. Un brano che vi farà dondolare la testa anche se non vorrete, è assicurato. "Szandor" chiude il lato A del disco ed è un diamante parzialmente grezzo: la ritmica di basso è molto new wave e i tocchi di chitarra vi faranno attraversare mondi lontani dove la sabbia del deserto è blu e il cielo verde. Per tutto il brano è presente il campionamento di un monologo dalla provenienza non meglio precisata, una scelta già fatta da altri, ma comunque azzeccata. Un'ottima colonna sonora dove le chitarre liquide della band vi faranno compagnia per oltre sei minuti. Del side B, vorrei segnalarvi "Goliath", probabilmente il brano che preferisco, infatti in poco più di cinque minuti, il trio mette in piazza il meglio del loro repertorio. Un classico blues imbastardito da una sezione ritmica accattivante ed un fantastico riff di chitarra che come un mantra si ripete all'infinito, ipnotizzandovi in un piacevole stato di meditazione. L'alternarsi del riff principale, in versione pulita e distorta, permette al brano di avere una sua dinamicità e verso la conclusione si aggiunge anche una lieve linea di synth che da un tocco sci-fi che non guasta. 'Capricorn' alla fine è un LP ben fatto, sia musicalmente che a livello di registrazione e post produzione; il feeling del vinile è indiscutibilmente un orgasmo per le nostre orecchie martoriate da migliaia di file mp3 che hanno la dinamica di un manico di scopa. Lunga vita alla buona musica prodotta altrettanto bene. (Michele Montanari)

(Phonosphera Records - 2016)
Voto: 80

https://templeofdust.bandcamp.com/album/capricorn-lp

giovedì 14 gennaio 2016

Il Mostro - S/t

#PER CHI AMA: Math Rock/Alternative
Anche se 'Il Mostro' è ormai uscito da tre anni, siete sempre in tempo per recuperarlo e dargli un ascolto interessato. Il quartetto di Como risulterà infatti parecchio intrigante per quella frangia di appassionati di sonorità sperimentali (e un po' insane) che vedono mischiate, nella stessa minestra, psichedelia, alternative, blues rock, colonne sonore, country, cinematica, math e molto altro. Vi basta questo come descrizione per spingervi all'ascolto di questo cd datato 2013? Non ancora? Allora vorrei aggiungere che il vocalist, tra l'altro molto bravo, suona anche l'ukulele e mi ricorda vagamente Arnaud Strobl, il vocalist (nella sua veste clean) dei Carnival in Coal. Soddisfatti ora o devo stuzzicare ulteriormente il vostro palato? Va beh, vi sparo lì una delle influenze cardine dei nostri: Mike Patton, senza i suoi Faith No More però, quindi pensate pure ad una delle folli reincarnazioni dell'artista californiano e potrete farvi un'altra idea di questi quattro folgorati. E di un album che include 11 tracce, le prime otto dai titoli ispirati e un po' canzonanti la musica classica (Allegro, Vivace, Andante) e gli ultimi tre in inglese. Trentanove minuti che irrompono col basso minaccioso di Gillo e grida di donna, in una song, "Presto Ostinato", ruvida e minacciosa nel suo presentarsi, "Io Sono il Mostro". Si prosegue sull'onda anomala, con i suoni malsani e ipnotici di "Allegro Brillante", un movimento che si dirige esattamente nella direzione opposta del suo titolo, in un blues che solo nel finale trova modo di esplodere in un math rock impazzito che sprofonda da li a breve nella cupezza di "Andante Arrabbiato", ove si palesa finalmente la voce di Rip e il suono della sua chitarrina infernale, con la musica che ondeggia a cavallo tra i Maniscalco Maldestro e i 6:33. "Prestissimo" nel suo chorus sembra quasi fare il verso "Batman", mentre la ritmica corre via veloce, fatto salvo un geniale break centrale di pattoniana memoria e un roboante finale. "Allegro con Brio" apre con una tamburellata di basso, poi una breve sfuriata e infine la traccia si incanala in suoni oscuri (anche qui notevole la prova vocale di Rip) e malinconici. Con "Vivace" ci lanciamo in un bel pezzo country rock, ove la chitarra di Mamo s'intreccia con l'ukelele del frontman. Si sprofonda addirittura in un orrorifico e teatrale doom in "Largo Solenne", ma l'imprevedibilità dei quattro è comunque sempre dietro l'angolo e la sensazione è quella di ritrovarsi in un film di Q. Tarantino, ed ecco "Allegro Vivace", ascoltare per credere: il suo coro sembra addirittura una versione inglese di "Sciuri Sciuri". Si arriva a "The Phantom of Jeaslousy" ed è ancora il basso di Gillo a dettare legge in un pezzo che sembra quasi richiamare gli anni '70-80 (chi ha detto Police?), con una batteria, a cura di un fantasioso Gionson, a tratti davvero esplosiva. Con "There She Blows! (Ahab's Dream)" si entra in meandri musicali spettrali e spaventosi, lugubri e molesti. "That's Enough" infine si chiede se forse ne abbiamo avuto abbastanza di queste folli breve schegge dei quattro mattacchioni di Como: un blues rock che dimostra l'eclettismo di una band che sembra aver imboccato altre strade sperimentali in nuovi brani, per cui vi rimando alla loro ricerca su youtube. Che altro aggiungere se non obbligarvi moralmente all'ascolto de Il Mostro. Bravi, bravissimi. (Francesco Scarci)

(Self - 2013)
Voto: 80

mercoledì 7 ottobre 2015

Fashion Queens – Infiniti di Forme Rosa e Blu

#PER CHI AMA: Hard Rock/Blues/Grunge
Uscito sul finire del 2014, questo EP di debutto dei padovani Fashion Queens, fuori per la Jetglow Recordings, mostra una band affiatata e ben avviata. Le sei tracce del disco ci vengono presentate dall'etichetta come il perfetto connubio tra musica rock stoner, velata da un retrogusto blues e liriche poetiche, che in parte può esser vero e in parte no, visto che di stoner qui non v'è traccia se non in qualche apertura vocale alla John Garcia (ai tempi degli Unida) sparsa qua e là tra i brani. Più visibile è un rimando a formazioni grunge del passato nazionale, che poi cantando in italiano, per forza di cose ci si accosta ai lavori di Timoria o Karma. Il fatto di volersi accostare al mondo stoner a forza, toglie quello che realmente si cela tra le note di questa band, ossia un buon hard rock blues di stampo classico con chiaroscuri tipici della musica alternativa italiana e buone aperture soniche molto classic rock. Contornati da un canto singolare di buone doti ma che sinceramente manca di spirito psichedelico e predilige spesso una tonalità che poco si prestano al trip, e sovente si spostano verso territori hard rock, rappresentano alla fine il vero territorio di conquista della band patavina. Buone le composizioni, fantasiose e ben radicate, come detto in precedenza, nel blues (il brano "3/4"), il disco presenta una qualità di registrazione ottima, pulitissima, anche se manca il tocco che spacca o che la rende veramente unica, però ben fatta, forse un pizzico più di polverosa U.S.A. e di calore nel sound non sarebbe guastato. Centrato anche il brano "George Jung" ove affiora maggiormente la vena più metal con all'interno un bel innesto recitato di ottimo effetto; infine è una pillola rock dal velato accenno Afterhours quello della conclusiva "Unaware". Fashion Queens, un buon inizio che lascia ben sperare. (Bob Stoner)

(Jetglow Recordings - 2014)
Voto: 70

martedì 15 settembre 2015

Anabasi Road - S/t

#PER CHI AMA: Progressive/Rock Blues/70s Hard Rock
Il giorno in cui il cd degli Anabasi Road viene recapitato sulla mia scrivania, ho iniziato da poco la rilettura de 'I Guerrieri della Notte' di Sol Yurick, libro dichiaratamente ispirato all’Anabasi di Senofonte. Lo prendo per un segno del destino e inserisco immediatamente il dischetto nel lettore. Non mi è semplice esprimere quelli che sono i miei sentimenti verso quest'album e la formazione reggiana che si è scelto un nome così impegnativo. Perché se da un lato amo il progressive e il blues rock degli anni 70, dall'altro non riesco proprio a digerire le propaggini virtuosistiche da essi originatisi nel corso degli anni e sfociate in pletore di guitar hero dediti ad un prog hard rock onanista (leggasi Dream Theater e compagnia cantante) che ho sempre ritenuto sterile e per me poco interessante. E quest'album sembra essere composto in egual misura da entrambe queste componenti, in un delicato gioco di equilibri, a mio avviso non sempre riuscitissimo, con il risultato di essere a volte un po’ troppo pesante; non una sintesi quanto una somma delle parti. C’è tanta, tanta carne al fuoco qui, a partire dal fatto che gli Anabasi Road sono tutti eccellenti musicisti, nessuno escluso, ma il problema sta proprio nel fatto che sembra vogliano rimarcarlo incessantemente per tutta la durata del disco, senza un solo secondo di pausa. Così facendo, purtroppo, i brani a volte scappano un po’ di mano e sembrano diventare solo delle vetrine per le proprie qualità strumentali. Se l’iniziale “Pleasure in Me” promette molto bene con il suo hard screziato black grazie a un hammond caldissimo, già dalla successiva "Clashing Stars" le cose iniziano pian piano a sfilacciarsi fino a diventare pretenziose, con le inutili prolissità di “Say Man”, improbabile nel suo accostare blues canonico e prog neoclassico, o “I Walk Alone”, che nel finale vuole forse omaggiare i duetti voce-chitarra di Page e Plant con un risultato però parodistico. Troppo spesso chitarre e tastiere si suonano sopra, quasi senza ascoltarsi, lasciando un po’ l’amaro in bocca per quello che sarebbe potuto essere con solo un po’ piú di moderazione un ottimo lavoro, forte anche della presenza di un vocalist ispirato e potente, dal timbro profondo e personale (anche se nell'unico brano cantato in italiano, il peraltro ben riuscito “Guerra Mondiale”, ricorda il cantante dei Nomadi, quelli di oggi). Se posso riassumere la recensione in una frase, direi “Bravi, ma fermate un secondo quelle chitarre!”. Mark Hollis, geniale leader dei Talk Talk dice che non c’è bisogno di suonare due note, se puoi suonarne una sola. Ecco, senza arrivare a questi estremi, un produttore che avesse dato un freno alle debordanti sei corde degli Anabasi Road avrebbe fatto un gran servizio al disco. C’è del talento, qui dentro, e anche tanto. Bisogna solo lasciare che emerga, magari qualche volta togliendo piuttosto che aggiungendo sempre. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 65

sabato 12 settembre 2015

Ketha - #!%16.7

#PER CHI AMA: Musica totale, Primus, Tool, Meshuggah
Sapete che quando trovo un album eccezionale lo devo gridare a tutti, è più forte di me; cosi spulciando per la rete ecco capitarmi fra le mani i polacchi Ketha, sconosciuti autori già di due album e di questo incredibile EP dal titolo emblematico '#!%16.7'. La durata ahimé limitata rendono ancor più ossessiva la mia caccia ai precedenti introvabili lavori. Nel frattempo devo accontentarmi di queste 12 minuscole tracce che in realtà ne costituiscono una sola dato il flusso sonico continuo che si sviluppa dalla opening track, "Shhh" alla conclusiva "Redshift", in un viaggio musicale senza precedenti. Ragazzi, qui non si scherza. L'ensemble polacco ha prodotto un qualcosa di estremamente delirante che abbina il riffing nevrotico dei Meshuggah con la follia dei Primus, in un percorso ipnotico che vi lascerà di sasso e avrà modo di percorrere saliscendi progressivi, partiture blues-jazz, rimandi di tooliana memoria, trionfi di sax e trombe, aperture cinematiche, growling vocals, twist and shout, superbe montagne di groove, splendidi assoli, death metal, space rock e chi più ne ha più ne metta. Non fatevelo scappare, per loro garantisco io. (Francesco Scarci)

(Instant Classic - 2015)
Voto: 90

https://www.facebook.com/kethaband

domenica 28 giugno 2015

Ophite – Basic Mistakes

#PER CHI AMA: Blues Grunge Rock
Sono giovani e carini, risultano freschi e dinamici, vengono direttamente da Parigi ma sono multietnici e trendy e suonano un pop intelligente pieno di colori e variegate influenze. Il funk, il rock, il britpop e un certo tipo di hip hop, suonato veramente, con attitudine artistica e non esclusivamente commerciale. Ricordano la freschezza dei primi Texas e la verve di Martina Topley-Bird nelle atmosfere cool ed energiche, un soffio di riot girl alla Sleater Kinney, le indimenticabili Elastica e il blues rock spinto dal fascino retrò anni '90 dei The Duke Spirit. Un ingorgo di suoni che ruotano nell'ellisse del sistema solare del pop di buona fattura, ben suonato e ben calibrato, fatto appunto per il semplice piacere di essere ascoltato. Basso e voce danno un supporto eccezionale a tutte le sei tracce del cd ma anche la batteria e le evoluzioni chitarristiche, suonano deliziose con le sonorità che resero grandi i 4 Non Blondes e Alanis Morrissette negli anni '90. Un vero e proprio tuffo nel passato con un'ottica di ristrutturazione moderna ed efficace dai suoni pieni, centrati e filtrati a dovere. Ottimi suoni che vanno d'amore e accordo con le sonorità dei The Roots del capolavoro 'The Seed'. Una band atipica per il mondo odierno ma tutt'altro che scontata, se le venisse data una produzione d'alta classe e una visibilità adeguata, sicuramente ne aumenterebbero le possibilità di riuscita commerciale. Una musica inventata e ragionata per essere apprezzata sotto tutti i punti di vista. Magari non risulteranno del tutto originali ma sicuramente la proposta è molto buona e convincente, con una vocalist di tutto rispetto (ascoltate l'acustica "My Pretty Columbine" per rendervi conto delle sue qualità!) e una composizione talmente gustosa e di qualità da fare invidia a molti, anche nei richiami reggae alla Police di "Phoenician Sailors". Un EP ben riuscito e di gran classe. Questa giovane band ha tutte le carte in regola per crescere a dismisura e questi primi sei brani autoprodotti sono da ascoltare a timpani spiegati! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 75

domenica 10 maggio 2015

My Home on Trees - S/t

#PER CHI AMA: Alternative/Psych/Stoner
Poche volte mi è capitato di essere colto da uno stato simil catatonico durante un concerto, infatti nella maggior parte dei casi la musica ti prende e inizia un headbanging sfrenato oppure si resta semplicemente indifferenti e si approfitta dell'occasione per consultare la lista delle birre disponibili al bancone oppure per attaccare bottone con qualcuno. Con i My Home on Trees (MHOT) è stato subito un rapimento dei sensi, una sorta di sindrome di Stendhal musicale dove la band diventa protagonista e tutto quello che ti circonda diventa ovattato e poco importante. Iniziando dal principio, il quartetto milanese è giovane come band, ma presenta idee chiare e un'ottima determinazione nell'affrontare il proprio percorso musicale. I MHOT si focalizzano poi su sonorità tra lo stoner e l'heavy blues/psichedelia, un po' sull'onda che sta imperversando in questo ultimo periodo, però la band non cerca la via facile. Infatti il risultato è un EP aggressivo, pregno di groove che nel live trova la sua miglior rappresentazione, ovvero una bomba fatta di riff, luci e ritmi alchemici. Il tutto è condito dal fatto che i quattro musicisti fanno il loro lavoro alla grande, sono rockstar sul palco e non al di fuori, cosa che molte band devono ancora capire. Un altro punto a loro favore è la vocalist, voce graffiante e bluesy che ricorda Reilika Saks (frontwoman dei Luna Vulgaris), una di quelle timbriche che ti rapisce dopo pochi secondi di ascolto e che raggiunge livelli altissimi di espressività. Questo perchè i MHOT non puntano solo all'impatto sonoro tipico del movimento stoner, ma affondano a piene mani nella storia del blues più psichedelico. "Silence" è l'esempio lampante di quanto detto: in sette minuti abbondanti la band vi cullerà, accarezzerà, lancerà nel vuoto ed infine vi darà uno schiaffo di quelli che vi rintroneranno per un bel po'. Di per sè non aspettatevi nulla di sperimentale, il brano è un classico del genere, ma è molto vario a livello melodico, gli arrangiamenti sono azzeccati e i suoni sono quelli giusti. I break sono molti e caleidoscopici, e ogni strumento ha lo spazio per esprimersi al meglio. I riff di chitarra sono sanguinei e ogni colpo di plettro vi entrerà fino all'osso, il tono è leggermente acido, ma quello del buon fuzz, mica le brutte distorsioni che imperversavano nell'etere qualche anno fa. In chiusura la chitarra si addolcisce di delay e riverbero, come un liquido caldo che scorre e cade giù, giù nei vortici del phaser. Il quarto brano dell'EP (in totale sono cinque) si intitola "Night Flower" ed è un altro assaggio del quartetto milanese. In questa traccia si apprezza una sezione ritmica trascinante, la batteria è il cuore pulsante che cresce e diminuisce in sintonia con il mood del brano, come il basso che dalla profondità delle sue frequenze serpeggia minaccioso. Qualche vena post punk traspare dagli arrangiamenti di chitarra ma non fanno che aggiungere un tocco di personalità in più che potrebbe essere la giusta via per dare maggiore respiro alla scrittura dei brani. Concludendo, questo EP omonima è un'ottima prova dei MHOT che mettono subito in chiaro che la scena si è arricchita di una nuova band che vuole bruciare le tappe. Aspettiamo con ansia il full-lenght ora. (Michele Montanari)