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martedì 1 dicembre 2020

ĀraṇyakAƔnoiantAḥkaraṇA (ĀAAA) - S/t

#PER CHI AMA: Experimental/Ethno/Folk/Psych
La Family Sound è una realtà artistica esageratamente underground e fedele al credo Do It Yourself. La sua energia comunicativa è alimentata da una luce propria molto intensa, che mette l'arte al di sopra di ogni cosa, in maniera così ostinata che dalla produzione fisica a quella concettuale di un'opera sonora (nella sua filosofia rigorosamente una diversa dall'altra) non tralascia nulla alla banalità delle cose, neppure nella realizzazione dei dischi. Evitando le normali vie di fabbricazione dei vinili, costruendosi copertine autonomamente, fino a far uscire sul mercato, come in questo caso, la bellezza di sole 21 copie in vinile fatte a mano. Ricordando che i suoi artisti sono praticamente senza identità, che le opere nascono da una collaborazione internazionale, col solo intento di far esplodere l'ispirazione creativa dei musicisti, vi invito a farvi un'idea leggendo di seguito come questa etichetta usa presentarsi: "una one man label specializzata nella pubblicazione in vinile creando edizioni con musica diversa per ogni copia, copertine diverse, loops finali e altro". La label promette di adottare i principi dell’industria musicale al contrario: nomi dei gruppi impronunciabili e impossibili, edizioni in vinile super-limitate e super-costose, testi chilometrici, produzioni musicali troppo eversive per entrare in qualsivoglia nicchie, generi fuori moda, e altro ancora. Fatte le dovute premesse, affrontiamo il disco degli ĀraṇyakAƔnoiantAḥkaraṇA, cominciando da un nome impronunciabile per un disco ispirato alla cultura sacra vedica. Gli Aranyaka o "libri anacoretici" (circa sec. VIII-VI a. C.) sono opera di asceti che nella "selva solitaria" (āraṇya) sostituivano al culto esteriore delle cerimonie sacrificali il culto interiore della meditazione sul valore simbolico e sul significato mistico dei riti. Il nome del duo si fa carico del significato musicale dell'opera il cui intento è proiettare l'ascoltatore in un'estasi mistica, ipnotica e incantatrice, oserei dire, ossessivamente trascendentale. Prendete "Dust" di Peter Murphy, privatelo di tutte le sue parti ritmiche, tenendo solo quelle etniche, spostandole poi nel versante indio/ mediorientale, avvolgetele in un tappeto costante di sitar ancestrale e acido al pari di certa psichedelia allucinata di casa nella Londra del '67, sporcate il tutto con rumori e brevi accenni ritmici minimali, filtrate con l'elettronica, quella low fi, ed con del folk apocalittico. E il gioco è fatto. Immaginate i due brani di apertura del capolavoro '...If I Die, I Die' dei Virgin Prunes, "Ulakanakulot" e "Decline and Fall", scarnificati e suonati con la cupa e lenta avanguardia dei Sunn O))), il lato mistico dei Dead Can Dance e la psichedelia etnica di un capolavoro degli Aktuala quale fu il loro album omonimo del 1973, e ancora, la drammaticità dell'ultimo Nick Cave e le sfumature notturne del più cupo Tom Waits e forse avrete una lontana idea di cosa si nasconde dentro questo album. Tre brani di cui il primo, "No Store of Cows" supera i 22 minuti, seguito da un lampo di neppure due minuti per concludere con una liturgia dark di circa 15 minuti ("The Margin Spread"). Vi siete fatti un'idea di quale spettacolare risultato sia riuscito ad ottenere questo duo di musicisti senza volto? Un cantato oscuro alla maniera del gotico vocalist dei Bauhaus, teso, esasperato, che usa salmodiare le preghiere descritte nei testi che dentro al vinile sono trascritti, niente poco di meno che su di una reale pergamena, un impianto sonoro che non lascia intendere dove inizia il campionamento, il loop o la reale strumentazione suonata, ed una emotività sacra tanto esposta da rendere alcuni momenti musicali veri e propri viaggi spirituali, a volte trascendentali, a volte aspri e bui al pari di una composizione degli OM. La difficoltà di descrivere un album simile è enorme, poiché questo tipo di opera non è alla portata di tutti e rifiuta ogni logica commerciale, sono brani che richiedono attenzione assoluta e apertura mentale per essere recepiti nella loro integrità artistica, per questo servono più ascolti e molta concentrazione per capirli. Alla fine però, si ha l'impressione di essere di fronte ad un vero capolavoro, che rimarrà in eterno al di fuori del tempo. L'intento di creare musica altra, senza vincoli, ispirata e profonda, in questo disco si è decisamente fatta realtà. Un immancabile ascolto per gli amanti più temerari della psichedelia d'avanguardia. (Bob Stoner)

sabato 7 novembre 2020

Oghre - Grimt

#PER CHI AMA: Progressive/Sludge
Era il 2017, quando gli Oghre esordivano con 'Gana'. La band per quell'album, fu nominata ai Music Recording Awards lettoni nella categoria Rock/Metal album. A distanza di tre anni da quel cd, il quintetto originario di Riga torna con 'Grimt' e il loro concentrato di progressive sludge che tanto li caratterizza. Questo nuovo lavoro, cantato in lingua madre, consta di sette tracce che si aprono con le soffuse melodie di "Viens" e la voce assai particolare del vocalist, capace di passare da un cantato pulito assai stralunato ad un growling possente, mentre la musica si muove su coordinate a metà strada tra post metal e sludge, con un velato tocco di psichedelia. Le ritmiche sono roboanti, mai lanciate però a grandi velocità, semmai poggiano su un rifferama assai cadenzato con giri di chitarra stranianti ma avvincenti, soprattutto per ciò che concerne la seconda parte di "Trauksme", che si muove su sonorità alquanto sperimentali, fatte di chiaroscuri imprevedibili ma affascinanti. E dire che la voce nella sua versione cosi pulita ma altrettanto anormale, non è che mi faccia proprio impazzire, tuttavia devo ammettere che s'inserisce brillantemente in un contesto alquanto bizzarro. E le sorprese non si fermano qui visto che anche con la successiva "Sarkans", i nostri continuano a sorprenderci con sonorità poco scontate: un inizio assurdo affidato alla folle ugola di Oskars e ad una ritmica assai delicata, giusto per pochi secondi prima che ad affondare il colpo sia una sezione ritmica bella potente, che si muove ancora una volta su un'alternanza di tempi che trovo alla fine comunque originale. E dire che 'Grimt' non è un album cosi semplice da avvicinare proprio per una continua ricerca di sonorità fuori dal comune che partendo da una base sludge/post-metal, poi si lancia in una sperimentazione quasi avanguardista. Questa si rivela una costante un po' in tutta la release, in quanto anche nella successiva "Māli", il quintetto non rinuncia a imperversare con riffoni tosti (direi di competenza stoner al limite del doom) e al contempo, di proporre variazioni al tema varcando ulteriori confini musicali alquanto deliranti. "Vaidava Celies!", con i suoi dieci minuti, ha un incipit di violenza disturbante (e anche una coda quasi post black), ma nel suo proseguio si dimostra più vicina ad un mix tra orrorifico post rock (complici sinistri cori) e ancora chitarre post metal, per quanto sia una song quasi interamente strumentale (fatto salvo per la ripetizione da parte del vocalist del titolo del brano). Nonostante questo, il risultato è ancora una volta affascinante, merito di questi cinque pazzi furiosi. In "Slāpes" sembra di aver a che fare con un'altra band, ma risiede proprio in quest'imprevedibilità di fondo il grande interesse che nutro per questi Oghre, che potrebbe essere accostabili ad una versione deprivata di elettronica, dei lettoni Forgotten Sunrise (andateveli a cercare mi raccomando). Forse gli Oghre sono ancora un po' acerbi rispetto ai colleghi baltici, ma il mood potrebbe essere il medesimo e a confermarcelo ecco in chiusura "Rītausmas Zirgs" e le sue atmosfere ancora una volta velate che sembrano condurci dalle parti di un sound dapprima tooliano (poi direi bell'incazzato) che completa in modo efficace una proposta assai intrigante a cui vi invito a dare più di un ascolto superficiale. (Francesco Scarci)

mercoledì 28 ottobre 2020

Katharos XIII - Palindrome

#PER CHI AMA: Black/Doom/Avantgarde/Jazz
Uscito oramai un anno fa ma arrivato solo oggi sulla mia scrivania, mi appresto a parlarvi di 'Palindrome', atto terzo dei rumeni Katharos XIII. La band originaria di Timișoara, aveva già fatto parlare positivamente di sè nel 2017 quando uscì 'Negativity'. Ora le cose sembrano migliorate ulteriormente con un 5-track ricco di contenuti. Se la base da cui partiva il quintetto era quella del depressive black, qui assistiamo ad una interessante evoluzione. Lo si capisce già in apertura, in cui facciamo conoscenza della candida voce di Manuela Marchis ma soprattutto del sax assatanato di Alex Iovan, altra splendida sorpresa di questo lavoro. "Vidma" è un pezzo che si muove tra black, doom, jazz e atmosfere orrorifiche che mi hanno rievocato 'The Call of the Wood' dei nostrani Opera IX, ma nelle parti più malinconiche, mi hanno evocato anche un che dei The Third and the Mortal di 'Tears Laid in Earth'. Potrete pertanto immaginare il mio sommo piacere nel godere di simili sonorità, che durante le fughe del sax, chiamano inequivocabilmente in causa anche i White Ward. Insomma un trittico di nomi che francamente mi fanno sobbalzare dalla sedia e pensare che stavolta i Katharos XIII l'abbiano combinata davvero grossa. E non posso che rimanere piacevolmente colpito anche dai successivi pezzi: "To a Secret Voyage" è un drammatico viaggio ambient imperniato su atmosfere notturne, quasi da piano bar, dove sedersi al bancone e affogare ogni singolo pensiero nell'oblio di un qualsivoglia distillato. La song prova a dare qualche accelerazione black (non proprio riuscitissima a dire il vero), ritornando poi a quelle sonorità lounge, in cui i nostri sembrano trovarsi maggiormente a proprio agio. E si va a nozze a tal proposito anche con la lunghissima "Caloian Voices", un altro esempio di avanguardistico sound dark jazz doom prog con la voce di Manuela davvero ispirata e quel sax che è puro godimento ascoltare. Non mancano i cambi di tempo, che spezzano le atmosfere rilassate sin qui create e ne generano altre decisamente più angoscianti fatte di suoni spettrali e voci malvagie in sottofondo. Il finale poi è da applausi con lo sperimentalismo dei nostri che prende il sopravvento tra parti disarmoniche e fughe jazz. "No Sun Swims Thundered" ci conduce in misantropici oscuri meandri dai quali non far ritorno per abbandonarsi ai vocalizzi della bravissima e sofferente Manuela, sempre più convincente. La song vive ancora di spettrali break atmosferici e quegli ormai consueti frangenti jazz che li avvicinano ai norvegesi Shining. Uno spettacolo, anche alla luce di un finale affidato allle delicate e soffuse melodie di "Xavernah Glory" che sanciscono le enormi potenzialità di questa compagine. Insomma, per me 'Palindrome' è una sorta di buy or die. Intesi? (Francesco Scarci)

lunedì 26 ottobre 2020

Nagaarum - Covid Diaries

#PER CHI AMA: Experimental Black, Fleurety
Il coronavirus non è stato solo fonte di dolore per la gente, ma anche di ispirazione. L'avevamo apprezzato qualche settimana fa con la triplice release dei Queen Elephantine, lo rivediamo oggi con questa uscita chiamata inequivocabilmente 'Covid Diaries', che arriva sei anni dopo quel 'Rabies Lyssa' che profetizzava l'arrivo di una pandemia nel 2019. A proporlo è un amico del Pozzo dei Dannati, ossia il musicista ungherese Nagaarum, uno che da queste parti ha bazzicato parecchio. Il nuovo disco, uscito per la Aesthetic Death, altra etichetta amica, consta di sei tracce. Si parte con l'inquietante epilogo di "Prelude for 2020", quasi a prepararci psicologicamente a questo funesto anno di morte. L'aria è pesantissima e rappresenta fedelmente, attraverso le sue nebulose atmosfere, questi folli mesi che stiamo vivendo. "The First Ingredients" sembra addirittura peggio, con un ambient noise davvero paranoico, quasi a descrivere quella sensazione di vuoto sperimentata durante il famigerato lockdown. Ecco, ho rivissuto quei terribili momenti di isolamento sociale patiti in primavera, quando la tempesta del malefico Covid si abbatteva sull'Europa. Fortunatamente, "Superstitious Remedy" somiglia maggiormente alla forma di una canzone, certo, di non facile digestione, ma pur sempre dotato di una musicalità ostica che trova comunque spiragli di melodia grazie anche all'apporto vocale di una gentil donzella, Betty V. "Competitors" è un dialogo surreale (ma interessante da seguire attraverso le liriche contenute nel cd) tra robotici vocalizzi di donna (e la voce narrante di un uomo) che in realtà rappresentano le voci dei personaggi Vera, Yersinia e Rosie, ossia la personificazione delle manifestazioni dell'epidemia. Più vicino alle passate produzioni di Nagaarum è invece un pezzo come "I Am Special", sospinto da un mix tra avantgarde, doom e depressive, in quanto di più orecchiabile si possa pretendere di ascoltare su questa release. L'ultimo pezzo è affidato alla lunghissima "Liquid Tomorrow", dove la voce narrante di Roland Szabó (amico del frontman magiaro) sembra chiudere in bellezza con un'ultima dose di positività e quelle nubi ancor più cupe che incombono sulla società. Musicalmente, la proposta del factotum ungherese ricalca qualcosa che apprezzai enormemente venticinque anni orsono, ossia il debut 'Min Tid Skal Komme' dei Fleurety, attraverso un black psichedelico davvero ispirato, ove ancora una volta, la voce di Betty V. dà il suo enorme contributo. Alla fine, 'Covid Diaries' è un album introverso, cupo, non certo un lavoro per tutti, ma lo consiglio di sicuro a chi ama la sperimentazione votata a esplorare i meandri più oscuri della psiche umana. (Francesco Scarci)

venerdì 25 settembre 2020

Queen Elephantine - Tribute to Atrophos Vol I

#PER CHI AMA: Avantgarde/Psych/Jazz
Il Covid-19 è tutt'ora fonte di grande dolore ma è stato anche innesco di diverse opere artistiche (libri, dischi, cortometraggi). I Queen Elephantine sono tra quelli che hanno sfruttato il momento di difficoltà proponendo i rilascio di nuovi EP in formato digitale. Il collettivo di Hong Kong, originario però dell'India e con base oggi a Philadelphia, ha rilasciato ad aprile, nel pieno della prima ondata di coronavirus, il cui presente 'Tribute to Atrophos Vol I', primo (di tre?) EP votati all'improvvisazione totale. Li avevamo lasciati sul finire del 2019 alle prese con 'Gorgon', li ritroviamo oggi più stralunati che mai con quattro nuovi eterei pezzi che miscelano casualmente psych e kraut rock, avanguardistico, jazz, drone e stoner con un'alchimia sciamanica misticheggiante. Questo almeno quanto trasmesso dalla trascendentale opening track, "I Alone Am Right", che per undici minuti entra nel mio cervello e con la sua infima retorica cervellotica, insidia i pochi neuroni residui nella mia materia cerebellare, con un sound lisergico e desertico. Ancor più complicata "I Am Left Alone", proprio perchè sa di jam session a tutti gli effetti, quasi che il collettivo indiano si sia messo li un angolino a strimpellare in attesa di far uscire le idee migliori da registrare. Quindi, non è il caso di aspettarsi nulla di travolgente visto che si tratta di pura improvvisazione dettata dalla noia che sembra per lo meno cresca in intensità perchè si è trovata la giusta chiave per costruire una song. E anche con le seguenti "Surfacing" e "Sunk", il canovaccio della estemporaneità non cambia. La prima delle due song ha un andamento oscuro quasi dronico, bloccato in un ipnotico loop di chitarra astrale. La seconda invece è più noise rock oriented (sebbene qualche accenno in sottofondo alla musica indiana), con chitarra e batteria lasciate come cani sciolti a cazzeggio per quattro minuti di puro divertimento. (Francesco Scarci)

lunedì 7 settembre 2020

Dawn of a Dark Age - La Tavola Osca

#PER CHI AMA: Black Avantgarde/Folk
Dopo aver saputo che Vittorio Sabelli aveva ricostituito la sua creatura Dawn of a Dark Age (supportato questa volta alla voce da quell'Emanuele Prandoni di cui abbiamo recentemente recensito l'album degli Anamnesi), ero assai curioso di ascoltare i contenuti del nuovo disco. Abbandonato il filone relativo ai sei elementi della Terra, Vittorio è tornato questa volta con una tematica di carattere storico, 'La Tavola Osca' (o Tavola degli Dei), che dà appunto il titolo alla release e si riferisce ad un antico reperto di bronzo del III secolo a.C. appartenuto al popolo dei Sanniti, che testimoniò l'esistenza della lingua italica nella terra di origine del musicista molisano. Il disco pare muoversi attorno alle vicende che hanno portato al rinvenimento della lastra bronzea nel 1848 e alle sorti che la portarono a scomparire e ricomparire nelle mani di vari personaggi storici, ma il tutto è ben spiegato all'interno del booklet. Si parte dall'opener "La Tavola Osca - Le Divinità - pt.1 (Excerpt 1)", una song che sembra voler ricalcare il passato musicale dei nostri, attraverso la combinazione di un black serrato contrappuntato da una forte componente folklorica, il tutto palesato da ritmi incalzanti, screaming vocals ma anche da splendide melodie in sottofondo. Interessante il mid-tempo a metà brano con certi interessanti richiami a sonorità anni '70. Vittorio non rinuncia ovviamente alla furia del black, ma nemmeno alle trovate avanguardistiche che da sempre contraddistinguono il progetto. Si prosegue con i suoni pù calibrati di "La Tavola Osca - Le Divinità - pt.2 (Excerpt 2)" dove largo spazio viene concesso alla narrazione degli eventi da parte della voce di Vittorio stesso, ma l'apoteosi si raggiunge quando la scena se la prende l'imbizzarito clarinetto del polistrumentista italico, con un assolo da brividi, che mi fa ricordare il motivo per cui non vedevo l'ora di riascoltare la musica dei Dawn of a Dark Age. Quasi a voler parafrase il suo titolo, "La Tavola Osca - Processione Funebre pt.3 (Excerpt 3)" assomiglia ad uno di quei cortei funebri che sono stati messi in scena nella filmografia del sud Italia. Sicuramente un brano suggestivo a suggellare l'italianità di un lavoro che sembra voler affrescare scene della vita del nostro Mezzogiorno. Terminato questo trittico di brani facenti parti dell'Atto I del disco, ci troviamo di fronte al secondo Atto, che prosegue in "La Tavola Osca (I Atto)", con la narrazione da parte del factotum nostrano degli eventi storici come se si trattasse di un audiolibro, con tanto di strumenti acustici e clarinetto in background ad accompagnarne la lettura. Bisogna immergersi quindi nel coinvolgente contesto storico-musicale di queste parole e note, lasciandosi sedurre dal folk acustico del sempre più imprevedibile polistrumentista originario di Agnone, che da li a breve si lancerà in un'altra cavalcata dal sapore post-black. Ma la song, della durata di ben 23 minuti, regala sprazzi di grande musica evocativa, toccante, tribale, mediterranea, feroce quanto basta per definire questa suite un piccolo gioiello incastonato nella discografia del mastermind italico. L'ultimo atto, "La Tavola Osca (II Atto)", nei suoi 17 minuti narra di quando nel 1873 il British Museum acquistò la collezione artistica che includeva la tavola stessa e che oggi stesso ancora la preserva, alternando nel suo corso, fumantine esplosioni black con popolari intermezzi da sagra di paese. Gli ultimi dieci minuti che rappresentano verosimilmente l'ultima scena del lavoro, sono affidati ad un antico e litanico rituale in cui vengono menzionati peraltro i nomi delle divinità sannite incluse nella tavola. Alla fine, 'La Tavola Osca' segna il graditissimo ritorno sulle scene di uno dei musicisti più talentuosi e originali della nostra penisola, con un album strutturato, dotato di una buona dose di raffinatezza e sicuramente ben suonato, che peraltro unisce con grande interesse due ambiti culturali, la musica e la storia, ove il folklore popolare ne rappresenta il minimo comun denominatore. (Francesco Scarci)

Ensoph - Projekt X-Katon

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Gothic/Avantgarde, The Kovenant
Gli Ensoph li seguo dalle loro origini più lontane, quando ancora la band veneziana si chiamava Endaymynion, di cui conservo ancora oggi gelosamente il loro demo 'Thy Art'. A distanza di quasi dieci anni dal cambio di monicker, il quintetto veneto ha intrapreso un percorso musicale veramente unico e originale, che coniuga intelligentemente sonorità estreme a momenti sinfonici, gothic, prog ed electro-industriali. 'Projekt X-Katon', il terzo full length per il combo guidato dalle oscure vocals di N-Ikonoclast, rappresenta un altro capitolo di riflessione metafisica, nel percorso intrapreso dalla band nel 1997 con il MCD 'Les Confessions du Mat'. L’opener del nuovo lavoro, segna l’inizio di un cammino spirituale, un viaggio dell’anima attraverso la mente, le emozioni e i turbamenti di questi uomini; è un’esplorazione intima, attraverso suggestioni derivanti dall’esoterismo, dalla filosofia e dalla teologia. 'Projekt X-Katon' attanaglierà le vostre menti fino a farvi impazzire, grazie alle seduttive melodie chitarristiche, agli inserti progressive, a suoni techno-EBM e all’ammaliante flauto di Anna. Finalmente il cantato di N-Ikonoclast ha messo in secondo piano quelle scream vocals che tanto non avevo digerito nei precedenti album, lasciando maggiormente spazio ad una interpretazione più pulita e seducente. La band si è ulteriormente evoluta rispetto al già ottimo 'Opus Dementia', sciorinando brani più diretti ma allo stesso tempo più ricchi di pathos, grazie a loop, campionamenti vari e ad un uso più emozionale delle keys. Il sound degli Ensoph, pur riportando alla mente in certi frangenti Moonspell, Kovenant o alcuni act elettro-gothic tedeschi, acquisisce qui una propria personalità, che rende i nostri tra i maggiori interpreti di sonorità d’avanguardia. Gli Ensoph, grazie al duro lavoro, hanno saputo centrare in pieno l’obiettivo di migliorarsi ulteriormente e lo hanno fatto con classe, proponendo un sound di difficile interpretazione e di non facile assimilazione, ma che alla fine si rivela un tourbillon di emozioni, grazie all’intreccio di generi che hanno arricchito il già ricco background musicale della band: elettronica, black, gothic, avantgarde, death, prog, industrial, EBM, ambient si amalgamano infatti indissolubilmente in questo bellissimo 'Projekt X-Katon'. L’album, mixato alla grande poi da Giuseppe Orlando (Novembre, Klimt 1918) agli Outer Sound Studios di Roma e masterizzato da Goran Findberg ai Mastering Room in Svezia, venne rilasciato in digipack in una prima edizione limitata che includeva anche 'The Seductive Dwarf', un bonus EP che vedeva Steve Sylvester cantare sulla cover dei Soft Cell “Sex Dwarf” (riproposta in due versioni differenti), e rifare “Sun of The Liar”, classico della band veneziana. Da ripescare assolutamente. (Francesco Scarci)

domenica 23 agosto 2020

Laetitia In Holocaust - Heritage

#PER CHI AMA: Black Death Avantgarde
Già recensiti in occasione dei precedenti lavori e peraltro intervistati vis-a-vis ai tempi di Radio Popolare, mi ritrovo tra le mani il nuovo disco dei modenesi Laetitia in Holocaust, che per trovare un'etichetta che li supportasse, hanno dovuto questa volta "emigrare" in Canada, appoggiandosi alla Niflhel Records. Il misterioso duo italico (oggi trio in realtà) torna quindi con il quarto album, 'Heritage', che non fa altro che proseguire (e migliorare) quanto fatto con il precedente 'Fauci tra Fauci', uscito lo scorso anno per la Third I Rex. Il disco si apre con "The Moor", una breve intro noise che ci prende per mano e ci conduce nel labirinto tortuoso e stralunato di "Dissolution in Black Pastures", una song che si muove su ritmiche vorticose, deliri musicali, vocals schizoidi e giri di basso da paura, che dipingono surreali momenti d'atmosfera e ci consegnano una band in grande stato di forma che lascia ancora presagire ampi spazi di miglioramento. Tuttavia, a dire il vero, dopo il primo ascolto, mi sento di dire che questo è anche il brano migliore del lotto. Seguono però una serie di pezzi di indubbio valore: parto col disquisire la title track, un pezzo funambolico, che evidenzia la sempre eccelsa tecnica del combo emiliano che pone in primo piano il magnetico sound del basso, attorno al quale sembrano ruotare gli altri strumenti e la voce graffiante (in screaming ovviamente) del frontman S. Il risultato che ne viene fuori ha un che di originale che supera in qualità compositiva quanto uscì già di buono lo scorso anno. Le imprevedibili ma melodiche linee di chitarra, i frangenti acustico-atmosferici, i repentini cambi di tempo, ci dicono ancora una volta che la band è in uno stato di grazia e sa giocare sapientemente con partiture techno black/death avanguardistiche che elevano i nostri a punto di riferimento di una scena ancora poco popolata. Se dovessi citarvi un termine di paragone per descrivervi la proposta dei Laetitia in Holocaust, vi direi di immaginare i Sadist di 'Above the Light', miscelati ai Cynic e fatti suonare dai Deathspell Omega, avete presente che bel mix ne salta fuori? Questo si traduce in pezzi ricercati, talvolta talvolta ancora un po' complicati da digerire, come potrebbe essere "Exemplum", che di certo non gode della stessa accessibilità musicale dei precedenti pezzi, ma che mette comunque in mostra le qualità di un disco molto buono ma ancora perfettibile, soprattutto a livello produttivo, dove forse i suoni risultano un po' troppo crudi. Poi non si possono contestare i contenuti del lavoro: "Of Courage and Deity" è magnetica quanto basta, sempre merito di quel basso e di una voce che rimane un po' nelle retrovie, ma anche di un sapiente lavoro alla chitarra che regala quel tocco disarmonico che tanto ci piace. Fatto sta che il misterioso duo ha creato un proprio marchio di fabbrica che ne caratterizza enormemente la proposta e che in assenza di quelle piccole e marcate caratteristiche (un sound talvolta sospeso, il meraviglioso basso, le divagazioni acustiche quanto quelle jazzy) porterebbero la band sullo stesso piano di altre mille. E allora ben vengano le ferali incursioni apocalittiche di "Of Feathers and Doom" o l'oscura tempra di un brano come "B Minor", costruito interamente su una malinconica chitarra acustica che dona ulteriore interesse e curiosità per questo 'Heritage', album complicato ma da gustare tutto d'un fiato. (Francesco Scarci)

domenica 26 luglio 2020

Derhead - Irrational I

#PER CHI AMA: Black/Dark, ...And Oceans
È uscito giusto un paio di giorni fa 'Irrational I', il nuovo EP dei liguri Derhead. Li avevo recensiti nel 2017, in occasione del loro precedente lavoro, 'Via', ora il comeback discografico della one man band capitanata da Giorgio Barroccu, vede il sound del mastermind italico proseguire sulle coordinate di quel lavoro, ossia ritmiche dissonanti sparate alla velocità della luce con i vocalizzi distorti del frontman a poggiarvisi sopra. Fortunatamente, non sono solo colate di selvaggia brutalità a farla da padrona, visto che la lunga opener, "The End for Now", vede l'esplorazione di territori più avanguardistici e giusto un filo più distanti da quel black cascadiano che avevo descritto in precedenza. Diciamo che la proposta dei Derhead si è fatta più complessa, incorporando elementi provenienti anche dal doom (soprattutto in occasione della seconda "Corpses of Desire") e dall'industrial, pur mantenendo la matrice di fondo black, coadiuvata però da buone linee melodiche che attutiscono la furia di quel marasma sonoro che tenderebbe a prevaricare. La già citata "Corpse of Desire" è ancor più interessante proprio per quella sua capacità di fondere ancestrali atmosfere dark/doom nella prima parte del brano con l'irruenza del black metal e anche certi sperimentalismi a livello solistico che aumentano la componente "personalità" di parecchio e che vedono francamente una mia grande e gradita approvazione. Ecco, se la nuova direzione stilistica intrapresa dai Derhead fosse questa, beh ne sarei francamente soddisfatto, perchè ancora con piccoli accorgimenti che non ne snaturino il sound, credo che ne potremo sentire delle belle nel tanto atteso full length d'esordio. (Francesco Scarci)

(Brucia Records - 2020)
Voto: 72

https://derhead.bandcamp.com/album/irrational-i

domenica 12 luglio 2020

Ewigkeit - Conspiritus

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Space Rock, Hawkwind
Un clacson che suona in mezzo ad una strada affollata, un telefono che squilla e una voce di un uomo che parla. Così si apre il quinto capitolo della saga Ewigkeit, one man band capitanata da James Fogarty (alias Mr. Fog) che nel corso degli anni ha saputo evolversi enormemente, passando dagli isterismi black dell’esordio Battles Furies' a questo 'Conspiritus' uscito nel 2005, a distanza di un anno dal già validissimo 'Radio Ixtlan'. Il genere proposto dal combo britannico è di difficile definizione, così come è stato arduo collocare dei nomi di riferimento per darvi un’idea di ciò che offre la band. Le influenze che convogliano in questo nuovo e innovativo lavoro sono infatti molteplici: il suono è una amalgama di malinconici riffs heavy metal con tastiere dal flavour prettamente seventies; suoni cibernetici vengono soppiantati da momenti psichedelici di intensa emozione, tanto che alcuni pezzi (ascoltatevi “Transcend the Senses” per esempio) potrebbero portarvi alla mente bands come Pink Floyd o Queensryche (periodo 'Operation Mindcrime'). È riduttivo parlare degli Ewigkeit di una band heavy metal, tali e tante sono le influenze; le emozioni che sprigiona un album come 'Conspiritus' sono infatti così profonde che si radicano nell’anima di chi li ascolta. Come non menzionare l'influsso esercita da altre splendide realtà che si conciliano in questo fantastico lavoro: Ministry, Prodigy, Massive Attack, Paradise Lost, la gothic wave anni ’80 e molto altro sono solo esempi di ciò che è realmente 'Conspiritus'. Gli Ewigkeit vi prendono per mano e vi accompagnano in un viaggio fantastico attraverso il loro corpo, nelle loro viscere, nelle loro menti, vi mostreranno i loro muscoli e vi faranno toccare la loro anima. È un crescendo di emozioni che vi porteranno ad un ecstasy spirituale, culminante nella acustica conclusiva title track. La musica è curata in ogni suo dettaglio, la produzione è ottima a cura di John Fryer (Depeche Mode, HIM, Paradise Lost), le clean vocals (c’è anche una voce cibernetica stile Fear Factory), rappresentano forse il vero punto debole di Mr. Fog, mancando di quella forza, di quella prepotenza che aveva contraddistinto i passati lavori. Anche la scelta di sistemare “How to Conquer the World”, un pezzo live collocato nel bel mezzo del percorso mistico intrapreso, non è proprio azzeccata. Un peccato perchè, il brano, assai gustoso di per sè e che pare poi partorito da una band anni ’70, l’avrei magari collocato alla fine come bonus track. Un’ultima segnalazione la voglio fare per “Theoreality”, song in cui fa capolino anche la vena folk della band. Vibranti. (Francesco Scarci)

(Earache Records - 2005)
Voto: 82

https://www.facebook.com/ewigkeitofficial

lunedì 6 luglio 2020

Vacantfield - Idle

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, Ved Buense Ende, Fleurety
Nati nel 2001, la band ateniese in 19 anni di carriera è riuscita a produrre uno split album e due EP, di cui l'ultimo arrivato è il qui presente 'Idle'. Il quintetto greco torna in sella dopo un silenzio durato ben cinque anni rilasciando queste quattro nuove song che si palesano con i suoni dronici dell'intro "Echidna". Poi finalmente le sonorità cibernetico rumoristiche lasciano il posto ad un avanguardistico sound che guarda a Ved Buense Ende e Arcturus, attraverso una  gamma sonora che miscela l'elettronica con il metal, prima che la proposta si faccia più cupa e anche quelle voci simili allo stile di Garm, cedano il posto ad urlacci tipicamente black. Ma che la nostra non sia una band convenzionale lo so dal 2011, quando acquistai il loro EP di debutto 'Iteration', ove già allora affioravano le forti influenze dei mostri sacri nordici. Sono passati dieci anni e in seno alla band ellenica, mi pare sia cambiato poco o niente, anzi mi sembrano migliorati, ispirati, pur non portando sostanziali evoluzioni in un ambito in cui si trovano davvero pochissimi esponenti degni di nota. Credo che i Vacantfield abbiano tutte le carte in regola per emergere dalla massa, offrire la loro disarmonica musica fatta di accostamenti tra l'estremo e l'avantgarde, una miscela che francamente non fatico ad apprezzare. In "Frequencies Total Symmetrik", i cinque musicisti sembrano addirittura emulare i Prodigy con un beat techno davvero imprevisto che materializza davanti agli occhi la figura del compianto Keith Flint. Gli ultimi sette minuti sono lasciati invece alle perverse sonorità black di "Fluid Earth Delusions", che mettono ancora una volta in mostra la grande ecletticità di una band che, se davvero vuole fare il salto di qualità, deve mettersi nell'ordine di idee di rilasciare finalmente un full length, viste le ottime premesse. (Francesco Scarci)

sabato 27 giugno 2020

Seims - 3 + 3.1

#PER CHI AMA: Math/Post Rock/Avantgarde
Quello dei Seims è il tipico lavoro di casa Bird's Robe Records, un'etichetta che seguiamo ed apprezziamo da anni qui nel Pozzo dei Dannati. E cosi, un po' come tutte le band della label australiana, anche la compagine di Sydney propone un sound (semi)strumentale, all'insegna di un ibrido sperimentale tra post rock e math. Peraltro, come il titolo suggerisce, '3 + 3.1' include l'album '3' uscito nel 2017 e l'appendice successiva, '3.1' appunto, rilasciata lo scorso anno, qui ora raccolte in un'unica release. Sette pezzi quindi da ascoltare, cominciando dall'opener "Cyan", una song che inizia a fare chiarezza sul concept relativo ai colori e alla scelta ora più sensata dell'artwork di copertina. Una traccia che parte come avvolta in un nero velo che sembra lentamente in grado di dischiudere colori via via più brillanti, muovendosi da un post rock chiuso e riflessivo verso lidi western (splendide le trombe e gli archi a tal proposito) e poi sul finale, follemente più math rock oriented, con un risultato piacevole e originale, che non manca di robustezza e divagazioni electro jazz avanguardiste. Il secondo colore è "Magenta", e sfavillante quanto la sua tonalità, anche il brano sembra lanciarsi in sonorità dirompenti, che tuttavia non raggiungono la medesima qualità emozionale dell'opener, ma palesano piuttosto una difficoltà nella costruzione di un'architettura sonora altrettanto convincente. "Yellow", il giallo, è la terza tappa nel mondo dei colori dei Seims, e anche qui la proposta del quartetto capitanato da Simeon Bartholomew (supportato da una marea di ospiti) sembra trovare qualche difficoltà in termini di fluidità sonora, sebbene i nostri vaghino in stralunati ed asfissianti mondi noise, math, prog, psichedelicamente ondivaghi come il suono delle chitarre qui contenute. Il pezzo dura oltre 12 minuti e vi garantisco che non è cosi semplice da affrontare senza rischiare la follia mentale (soprattutto nella seconda parte), complice anche l'utilizzo di vocalizzi che sembrano provenire da un gruppo di amici completamente ubriachi ed un finale affidato ad un ambient etereo che stravolge completamente quanto ascoltato fino ad ora. L'unione dei primi tre colori genera il nero imperfetto che dà il nome alla quarta "Imperfect Black", ove ad evidenziarsi è la voce femminile di Louise Nutting su di una linea melodica completamente dissonante che ci conduce ad "Absolute Black", primo pezzo di '3.1' che mostra nuovamente quella verve splendente che avevo apprezzato nella traccia d'apertura e che anche qui risuona in un'ingovernabile struttura matematica davvero imprevedibile soprattutto quando imbeccata da viola, violoncello, tromba e trombone che rendono il tutto decisamente più godibile. Fiati ed archi non mancano nemmeno in "Translucence" (che dovrebbe essere la trasparenza), un pezzo che fatica un pochino a decollare ma che nella sua seconda metà mette in mostra comunque qualche ulteriore buona cosa dell'act australiano. A chiudere il disco ci pensa la roboante e melodica "Clarity", il brano probabilmente più immediato del cd e più semplice se si vuole avvicinarsi alla band. La melodia è davvero coinvolgente e funge da colonna sonora al video estratto dal disco, una sorta di mini documentario sull'esperienza della band in tour in Giappone che ci racconta qualcosina in più di questi meritevoli Seims. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2020)
Voto: 74

https://store.seims.net/album/3-31

martedì 23 giugno 2020

Visceral Evisceration - Incessant Desire for Palatable Flesh

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Doom
Nonostante il nome Visceral Evisceration accenni a riferimenti grind-splatter gore, questa band austriaca, con il loro unico album, 'Incessant Desire for Palatable Flesh', ci regalarono nel 1994 (remixato e rimasterizzato poi nei primi anni '90) un intrigante connubio grind-death-doom, dalle tinte grigio scure. Testi anatomo-patologici, accompagnano eccellenti e sofisticate linee melodiche di chitarra; le voci si alternano tra il growl e il pulito, e fa la sua prima comparsa in un genere cosi estremo, la voce operistica di un uomo e di un soprano donna. Musica bizzarra, intensa e mai banale che vi saprà sorprendere con le sue continue geniali trovate. La band ahimè si sciolse dopo quest’unico album per riformarsi nel 1995 sotto il nome di As I Lay Dying da non confondere però con gli omonimi metallers statunitensi. Il neo formato combo austriaco rilasciò un promo e poi sparì del tutto dalla faccia della terra. Un vero peccato, perchè suoni del genere in futuro, non se ne sono più risentiti. (Francesco Scarci)

(Napalm Records - 1994)
Voto: 90

https://www.facebook.com/visceralevisceration/

domenica 5 aprile 2020

Chromb! - Le Livre des Merveilles

#PER CHI AMA: Jazz/Avantgarde Sperimentale/Prog
I Chromb! non hanno bisogno di presentazioni nè di spiegazioni per poter definire la loro musica, che altro non è che libertà espressiva a pieno titolo. Il quarto album della loro carriera, 'Le Livre des Merveilles', è un parto ostico ma alquanto geniale, un salto in una musica cerebrale tout court, senza limiti di sperimentazione o creatività. Una linea creativa che unisce la voglia di ambienti sonori molto vicini alle colonne sonore per film, con il jazz d'avanguardia, le escursioni uniche dei belgi Univers Zero e il canto a più voci progressivo dei Gentle Giant, una ventata di neo prog sempre in evoluzione, proiettato magicamente verso un sound moderno e dinamico. Sicuramente un'interpretazione originale del concetto più ampio di opera, dalla musica neo classica allo sperimentale senza tempo di casa Art Zoyd. Nulla passa inosservato e intentato in casa Chromb!, un impegnativo viaggio di scoperta per pochi esclusivi viaggiatori verso l'ignoto musicale, verso gli scritti di un libro del medioevo che raccoglie soggetti ed azioni da tutta l'Europa medioevale. Così come tra volti di santi, battaglie di scarabei, erbe magiche, pietre lunari, acque che non bollono, fantasmi a cavallo, foreste incantate, monti infuocati, donne barbute, sirene, streghe, chimere, morti viventi, licantropi e quanto altro vide nella sua vita il chierico e cavaliere Gervasio di Tilbury, il suono dell'ensemble francese evolve in un contesto maturo, intimo e serioso, lontano da frenesie e piroette stilistiche (ma non senza follie musicali), un aspetto colto, oserei dire accademico. Un collage di quattro brani, tra cui, due lunghe suite centrali e una miriade di suoni ad effetto scenico e cinematografico, riescono ad evocare tutte le visioni di quest'opera letteraria. Sicuramente uno sforzo da elogiare, un gesto compositivo coraggioso perfettamente riuscito, che solo una band nella piena coscienza della propria forza espressiva, poteva immergersi in questo intento. Un album che sarà certamente di nicchia e che per molti ascoltatori non consoni, si mostrerà come un tabù, lontano anni luce dalle mondanità del pop o del rock. In un universo tutto suo e sempre più vicino alla galassia della musica d'avanguardia più intellettuale, quest'opera eleva la band di Lione ad un grado assai alto nella scala musicale dei musicisti più rispettabili in ambito internazionale. (Bob Stoner)

mercoledì 18 marzo 2020

Pulcinella - Ça

#PER CHI AMA: Avantgarde/Jazz/Prog Rock
Cosa potrei mai dire per parlar male di una band che compone e suona in maniera egregia, che salta schemi a piè pari, che usa le basi del tango per distruggerne la tradizione con composizioni contorte e frizzanti e che in alcun modo può essere catalogata. Potrei dire solo, che il nome non si addice a questa band francese, poiché la quantità di colori espressi in musica potrebbe ricordare meglio un Arlecchino ed il suo abito, non certo il vestito bianco e pallido di Pulcinella. Comunque, qualcosa c'è in comune con la maschera partenopea, una certa verve mediterranea che contraddistingue il sound del quartetto transalpino, un calore avvolgente ed una vivacità coinvolgente. Provate ad immaginare il jazz, il moderno jazz impartito dal trio geniale di Medeski, Martin e Wood, calato in un bosco di suoni magici, esotici, tra cui il tango. Pensate poi agli accenti psicotici di Edgar Varese, al dark jazz stile Dale Cooper Quartet & the Dictaphones e ancora, a movimenti progressivi, atmosfere da colonna sonora di vecchi film romantici, o all'ombra immancabile del Zorn più compulsivo, per finire in digressioni etniche ed esperimenti rock vagamente psichedelici, in ricordo dei seminali Material. Tutto questo per avere una vaga idea del suono dei Pulcinella. Un cofanetto di musiche ricche d'atmosfere e situazioni imprevedibili, schegge impazzite, lampi di luce e meteore sonore che piovono per tutte le dieci tracce, di media, lunga o corta durata, poco importa, poichè il divertimento è assicurato visto che, la qualità d'esecuzione e la produzione sono altissime. 'Ça' è alla fine un album godibile, un disco candidato a divenire un ascolto obbligatorio, il classico must per tutti gli amanti del jazz contaminato, a volte composto, altre volte impazzito. Come resistere ad un brano destabilizzante qual è "Ta Mère Te Regarde"? Perchè non abbandonarsi alla cadenza notturna della desolata melodia di "Ici Hélas" con quelle sue pause mozzafiato? O perdersi nelle note folli di "Salut Ça Va", dove ritmi acid jazz vengono trafitti da carrellate di suoni elettronici rivisti, dalla Bubblegum music o rubati alla new wave dei D.A.F. del 1981? Inutile fuggire da questo gioiellino, inutile scappare dal talento di questa compagine di Tolosa, che dal 2006 ad oggi, ha già realizzato sei album, uno più bello ed interessante dell'altro. 'Ça' è un'imperdibile release, siete avvisati. (Bob Stoner)

(Budapest Music Center Records - 2019)
Voto: 80

https://pulcinellamusic.bandcamp.com/album/a

martedì 17 marzo 2020

Salmagündi - Rose Marries Braen (A Soup Opera)

#PER CHI AMA: Avantgarde/Krautrock/Noise Jazz
Ottima seconda uscita per questa band proveniente dalla provincia di Teramo che ci inebria con un album dal contenuto eclettico e variegato, classificabile solo con la dicitura avantgarde. Provate ad immaginare suoni new wave, sintetici e astratti a la The Residents mescolati all'ultra psichedelia rock dei 500 Ft. of Pipe, un sarcasmo zappiano, un post punk trasversale con una voce salmodiante a metà tra Jim Morrison ed il canto gotico dei Bauhaus, dei synth cosmici, krautrock e follie soniche alla Mike Patton e i suoi Mr. Bungle, per avere lontanamente idea del miscuglio ben generato e ragionato e con effetto molotov di questi Salmagündi, band raccomandata per appassionati di musica cerebrale, schizoide, senza confini nè limiti. I riferimenti sonori sono molteplici e ci si diverte parecchio durante l'ascolto di 'Rose Marries Braen (A Soup Opera)' nel cercare le connessioni con le varie influenze. Detto questo, bisogna ammettere che la band abruzzese, nelle sue evoluzioni strutturali progressive, ha un potenziale di originalità assai elevato e, a discapito di altre band sperimentali, i Salmagündi (il cui significato la dice lunga sulle intenzioni della band - trattasi infatti di una ricetta gastronomica franco-inglese, il salmigondis, che prevede un miscuglio o un mix di ingredienti eterogenei), nonostante la complessità dei brani, si lasciano ascoltare con facilità ed un certo interesse in quanto sono atipici e fantasiosi (l'organico è composto da un synth, due bassi, batteria) e con composizioni storte e intelligenti, mai improntate sul mero virtuosismo, semmai atte a sguinzagliare l'estro creativo dei musicisti, che ripeto, sono assolutamente senza barriere e confini strumentali. Il quartetto si sposta infatti in continuazione tra le note di un brano e l'altro, facendo apparire l'album come un viaggio multicolore, stralunato e folle, per raccontare la storia del pazzo mondo di Braen (un personaggio da Carosello, quel vecchio programma televisivo in onda tra il '57 ed il '77), arrivando a toccare vette di noise-jazz istrionico, come in "Cheese Fake" o "Cockayne". In altre composizioni invece, i nostri assumono tempi lenti e funebri, con il jazz di matrice zappiana, il rock in opposition e quella gradevole goliardica verve teatrale che ritroviamo anche nel disco capolavoro, 'Primus & the Chocolate Factory With the Fungi Ensemble" e che consentono ai nostri di scardinare definitivamente la supposizione che quest'ottimo gruppo rientri nella normalità. Un ascolto obbligato, per veri intenditori! (Bob Stoner)

giovedì 28 novembre 2019

Decem Maleficivm - La Fin De Satán

#PER CHI AMA: Death Avantgarde, Arcturus, Insomnium
Album di debutto per i cileni Decem Maleficivm, per cui la Les Acteurs de l'Ombre Productions ha voluto fare uno strappo alla regola alla propria policy legata alla promozione di sole band francesi (un'eccezione che avevamo già ravvisato con i baschi Numen e che d'ora in poi smetterò di sottolineare). Evidentemente la band di Santiago deve avere le carte in regola per aver solleticato l'interesse della label transalpina. Il genere proposto è essenzialmente in linea con i dettami dell'etichetta, ossia un black melodico, peraltro con alcune venature avanguardistiche che scomodano grandi nomi della scena norvegese, in primis Arcturus e Borknagar. L'opener di questo 'La Fin De Satán' infatti, nel suo veemente black fatto di ritmiche (un pochino obsolete) e grim vocals, sfodera una seconda voce che richiama proprio i vocalizzi in pulito delle band appena nominate, e per fortuna aggiungerei io. La musica del sestetto sud americano infatti non è che mi esalti granchè; nei primi cinque minuti di "The Ceremony", la proposta mi è sembrata alquanto scontata, ma le voci pulite di Daniel Araya tengono in un qualche modo a galla la band, almeno fino a quando non si sviluppa una splendida coda solistica che innalza sopra la media la performance dell'act cileno. E le cose tendono a migliorare con "Instinct" anche se francamente, devo ammettere di non aver amato particolarmente il suono stile barile (pensate ai Metallica del periodo 'St. Anger') del drumming e quel coacervo di suoni che si sviluppa nelle parti più serrate dei brani. Di contro, quando la sezione solista prende la scena, beh mi dimentico di tutte le imperfezioni sin qui descritte e mi lascio sedurre dalle splendide melodie delle sei corde. Gli accostamenti che mi sovvengono in questi frangenti, decisamente più prog death oriented, pongono i Decem Maleficivm al fianco di realtà quali Insomnium o Throes of Dawn. Certo poi bisogna anche sapersi preparare al peggio, al caos sonoro ad esempio della title track e ad un sound in alcuni passaggi un po' impreciso, legato mi pare, più al desiderio di voler strafare che ad altro. Poi signori, quando i due chitarristi decidono che è ora di regalare i loro famigerati solismi, beh non ce n'è per nessuno, si cali il sipario e chapeau per l'ottimo gusto melodico. Tuttavia, non posso far finta di niente e lasciare che le chitarre siano una sorta di tangente per farmi dire che 'La Fin De Satán' sia un album eccezionale, giammai. Vorrei dire piuttosto che c'è molto da lavorare per dare più personalità a brani come "After the Chaos" o alle vampiresche "The Birth of the Cursed Book" e "Denial Tragedy", che se non godessero di un eccellente lavoro nella porzione chitarristica, probabilmente finirebbero nel dimenticatoio alla velocità della luce, bollate per il loro tentativo di imitazione di band quali Dissection o Emperor. Un plauso finale alla più sperimentale "Before the Chaos", l'ultimo atto di un disco che ci dà molte indicazioni su dove questi Decem Maleficivm vogliano andare a parare. Questo è un momento cruciale per la carriera della band per capire se voler rimanere ad uno stato di profondo underground o fare pulizia nei suoni ed emergere dalle viscere degli inferi. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 68

https://ladlo.bandcamp.com/album/la-fin-de-satan

giovedì 3 ottobre 2019

Deviate Damaen - In Sanctitate, Benignitatis Non Miseretur!

#PER CHI AMA: Avantgarde/Experimental
Con la consueta trasversale genialità, la storica band capitolina rivendica il trono del tempio italico dell'avanguardia metal con un'opera maestosa e inimitabile, poiché da sempre, i Deviate Damaen possono vantarsi di avere uno stile unico, personalissimo, intelligente ed estremo. La novità in questo nuovo 'In Sanctitate, Benignitatis Non Miseretur!' (in uscita ad ottobre via Masked Dead Records/Vomit Arcanus Productions/Dvra Crvx), a differenza dell'ottimo predecessore, 'Retro-Marsch Kiss', è la presenza di brani molto più lunghi ed ispirati alla miglior scena doom/black internazionale, quel palcoscenico dove il metal ed il gothic si fondono in un suono ancestrale, diabolico ed eterno che, se messo nelle mani di G/Ab con la collaborazione di D.EVIL 99, assume una forma teatrale spettacolare, profetica e profanatrice, a cui è impossibile resistere. Tutti i suoni e i rumori di sottofondo dell'album sono catturati in ogni dove ed in ogni posto manualmente; la poesia dei testi ed il recitato, il parlato ed il cantato, growl, scream o lirico che sia, in lingua italiana (o addirittura tedesca, come in "Sacre Gesta") cavalcano l'onda metallica. L'ispirazione, tratta dalle visite alla cattedrale di Ratisbona, negli eremi di san Venanzio e di Preci, i canti ecclesiastici, il sarcasmo, i temi oscuri trattati, i rimandi all'odierno panorama politico nazionale, la difesa ad oltranza e l'accusa di decadenza senza fine dell'occidente, la visione gnostica del Lucifero figlio della luce e della saggezza, vero portatore di redenzione, Carlo Magno, la lussuria, l'amore per l'estetica guerriera, la rivendicazione di una Romanitas dimenticata, gli attacchi al clero e la ricerca di un diretto e più reale rapporto tra Dio e l'Uomo, rendono quest'album una meraviglia assoluta, che probabilmente supera in qualità e bellezza gli altri lavori fin qui presentati dalla band nostrana. Musicalmente, come già accennato sopra, ci si aggira intorno ad un doom/black metal, suonato a dovere, con una produzione ricercata e minuziosa, di stampo teatrale, sinfonico ed apocalittico. Brano dopo brano, ci si immerge in un articolato film noir, psicologico ed ostile, dove amare verità ci vengono sbattute in faccia senza alcuna remora. Le composizioni si confermano anche in questo capitolo assai variegate, pur restando sempre all'interno del genere, assestandosi su minutaggi di media o lunga durata. Una traccia in particolare si eleva poi per eleganza e paradisiaca bellezza, ed è l'insuperabile brano intitolato "Aspetterò L'Altrove", un'inaspettata composizione romantica e spettrale, dalle tinte fosche e gotiche con fughe sonore verso il suicide metal ed il death rock dei mitici Christian Death di 'Lacrima Christi' (nella versione cantata in italiano), una vera perla! 'In Sanctitate, Benignitatis Non Miseretur!' alla fine è un album impossibile da spiegare, difficile da apprendere, politicamente scorretto e diabolico (come non amare poi la sinfonica "Fratelli D'Occidente, Salviamo Noi Stessi dall'Estinzione!"). Per molti sarà facile e immediato odiarlo, ma se volete addentrarvi nelle viscere di questo introverso capolavoro, bisognerà che vi liberiate da ogni preconcetto sonoro, religioso e politico che sia, guardandolo dritto negli occhi, insultando la normalità ed il moderato, frugando tra i solchi, studiandolo nei particolari, a quel punto non riuscirete più a staccarvelo di dosso. Un disco unico nel suo genere, un lavoro originalissimo d'arte espressiva oscura e sotterranea, per una band che ha carisma e idee estreme da vendere, e che di diritto deve essere annoverata nell'Olimpo del metal d'avanguardia internazionale. Ascolto (e acquisto) obbligato! (Bob Stoner)

(Masked Dead Records/Vomit Arcanus Productions/Dvra Crvx - 2019)
Voto: 90

https://maskedeadrecords.bandcamp.com/album/in-sanctitate-benignitatis-non-miseretur

sabato 28 settembre 2019

The Project Hate MCMXCIX - Armageddon March Eternal (Symphonies of Slit Wrists)

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Cyber Death, ...And Oceans
I Project Hate MCMXCIX sono un gruppo davvero strano per il sottoscritto: premesso che possiedo tutti i loro lavori, e quello recensito oggi rappresenta il loro quarto cd (se escludiamo il live 'Killing Helsinki'), non ho ancora ben capito se mi piacciano oppure no, mi spiego meglio. Trovo che la band abbia in taluni frangenti idee meravigliose e che riesca anche brillantemente a metterle in atto, in altre parti scadono ahimé, in trame già sentite migliaia di volte rendendoli pertanto del tutto anonimi. Il genere proposto sicuramente non è tra i più semplici da interpretare, perchè capace di spaziare da un death feroce a momenti di insospettata atmosfera, con la voce dell’angelica Jo Enckell a rendere il tutto più soave e indecifrabile. La band per chi non lo sapesse, abbraccia tra le sue fila, Jörgen Sandström, già conosciuto per le mortifere vocals sui primi tre album dei Grave e poi bassista di Entombed e anche membro dei Vicious Art; vi è poi il polistrumentista Lord K. Philipson e Petter S. Freed alla seconda chitarra, oltre alla già citata Jo alla voce femminile. Come già accaduto in passato, accanto al crudo cover-artwork o a titoli non proprio ortodossi (quasi da brutal-gore band), si celano invece gradite sorprese nei solchi partoriti da questo stralunato gruppo. Cercherò di chiarire meglio che razza di sound ci propongono i Project Hate: fondamentalmente su riffs e basi tipicamente death metal, si gioca il duello tra la voce eterea di Jo e i latrati di Jörgen, su cui si vanno poi ad inserire una serie di influenze provenienti da un po’ tutti gli ambiti metal. Suoni spaziali cibernetici, sulla scia dei Fear Factory, e breaks elettronici che si amalgamano alla perfezione con atmosfere doom disarmonico/avantguardistiche (simili ai The Provenance), ma non è tutto, in quanto frammenti di black sinfonico alla Dimmu Borgir o echi alla Arcturus, sono captabili in questo eterogeneo e originale lavoro, un vero caleidoscopio di forme, suoni e colori. Vi aggiungo un’altra cosa: la produzione, pulita e potente, è ad opera di Dan Swano nei suoi Square One Studios; il che garantisce una eccezionale resa sonora per i 65 minuti di suoni avvolgenti e bizzarri, la perfetta colonna sonora dell’Armageddon. Ora tutto mi è più chiaro: i The Project Hate MCMXCIX mi piacciono, eccome... (Francesco Scarci)

(Threeman Recordings - 2006)
Voto: 84

https://www.facebook.com/theprojecthate/

lunedì 23 settembre 2019

Kora Winter - Bitter

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Math, Between the Buried and Me
Un paio d'anni fa, proprio in questo periodo, mi apprestavo a recensire 'Welk', secondo EP dei berlinesi Kora Winter. La band teutonica torna oggi con un lavoro nuovo di zecca, 'Bitter', il vero debutto su lunga distanza per i nostri cinque musicisti. Forti dell'esperienza maturata in tour con gente del calibro di Rolo Tomassi o The Hirsch Effeckt, la band ci offre otto isterici pezzi che proseguono con la proposta già ascoltata in passato, ossia all'insegna di un imprevedibile math/post-hardcore/screamo. "Stiche II" mette in mostra immediatamente tutto l'armamentario in mano ai nostri, con una dolce melodia su cui s'incagliano i vocalizzi psicotici (in lingua tedesca) del frontman; a dire il vero, il brano sembra più una intro che un pezzo vero e proprio, visto che è con "Deine Freunde (Kommen Alle in Die Hölle)" che emerge più forte la struttura canzone e con essa tutto il delirante approccio post-hardcore nelle partiture più ritmate e melodiche, che fanno da contraltare alla più ruvida e acida componente estrema della band, che sembra coniugare in poche ma efficaci accelerazioni post black, anche metalcore e mathcore, in un impasto sonoro davvero pericoloso quanto furente (ed efficace). I brani si susseguono in un altalenante mix di generi: con "Eifer" si parte in quinta, ma poi un chorus ed una linea di chitarra alquanto dissonante, ci conducono in territori stravaganti, quando, fermi tutti, la proposta dei Kora Winter, si sporca di influenze alternative, con tanto di voci pulite in una sorta di emo un po' ostico da digerire, almeno per il sottoscritto, che da li a pochi secondi, avranno comunque il tempo di abbracciare altri suoni che dire cattivi è dir poco. Ma niente paura, si cambia ancora registro con la spettrale title-track, che al suo interno sfodera sverniciate di violenza estrema, rallentamenti furiosi, aperture al limite dell'avanguardismo e di nuovo montagne di riff e rullanti infuocati, in un'altalena musicale ed emozionale spaventosa (che vede addirittura l'utilizzo di vocals evocative in stile Cradle of Filth). C'è di tutto qui dentro e se non si è abbastanza flessibili di testa, il rischio di switchare al nuovo album dei Tool, potrebbe rivelarsi assai elevato. Ancora suoni stravaganti con l'incipit di "Coriolis", in cui batteria e chitarra (e poi anche voci, in tutte le forme possibili) s'inseguono come in un gioco di guardia e ladri, in oltre otto minuti di frastagliatissime e funamboliche ritmiche che portano i nostri ad ammiccare un po' a destra e un po' a manca, e relegando alla seconda parte del brano, eleganti momenti post metal sulla scia dei connazionali e concittadini The Ocean. Prova convincente non c'è che dire, confermata anche dalla folle proposta di "Wasserbett", un pezzo che col metal, fatta eccezione per le pesanti chitarre, sembra aver poco a che fare. Scendono colate di malinconia, almeno a tratti, per la corrosiva "Das Was Dich Nicht Frisst", tra le song più tecniche dell'album, per questo ancor più complicata e sperimentale, soprattutto nella sua parte vocale. A chiudere quest'intrepida opera prima dei Kora Winter, ecco arrivare "Hagel", un'altra piccola perla che, se non avesse avuto il cantato in tedesco (per me il vero limite della band ad oggi), sarebbe stata ancor più convincente, visti i richiami anche ai Cynic e pure uno spettacolare assolo conclusivo. Per il momento accontentiamoci dell'incredibile portento sonoro offerto dai nostri, in attesa di altri sconvolgimenti futuri. (Francesco Scarci)

(Auf Ewig Winter - 2019)
Voto: 76

https://korawinter.bandcamp.com/album/bitter