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martedì 10 luglio 2018

Hallig - A Distant Reflection of the Void

#PER CHI AMA: Epic Black
Dal bacino della Ruhr, ecco tornare sulle scene gli Hallig, dopo un'attesa durata ben sei anni dal precedente debut album '13 Keys to Lunacy'. In mezzo, solo un promo cd nel 2016, con due pezzi ("To Walk with Giants" e la debordante "Im Aufwärtsfall") peraltro inclusi in questo nuovo 'A Distant Reflection of the Void'. La proposta del sestetto teutonico è avvincente sin dall'opener "A Dawn beneath Titanium Clouds", grazie ad un black metal epico e moderno che affascina per una componente vocale abile a districarsi tra un acido screaming e un più suggestivo cantato pulito, mentre le ritmiche convulse imperversano serrate. C'è anche modo di godere di suoni più compassati nel corso dell'ascolto, con la sei corde che accenna addirittura ad un assolo verso metà brano, mentre la traccia continua poi a muoversi su svariati cambi di tempo, che avvicinano la proposta degli Hallig al black progressive degli Enslaved. "Neues Land" conferma la proposta dei ragazzi teutonici con oltre quattro minuti di sonorità estreme, pur mantenendo una forte linea melodica. Le atmosfere sono gelide, lo si evince con "Trümmer" ed un comparto chitarristico che chiama in causa lo Swedish black degli Unanimated; interessante qui l'utilizzo del basso in sottofondo a guidare la ritmica devastante del combo germanico. Con "Straight to the Ninth" la durata dei brani si fa più importante, andando qui a sfiorare i dieci minuti, fatti di suoni atmosferici (una tempesta sorretta da una chitarra in tremolo picking aprono infatti il pezzo), ritmiche mid-tempo, growling, screaming e cleaning ad intrecciarsi tutti su scorribande musicali che sembrano arrivare direttamente dalla musica classica. Una sensazione che viene piacevolmente confermata anche dalla furia sonora di "To Walk with Giants". Un intermezzo acustico assai melodico, "Into Infinity" e arriviamo al trittico di song finali che, dalla coinvolgente "From Ashes All Blooms" giunge, passando dalla nervosa "The Starless Dark", alla conclusiva title track che per dieci minuti ha modo di riempire le nostre orecchie con l'ottimo black metal di una band che merita tutta l'attenzione dei fan. Se ben supportati infatti, gli Hallig avranno modo di ergersi a portabandiera di un filone black tutto da esplorare. (Francesco Scarci)

lunedì 9 luglio 2018

Thørn - S/t

#PER CHI AMA: Crust Black, The Secret
If I Die Today, Calvario, La Fin e Lamantide hanno pensato bene di unire le proprie forze in un nuovo progetto black crust, i Thørn, da non confondere con gli omonimi colleghi norvegesi che peraltro avevano anche una "s" come ultima lettera del loro moniker. Fatta questa dovuta precisazione, lanciamoci all'ascolto dell'EP omonimo della band milanese, che consta di cinque brevi tracce per un'apnea sonora che dura circa 13 minuti. Un'intro rumoristica/parlata apre la tape che esploderà da li a poco nella morsa black punk hardcore di "Your God is Dead": poco più di tre minuti di sonorità nere come la pece, in cui la forte vena punk emerge grossomodo a metà brano con una ritmica cadenzata che si miscela con le acide vocals di A. Mossudu. "Nahua" parte più lentamente, quasi immobilizzata da delle sabbie mobili invisibili che, dopo 50 secondi, trovano modo di scrollarsi di dosso quel mood sludge e lanciarsi verso una nuova cavalcata punk che non disdegna vaghe reminiscenze grind, le stesse che riassaporeremo nei 40 secondi della tempesta sonica di "Sun Will Never Rise". Un bel thrashcore com'era tempo che non ne sentivo, s'impossessa della scena nel pezzo più lungo del lavoro, i quasi quattro minuti di "Burn the Throne", l'ultima annichilente tappa di questo EP di debutto a firma Thørn, mi raccomando, non quelli norvegesi, ma l'ennesima ottima band proveniente dal nostro tanto bistrattato paese. (Francesco Scarci)

(Indelirium Records - 2018)
Voto: 70

https://thorncrust.bandcamp.com/releases

Coexistence - Contact with the Entity

#PER CHI AMA: Techno Death, Death, Cynic, Obscura
In periodo di Palio di Siena, ecco arrivare proprio dal famoso capoluogo toscano i Coexistence, un quartetto di musicisti che conta tra le proprie fila tra gli altri, membri di Coram Lethe e Vexovoid. Quest'EP di debutto, intitolato 'Contact with the Entity' è una gran bella sorpresa per tutti gli amanti di sonorità estreme influenzate da una forta vena tecno-progressiva. Lo dimostra la splendida apertura di "Origin" e dei suo giochi di chitarra che si sprigionano nei primi due minuti e mezzo di un brano che evolverà successivamente in un sound corrosivo ma atmosferico quanto basta per scomodare non proprio facili paragoni con 'Individual Thought Patterns' dei Death, soprattutto per ciò che concerne la serrata sezione ritmica (col fretless basso in testa ad emulare le gesta del bravo Steve di Giorgio). Il quadro musicale dei nostri si completa poi con un growling che richiama lo stridore vocale di Chuck Schuldiner, mentre le chitarre s'intrecciano come spade brandite in cielo. Nonostante le molte affinità musicali con la band dell'indimenticato Chuck, non voglio affibbiare l'appellativo di band clone ai bravi Coexistence: in "Ultimatum" ad esempio, le atmosfere si fanno più cupe, con le bordate ipnotiche di basso (assoluto protagonista del disco) e batteria che provano a contrapporsi ai brevi fraseggi di chitarra creati dal duo di asce formato da Mirko Battaglia Pitinello e Leonardo Bellavista, che con i loro chiaroscuri ritmici, chiamano in causa un altro masterpiece, 'Focus' dei Cynic. È fuor di dubbio che per proporre simili sonorità, la band debba vantare poi un'indiscutibile preparazione tecnica e questo lo si percepisce lungo tutti e 23 i minuti di questo EP. La terza traccia è un intermezzo di carattere sci-fi, che prepara all'ascolto della conclusiva "Contact with the Entity II", una song ultra tecnica che vede nuovamente le pulsioni al basso di Christian Luconi dettar legge e duettare con il drumming (talvolta troppo triggerato) di Alessandro Formichi. Verso metà brano poi, irrompe uno splendido assolo (il primo di due in questo pezzone) che per un minuto infiamma gli animi dei pochi rimasti ancora scettici di fronte all'ascolto di un simile lavoro che probabilmente risuona ancora un po' troppo derivativo ma che francamente mostra una marcia in più per tutti gli amanti di tali sonorità techno death. Speriamo a questo punto che 'Contact with the Entity' sia solo un gustoso antipasto a quanto i nostri possano riservare in futuro. Io un po' di acquolina in bocca ce l'avrei già... (Francesco Scarci)

(Earthquake Terror Noise Records - 2018)
Voto: 75

https://coexistence.bandcamp.com/album/contact-with-the-entity

venerdì 6 luglio 2018

Moonreich - Fugue

#PER CHI AMA: Black/Thrash
Tornano gli amici francesi della Les Acteurs de L’Ombre Productions con il comeback discografico di una delle band più interessanti della scena black transalpina. Sto parlando degli efferati Moonreich che arrivano al traguardo del quarto album con questo notevole album intitolato 'Fugue'. Il disco, rilasciato in uno splendido digipack, mostra una certa cura nei dettagli anche a livello sonoro, con una produzione cristallina da far impallidire le migliori uscite mainstream. Bombastici fino al midollo, i quattro malvagi individui, in apertura con "Fugue Pt.I - Every Time She Passes Away", si lanciano in un'autentica cavalcata black, in linea con le precedenti apparizioni della band, qui forti però di un nuovo brillante vocalist, e con una linea melodica più marcata ed atmosferica che esalta notevolmente l'esito finale. Non ero un grande fan della band prima ma credo che dopo l'ascolto dell'opener dovrò ricredermi non poco, soprattutto per la dinamicità, i cambi di tempo, i suoni, e ribadisco, una matrice melodica che talvolta sembra sfociare in un rock carico di groove. Non me ne voglia nessuno, sembrerò blasfemo, ma l'efferatezza dell'act parigino sembra (e sottolineo questo sembra) aver lasciato il posto ad un sound più accessibile anche per chi non mastica suoni estremi all'ennesima potenza. "Fugue, Pt. 2: Every Time the Earth Slips Away" ha un'apertura decisamente compassata prima di spostare il proprio focus verso un suono irrequieto, funambolico, avvincente, disturbato, angosciante, al punto tale da farmi sobbalzare dalla sedia. Signori, l'evoluzione fatta dai Moonreich rispetto al precedente 'Pillars Of Detestè', la trovo davvero notevole, a tratti destabilizzante. Migliorato di gran lunga il songwriting e l'approccio sonoro, qui più votato alla ricerca di una componente atmosferica, spezzata comunque da sferzanti, quanto mai malvagie rasoiate ritmiche (spaventosi i blast beat qui contenuti). Troviamo poi una forte componente malinconica, complici le immancabili chitarre in tremolo picking. Chi già mostra le prime convulsioni rispetto a questa apparente attenuazione della feralità del quartetto francese, dorma pure sonni tranquilli, visto che con "With Open Throat for Way Too Long" si torna a ritmi infuocati, inframmezzati da qualche più raro e bieco rallentamento. Poi è solo la furia indemoniata dei quattro cavalieri dell'apocalisse a governare, in compagnia delle taglienti chitarre del duo formato da Weddir e Sinaï e dallo splendido screaming del frontman. L'inizio di “Heart Symbolism”è rockeggiante, piacevole, ma è sola pura apparenza perchè da li a pochi secondi, la song esploderà in una tempesta degna dei migliori Impaled Nazarene, visto un piglio punk black da paura. La potenza continua a scorrere incessante anche in "Rarefaction", un pezzo dal break centrale inquietante quanto assai discordante. È però con “Carry That Drought Cause I Have No Arms Anymore” che la band tocca vette mai raggiunte prima d'ora: si tratta di un pezzo infatti che mescola con grande classe, black, avantgarde, thrash e suggestive divagazioni progressive. A chiudere, ecco gli oltre dieci minuti di “The Things Behind the Moon”, in cui la band spariglia ancora le carte in tavola con una traccia inizialmente pacata, ma provvista di una potenza di fuoco inaudita, talora schizofrenica e incontrollata, all'insegna di una ricerca tecnica che mi ha evocato gli Ephel Duath più ispirati, riletti però in chiave black. Non mancano tuttavia anche in questa song i soliti obliqui rallentamenti, le progressive e pericolose accelerazioni, nonchè una invidiabile preparazione tecnica ed una imprevedibilità di fondo che vede già 'Fugue', in cima alle mie preferenze black di questo 2018, in attesa ovviamente del nuovo album degli Anaal Nathrakh. Intanto i miei complimenti! (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de L’Ombre Productions - 2018)
Voto: 85

https://moonreich.bandcamp.com/album/fugue

giovedì 5 luglio 2018

Dark Fortress - Séance

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black, Satyricon, Mayhem
Quando ascoltai la prima volta questo disco pensai fosse la nuova band di Attila Csihar? Mi sorse questo dubbio perchè il vocalist della band tedesca, assoldata dalla Century Media, aveva la voce che somigliava a quella del frontman dei Mayhem. E mentre fino al precedente lavoro, proprio a questi ultimi si avvicinava il sound del combo tedesco, con 'Séance' la band teutonica propone un black di difficile catalogazione: dieci lunghe songs che viaggiano su mid-tempo, atmosferiche, dalle tinte malinconico-depressive a tratti, graffianti e gelide come il black old school in altri momenti. Le tastiere sono abili nel creare un’aura oscura attorno a tutto l’album; violini sinistri dominano la scena in “While They Sleep”, mentre le chitarre e la voce di Azathoth contribuiscono a donare desolanti e tenebrose ambientazioni che rendono 'Séance' un lavoro molto interessante pur essendo questo disco del 2006. Il gruppo tedesco fu abile nel coniugare alcuni elementi sinfonici dei primi Dimmu Borgir, con altri presi in prestito dai più recenti Mayhem e Satyricon: il risultato che ne viene fuori è un sound pesante e decisamente cupo. Interessanti sono gli interludi acustici che servono a spezzare le sfuriate black, così come inaspettati sono alcuni ottimi assoli che completano le songs. Bellissima “Shardfigures”, nona traccia dalle fosche tinte invernali, con quel suo riff di chitarra che richiama i primi lavori di Burzum ed uno spettacolare assolo di chitarra acustica, da pelle d’oca, davvero il miglior episodio dell’intero album. Anche a distanza di oltre 10 anni, 'Séance' non si rivela come un album di facile presa, ma ripetuti ascolti vi permetteranno di apprezzare al meglio questo lavoro. Spalanchiamo le porte al gelo dell’Oscura Fortezza. (Francesco Scarci)

(Century Media - 2006)
Voto: 75

https://www.facebook.com/officialdarkfortress

7marzo - Vorrei Rinascere in un Lama

#PER CHI AMA: Pop Punk Rock
Soft-punkettismo ballonzolante terzomillennario, gradevolmente contaminato con un opportuno dosaggio ska ("Vorrei Rinascere in un Lama"), calypso ("Ridi Quanto Vuoi"), picchioduro (il riffone Nirvan-ico da cui scaturisce "Eva Correva"), ipodermicamente tre-allegramente-pazzerello-morto nelle linee vocali (dappertutto, a partire dalla title track) e nelle tematiche (cfr. il post-giovanilismo retrospettivo di "Ciao"), con sentori negramaramente nazional-pop ("L'Immagine del Cambiamento", cosi diabolicamente orecchiabile). Un approccio spericolatamente cantautoriale alle liriche, anche se di primo acchito apprezzerete i momenti più liricamente acuminati: forse derivativo l'interludio di "Michele" (da confrontare col monologo conclusivo di "Cara ti Amo", Elio e le Storie Tese), senz'altro condivisibile la tesi soggiacente a "Grandissimi Film Americani ("La scienziata si innamora dei nemici / e quello nero muore"), semplicemente ineffabile il singolo "Dai Passa Questo Pezzo". Ascoltate questo disco al posto di radio Deejay. (Alberto Calorosi)

(Self - 2017)
Voto: 65

http://www.7marzo.com/

Apathy Noir - Black Soil

#PER CHI AMA: Black/Death Progressive Doom, Opeth, primi Katatonia
Da Norrköping, ecco arrivare un duo la cui formazione risale addirittura al 2003. Trattasi degli Apathy Noir, conosciuti fino al 2016 semplicemente come Apathy, ma che poi a causa delle consuete rogne legali, ha dovuto modificare il proprio nome. E sotto questo nuovo moniker, ecco arrivare 'Black Soil', un disco che oltre avermi intrigato inizialmente per una cover album decisamente minimalista, ha poi saputo lentamente conquistarmi con un sound decisamente malinconico, ideale per questa stagione invece all'insegna di sole e mare. Ecco perchè "The Glass Delusion" potrebbe essere la perfetta colonna sonora di un autunno uggioso e drammatico, che si snoda attraverso un pezzo di oltre sei minuti dediti ad un black/death doom decadente, quasi disperato, perfettamente in linea con le liriche dei due musicisti scandinavi. Ottime le melodie, cosi tremendamente nostalgiche che in alcuni frangenti mi hanno rievocato i primi Katatonia. La seconda "Samsara" è un po' più folk oriented (un'occhiolino agli Amorphis i nostri lo strizzano), con le vocals che si dimenano tra un gracchiante growl (a mio avviso un qualcosa da rivedere) e una linea vocale pulita, più piacevole che si palesa nei momenti più compassati, mentre la chitarra è abile nel districarsi tra trame death doom progressive influenzate da October Tide e dai primi Opeth, e altre più votate al black svedese in stile Dissection. Il risultato alla fine è davvero buono. La title track conferma un sound che nuovamente prende come fonte di ispirazione i Katatonia dei primi due lavori (ma anche i primi Rapture e gli Swallow the Sun), arricchendo poi la propria proposta con azzeccati arrangiamenti inglobati in sempre più cupe e funeree atmosfere che hanno il pregio di sfruttare diversi cambi di tempo. "The Void Which Binds" propone una lunga introduzione che ci conduce ad un cantato pulito e a delle melodie nostalgiche, per virare successivamente ad harsh vocals e ad una ritmica più feroce che comunque vive di chiaroscuri, intermezzi acustici e ripartenze votate ad un oscuro death progressive. Il disco come spesso capita con questo genere, non è proprio di facile assimilazione. In "Bloodsong" mi vengono in mente Daylight Dies e Opeth come impianto ritmico, con la song che si muove tra luci ma soprattutto ombre e non intendo momenti negativi, bensì faccio riferimento ad un suono che si fa via via più lento ed tetro che nel finale ha modo di regalare anche un intenso assolo. Ultima menzione dell'album per la conclusiva "Time and Tide", aggressiva quanto basta per spezzare quell'aura angosciante che si era instaurata con la precedente "Towers of Silence". Bordate ritmiche, frangenti acustici e growling vocals completano quest'ultima traccia che evoca a più riprese il periodo più brillante degli Opeth (per il sottoscritto quello di mezzo) chiudendo in bellezza la quarta fatica dei due polistrumentisti svedesi. Che altro dire, se non ben fatto! (Francesco Scarci)

mercoledì 4 luglio 2018

Palmer Generator - Natura

#PER CHI AMA: Psych/Krautrock Strumentale
È già da un po' di tempo che vado affermando che la scena italica brulica nel sottobosco di band assai interessanti. Quest'oggi mi soffermerò sulla terza release firmata Palmer Generator, power trio a conduzione famigliare (trattasi infatti di padre, suo fratello e suo figlio) proveniente da Jesi che mi ha ammaliato non poco con quelle sue melodie ipnotiche, suadenti e talvolta esotiche, questo almeno nell'opening track. Quattro i movimenti inclusi in 'Natura' per 38 minuti di musica che riescono a combinare un psych rock di natura strumentale, liquido e dilatato che ci prende per mano e con i suoi suoni ridondanti, quasi dronici, ci trascina in un vortice sonico da cui sarà difficile uscirne integri mentalmente. Penso agli oltre 12 minuti della lisergica opener "Natura 1", una song che scombussola l'animo per la sua cupezza ma anche per quel suo loop che rischia di condurre alla follia, in un vuoto spinto che introduce ai suoni siderali di "Natura 2". Il sound di questo brano poteva tranquillamente fare da colonna sonora a film come 'Gravity' o 'Interstellar', grazie ad un suono guidato dall'assenza di gravità che ci accompagnerà nel nostro viaggio verso galassie lontane attraverso cunicoli spazio-temporali, quei cosiddetti wormhole che a fine brano accelereranno i C, ossia la velocità di propagazione dell'onda elettromagnetica. Pur essendo un album di grande fascino, 'Natura' non si presenta come un disco di facile assimilazione. Lo testimonia il terzo passaggio, "Natura 3" che ci proietta nuovamente nel vuoto cosmico a interagire con creature extraterrestri (in questo caso i suoni propagati sembrano quelli del film 'Contact') laddove la temperatura si avvicina allo 0 assoluto, ma che verso metà brano, vedono i nostri provare ad invertire rotta e non certo per l'effetto di una fionda gravitazionale, semplicemente perchè i tre musicisti hanno finalmente deciso di accendere i motori roboanti della loro astronave nel tentativo di far ritorno verso la Terra ("Natura 4"). Tutto si rivelerà ahimé vano. La song è l'ultima deriva post rock ambientale che ci condurrà con i suoi rumori e sensazioni inevitabilmente fino ai confini dell'Universo. (Francesco Scarci)

(Bloody Sound Fucktory/Brigadisco Records - 2018)
Voto: 75

https://palmergenerator.bandcamp.com/

Sequoyah Tiger - Parabolabandit

#PER CHI AMA: Electro Dream Pop
Lo pseudonimo dell'autrice unirebbe la silenziosa determinazione della tigre alla innovativa intelligenza di Sequoyah, il cherokee che nei primi '800 alfabetizzò la sua tribù, con l'ambizioso intento di codificare un nuovo dream-pop, etereo, old-age, qualcosa tra una Enya che ingerisce due plegine ("Another World Around Me") e delle Warpaint che buttano giù un giro di mezcal per colazione ("Where Sm I?", ma soprattutto Cassius, senz'altro l'episodio più pop dell'album), bucolico, sì, ma a tratti anche (sub)urbano (cfr. la "Tune Yards" con le mani sporche di asfalto di "Lemur Catta" e "A Place Where People Disappear"). Di tanto in tanto i suoni appaiono invecchiati ad arte (il singolo "Punta Otok" propone un evidente carpet-tastieronismo anni '80 alla Orchestral Manoeuvres in the Dark, se qualcuno se li ricorda, però filante, come una sorta di motorik beneducato, ecco). Tra gli episodi più riusciti, la elettro-beatlesiana "Sissi" e il doo-wop stupefatto e, diciamo così, asintoticamente bipolare nella riverberante conclusione. (Alberto Calorosi)