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lunedì 16 settembre 2013

Tyranny is Tyranny - Let It Come From Whom It May

#PER CHI AMA: Sonorità Post, Fugazi, Shellac, June of 44, Neurosis
Questa giovane band americana proviene dal Wisconsin ed è al primo lavoro completo autoprodotto. Ricordando che la band si esprime in versi di natura esplicitamente anticapitalisti, ci troviamo di fronte ad un lavoro ruvido e spigoloso, trasversalmente accarezzato da aperture ambient/post rock molto ricercate e vicine al movimento rumorista che fanno da contraltare ideale all'approccio noise rock che pervade tutto l'album. Il canto oltranzista alla Neurosis rende il tutto più duro ma in realtà la musica dei Tyranny is Tyranny si ispira a band di stampo meno metal optando per un suono più alternativo come i magici Shellac, passando per certe intuizioni chitarristiche di casa Fugazi in comunione con il vuoto esistenziale dei primi Mogwai e la scrittura astratta dei June of 44. Velatamente nella tipologia della registrazione usata, volutamente low-fi di qualità, troviamo anche un tocco di sanguigno e intelligente rock stile ultimi Pearl Jam, ovviamente tutto perennemente sotto lo sguardo magnetico del noise rock più radicale. Questo tipo di registrazione ne esalta la ruvidità sonora e li rende più compatti e maturi. Sottolineamo che la costruzione musicale si distanzia nettamente dalla famosa band di Seattle e ricordiamo le salde radici post-core dei Tyranny is Tyranny. L'album scivola velocemente, composto da sette tracce di cui le due finali ("The American Dream is a Lie" e "Always Stockholm, Never Lima") superano i sette minuti e mostrano tutta la vena lisergica/cinematico/psichedelica della band, lunghe suite musicali cariche di tensione e nervosissime che lasciano un nodo in gola, per il loro suono frastagliato e multi direzionale, fatto di stop improvvisi, atmosfere dilatate e un canto straziante che riporta alla mente la crudeltà di questo mondo. Una band autentica e senza fronzoli, che suona a nervi scoperti e a denti stretti. Una band tutta da scoprire! (Bob Stoner)

(Phratry Records - 2013)
Voto: 75

http://tyrannyistyranny.bandcamp.com/

venerdì 13 settembre 2013

Light Bearer - Silver Tongue

#PER CHI AMA: Sonorità Post-
Difficile scrivere qualcosa che già non sia stato detto o scritto sui Light Bearer, ma d'altro canto con questi ragazzi va da sempre cosi, il rischio di scrivere banalità è dietro l'angolo, pertanto mi limiterò a raccontarvi le sensazioni tratte dall'ascolto di “Silver Tongue” e niente di più. Partiamo col dire a chi malauguratamente non li conoscesse, che i nostri si formano dalle ceneri dei Fall of Efrafa, mitica band inglese di post metal, per volere di Alex Cf, il vocalist, reclutando qua e là ottimi musicisti della scena. Un ottimo primo album, un EP, uno split e ora questo “Silver Tongue” che conferma l'eccellente stato di forma di Alex e soci che, con questo disco, prosegue il discorso iniziato con il precedente “Lapsus”. La solita prolissità in termini di durata si conferma anche qui, con l'apertura affidata ai 17 minuti di “Beautiful is this Burden” di cui un terzo è speso in scenari ambient, mentre il rimanente continua ad offrire la consueta centrifuga corrosiva fatta di suoni post (hardcore/sludge/metal) che da sempre la band concede. Altamente complesso il concept lirico alla base di questo lavoro, nato nel primo cd e che attraverso quest'album ci accompagnerà fino al quarto disco (e poi un nuovo scioglimento? Chissà...): vi basti sapere che le tematiche affrontano (accusandole) religione e politica, citando dalla “Bibbia” al “Paradiso Perduto” di Milton, passando attraverso la “Divina Commedia” di Dante. L'odio riversato verso la religione si propaga anche a livello musicale offrendo pezzi che uniscono suoni al vetriolo con una fluida emotività colma di una lacerante malinconia, che solo l'abilità strumentale dei nostri è in grado di donare. Rozzi, sfrontati, incazzati, i Light Bearer ci sparano in faccia il loro concentrato di cattiveria e desolazione su cui imperversa la voce growl del bravo Alex. L'ondulante muro sonoro che il sestetto britannico innalza ha dell'invalicabile e continua a mettere mattone su mattone anche nella seconda più breve “Amalgam”, in cui cenni di Cult of Luna emergono nelle sue note. Mai ritmi esasperati per carità, i Light Bearer sono maestri nello spingerci lentamente sul bordo del precipizio, farci camminare li dove esiste il flebile confine tra vita e morte. Una voce pulita apre “Matriarch” e qui, non me ne vogliano i nostri, un cenno ai The Ocean è percepibile nel giro di chitarra-basso-batteria-archi, ma niente di grave: la song è notturna, mette una certa rassicurante serenità addosso, grazie soprattutto ad uno eccellente epilogo. “Clarus” è il classico ponte che unisce la prima alla seconda parte del disco. Segue l'avvincente arroganza di “Aggressor and Usurper” e i suoi 16 minuti di martellante ferocia che poco spazio concedono alla melodia, se non nell'unico atmosferico break centrale che mi concede un attimo di respiro. Poi ecco sopraggiungere un'infernale scarica di pura violenza in cui a mettersi in luce, oltre alle caustiche vocals, vi è l'esemplare prova del batterista, Joseph Towns, a dir poco mostruosa. A chiudere il disco ecco la title track, venti minuti scarsi di tiepide aperture post rock venate da tutto quello che oggi i Light Bearer sono: sludge, hardcore, post-qualcosa, alternative e progressive, fondamentalmente dei geni incompresi. Gli insegnamenti dei Neurosis, dei Tool e dei Explosions in the Sky, confluiscono tutti insieme in questa song, raggiungendo la sua summa in un break vocale sorretto da un triste violino. Che altro dire, se non acquistare a scatola chiusa questo gioiellino. Mordaci! (Francesco Scarci)

giovedì 12 settembre 2013

Noumeno - Trapped

#PER CHI AMA: Heavy metal strumentale
Tarda mattinata di una giornata semi-coperta, fresca quanto basta, pronta per ascoltare un po' di metal di qualsiasi tipo. Mi trovo tra le mani il cd dei romani Noumeno, guardo la copertina e penso “mica male questo terzo occhio minaccioso verde brillante”; metto il cd dentro il lettore e premo play. La prima traccia, "24", si apre con un bel riff di chitarra e un rullare di batteria (trovo qualche assonanza con gli Iron Maiden) dal ritmo sempre più serrato e furioso, ideale per i fanatici dell'headbanging, che passano da un semplice assolo ad una prova collettiva di brano strumentale, con risultati veramente buoni, se non eccelsi. "Jason Becker Tribute", come dice il titolo, è un tributo ad uno dei più famosi chitarristi heavy (Cacophony con Marty Friedman, David Lee Roth), bloccato dalla SLA, ma che perpetua nel comporre brani e sfornare cd. In questo brano la chitarra viene portata agli estremi: dal tempo veloce a quello più lento, passando per il mezzo: veramente notevole. "Panda Song" ha un ritmo veloce ma non troppo, trasuda malinconia e potenza, specialmente nell'assolo di batteria, ma per il resto rimane sull'allegro andante, senza essere invadente. In "Visionary Schizophrenia" i nostrani Noumeno si avvalgono della presenza del tastierista Vitalij Kuprij (ex Artension): si arriva a rasentare il ritmo furioso e cardiopalmico, senza esagerare. "Without Fear Without Pain" si apre con note molto dolci, proprio per lasciarci respirare dopo la furia del brano precedente: qui la chitarra diventa malinconica e la batteria le fa eco; dolce e tranquillo non significa però noioso o ripetitivo... difatti la peculiarità di questo album è che le canzoni non si ripetono mai. Comunque brano più sul versante prog rock che metal. "A Sense of Agony" invece parte subito spedito, veloce, cattivo ed energico: sebbene il ritmo cambi in continuazione, il risultato è sorprendente per la capacità di saltare da un accordo all'altro senza apparente fatica. "Mind Labyrinth" invece è più introversa, più cupa, ma fondamentalmente più agitata degli altri brani: si direbbe quasi il picco di massima di questo album. In "Anger in Vain" troviamo l'apporto di un altro grande shredder italiano, Francesco Fareri: il suo assolo risulta più un vortice che ti risucchia, facendoti perdere per un attimo tutto il resto attorno. Una gran bella sorpresa che arricchisce le già eccelse chitarre. Con "Psychotic Syndrome" l'album si chiude con un sound deciso, accattivante e veloce, portato all'estremo fino alla cessazione immediata: con esso finisce anche il cd. Una fine così, però, è incompleta: ci vorrebbe qualche strascico musicale, magari note di chitarra o tastiera, tanto per lasciare un'impronta più profonda anche nella chiusura. Danilo, Fabrizio, Emanuele ed Emiliano sono riusciti a trovare un punto d'incontro, creando brani frizzanti, energici e anche malinconici. Questo album lo vedrei bene come qualche colonna sonora di qualche videogame di corse. Di sicuro è una band da tenere d'occhio: mai prima d'ora mi era capitato di ascoltare un album totalmente strumentale, ma devo ammettere che hanno veramente un grande potenziale e una tecnica spettacolare. Al prossimo lavoro, allora! (Samantha Pigozzo)


(UK Division Records - 2010)
Voto: 75

https://www.facebook.com/NoumenoOfficial

Follow the White Rabbit - Endorphinia

#PER CHI AMA: Math Progressive, Between the Buried and Me, Devin Townsend
Gli ho bramati, cercati in internet, contattati su bandcamp ma niente da fare, ad un certo punto addirittura ricercati nella loro stessa città, S. Pietroburgo; i Follow the White Rabbit erano irraggiungibili. Poi grazie a facebook sono entrato in contatto con qualcuno che è vicino alla band e finalmente questo digipack è giunto tra le mie mani. Perché cosi tanto desiderio per “Endorphinia”? Presto spiegato: questo disco è da urlo. E allora seguite anche voi con me il bianconiglio ed entrate nel mondo delle 'Matrixmeraviglie'. Dieci pezzi che si fanno strada con la delirante opening track, “The Eye Light”: dapprima oscura per poi esplodere in una serie di suoni dal forte potere disturbante. Articolati, geniali, irriverenti, signori questi sono i Follow the White Rabbit. Giusto per darvi qualche coordinata e spiegarmi meglio, potreste prendere la progressione matematica dei The Dillinger Escape Plan, la voce pulita e non dei Between the Buried and Me, l'inventiva di Devin Townsend e soci, e un bel po' di malsano e orrorifico ambient. Vi gusta? A me un sacco e dire che non sono proprio un grande fan delle band qui citate, ma vi garantisco che quando ho per sbaglio dato un ascolto a questo disco su internet, me ne sono perdutamente innamorato. Follemente evocativa la prima parte di “Few Stories of a Deserted Forest”, poi ecco impazzare nuovamente l'anarchia, Mike Patton sarebbe fiero di questo quartetto russo con vocals che viaggiano tra il growl, scream, clean ed epic (tipo ICS Vortex). Completamente ubriaco già dopo l'ascolto delle prime due song, mi metto alla guida della mia auto di notte con “Fakeface” di sottofondo: beh ecco, non fatelo mai, rischiereste di impazzire. Mathcore a tratti, stoppato da atmosfere da brivido, vocalizzi eccelsi che sottolineano l'esagerata prova di Vual Dali dietro al microfono. Visto che ci sono, ne approfitto e cito anche gli altri membri dell'act russo, elogiando la loro performance fuori misura: Cheeseass, un tarantolato alle chitarre; Zebra, elegante al basso; Trulala, monster di sicura formazione jazz, dietro alle pelli. Pura emozione quando inizia “Fakeface: the End”: la paura passa e torna a strizzarmi l'occhio la luna. Certo con i FTWR non si può stare sereni: “All Night and Day” parte piano, preludio della insania che si paleserà presto nelle mie orecchie: un dolce arpeggio solletica i miei sensi, splendide vocals e poi il tutto e niente. Splendido, parola qui di sicuro non abusata. L'attacco ai miei sensi arriva però solo con “Panic Attacks”, song feroce, graffiante, forse la più devastante del lotto, in cui anche la voce, cosi come la musica, non cede molto alla melodia. Ma la furia 'matematica' venata di punk, si manifesta anche in “The Great Worm” con urla disumane, tempi dispari, stop'n go, break acustici e violenza in perfetto annichilente stile Between the Buried and Me che fanno una jam session con i Dillinger Escape Plan. “War Song” è una tiepida traccia mentre “Zzz(Zzz)” non può che essere una dolce ninna nanna prima della conclusiva title track. “Endorphinia” mi fa ritornare dal paese delle Meraviglie o da Matrix (decidete pure voi): l'ultimo stadio della loro pazzia passa da questa catartica traccia. Assordanti! (Francesco Scarci)

mercoledì 11 settembre 2013

Cvinger - Monastery of Fallen

#PER CHI AMA: Black Old School, Marduk, Darkthrone
Un sacco di musica nuova sta giungendo alle mie orecchie in questo ultimo scorcio d'estate. Non ultimi gli sloveni Cvinger, band il cui biglietto da visita è rappresentato da questo malefico EP di debutto “Monastery of Fallen”. Si tratta di un breve 8-tracks dal forte sapore black old school, più orientato al versante svedese del termine. Il trio di Koper si scatena con taglienti riffoni black, screaming vocals spaventose ed un approccio piuttosto satanista, inneggiante la misantropia più pura e altre amenità del genere che pensavo fossero ormai state debellate anche nel circuito underground. Interessante l'approccio corale di “Among the Crucified“, quasi liturgico, che conferisce una certa originalità di fondo. La successiva saettata risponde al nome di “Salvation in the Darkest Wrath“, vorticosa song che abbina all'irriverenza del black metal anche un mid-tempo nel suo break centrale (e che ritornerà anche nel corso della title track). Non aspettatevi grandi cose dal nostro malvagio trio, questo è puro black metal e non c'è alcun spazio per la sperimentazione. Se siete in cerca di un nome nuovo in territori black perché vi siete stancati dell'enormità di band che provengono dalla penisola scandinava, gli Cvinger potrebbero anche fare al caso vostro, peccato solo che talvolta la loro musica sfoci nel caos più totale, rendendone difficoltoso l'ascolto. La feralità del combo sloveno trova punti di contatto con Marduk e Dark Funeral, senza tuttavia dimenticare un certo approccio punk tipico dei Darkthrone. Uno dopo l'altro, i brevi pezzi di questo EP, mi stordiscono e al termine dei 20 minuti, la sensazione che mi rimane è quella di aver ascoltato in realtà un full lenght della doppia durata. Cattivi quasi da far paura. (Francesco Scarci)

martedì 10 settembre 2013

Existe - Et de Longs Passages Douloureux...

#PER CHI AMA: Post Black, Wolves in the Throne Room
Gli Existe sono una one man band proveniente dal Canada, capitanata da Cyril Tousignant, responsabile di tutti i suoni e liriche di questo EP di quattro pezzi. Il cd si apre con una overture di tre minuti, che fa da preludio alla furia primitiva della title track, sette minuti di black che mischia sonorità old school con nuove influenze post che si concretizzano nel break che la band concede dopo il primo minuto e mezzo, fatto di suoni malvagi, un semplice arpeggio, vocals sussurrate e infine uno squarcio elettrico affidato ad una flebile chitarra, prima di un esplosivo e deflagrante finale. “...Pour une Harmonie Rechergée” ci offre altri otto lunghi minuti di sonorità post-black, belluine screaming vocals e ruvide atmosfere, che sfociano quasi nel noise. Peccato la produzione non sia delle migliori e che quindi molto spesso i suoni si impastino tra loro, facendo capire ben poco del caos sonoro che fuoriesce dai malefici strumenti di Cyr. Ciò che mi colpisce maggiormente è invece il continuo alternarsi di tempi e atmosfere; sembra quasi osservare il cambio delle quattro stagioni in un sol giorno, il che rende il risultato finale assai ricco in fatto di dinamicità. Ottimi gli intermezzi classici affidati a quei tocchi soavi di pianoforte, un pizzico di malinconia derivante dal pianto di un neonato, le voci lontane di un paese sul chiuder del giorno e le onde del mare che si infrangono sugli scogli. La musica degli Existe è interessante, ha il difetto di non esser stata assemblata nel migliore dei modi e di suonare abbondantemente raw, ma poco importa, i margini di miglioramento si mostrano assai ampi. Pertanto, andare avanti sulla propria strada è l'unica cosa che mi sento di dire agli Existe. (Francesco Scarci)

La Notte dei Lunghi Coltelli - Morte a Credito

#PER CHI AMA: Punk Rock Hardcore
Rabbia e corde tese, ecco cosa mi suscitano i La Notte dei lunghi coltelli (LNDLC). Questo per farvi capire che non mi interessa particolarmente cosa c'è dietro un progetto, se nasce dalle costole di un altro (Karim qqru dei Zen Circus in questo caso), è stato prodotto dal Papa in persona (in alcuni casi avrebbe dato risultati migliori, credetemi) o registrato nello studio più figo di Londra dove ha vomitato David Gilmur dopo una serataccia. Da tempi immemori, appassionati musicisti spremono il loro sudore, tempo libero e mille imprevisti in un unico concentrato di arte, sperando che qualcuno colga l'essenza del sacro fuoco che arde in loro fino a divorarli. Comporre e scrivere permette di placare questo prurito perenne e ognuno lo fa a modo suo. I LNDLC violentano le parole, i suoni e l'orecchio di chi ascolta, passando dal harcore spinto de "La Caduta" all'electro ambient eccentrico di "Ivan Iljc". La seconda traccia "J'ai toujours été intact de dieu" spicca per il testo francese probabilmente preso da una poesia di Jacques Prevert, ma premetto che la mia ignoranza potrebbe offendere qualcuno quindi chiedo venia... Personalmente ho apprezzato "D'isco deo", che parte già carica di rabbia che trapela dal monologo iniziale, mentre un tappeto di chitarra e synth creano un'atmosfera pronta a lanciare il brano. Questo non succede e dopo cinque minuti ti rendi conto che sei alla fine e comunque il brano ha il suo perchè. Forse il pezzo più intimo e tribale dei LNDLC. L'ultima traccia, che prende il nome dalla band, chiude questa "Morte a Credito" in una specie di outro elettronica, come voler mettere la calma alla fine della tempesta. Idee buone, messe in pratica a modo loro che possono rapire o lasciare indifferenti chi ascolta. (Michele Montanari)

lunedì 9 settembre 2013

Deconstructing Sequence - Year One

#PER CHI AMA: Extreme Progressive Death, Solefald, Arcturus
Si affacciano sulla piazza volti verso un pubblico dal palato recettivo per sonorità non certo lineari questi Deconstructing Sequence. Risparmiamoci pure eventuali arrovellamenti neuronali alla ricerca di trovare similitudini e fonti di inspirazione varie (sport amatissimo dai recensori... ma che dico, da chiunque ascolti la nostra musica preferita!): infatti basti dare un’occhiata veloce alla loro pagina FB per ritrovarvi nomi noti dell’ambito extreme a trecentosessanta gradi, quali Emperor, Nile, Akercocke, Arcturus e avanti così, ai quali mi permetto di aggiungere qualcosa dei Solefald. EP intenso, composto da tre pezzi di durata importante (tra i 7 e gli 8 minuti abbondanti) e artwork omaggio al film “Another Earth” (veri e propri fotogrammi della pellicola). Che dire, i ragazzi, che si definiscono alfieri di extreme progressive art, ci danno dentro: suoni molto moderni, siderali in diversi passaggi, che trasmettono senza troppa fatica l’idea di un viaggio a bordo di immense navi spaziali, attraversando il cosmo alla ricerca di una nuova realtà. Ritmiche rocciose ben disposte ad accelerazioni mai fuori luogo, intrecciate con chitarre zanzarose, momenti più tecnici affatto ruffiani (anzi, al limite del calustrofobico) inframmezzati da aperture sparate e campionature in alcuni casi al limite del cinematografico (ovviamente fantascientifico), con vocioni digitalizzati a descriverci i misteri di supermassive blackholes e via discorrendo. Insomma, di carne al fuoco ne hanno messa molta questi ragazzi ed il desiderio di chi scrive è che l’EP sia seguito a breve da un full-lenght che non perda nulla di quanto ascoltato fin qui, semmai arricchito da qualcosa in più, concretizzabile mediante un numero maggiore di tracce. Unica nota stonata è rappresentata dal terzo e conclusivo brano del dischetto, che francamente sembra esser sbucato dal nulla, completamente estraneo alla gran prova fin qui sostenuta dai Nostri, quasi come un riempitivo, un tappabuchi dal minutaggio corposo, che lascia l’amaro in bocca dopo le ottime aspettative maturate durante l’ascolto dei primi due pezzi e motivo del voto non brillante, sicuramente penalizzato da questo elemento. Peccato, ragione in più per attendere un eventuale album a venire. (Filippo Zanotti)

Bernays Propaganda – Zabraneta Planeta

#PER CHI AMA: Alternative, Post-Punk, Gang Of Four
Terzo album per i macedoni Bernays Propaganda che, forti di un’intensissima attività live in tutta Europa, continuano sulla strada già tracciata dai precedenti lavori, ovvero un “punk-funk” piuttosto tirato, e fortemente caratterizzato da quelle che sono le tematiche sociali care al gruppo, gravitante in un’orbita “anarco-ambiental-femminista-straight edge”. La loro proposta musicale si basa su una forte impronta new wave/post punk, con ritmiche incalzanti e molto “ballabili”, linee di basso belle spesse, chitarre funkeggianti e (non troppo) dissonanti e una voce femminile a declamare con convinzione i propri testi, spesso e volentieri nella lingua madre. Niente di nuovo sotto il sole, quindi, dato che i Gang of Four queste cose le fanno da una trentina d’anni, ma l’inizio è molto incoraggiante, con le sferzanti “Progrešno Zname” e “Makedonski Son” che mostrano un bel piglio allo stesso tempo danzereccio e rumoroso al punto giusto. Poi, però, spiace dirlo, c’è qualcosa che sembra incepparsi, e la macchina non gira più del tutto a regime. Suonano sempre con convinzione e precisione, i Bernays Propaganda, ma si trovano presto ad avvolgersi su loro stessi, come se fossero un po’ scarichi e ripetitivi, forse a causa di pezzi non sempre all’altezza. Sono sicuro che la dimensione giusta per apprezzarli sia quella live, dove certamente sono in grado di far emergere una personalità che su supporto invece appare un po’ frenata, raffreddata, e riesce ad emergere solo a tratti (come ad esempio in “Bar Kultura”). La più interessante variazione sul tema arriva con il brano di chiusura, “Leb i Igri”, che nel suo oscillare tra pianoforti dissonanti, ritmiche forsennate e fiati free, sembra indicare una possibile e più intrigante via per il futuro, magari nel solco tracciato dagli immensi The Ex, una delle band di riferimento del genere, nel quale per il momento i Bernays Propaganda stanno ancora un po’ nel mucchio. Un album discreto che, dimezzato nel programma e nel minutaggio, sarebbe potuto essere un ottimo Ep. (Mauro Catena)