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venerdì 1 maggio 2020

Wows - Ver Sacrum

#PER CHI AMA: Post Metal/Black, Altar of Plagues, Amenra
La Primavera Sacra (Ver Sacrum in latino) era una pratica rituale di origine antica, che consisteva nell'offrire negli anni di carestia, come una sorta di sacrificio, tutti i primogeniti nati dal 1º marzo al 1º giugno; l'immolazione non era però reale, in quanto i bambini crescevano come sacrati, per emigrare in età adulta a fondare nuove comunità altrove. Ora, questa Primavera Sacra è stata traslata per identificare il periodo di uscita di questo nuovo capitolo degli italici Wows, affidando una sorta di sacralità all'evento (questa la mia libera interpretazione), dato che abbiamo atteso quasi cinque anni per ascoltare la terza fatica dei nostri. E non ne vedevo l'ora. Cinque pezzi quindi per tastare il polso ai sei musicisti veronesi, anche se "Elysium" è una malinconica intro pianistica sul cui sfondo si aggira una spettrale e appena percettibile voce femminile. "Mythras" divampa poi spaventosamente nelle mie casse, con una ritmica al vetriolo, schiaffi sui piatti, una voce che arriva direttamente dall'oltretomba e una minacciosa crescita musicale che mi rievoca immediatamente uno dei brani che più ho amato degli Altar of Plagues, "God Alone". Date un ascolto attento alla song e godete con me nel sentire come gli insegnamenti dell'ensemble irlandese siano stati presi in dote dalla band e riadattati, resi forse anche più claustrofobici nell'evoluzione angosciante di una traccia che rischia di divenire alfiere di una nuova ondata post-black. Si perchè, parliamoci chiaro, l'evoluzione dei nostri iniziata già ai tempi di 'Aion' non si è affatto conclusa ma prosegue nel suo dilaniante disagio interiore, esteriorizzato dai suoni malefici e angusti di questo 'Ver Sacrum' che pone la band di fronte ad un nuovo bivio futuro, di cui vorrei conoscerne già la risposta. Tornando alla track, questa si muove in bilico tra un sound melmoso e un più furente e apocalittico post-black, figlio di questo maledettissimo periodo che stiamo vivendo. È gioia estatica la mia nel farmi inglobare dall'insana musicalità della compagine nostrana e quale orgoglio nel sentire che simili suoni escano da una band italiana piuttosto che dalle solite realtà americane o svedesi. Che abilità poi nel passare tra lo sludge, il black, l'hardcore e poi concludere con un funeral dalle tinte morbosamente ossessive. "Vacuum", la terza traccia, è tutt'altra cosa con un incipit shoegaze, fatto di impalpabili e decadenti melodie di chitarra e nostalgiche clean vocals che riversano il proprio straziante malessere su quei minimalistici tocchi di chitarra. Poesia allo stato puro, che non preannuncia nulla di buono, visto che sul finire del pezzo, la realtà sembra distorcersi e sembra volerci annunciare di prepararci ad affrontare una distorta forma di realtà. E cosi sia. "Lux Æterna" parte da lontano, con quanto rimane dal precedente album, ossia un minimalistico pizzicare di corde di chitarra e la voce del buon Paolo Bertaiola a declamare pochi versi (ci sento un po' di scuola Amenra in questo frangente). Un ipnotico riff di chitarra inizia a salire nel frattempo, affiancando il più muscoloso riffing portante, mentre una terza chitarra sembra addirittura lanciarsi in un tremolo picking dal forte effetto disturbante. Un forte senso di angoscia sale man mano che le chitarre nel loro marziale incedere, vedono la voce del frontman urlare straziata. La song rimane però bloccata nelle sabbie mobili di un tortuoso e ossessionante giro di chitarra, francamente avrei osato di più in questo frangente, considerata la sua rilevante durata di oltre 13 minuti, un peccato perchè la song sembra castrata e depotenziata nei dettami di un genere che necessita di nuove intuizioni. E arriviamo, senza nemmeno rendercene conto, alla conclusiva "Resurrecturis", non sembra, ma trentadue minuti di sonorità oscure sono già scivolati e quanto ci rimane, sono gli undici rimanenti dell'ultima traccia. L'inizio è un ambient dronico che funge da apripista ad un sound che persiste nel parcheggiarsi dalle parti di un post-sludge lisergico ove riappaiono i fantasmi dei Neurosis ma pure dei Tool. La voce di Paolo si conferma su tonalità pulite ed acute, ma sempre dotate di un profondo senso di sofferenza, mentre il saliscendi ritmico alla fine è da mal di testa e per questo varrebbe la pena sottolineare la performance dietro alle pelli di un magistrale Fabio Orlandi soprattutto nel roboante finale affidato ad un feroce climax ascendente. Per concludere, non posso che enfatizzare ottima la performance in toto della band italica, sebbene in tutta franchezza, avrei garantito più minutaggio alla componente post-black dell'iniziale "Mythras", vero gioello del disco. Aggiungerei poi i complimenti al duo Enrico Baraldi e Luca Tacconi dietro al mixer presso gli Studi Sotto il Mare dove la band ha registrato e ultima menzione per il lavoro sempre di prim'ordine, di Paolo Girardi per l'ennesima spettacolare cover artwork del disco. Che altro volete di più, devo forse intimarvi di far vostra questa spaventosa creatura che risponde al nome di 'Ver Sacrum'? Ora vi prego, non fateci attendere un altro lustro per avere nuove notizie della band, si sa dopo tutto che la fame vien mangiando e io ho già appetito per un'altra release targata Wows. (Francesco Scarci)

(Dio Drone/Coypu Records/Hellbones Records/Shove Records - 2020)
Voto: 81

https://thewows.bandcamp.com/album/ver-sacrum

Fotocrime – South of Heaven

#PER CHI AMA: Dark Rock, Fields of the Nephilim, Christian Death
Parlare di un genere come il dark rock oggi è più difficile di quanto si possa immaginare. Esistono innumerevoli correnti di musica oscura che, contaminate dal metal, dall'elettronica o da generi più estremi, hanno dato forma a mille entità diverse che per certi aspetti hanno affossato il vero culto del dark rock, del death rock o del gothic rock, quello che, dagli inizi degli anni '80, si sviluppò per un decennio circa, divenendo di nicchia, creando capolavori notevoli, per poi far perdere le sue tracce e trasformarsi in gothic metal, dark metal e simili, dal suono più duro e potente. Ecco, in questo contesto, la one-man-band del vocalist nord americano R., i Fotocrime, aiutato da musicisti esterni quali Janet Morgan (Canali), Nick Thieneman (Young Widows), Erik Denno (Kerosene 454) e Rob Moran (Unbroken), riporta in vita un sound romantico e tenebroso, che rese gloriose band come Red Lorry Yellow Lorry e Sisters of Mercy. Un'ombra poetica sempre ben ancorata sul fondo delle canzoni, una chitarra distorta ben nota, che profuma di "Romeo's Distress" (gioiellio dei Christian Death) e delle indimenticabili melodie del mitico periodo targato Batcave (il music club gotico di Londra), con un tocco sofisticato e più morbido, spesso incline al versante elettro/synth pop, che si abbandona ad una forma sintetica decadente e sognante tanto vicina a certi lavori dei Clan of Xymox. L'elettronica minimale, il tocco gotico, l'estro rock e la vampiresca performance vocale, rievocano l'attitudine delle sperimentazioni viscerali apparse nel remix fatto dai Numb e dai Zero Gravity di "Panic in Detroit" dei Christian Death. Il disco è piacevolissimo, scorre liscio brano dopo brano, anche grazie alla mano sapiente del responsabile di regia, Mr. Steve Albini. Ascoltando il lavoro fatto sui ritmi e sui suoni sintetici che si accavallano tra le oscure trame di chitarra, mi tornano alla mente quelle ritmiche di plastica del capolavoro degli Eurythmics, "Sweet Dreams", immaginandolo con fantasia e visione notturna, in un'ottica più cupa, rimodernata, adattata a tecnologie e qualità di produzioni attuali. Certamente un buon mix di sonorità retrò, dedite a rinfrescare la memoria di molte persone che hanno dimenticato come nacquero, qualche decennio fa, capolavori poetici e maledetti, senza dover per forza calcare la mano sul lato violento e metal del rock. "Blue Smoke" si eleva in paradiso seguita da "Foto on Wire" e "Love is a Devil", mostrando un'ottima capacità nella creazione di canzoni memorabili. Alla fine 'South of Heaven' è un album dal suono nostalgico, dal carattere introspettivo e poetico, assai affascinante ed ispirato. Lunga vita al dark rock! (Bob Stoner)

(Profound Lore Records - 2020)
Voto: 75

https://fotocrime.bandcamp.com/album/south-of-heaven

mercoledì 29 aprile 2020

Mahavatar - Go With the No!

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Groove Metal
Un’energia che non ha bisogno di nulla se non di se stessa per sopravvivere… Immortalità fisica e spirituale… Questi sono i Mahavatar, band proveniente da New York, creatura messa sotto contratto dall'italica Cruz del Sur Music. La prima particolarità che balza all’occhio di questa band è che, ai tempi della presente uscita, la line-up comprendeva due signore, la chitarrista Karla Williams d’origine giamaicana (si avete letto bene, la patria di Bob Marley) e l’altra, la cantante Lizza Hayson, israeliana, supportate ottimamente da tre session. Le due girls, animate dal desiderio di libertà e d’esplorazione della mente attraverso la musica, hanno cosi partorito quest'album dallo strano titolo e da una anche più difficile assimilazione. 'Go With the No!' è in grado però di coniugare, in una commistione di stili ed emozioni, i più svariati generi musicali, riuscendo nell’intento di catturare l’attenzione anche di chi non ama il metal. Gothic, punk, hardcore, dark, jazz, doom e stoner metal si fondono in questa release, debut assoluto della compagine statunitense, attraverso lo scorrere di un sound oscuro, melodico e tribale, sorretto dalle pesanti e malinconiche chitarre di Karla e accompagnato dall’ipnotica voce di Lizza (che presenta una voce accostabile alla nostra Cadaveria,). I Mahavatar sono bravi a spingerci sul bordo del precipizio con le loro musiche psichedeliche e poi a trascinarci giù nei meandri dell’inferno per poi riuscirne con le sue selvagge e melodiche suggestioni in un caleidoscopico giro di emozioni. Bellissima l’ultima e introspettiva “The Time Has Come” con il suo liseergico incedere, quasi a voler scandire i secondi che ci restano da vivere. Lasciate aperta la porta del vostro cuore e date modo ai Mahavatar di toccarvi l’anima. (Francesco Scarci)

(Cruz del Sur Music - 2005)
Voto: 72

https://www.facebook.com/mahavatarHQ

The Bereaved - Darkened Silhouette

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash, Carnal Forge
Vediamo se siete bravi: i The Bereaved provengono dalla Svezia, cosa potranno dunque suonare? È la vostra risposta definitiva? Beh siete dei geni, avete indovinato, logicamente melodic thrash/death. A volte mi domando quante siano le band realmente le band lassù in Scandinavia. Evidentemente però il quitentto di Orebro non deve essere una cima per aver firmato un contratto per la label greca Black Lotus, ma andiamo con ordine. Intanto 'Darkened Silhouette' è stato il loro debut album, registrato presso i famosi “Studio Underground” (Carnal Forge, Construcdead) ma dotato di un artwork orribile. Le influenze come al solito annoverano In Flames, Dark Tranquillity, Soilwork, gli stessi Carnal Forge e via dicendo, direi non se ne può più oggi, come non se ne poteva nel 2004, al tempo di quest'uscita. Tuttavia, nonostante un inizio non certo esaltante, con i primi due brani forieri di un sound a dire il vero piattino, andando avanti il disco sembra mostrare qualche spunto vincente. Devo sottolineare per una volta la non eccelsa perizia tecnica del gruppo, nonostante la provenienza sia indice di qualità, notabile in alcuni stacchi, nei cambi di tempo abbastanza imprecisi e caotici e negli assoli, seppur piacevoli. Le canzoni, che come al solito si assomigliano tutte, vanno via sparate ai 200 km/h, merito di una batteria martellante, che impatta sui nostri musi come jab belli tosti. È a metà album che però si scorge un netto miglioramento in corrispondenza con la comparsa di una melodia di sottofondo fornita da una flebile tastiera in grado di conferire un’aura misteriosa e maligna, quasi vampiresca (i Cradle of Filth non c’entrano niente in questo caso) a testimonianza del fatto che questi cinque ragazzoni siano (stati) giovani e ingenui, ma anche talentuosi e pronti già dal successivo album a tentare il salto di qualità. Voglio citare un paio di pezzi che ho particolarmente apprezzato: “Devil’s Dead” in pieno In Flames style e “Angel Ablaze” vicino al black/death sinfonico dei Dragonlord di Eric Peterson. Sufficienza comunque piena. (Francesco Scarci)

(Black Lotus Records - 2004)
Voto: 63

https://www.facebook.com/The-Bereaved-99153001357/

The Pit Tips

Francesco Scarci

Lament - Visions and a Giant of Nebula
Grav Morbus - Masohhist
Wows - Ver Sacrum

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Shadowsofthesun

Mithras - Behind the Shadows Lie Madness
Oranssi Pazuzu - Mestarin Kynsi
O - Antropocene

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Alain González Artola

Lustre - The Ashes of Light
Begottten - If All You Have Known Is Winter
Brouillard - Brouillard

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Michele Montanari

Elder - Omens
Camel Driver - \ /
1000mods - Youth of Dissent

venerdì 24 aprile 2020

Despondent Chants - The Eyes of Winter

#PER CHI AMA: Death/Doom, Katatonia, Insomnium
L'abbiamo snobbata per anni, devo ammetterlo, ma la scena sudamericana ha rilasciato una miriade di release senza che l'Europa lo venisse fondamentalmente a sapere. Ora, l'etichetta dei Despondent Chants, death band peruviana, mi ha inviato il loro debut album seppur datato 2018, e quindi francamente mi sento in obbligo di raccontarvi di questo 'The Eyes of Winter'. Un disco che si apre sulle note melodiche di "Unprotected Hearts" che mai e poi mai, mi farebbero pensare che sia una realtà sudamericana a rilasciare un sound come questo. Si perchè il pensiero mi porterebbe immediatamente in Scandinavia, nelle zone battute dagli Insomnium ad esempio o da altre band quali Enshine, October Tide, Draconian, tanto per citarvi qualche nome. Questo per dire che i Despondent Chants, originatisi a Cuzco nel lontano 2003, non sono certo degli sprovveduti e potranno farvi ricredere sulle qualità non indifferenti della scena locale peruviana. "An Olden Sea of Prayers" non fa che confermare le mie parole, con il quartetto a offrirci la loro visione (non troppo personale ahimè) del death doom melodico e decadente, venato di una forte componente malinconica. Quindi cosa mettere in conto nell'ascolto di questo disco? Sicuramente un riffing corposo e cadenzato, un growling profondo ma gradevole che ben si amalgama con la musica e delle buone linee di chitarra che ammiccano inevitabilmente ai gods europei. Ben vengano quindi release di questo tipo anche da quella parte di mondo dove si suppone solo di andarci a fare le vacanze, e dove non si ha la benchè minima percezione di quale possa essere invece la brulicante scena musicale. Posso affermare però con buona certezza che se le origini dei Despondent Chants avessero condotto a Finlandia o Svezia, la band avrebbe strappato un buon contratto da qualche fantomatica etichetta europea major del metal, ma laggiù in mezzo alle Ande, la visibilità è certamente ridotta a zero. Un pezzo come "Tide of Sufferings" avrebbe fatto certamente gridare al miracolo con quel suo assolo prog rock posto in apertura e comunque una palesata solidità ritmica che ha valso ai nostri l'opportunità di condividere il palco con band del calibro di Unleashed e Carach Angren, questo a certificare le qualità di un combo che vede sparare una serie di cartucce, certamente non a salve. Proprio partendo da questa malinconica traccia (la mia preferita del cd) che evoca un che dei primi Katatonia, i quattro musicisti mettono in linea una serie di episodi davvero convincenti: la goticheggiante "Atonement", in cui si sperimentano anche le clean vocals - come gli ultimi Katatonia insegnano - e poi "Sancta Sanctorum" che coniuga l'indottrinamento degli Opeth con ancora fortissimi richiami alla band di Jonas Renske e soci. Per concludere, mi sento di consigliarvi fortemente di ascoltare questo disco, mettendo da parte la diffidenza che sia una band di Cuzco a farlo, questo per dire che da quelle parti non ci sarà solo la maestosità di Machu Picchu da apprezzare d'ora in poi. (Francesco Scarci)

Genuflexión - Apoteosis Fallida

#PER CHI AMA: Black Old School, Rotting Christ, Mayhem
Se non avessi letto le origini della band, l'Argentina, avrei pensato che i Genuflexión provenissero dalla Norvegia, vista la proposta black old school del trio. Certo il moniker potrebbe essere rivelatore, il titolo dell'album in spagnolo dare poi maggiori certezze sulle origini latine dei nostri, fatto sta che in termini prettamente musicali, la compagine di Buenos Aires potrebbe tranquillamente giocarsela con i colleghi del nord Europa. Sebbene "Nostalgia de Luz Muerta", l'opening track di questo secondo capitolo intitolato 'Apoteosis Fallida', parta con una violenza criminale, la song va via via placando i propri gelidi spiriti per dar maggior spazio ad una componente più atmosferica. È chiaro che non ci troviamo di fronte a nulla di originale, come già detto decine di volte negli ultimi mesi per release di questo tipo, visto l'utilizzo degli elementi classici che vede in chitarre zanzarose, voci gracchianti e ritmiche infernali, gli ingredienti irrinunciabili del genere. Tuttavia, trovo qualcosa di celatamente affascinante nella proposta di questi ragazzi (peraltro frequentatori di un'altra miriade di band estreme) che sembra venir fuori lentamente. Cosi, già nel mid-tempo della seconda (title) track, ecco che il vocalist mette in mostra, accanto al suo becero screaming, anche una tonalità quasi salmodiante che accompagna le ritmiche, qui al limite del marziale. Se dovessi provare a fare dei paragoni, ecco che mi verrebbe in mente l'esoterismo dei Rotting Christ, ma poi ritornando alla Scandinavia, ecco che i primi Enslaved, i Gorgoroth o gli Emperor, potrebbero rappresentare una fonte di ispirazione per i Genuflexión. Quindi, non ci resta altro che lasciarci investire dal crudo riffing infernale di "La Fortuna de Caer en uno Mismo", in cui ad alternarsi sono partiture più veloci ad altre più atmosferiche, con il suono del basso che emerge prepotente dal caos primordiale. Alla cosa dò più peso e mi rendo conto come anche nella successiva "La Sofocante Cualidad Migratoria del Instante", la linea di basso sia preponderante sugli altri strumenti e assurga al ruolo di star nell'economia della band, regalando un pizzico di originalità ad un lavoro, in cui parlare di originalità, sarebbe alquanto eufemistico. "Deidades del Difunto" è una sgaloppata black, come sentito migliaia di volte, di cui salverei francamente ben poco. Con "Espiritualidad Acéfala" si ritorna nei paraggi del mid-tempo laddove, lasciatemi dire, la band sembra regalare maggiori soddisfazioni in quell'alternanza tra parti tiratissime ed altre più ragionate ed atmosferiche, ove emerge peraltro un che di antico dai solchi di questo lavoro. Purtroppo però stiamo parlando di un album che, se solo fosse uscito almeno 25 anni prima, avrebbe dato filo da torcere al raw black europeo, ora mi viene da dire che 'Apoteosis Fallida' è un'uscita sicuramente onesta, ma fuori tempo massimo. (Francesco Scarci)

(Sons of Hell Prod - 2019)
Voto: 64

https://h-o-h.bandcamp.com/album/apoteosis-fallid

El Abismo - El Arbol Negro

#PER CHI AMA: Prog Psych Doom, Black Sabbath, Candlemass
In questo mio momento di perlustrazione della scena sudamericana, ecco imbattermi nei peruviani El Abismo e in quello che è il loro album di debutto 'El Arbol Negro'. Considerato che l'albero è da sempre riconosciuto come simbolo della vita, sarebbe interessante sapere la simbologia dell'albero nero. La proposta del combo di Lima, abbraccia heavy, sludge e doom, il che è piuttosto strano considerata la militanza dei vari membri in passato, in realtà prettamente death e black. Tuttavia la title track, che apre proprio il disco, prende completamente le distanze dai generi estremi appena menzionati e ci racconta piuttosto il desiderio dei nostri di intraprendere un nuovo percorso musicale, volto all'esplorazione di suoni passati. Quello che mi sorprende sin da subito, è il cantato cosi pulito ed efficace di Daniel Roncagliolo (in stile Paul Chain), uno che fino a non troppo tempo fa, vomitava nel microfono, tanto per capirci. Ma è su quel sound di scuola Black Sabbath che ben mi ammalia nei primi cinque minuti, che i nostri si lasciano andare a qualche retaggio passato con un'accelerazione death con tanto di voce growl incorporata. Tempo di una vorace fuga estrema, che i nostri rientrano nei ranghi di un doom psichedelico. Il sound mantiene comunque una scarsa pulizia di fondo, che sembra quasi volutamente prodotta, una sorta di ponte tangibile con il passato. "Necrópolis", non solo mi sorprende per l'eccellente apporto vocale (quello pulito sia chiaro, il growl è quasi da censura) del suo frontman, ma più che altro per l'inatteso utilizzo del violoncello, che arricchisce non poco la musica dei nostri, che hanno purtroppo il brutto vizio di scadere ogni tanto in inutili accelerazioni death, quando in realtà la band dà il meglio di sè nei momenti più riflessivi e in taluni tratti dotati di risvolti progressivi. Ma l'incedere è assai mutevole con rallentamenti doomish e una valida sezione solistica. Bella scoperta, devo ammetterlo, soprattutto a fronte della mia diffidenza iniziale. "Asmodeo" è il classico intermezzo acustico tipico del post-rock, che ci accompagna a "Los Abismos", ove riemergono forti gli echi (ancor più) seventies di Ozzy e compagni, ma dove la ritmica si rivela stantia e deboluccia, ammiccando in un paio di frangenti anche ai Candlemass, un vero peccato considerato poi l'assolo da urlo che sfodera il bravo Carlos Hidalgo in chiusura. Con un titolo come "Catacumbas" invece cosa aspettarci? Niente di buono mi verrebbe da dire cosi di primo acchito, e non ci vado troppo lontano visto che salverei poi tanto da una song dove mal tollero il cantato sia in pulito che in growl, e dove la musica sembra raffazzonata alla bell'e meglio. Come al solito, a levare le castagne dal fuoco, ci pensa l'ascia di Mr. Hidalgo che risolleva una song, che per il sottoscritto stava andando letteralmente a puttane, prima lo fa con una parte acustica e poi con un assolo in stile Pink Floyd, da brividi. Certo, poi il finale riprende il tema iniziale e rovina tutto, ma pazienza. A chiudere il disco arriva "Lilith", un brano che ancora una volta vede nel chitarrista la vera star della band tra giochi in chiaroscuro, una combinazione chitarra acustica/violoncello da favola che viene interrotta da una dirompente violenza estrema che qui ci sta alla grande e poi ancora una serie di assoli a dir poco spettacolari. Insomma, 'El Arbol Negro' mi mette in difficoltà come poche volte mi è capitato nel corso della mia carriera da recensore, contenendo cose al limite dell'eccezionale e altre al limite della decenza per cui, visto che la verità sta nel mezzo, mi limiterò ad un voto che non penalizzi ma neppure esalti la prova del trio sudamericano, confidando però in una futura prova a dir poco maiuscola, ove auspico l'eliminazione di tutte le sbavature contenute in questo lavoro. Ci conto, perchè a quel punto potrei essere il primo sostenitore degli El Abismo. (Francesco Scarci)

(Thrashirts - 2019)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Elabismoband/

giovedì 23 aprile 2020

Ecnephias - Seven - The Pact Of Debauchery

#PER CHI AMA: Gothic/Dark, Moonspell, Burning Gates
E dopo dodici anni, eccomi a recensire il sesto lavoro della band potentina; mi mancano i primi due dischi, compensati però da un EP, 'Haereticus' nel 2008, e poi mi potrei tranquillamente considerare un fedele devoto alla causa Ecnephias. A parte gli scherzi, non posso negare la mia stima nei confronti dell'italica creatura, capace nel corso della propria carriera di mutare pelle, adattarsi a situazioni complicate, lottare caparbiamente contro tutto e tutti (mulini a vento compresi) e arrivare oggi a rilasciare questo settimo sigillo, intitolato 'Seven - The Pact Of Debauchery'. Nove nuovi brani per saggiare lo stato di forma di Mancan e soci, cercando di capire come il sound dei nostri sia evoluto dopo le dipartite di Sicarius Inferni e Khorne, presenti nel precedente 'The Sad Wonder of the Sun'. Ebbene, quella trasmutazione verso il gothic rock che citavo come completata nella vecchia release, qui è ormai assodata e la band non fa altro che esplorare ed ampliare il proprio raggio d'azione. Se l'inizio di "Without Lies" chiama ancora in causa i vecchi Moonspell, con la voce del buon Mancan a rappresentare il marchio di fabbrica per il nerboruto trio, quello che mi convince davvero in questa song è la componente solistica forte dell'ottimo lavoro del bravo Nikko, con le chitarre qui dotate di un eccellente taglio classicheggiante, peccato solo per la loro esigua durata. I temi legati alla magia, al paganesimo e all'occultismo non mancano nemmeno in questo cd e "The Night of the Witch" lo conferma a chiare lettere a livello lirico, laddove a livello musicale invece, sono le ormai consuete atmosfere sinistre venate di una discreta aura malinconica a farla da padrona. Il riffing è pacato, le keys dipingono paesaggi che mi ricordano da lontano Rapture, Enshine e Slumber, mentre quello che mi esalta sempre un sacco sono decisamente i cori, cosi evocativi, epici e coinvolgenti, tanto da ritrovarmi alla fine del brano con il pugno volto al cielo. Arriviamo anche alla traccia che non necessita di sottotitoli, "Vampiri", con quel suo mood dark new wave che mi evoca una band nostrana, i Burning Gates. Pur trovando che il cantato in italiano caratterizzi maggiormente la proposta del trio lucano, capisco di contro che la possibilità di esportazione del prodotto Ecnephias fuori dai confini nazionali, potrebbe divenire più complicato. Spettacolare intanto l'assolo sciorinato in questo brano dal sempre bravissimo Nikko, in quello che forse alla fine dei conti, risulterà essere anche il mio pezzo preferito. "Tenebra Shirt" è una traccia piuttosto lineare nella sua progressione, non tra le più memorabili inserite nella discografia degli Ecnephias, ma comunque un onesto episodio di fine atmosfera. Molto meglio l'inquietante incedere ritmato di "The Dark", che nel suo break centrale, cerca di coglierci di sorpresa con uno stralunato fuori programma, giusto una manciata di secondi per disorientarci dallo stato di intorpidimento in cui stavamo per cadere, si perchè talvolta la proposta dei nostri sembra un po' depotenziata, insomma col classico freno a mano tirato. L'incipit di "Run" mi ha fatto pensare per una frazione di secondo alle operistiche partiture dei Therion, ma tranquilli nulla di tutto ciò viene poi qui esplorato, anche se Mancan alterna il proprio growling ad un cantato molto pulito, ma niente paura perchè è giunto il momento anche dello spazio etnico grazie all'utilizzo di percussioni che non mi fanno tanto pensare al Mediterraneo, piuttosto al voodoo africano. Un sintetico incipit ci introduce a "The Clown", la traccia sicuramente più ricca di groove e mi verrebbe da dire anche quella più canticchiabile (mi scuserà Mancan) con quel suo coretto "I saw a clown..." che si stampa nella testa; ottima poi la melodia di fondo su cui si staglia l'ascia sempre vigile di Nikko. L'apertura de "Il Divoratore" nasconde nelle sue iniziali percussioni melliflue (eccellente anche Demil dietro alle pelli) un che del misticismo di Twin Peaks, a cui fa seguito l'arpeggio della sei corde qui a braccetto con le tastiere, e il cantato di Mancan qui particolarmente carico di emotività, a rafforzare la mia ipotesi che in italiano la proposta degli Ecnephias renda molto di più. E per chiudere in bellezza, ecco che anche la conclusiva e arrembante "Rosa Mistica" ci concede gli ultimi minuti di punk dark wave cantata in italico lingua, in quella che fondamentalmente è la song più violenta del disco, e che sembra quasi una bonus track a prendere le distanze da tutto quello ascoltato fino ad ora. Per concludere, a parte quella sensazione percepita in un paio di occasioni di un sound talvolta privo di incisività, la settima release degli Ecnephias va assaporata con una certa calma e armonia dello spirito. Detto questo, la mia stima nei confronti della band rimane immutata per carisma, professionalità e una certa ricerca di originalità. Per il resto, è sempre una certezza e un piacere aver a che fare con i nostrani Ecnephias. (Francesco Scarci)

Hyperia - Insanitorium

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Testament, Over Kill
Da Calgary ecco arrivare gli Hyperia con tutto il loro carico death thrash contenuto nel loro full length d'esordio 'Insanitorium'. Se vi state già chiedendo quali possano essere le peculiarità di una band in un genere che ormai ha detto proprio tutto, potrei partire col dirvi che il vocalist è una donna ad esempio, che si dipana tra un cantato pulito ed un growling bello corposo. Niente di nuovo qualcuno di voi potrebbe obiettare, visto l'esempio degli Arch Enemy, un nome diventato famoso per la sua frontwoman Angela Gossow, e in effetti non potrei controribattere. E allora proviamo a dare un ascolto attento all'opening track "Mad Trance", una song che mette in luce immediatamente le qualità compositive e distruttive dell'ensemble canadese. Ottima la verve ritmica e melodica del quintetto, potente la furia chitarristica, anche a livello solistico, faccio fatica semmai a digerire la voce di Marlee nella sua veste pulita (e più urlata) che sembra prendere spunto da quella degli Artillery ma con un effetto meno convincente, un qualcosa su cui lavorerei un po' di più in ottica futura. Dove la compagine sembra convincere maggiormente è invece la componente musicale, visto che i nostri sanno come fare male e dove colpire al cuore l'ascoltatore. Lo dimostra assai bene "Starved by Guilt", con un uno-due ben assestato e udite udite, una componente vocale che si presta ad essere ben più convincente nelle tonalità più baritonali. Il disco suona però come un tributo al thrash metal anni '80 e non solo per una cover che rimanda a quegli anni, ma in generale per un rifferama che chiama in causa gli Slayer nell'incipit di "Asylum", le cavalcate dei primi Testament ("The Scratches on the Wall") o ancora gli Exodus, sfoderando proprio come quei mostri sacri, ottime prove strumentali. Interessante a tal proposito il bridge proprio della già citata "Asylum", cosi come quel suo chorus di scuola Over Kill, periodo 'Under the Influence' (lo si apprezzerà anche nella conclusiva e scoppiettante "Evil Insanity"). Insomma, per uno come me, cresciuto musicalmente negli anni '80 a botte di thrash ed heavy metal, è facile e inevitabile fare tutta una serie di confronti con gli originali. In "Unleash the Pigs", ci sento anche del power metal cosi come del melo death scuola Children of Bodom, tutte influenze che si fondono alla velocità della luce e scorrono altrettanto velocemente tra cambi di tempo, accelerate e cavalcate varie dal forte sapore heavy, per un disco senza tempo che farà la gioia di tutti i thrashettoni che hanno amato, come il sottoscritto, i grandi classici (dimenticavo di citare anche i Metallica di 'Kill'em All', gli Anthrax o i Megadeth nell'emblematica "Fish Creek Frenzy") o più recentemente, act quali gli Skeletonwitch. Che altro dirvi per invitarvi a questo "back to the past" con gli Hyperia? Un ascolto datelo, datemi retta.  (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2020)
Voto: 70

https://hyperiametal.bandcamp.com/album/insanitorium

mercoledì 22 aprile 2020

Horda Profana - Beyond the Boundaries of Death

#PER CHI AMA: Death/Black Old School
Devo ammettere di aver sempre piuttosto snobbato la scena sudamericana perchè da sempre imperniata su sonorità estreme old school. Non ne sono ovviamente immuni gli Horda Profana, band black death originaria dell'area di Buenos Aires, che lo scorso anno ha rilasciato il secondo lavoro, 'Beyond the Boundaries of Death'. E dopo pochi secondi di musica, si arriva alle mie conclusioni assai alla svelta, semplicemente dopo aver ascoltato l'iniziale "Summoning", la più classica delle song death black degli anni '80, un po' come se i Celtic Frost in compagnia dei primissimi Sepultura, sotto la supervisione dei Black Funeral, si siano ritrovati per una serata tra amici. Ritmiche sparate a mille, voci blasfeme e fortunatamente un epilogo un po' rallentato. "Absent of Light" sembra anche peggio, però a parte la scontatezza della proposta del combo argentino, ho potuto apprezzare una componente ritmica davvero devastante in grado di innalzare un muro sonoro invalicabile dove ho trovato il gracchiare mefistofelico al microfono di Nephilim, particolarmente in linea con la musica proposta. E non nascondo anche la mia sorpresa nel ritrovarmi a scuotere il capo di fronte alla violenza distruttiva di questa song, dotata addirittura di una certa vena melodica. Di vena creativa ce n'è invece ben poca traccia e quindi mettete in conto di ritrovarvi nelle orecchie un qualcosa che verosimilmente avete già sentito in mille forme differenti negli ultimi 30 anni e passa. Tanta furia distruttiva quindi, certificata dalle performance dell'arrembante (e punkeggiante) "Reaching Primordial Darkness", dalla tonante "Words of Immortal Fire", fino ad arrivare, senza particolari sussulti, alla devastazione finale di "A Coldness Curse". Si potevano impegnare un pochino di più e infilarci chessò un assolo, un riffing più ricercato, niente, solo puro estremismo sonoro rimasto ormai a uso e consumo di pochi adepti. (Francesco Scarci)

V:XII - Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina

#PER CHI AMA: Industrial/Drone
Trattasi di una one-man-band quella dei V:XII, compagine dark industrial svedese creata da Daniel Jansson, uno che milita (o ha militato) in una serie di altri progetti, tra cui i Deadwood, la cui storia si è interrotta nel 2014 e per cui ora, il buon Daniel, ne vede la reincarnazione (ed evoluzione musicale) nei V:XII, nella fattispecie di questo 'Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina'. Il lavoro si apre con le visioni oscure e angoscianti di "The New Black", sei minuti e più di suoni asfissianti che poggiano su un unico beat sintetico ripetuto allo sfinimento e sul quale s'installa il growling del factotum scandinavo. Sembra essere sin da subito questa la ricetta dei V:XII, visto che anche in "Maðr" ci vengono propinati suoni dronici alienanti su cui poggiano le vocals distorte del buon Daniel cosi come altre spoken words in sottofondo. I campionamenti si sprecano e cosi il drone paranoico di "Twining Rope" mi costringe a dondolarmi avvinghiato a me stesso, rintanato in un angolo della mia stanza. È un disco decisamente sconsigliato in periodi di quarantena questo 'Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina' in quanto il rischio di subire effetti disturbanti o distruttivi per la psiche dell'ascoltatore, è assai elevato. Atmosfere lugubri e malsane contraddistinguono la sinistra "Djävulsögon - Deconstructing the Bloodwolf", un mix tra il suono proveniente dalla canna fumaria di una nave, delle catene di un castello infestato e il frastuono della sala macchine di una centrale nucleare, il tutto ovviamente corredato dalle onnipresenti vocals filtrate del mastermind svedese. Se non vi siete ancora suicidati o il cervello non vi è andato in pappa, c'è tutto il tempo di lasciarsi stordire dalle note marziali di "Ururz", o essere investiti dal nichilismo sonoro della spaventosa "B.A.H.F", la traccia che più ho preferito del disco o dalla conclusiva ed ambientale "Vánagandr", che segna, fortuna nostra, la fine di un percorso musical-dronico-rumoristico davvero complicato e consigliato a soli pochissimi eletti. (Francesco Scarci)

domenica 19 aprile 2020

King SVK - New Æon

#PER CHI AMA: Experimental Death Metal, The Project Hate, Carnival in Coal
Dall'incipit mediorientaleggiante di "Ozymandias", mi sarei aspettato origini più esotiche per la band di quest'oggi, in realtà i King SVK sono un duo proveniente dalla Slovacchia (da qui deduco l'acronimo SVK nel moniker). 'New Æon' è il terzo album dal 2000 quando Ivan Kráľ (tastiere e synth) e Norbert Ferencz (chitarre), fondarono questa stravagante compagine. Il duo propone infatti un death metal moderno, melodico con tematiche incentrate sulla mitologia dell'antico Egitto, fuse con la filosofia di Friedrich Nietzsche. Da un punto di vista musicale, aspettatevi invece tonnellate di cyber death metal fatto di ritmiche belle pesanti ma comunque grondanti groove da tutti i pori, vocals che si dipanano tra il growl ed un cantato pulito un po' meno convincente (e da rivedere), ottimi cambi di tempo e quintalate di synth. "Hymnus Aton" è la seconda traccia che apre ancora con riferimenti arabeschi, per lasciare presto il campo ad un riffing a cavallo tra Meshuggah e Fear Factory e un incedere comunque sempre parecchio orecchiabile che forse travalica qui nel viking grazie all'utilizzo di alcuni cori epici. "Chant Of Praise Of Nimaatre" sembra invece provenire da qualche disco circense dei Pensées Nocturnes, ma la sensazione dura solo per pochi secondi, visto che la vigorosa band slovacca torna a sfoderare un rifferama bello compatto sul cui sottofondo sembrano collocarsi delle strane trombette. Lo spettro circense però torna a riaffacciarsi in più casi nell'irruenza fragorosa del brano. Con "Seeking of Being", song strumentale, ci lasciamo ammaliare dai suoni di un organo che fa da apripista al saliscendi chitarristico che trova anche in un break acustico, l'attimo ristoratore utile a darci la carica e ripartire di slancio con la musica dei King SVK, qui più che mai sperimentale, quando ampio spazio viene concesso al suono di quella che parrebbe una spinetta, e prima che i nostri si lancino in una rincorsa prog rock. E bravi i due musicisti, che devono avere un pedigree di tutto rispetto viste le qualità tecniche. Ciò è confermato a lettere cubitali anche dai successivi pezzi: "Homeless" in primis, dove sottolineerei una schitarrata iniziale in stile "death metal from Stockolm", a cui segue l'imprevedibile e abbondante utilizzo delle clean vocals che qui doppiano il growling maligno del frontman, in un esperimento riuscito ahimé solo a metà, colpa esclusivamente della voce pulita davvero fuori posto. Che peccato maledizione, perchè la cosa avrebbe avuto risvolti decisamente interessanti, ma potrebbe anche essere che le vostre aspettative non siano cosi alte quanto le mie e possiate anche passarci sopra. Io francamente faccio un po' fatica e me ne dispiaccio particolarmente perchè in queste note percepisco la forte volontà da parte dei due musicisti slovacchi di mettersi in gioco, rischiare il tutto per tutto con la carta della creatività e andando assai vicino a compiere il miracolo. Niente paura, ci riprovano anche nella ancor più stralunata "Venetian Night" dove è una (o più?) voci femminili a provare a sostenere il riffing brutale dei nostri in un esperimento affine a quello degli svedesi The Project Hate; tuttavia anche qui la componente vocale non si rivela all'altezza. I nostri comunque non si perdono mai d'animo, vanno avanti nella loro strada pur ricascandoci in "Sea in the Soul" (da rivedere quindi il casting per la voce), visto che le dolci donzelle mal si adattano ad un sound robusto che prova qui anche la strada delle orchestrazioni. Bene da un punto di vista musicale, c'è ancora da sistemare qualcosa in quello vocale. "After Swimming", con un bel po' di immaginazione, potrebbe somigliare col suo coro fanciullesco ad "Another Brick in the Wall" dei Pink Floyd, con la song che comunque ha un forte piglio prog fatta esclusione per le ritmiche possenti. Ma la ricercatezza in trame elaborate fa parte del duo slovacco, anche nella più schizofrenica "With Horus in the Sky", quando i nostri ritornano sulla strada maestra dei primi pezzi e si lanciano in rincorse chitarristiche qui ancor più complicate che in apertura, ma con un occhio puntato sempre alla tradizione egizia. Il viaggio con i King SVK si completa con "The Age of Aquarius", una song che mi ha richiamato alla memoria un che dei Carnival Coal, sia a livello vocale che musicale. Ora, dopo aver speso tre quarti d'ora in compagnia dei King SVK, senza ascoltarne la musica, potrete solo lontanamente immaginare quali siano i margini di follia di questi due personaggi. Dategli un ascolto, fatevi un favore. (Francesco Scarci)

sabato 18 aprile 2020

Hangatyr - Kalt

#PER CHI AMA: Black, Shining
Hangatyr è uno dei molteplici nomi utilizzati per identificare Odino, la principale divinità norrena. Per tributare la sua figura, il quartetto della Turingia ha adottato questo stesso moniker, rilasciando dal 2006 a oggi tre album. Detto che la prolificità non deve essere proprio il punto forte della band teutonica, accingiamoci oggi ad ascoltare il nuovo arrivato 'Kalt', lavoro autoprodotto da poco rilasciato dai nostri. L'album include otto song che irrompono con la furia glaciale di "Niedergang", un pezzo che gela immediatamente il sangue nelle vene, per quella sua bestialità ritmica e vocale (uno screaming efferato in lingua germanica), giusto un breve accenno ad un black atmosferico ma poi, quello che si configura nelle mie orecchie, è quanto dipinto nella cover dell'album, ossia quell'uomo che cammina sotto una fitta tempesta di ghiaccio. Lo stesso ghiaccio che imperversa nelle note della successiva "Entferntes Ich", un brano più mid-tempo oriented, ma comunque contraddistinto dagli aberranti vocalizzi di Silvio e Ira, e da una componente atmosferica che rimane sempre relegata in secondissimo piano. La bufera prosegue con le melodie agghiaccianti di "Firnheim" e una prestazione a livello vocale che mi ricorda quello del buon Niklas Kvarforth nei suoi Shining, mentre il drumming risuona invasato ed insano, soprattutto nella seguente "Blick aus Eis", quando la velocità del drumming si fa ancor più sostenuta e le chitarre ancor più taglienti. "Kalter Grund" è un pezzo decisamente più controllato, con le sue melodie che ricordano da vicino le release del periodo di mezzo dei Blut Aus Nord, cosi sinistre e malefiche, e per questo eletto anche come mio pezzo preferito, soprattutto per la sua capacità di non eccedere in facili estremismi sonori e per la più preponderante valenza melodica ed una certa ricercatezza sonora. Un malinconico intermezzo strumentale, "...Kalt", e si arriva agli ultimi due brani del cd, "Mittwinter" e "Verweht", quindici minuti affidati ad una tormenta sonora che come il vento sferza i nostri volti con soffi d'aria gelidi, l'act tedesco, con le sue plumbee chitarre, genera atmosfere rarefatte ma comunque dotate di una certa intensità epico-emotiva. 'Kalt', per concludere, è un album complicato, non certo facile da digerire di primo acchito, ma che richiede semmai più ascolti per essere apprezzato nella sua veste cosi distante e glaciale. (Francesco Scarci)