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lunedì 28 gennaio 2013

Austaras - Under the Abysmal Light

#PER CHI AMA: Black/Death
Ormai ho capito che qualsiasi genere musicale identificato da una preposizione post- nel suo nome, cattura assolutamente la mia attenzione. Con un anno e mezzo di incolpevole ritardo dalla sua uscita, ecco che mi avvicino a quello che è il debut album degli statunitensi Austaras. Ebbene, manco a farlo apposta, il quartetto di Chicago offre un sound accostabile a sonorità post black, qui di grande atmosfera. Non aspettatevi pertanto troppe sfuriate black dai tre pezzi contenuti nei trenta minuti di “Under the Abysmal Light”, che si aprono con “Ash to Stain the Ground”, un brano che a parte un’anonima apertura, offre spunti di notevole interesse affidati a strimpellate di violino, breaks acustici ed incursioni in territori post rock (eccolo ritornare il termine post-), sludge fino a sfociare perfino nel folk. Probabilmente il tutto non è ancora ben amalgamato, perché quando parte “Wreck of Hope”, ho la sensazione di avere fra le mani qualcosa degli Enslaved più progressivi (anche se la classe del combo norvegese è di un altro pianeta), che risulta totalmente slegato dalla opening track. Ci pensa poi una plettrata in acustico, combinata alle ostiche vocals di T. Kuhn, a farmi tornare alla realtà. Realtà che, a dire il vero dura ben poco, perché tra esplosioni thrash, frammiste a passaggi ambient, eleganti fraseggi di chitarre, ed un azzeccatissimo uso di clean vocals (che suggerisco di incrementare in una futura release), mi fanno scuotere la testa in segno di approvazione. La musica della band dell’Illinois mi piace eccome, anche se devo ammettere, che non è cosi facile da digerire al primo ascolto (e neppure ai successivi a dire il vero). Ci prova “Spirit Farewell” ad aprire con un arpeggio, ma è poi nuovamente una ritmica che miscela sonorità thrash, black e death, ad avere la meglio. C’è tempo comunque di vederne un po’ di tutti i colori, perché gli undici minuti di questa traccia, vedono alternarsi amabilmente tutte le influenze che popolano il background dei nostri, dagli scarni e glaciali riff black, alle divagazioni bucoliche, passando attraverso aperture progressive, rallentamenti doom fino ad arrivare ad un roccioso rifferama death. Questo sancisce la degna conclusione di un debutto che vede affacciarsi una nuova interessante realtà nel panorama estremo, che a mio avviso, mostra ampi margini di miglioramento, se solo andrà a smussare quegli angoli (le vocals o un riffing death troppo monocorde) che non rendono “Under the Abysmal Light” ancora cosi tanto appetitoso. Comunque da seguire. (Francesco Scarci)

We Lost the Sea - The Quietest Place on Earth

#PER CHI AMA: Post Metal, Neurosis
Qual è il posto più tranquillo al mondo? Ho provato a cercarlo nel web, trovando Capo Verde, alcune isole della Thailandia, l’Oceania e quant’altro, tra le proposte degli utenti. Oceania… sarà un caso ma la band di oggi, arriva proprio dal continente più giovane al mondo, più precisamente dall’Australia e da Sydney, la mia città preferita in assoluto, dove negli ultimi mesi, in coabitazione con Melbourne, sembra esserci un fermento musicale a dir poco esplosivo. I We Lost the Sea, gli aussie guys di quest’oggi, hanno colpito la mia attenzione per molteplici motivi: innanzitutto per il colore (un rilassante e tranquillizzante blu) che caratterizza la loro pagina web e l’essenziale ma affascinante cover cd, che non può che rievocare la prodezza di Felix Baumgartner e il suo lancio da 39000 metri e poi, ultimo ma non da meno, la proposta del combo, dedita ad un coinvolgente post metal. Un disco che inizia tranquillo, sulle note leggiadre di “A Quiet Place” che pian piano cresce di intensità, dipanandosi tra sonorità borderline tra il post metal e il post hardcore (forse più legato a questo per le ruvide vocals). La melodia e la calma a livello delle ritmiche, si confermano anche nella successiva “Barkhan Charge”, che prova a seguire le orme dei gods statunitensi Neurosis, intraprendendo poi una propria strada, ed evidenziando a questo punto una personalità ben delineata dei nostri. Ambientazioni post rock spezzano le trame corrosive dettate dai temibili riffoni sludge del seven-piece australiano. Questa caratteristica si palesa alla grande nella lunghissima terza traccia, “With Grace”: inizio affidato ad un lungo tunnel fatto di luci soffuse e suoni ovattati, che mi permettono di mettermi a completo mio agio (eccolo tornare ancora una volta il tema del luogo più tranquillo al mondo). Mi isolo completamente dal mondo esterno, nulla è più in grado di disturbarmi, e mi sento quasi cullato dal delicato pizzicare delle corde delle chitarre. C’è qualcosa però di inquietante che brulica in sottofondo, lo percepisco lontano, ma gradualmente sembra avvicinarci sempre più e pertanto, allerto i miei sensi, quasi a prepararmi all’attacco della band; attacco che arriverà in realtà, soltanto dieci minuti più tardi, e solo per un minuto, prima di risprofondare nel buio della notte. Sempre più ammaliato dai suoni dei We Lost the Sea, affronto “Forgotten People”, non immaginando assolutamente cosa c’è ad aspettarmi. Un pianoforte, un’angelica voce femminile, una song ritmata fatta di chitarra acustica e batteria che nella mia testa ha ricordato i bei tempi di Anneke nei The Gathering, soprattutto nel modo di cantare della dolce donzella. Giusto il tempo di un interludio ed ecco irrompere “A Day and Night of Misfortune”, song in due atti, che apre con tutta l’arroganza di una robusta chitarra schiacciasassi e le vigorose vocals del frontman Chris Torpy, e che sul finale, arriva addirittura a parafrasare un passaggio del “Moby Dick” di Melville, su soffici tocchi di pianoforte. “The Quietest Place on Earth” è un disco che vive molto sull’emozionalità ben espressa dalla musica dell’ensemble dell’emisfero australe, offrendo un bell’esempio di post metal/post rock ben bilanciato, che mette in luce le qualità, le innumerevoli influenze (che arrivano a sfociare addirittura nello shoegaze) di una band davvero avvincente, che può per certo ambire a raccogliere lo scettro vacante di realtà scioltesi o che hanno perso lo smalto dei tempi migliori. Nel frattempo voi avete individuato qual è il posto più tranquillo del mondo? Date un ascolto ai We Lost the Sea, magari potreste rimanere sorpresi... (Francesco Scarci)

giovedì 24 gennaio 2013

Erase - May I Sin?

#PER CHI AMA: Metalcore/Crossover
Ecco un bella sorpresa per gli amanti del metalcore, specialmente per quelli che lo vedono di buon occhio anche con delle contaminazioni. Il quartetto alessandrino Erase si forma nel 2008, pubblica un primo EP nel 2009 e, dopo un bel po’ di esibizioni live, torna in studio per registrare “May I Sin?”, loro primo ufficiale LP. Cosa ci troviamo dentro? Dieci canzoni principalmente metalcore che, come anticipato, sono valorizzate da innesti di altri generi, il crossover in particolare. Nel complesso il lavoro è abbastanza originale, di piacevole ascolto ma aggressivo e tirato in maniera consona al genere. Tale aggressività sonora si trova già nella open track “Ashes and Sinners”,e si mantiene costantemente per tutto il disco. Le parti melodiche presenti in alcune tracce, per esempio nell’orecchiabile “Another Day”, sono una buona vetrina per poter mostrare la malleabilità vocale del cantante. Mi pare a suo agio in queste sezioni pulite come in quelle più urlate. Ho trovato interessante la parte delle chitarra in “Ripper Inside”, si nota particolarmente la mano educata del chitarrista Dave. Cito “Lover” tra le migliori: ritmo e stacchi sono notevoli. Sempre in linea e precisa la parte ritmica, se ne può notare la bontà durante tutte le track. Gli Erase mi hanno soddisfatto e mi han lasciato quella smania serpeggiante di sentire cosa combineranno nel futuro. Dimenticavo, vorrei rispondere alla domanda che la ragazza ammiccante della copertina mi/ci pone: “May I Sin?” Risposta: “Con quegli occhi, per me, puoi fare quello che vuoi!”. (Alberto Merlotti)

(Buil2kill Records)
Voto: 75

http://www.eraseband.net/

mercoledì 23 gennaio 2013

Kalki Avatara - Mantra for the End of Times

#PER CHI AMA: Sonorità esoteriche
Chiudete gli occhi e meditate. Concentratevi sullo scorrere del tempo visualizzandolo come note sul pentagramma. Ascoltatele o meglio abbandonatevi al loro lascivo abbraccio. Sentitevi avvinghiare dalla loro densa, impudica nebbia. Vi avvolge. Vi stringe. Vi penetra. Vi possiede. Aggrappatevi a questa fonte di inesauribile piacere e fatelo vostro. Viaggiate. Viaggiate molto, molto lontano. Tanto, tanto tempo fa. Indietro. Indietro. Indietro nel tempo. Sarò la vostra mefistofelica guida in un’epoca più che remota, prima della comparsa del vecchio saggio Vyāsa. Un’epoca dove le persone comuni ancora ricordano i Veda a memoria, al primo ascolto, afferrandone nell’immediato le profonde implicazioni. Nell'epoca del Kali Yuga (l'era attuale) durata della vita e memoria si sono assopite, vengono meno, gli individui sono spiritualmente meno acuti. Ecco che allora Vyāsa discese nel mondo, mise i Veda in forma scritta, li divise in quattro parti e compose tutti i 18 Purana, uno in particolare: il Bhagavata Purana. 25 sono i maha avatara che lo compongono. Kalki è sempre l'ultimo di questi in ordine cronologico: la tradizione lo descrive nelle sembianze di un valoroso condottiero dalla fiammeggiante spada in pugno, a cavallo di un bianco destriero. Sradicherà il male dal mondo, si dice. Rinnoverà la Creazione stabilendo un regno dei giusti, si narra. I lettori più accorti avranno certo colto questo mio tentativo d’iniziazione ai magici misteri dell’induismo. Religione poco nota, da noi, se vogliamo, e proprio per questo molto affascinante. Ma questo è solo un mio personale punto di vista, non condivisibile se vi pare. Fatto sta che queste rocce millenarie rappresentano il fulcrum, vero e proprio concept di questo EP “Mantra for the End of Times” rilasciato in sole mille copie da Kalki Avatara: tricolore progetto solista autoprodotto da Paolo Pieri "Hell-I0-Kabbalus" nel 2008 (già attivo in band quali Aborym e Malfeitor, per chi non lo conoscesse) e rilasciato poi dall’etichetta canadese Shaytan Productions nel 2009 in sole mille copie. Ma procediamo con ordine nell’eviscerare questa tetraedrica liturgia dai sapori orientali decisamente evocativa. Mi calo in una sorta di sopor aeternus cullato come un fanciullo dai primi atmosferici suoni di “Mankind Collapses”. Poche, ma ben concepite note di tastiera s’amalgamano armoniosamente ad un ritmo molto lento di batteria. Molte, e lunghe, le pause. S’intersecano a quest’arcano disegno, voci corali che mi accendono circuiti neurali del tutto inesplorati. Le scintille si fanno poco a poco fiamma che prima tentenna al vento per poi sfociare in fuoco con l’avvento della voce. Uno screaming cavernoso, da rigurgito (senza offese, è un complimento) ben dosato, senza eccessi dunque, che si contrappone alle pulite, alte voci corali. Segue un intermezzo strumentale costruito su una magnifica fuga di tastiera, coadiuvata dalla batteria, che qui si concede una breve galoppata. Il pezzo torna a rallentare e viene reintrodotto il tema principale che conduce alla fine del pezzo. Campane tubulari, percussioni e non ben definiti strumenti etnici introducono “Ruins of Kali-Yuga”. L’introduzione sfocia però poi in un tema che ricorda tutti i sapori della precedente traccia. Unica novità, a mio avviso, è la presenza di un intermezzo jazz che prende il posto di quello che prima era il posto della fuga di tastiera. Segue “Purification”: la sorpresa qui sta nel fatto che è cantata in tedesco, una lingua dura che sposa molti, anche se non tutti (power e progressive ad esempio), i generi di metallo. Caratteristica degna di nota di questo pezzo è, per me, la tastiera. Qui ricorda un carillon e mette brio alla composizione melodica di base. La fine dei tempi viene scandita dall’ultima delle quattro track, l’outro “Awaiting the Golden Age”: ancora una volta odo i cori ma qui diventano salmodici, oserei dire omelici. Sono accompagnati da quello che azzarderei essere un sitar. L’urlo finale mi catapulta senza preavviso al presente: fatto di tasse, crisi ed imminenti elezioni. Non c’era quindi titolo più azzeccato di questo per fare ironia: bisognerà purtroppo aspettare davvero molto per entrare nell’età dell’oro, anche se le pepite che da sempre preferisco sono quelle di metallo pesante. (Rudi Remelli)

(Shaytan Productions)
Voto: 80

http://www.shaytanproductions.com/

martedì 22 gennaio 2013

Arktika - Symmetry

#PER CHI AMA: Sonorità Post (Hardcore/Rock)
Questa storia della riesumazione del vinile mi fa un po’ incazzare: cavolo per 10 anni ho collezionato vinili, dal ‘84 al ’94 e poi sono svaniti nel nulla. A quel punto, ho deciso di dedicarmi alla musica su cd, svendendo tutti i miei lp e costituendo un’importante libreria musicale e ora, alcuni tra gli artisti che più mi interessano, hanno deciso di far uscire la loro opera in vinile o in formato digitale, escludendo a priori il cd, e impedendomi pertanto di recensire un lavoro, in modo sereno, ma che diamine. Per gli Arktika mi è toccato quindi fare uno strappo alla regola, e salvarmi le tracce sul mio lettore mp3, pur di avere modo di usufruire della musica di questi ragazzi teutonici. Il genere? Post hardcore, e oramai credo di avere una grave dipendenza da tutto ciò che reca nel nome la preposizione post-. Eh va beh, dopo questa recensione andrò in una clinica per farmi disintossicare, nel frattempo provo a godermi le tracce di “Symmetry”, album di cinque pezzi, che sarebbe in effetti limitativo bollare come post hardcore, visto che di hardcore è rimasta solo la vetriolica voce (talvolta quasi emo, a dire il vero), e tra l’altro non rappresenta neppure il pezzo forte della band. Gli Arktika fondano infatti il loro successo, tessendo inebrianti linee di chitarra post-rock (e ci risiamo): eccellente in tal senso “Broken Flowers”, brano gentile, emozionale, che vede l’utilizzo finalmente decente delle vocals, almeno per due terzi del brano, prima che un riffing pesante si impossessi della ritmica e la timbrica assassina, salti fuori nuovamente. Ho capito, devo imparare a soprassedere, andare oltre a questi miei limiti, per non scagliarmi contro un album, quando in realtà non lo meriterebbe. Già perché “Symmetry” è davvero un buon album: l’intermezzo ambient di “The Living Receiver” ci permette di rilassarci, predisponendoci all’ascolto della seconda metà di questa release, inaugurata nuovamente dall’intemperanza (per fortuna solo vocale) di “Sermon”, che invece a livello musicale continua a muoversi prettamente su tenue e semplici sonorità post rock e solo in rari momenti, spinge poco più sull’acceleratore, mantenendo comunque costantemente una buona dose fluttuante di melodie. A chiudere il disco ci pensa “Bridgeburner”, il mio pezzo favorito, quasi undici minuti di eteree melodie sognanti, che prendendomi per mano, mi accompagneranno dolcemente tra le braccia di Morfeo. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

http://www.arktika.eu/

Khonsu - Anomalia

#PER CHI AMA: Groove Metal, Industrial Metal
Dopo un lungo peregrinare nella rete, prima o dopo, quell’album capace di sorprenderti salta fuori e nel caotico panorama metal degli ultimi anni non è sempre così scontato. Almeno pare non esserlo per chi ha passato l’ultimo ventennio a fagocitare tonnellate di dischi. L’effetto paradosso di una grande passione per la musica è proprio questo: un grosso sbadiglio sempre in agguato già al primo pezzo. Con tanti ascolti alle spalle, è quasi invitabile che tutto suoni banale e già sentito, soprattutto quando il mercato è sovrassaturo di band, ma quando inciampi su un album fuori dagli schemi come quello dei Khonsu, capisci immediatamente che dovrai mettere mano al portafogli, perché certi lavori l’acquisto lo meritano davvero. Khonsu è il progetto di S. Grønbech, polistrumentista norvegese che viene supportato alla voce da Thebon, già singer nei Keep of Kalessin. Nel loro album d’esordio, “Anomalia”, il duo presenta sette brani di grande impatto, per un’ora scarsa di musica in cui le sorprese di certo non mancano. Sbadigli, dunque? Neanche mezzo! Fortunatamente poi, delle sonorità ruffiane dei Keep of Kalessin “Anomalia” non possiede nulla. Anzi, il pregio dei Khonsu è quello di proporre un metal di difficile catalogazione. Groove? Industrial? Alternative? Avantgarde? Forse questo debutto è la risultante di tutti questi generi mescolati assieme. Forse c’è persino dell’altro, ma in fondo nessuno ci obbliga a trovare un’etichetta. Piuttosto, vale la pena soffermarsi su ogni singolo brano e constatare quanta energia venga sprigionata da ciascuno di essi. Energia che tra l’altro viene amplificata e ben veicolata da una produzione a dir poco poderosa, dove il suono di ogni strumento è perfettamente calibrato e il bilanciamento tra chitarre ed elettronica offre un esempio concreto di eccellenza. Di beat e tastiere infatti, “Anomalia” è pieno, ma il sound rimane assolutamente robusto ed omogeneo, affrancandosi in maniera netta da certi pasticci “industrial metal” dal vago retrogusto plasticoso. Una prova esemplare di questo equilibrio è “Inhuman State”, opera dall’impronta cyber che si dipana in quasi dieci minuti di accenni vocali hardcore e di tastiere che sembrano voler raccontare un viaggio interstellare da cinematografia sci-fi. Non sono da meno “In Otherness” e “The Host”, che, tra barocchismi ed un pizzico di teatralità, paiono invece ispirarsi a degli Arcturus imbottiti di vitamine. Vale la pena citare anche “Dark Days Coming” e “Via Shia”, perché entrambe svelano degli episodi emozionanti di cantato in voce pulita, che probabilmente rappresentano i picchi più espressivi e melodici dell’album. Il vero carattere dei Khonsu emerge però in “Malady”, indubbiamente il brano più originale ed evocativo, sul quale il gruppo dovrà porre le basi per sviluppare ed affermare un proprio stile unico e ancor più distinguibile. Promettenti. (Roberto Alba)

(Season of Mist)
Voto: 80

http://www.soundsofkhonsu.com/

Visio Mortis - Call of the Swarm

#PER CHI AMA: Swedish Death, At the Gates, Dark Tranquillity
Avete mai pensato a quante band popolino il mondo dell’underground, al fatto che quelle, di cui leggiamo le recensioni o sentiamo pezzi alla radio, rappresentino solo la punta dell’iceberg di un movimento a dir poco sconfinato? Questa breve intro per dare oggi il benvenuto agli svedesi Visio Mortis e al loro Ep di debutto “Call of the Swarm”. Cinque cavalcate di un death non troppo melodico, ma piuttosto votato alla feralità, che sin da “Odium”, ci investe con il suo dinamismo e la sua brutalità. L’intro affidato alle tastiere, li per li, mi ha fatto pensare a qualcosa più orientato al versante gotico, ma la ritmica serrata e il grido disumano del vocalist, mi hanno prontamente fatto cambiare idea. Il sound dei nostri è infatti affidato a degli scoppiettanti riff di chitarra che, ben accompagnati da un drumming selvaggio, vanno a costituire la matrice di fondo dei nostri. “Born in Deceit” non è da meno: qui non troverete neppure il mansueto giro tastieristico a prepararvi alla tempesta, perché subito l’ensemble scandinavo attacca con il suo martellante incedere, che trova squarci di melodia in un brillante break chitarristico, con il bravo vocalist, Sebastian Gustavsson, a mietere vittime con un’ugola cavernosa e graffiante. La title track è la song più lunga, ma anche quella che si perde maggiormente in un inizio soffuso e ritmato, la cui oscurità sembra rimandare stranamente a “The Silent Enigma” degli Anathema. Ovviamente, verrò smentito a breve, con la traccia che immagino possa tornare a spingere l’acceleratore; invece no, mi sbaglio. Si tratta di un mid-tempo, in cui il vocalist propende per soluzioni vocali differenti. Notevoli gli assoli, ma d’altro canto, essendo i Visio Mortis svedesi, avevate qualche dubbio? Quando “King of Torment” attacca è il suono dei Dark Tranquillity miscelato a quello degli At the Gates, ad uscire dalle mie casse. Bel tuffo nel passato questo, un vero e proprio “back in time”, che mi fa apprezzare ulteriormente la proposta di questo giovane combo nordico, che con il pianoforte di “Where All Becomes Dust”, chiude il proprio interessante debutto, a cui dovrete dare assolutamente una chance. (Francesco Scarci)

martedì 15 gennaio 2013

Chaos Echoes - Tone of Things to Come

#PER CHI AMA: Black/Drone/Doom/Post/Ambient/Death, Aevangelist, Blut Aus Nord
Un basso tonante apre questo cd, di questi misconosciuti francesi Chaos Echoes, nati solo nel 2011 dalle ceneri dei Bloody Sign, che ci conducono in un luogo assai pericoloso, fatto di luoghi angusti e claustrofobici, proprio come la loro musica. Il primo nome che inevitabilmente mi è venuto in mente, ascoltando l’occulta traccia in apertura, “Rise”, è stato Celtic Frost (periodo “Monotheism”): chitarre ovattate, dal tono estremamente ribassato, vocals demoniache relegate solamente negli ultimi 30 secondi di una traccia della durata di sei minuti. Poi un intermezzo interlocutorio di un paio di minuti, in cui è ancora un malefico tocco di basso, ad incutere un misto tra il fascinoso e il terrorizzante. “The Innermost Depths of Knowledge“ è la terza Song e decisamente mi convinco che l’obiettivo primario del quartetto transalpino, sia quello di creare un’atmosfera oltreché sulfurea, anche paralizzante, un po’ come quando si rimane bloccati dalla paura. L’incedere minaccioso delle chitarre, che in alcuni frangenti sembrano essere impossessate dal malefico influsso dei Morbid Angel di “Blessed are the Sick” o dal funambolico ardore degli Akercocke, mi esaltano non poco durante l’ascolto di “Tone of Things to Come”. “Interzone II” è un secondo mistico interludio che ci introduce a “Black Mantra”, altra song destabilizzante, fatta di uno strano connubio tra sonorità marziali, black, death, drone e post-apocalittiche, le cui ritmiche viaggiano serrate nella direzione di un iperbolico e diabolico sound spaziale. Per quanto la proposta dell’ensemble francese appaia decisamente poco digeribile al primo ascolto, ammetto di esserne stato assolutamente ammaliato, cosi quando l’ultima “Weather the Storm” parte, cerco di gustarmi appieno i suoi 12 minuti abbondanti (interamente strumentali), che si aprono con una vena noise, prima di abbandonarsi alla ricerca, quasi esasperante, di sonorità che non appartengono a questo mondo, forse neppure a questo sistema solare, per un risultato davvero da brividi, che oltre a mettere in luce la genialità della band, ne evidenzia anche le elevatissime doti tecniche. Davvero niente male come debutto, e niente male pure l’inquietante digipack. Maestosi. (Francesco Scarci)

(Chaos Echoes Products)
Voto: 85

http://chaosechoes.org/

Rosa Crux - In Tenebris

#PER CHI AMA: Goth Rock/Dark
Giunti al loro terzo album, dopo i notevoli “Proficere” e “Noctes Insomnes”, i francesi Rosa Crux non sono più un trio, bensì un duo, in seguito alla dipartita della bassista Nathalie Méquinion, la quale ha lasciato a Olivier Tarabo e Claude Feeny il compito di portare avanti da soli questo progetto. Come sempre, anche stavolta l'artwork e la confezione che accompagnano il cd sono curatissimi e ciò aumenta il valore di un'opera prodotta e realizzata interamente dal gruppo, che ha sempre scelto di non cercare il supporto di alcuna etichetta per pubblicare i propri lavori. È “Adorasti”, canzone d'apertura, che ci introduce in questo terzo capitolo del gruppo francese e che ci svela subito ciò che ha sempre reso unici i Rosa Crux, ovvero la loro musica così tagliente e dall'incedere cadenzato, come se ogni traccia dell'album rappresentasse una fase di un rituale segreto al quale Olivier e Claude ci permettono di assistere e che ci è rivelato dall'opera nella sua interezza. L'aura solenne e misteriosa che aleggia su “In Tenebris”, e in generale in tutti i lavori dei Rosa Crux, è accresciuta dalla scelta, ancor più incisiva in quest'ultimo album, di scrivere i testi in latino e di strutturare i brani in modo che sia una batteria meccanica (BAM), estremamente secca e fredda, a conferire quel suono così ritmato e scarno che contraddistingue i loro pezzi. Si susseguono così “In Tenebris”, “Terribilis”, “Arcum”, “Procumbere”, “Sursum Corda” e “Omnes Qui Descendunt”... ognuna intrisa di un fascino realmente oscuro, in grado di trasmettere cupe vibrazioni e di emanare funesti presagi. Il cd contiene anche un video (sicuramente realizzato con mezzi tecnici professionali, data l'ottima qualità delle immagini) della canzone a mio parere più riuscita dell'intero album. Il video colpisce per il gusto particolare che ha ispirato le scene, di impatto sia per le ambientazioni scelte sia per gli inquietanti scenari che si succedono dando vita a lugubri visioni di un arcano rituale notturno i cui passaggi sono scanditi dalle note terrifiche di “Omnes Qui Descendunt”. “Omnes Qui Descendunt” è anche la penultima canzone di “In Tenebris”, che si chiude con “Salve Crux”, brano che si allontana dalle sonorità che ci hanno accompagnato durante l'ascolto fino a questo momento e che si accosta maggiormente ad atmosfere più ambient. Personalmente ritengo che, pur essendo un lavoro emotivamente molto intenso, “In Tenebris” sia leggermente meno coinvolgente rispetto ai precedenti album, avendo percepito spesso nelle canzoni una struttura più minimale e una sensazione di maggior distacco rispetto al passato. Tuttavia, rimane un album dei Rosa Crux fino in fondo. Un grande album dei Rosa Crux. (Laura Dentico)

(Rosa Crux Production)
Voto: 75

http://www.rosacrux.org/

Mandibula - Sacrifical Metal of Death

#PER CHI AMA: Doom metal anni '80, Celtic Frost, Nortt
Questo cd, firmato Mandibula è la riedizione 2012 fatta uscire dall'etichetta Ethereal Sound Works/Caverna Abysmal del loro demo prodotto in precedenza nel 2010. I Mandibula sono una one man band portoghese di cui si sa molto poco e la loro musica è carica di suggestioni doom e assai oscura. Capiamoci subito, il sound di questo cd risulta interessante solo se si riesce ad entrare nei meandri allucinogeni e tenebrosi di questo musicista misterioso. I canoni sonori, a dispetto del titolo, sfuggono dalle premesse metal ma mantengono le cadenze doom (le parti migliori del disco) più o meno per tutto l'album. Sono parecchie le stranezze stilistiche che possono essere scambiate per incompetenza musicale, cominciando dai suoni che sembrano registrati in una vecchia cantina o l'uso di una drum machine di sottomarca , le ossessive, infinite e ripetitive ritmiche delle chitarre, oppure quella voce che si divide tra l'essere un rude predicatore e un vocione che urla misteriosi anatemi infernali in lingua madre. Alla fine tutto il lavoro risulta instabile, soprattutto per il modo di cantare/ urlare, appesantito da una lingua molto ostica per questo genere musicale e dalla poca fantasia nella costruzione dei brani. In ultima analisi l'album risulta comunque interessante, di difficile presa ma molto personale. Bisogna calarsi nell'oltretomba per apprezzarlo, con il suo incedere oppressivo e le sue sonorità a metà strada tra il Doom - Batcave sound anni '80 e i primi Celtic Frost rallentati; a dovere si rischia di perderne il senso e metterlo subito da parte. In realtà un ascolto ne vale la pena, è un'esperienza da tentare anche se un po' pericolosa. Immergersi tra le sue tenebre può essere liberatorio e divenire un alibi o un pretesto per ascoltare qualcosa di molto molto sotterraneo che non vedrà mai la luce del sole. Entrare nelle viscere dell'inferno sacrificale della morte di questa band di certo non lascia inalterate le nostre orecchie nel bene o nel male. Ascoltare per giudicare! (Bob Stoner)

(Ethereal Sound Works)
Voto: 65

http://www.myspace.com/mandibula666

Violet Gibson - American Circus

#PER CHI AMA: Hard Rock, Metal, Alice Cooper
Al di la del fatto che il nome del gruppo probabilmente è stato preso in prestito dalla donnina irlandese che cercò di fare la pelle al Duce (non chiediamoci come sarebbe oggi se quella pistola non si fosse inceppata...), i Violet Gibson (VG) sono una realtà italianissima e in particolare emiliana doc. Dopo la recensione dei Motherfingers di qualche giorno fa, mi sembra di trovarmi nella stessa situazione, nel senso che i VG hanno un sound rock/metal abbastanza eterogeneo che abbraccia le sonorità di vari big del settore. Primo fra tutti Alice Cooper, poi Bad Religion e HIM, tutto ben mixato ed eseguito in modo impeccabile. Bustina e cd (versione per gli addetti ai lavori) nascondono ben tredici tracce a conferma della professionalità e del supporto etichetta/produzione alle spalle dei VG. "Go Ahead" apre le danze con campionatura di voce al contrario che lascia subito spazio alla strofa classic heavy metal seguita dal ritornello vecchia-scuola, tutto al posto giusto. L'intermezzo con chitarra acustica convince anche l'ascoltatore più distratto, quindi raggiunge il suo obiettivo in termini di orecchiabilità e soprattutto commerciabilità! Poi è la volta di " She Feels Alive", pezzo super ruffiano dove la voce del vocalist farebbe sciogliere qualsiasi donzella in cerca del rude metallaro dal cuore tenero. L'arrangiamento acustico denota che i VG cercano sempre di bilanciare il proprio sound, accontentando tutti. Bel pezzo, breve ma intenso. Saltando a piè pari la cover di "Superstition" (Stevie Wonder docet), preferisco parlarvi di "Parasite”, il decimo brano del cd. I VG si trasformano in castigamatti e danno sfogo alla loro potenza con dei bei riff di chitarra, mentre la voce esprime appieno il tema rock-rabbia-protesta. Ci sta benissimo anche il bell'assolo di chitarra che richiama atmosfere orientali. Il cd si chiude con "The Reason to be God" che ritengo il pezzo di miglior fattura dei VG, peccato che sia stato relegato in fondo comunque gli arrangiamenti sono leggermente più personali e lasciano spazio alle loro capacità. Dopo tutto in sei minuti devi avere effettivamente qualcosa da dire e il brano ci riesce, risultando anche un singolo di quelli che girerebbero bene in radio. Molti i pezzi ruffiani in questo "American Circus", orecchiabili, lisci e canticchiabili, ma in alcuni casi niente di più. Chiariamo subito: siamo di fronte ad un gruppo con le palle cubiche e nel suo genere anche un punto di riferimento quindi se questo è l'obiettivo dei VG, complimenti. Il loro attuale tour europeo conferma che se la musica, qualsiasi essa sia, se fatta con anima e cuore porta sempre a dei risultati. (Michele Montanari)

(Logic[il]logic)
Voto: 80

http://www.violetgibson.biz/

Emmeleya - Opium Vision

#PER CHI AMA: Progressive Death
Mi accingo a parlare di una band teutonica, il cui sound si distacca dal solito industrial metal: infatti, come asserisce l’act germanico, la proposta è un progressive metal con “un catalogo di musica multidimensionale, deliziosi arrangiamenti vocali, un song writing particolare, tastiere ben applicate e una notabile presenza di contenuti death metal” (tratto dal loro sito ufficiale). Viene spiegato anche il significato del nome: trattasi di una parola greca per intendere grazia o armonia, ma è anche il nome di una danza nelle tragedie greche. Ultimo appunto prima di iniziare a parlare dell'album: sono stati anche open act di band quali Korpiklaani, Volbeat e Geist. La prima traccia, “My Equal”, si apre subito brutale, senza alcun intro: dopo la prima strofa emergono le tastiere con un semplice accordo, ma che riesce a fondersi facilmente con il growl rude e graffiante. Degno di nota è il gioco di stili che si possono sentire in questo brano: dal death più cattivo al prog più ispirato, a rendere il tutto interessante e ingegnoso. Dalla metà in poi è tutto un connubio di chitarre e batteria che ricordano vagamente i Porcupine Tree, specialmente nei lunghi silenzi cantati. Solo dopo 3 minuti di totale ispirazione, un urlo squarcia il cielo portando la traccia a finire nella più totale cattiveria. “23.57.31” al contrario della precedente, inizia pulita per poi mutare nella parte death andante, a braccetto con assoli di tastiere: un ritmo serrato e pesante si alterna a parti prog e più delicate, risultando molto sperimentale e mai banale. Più ascolto il disco, e più mi rendo conto del potenziale “bomba” che questo ensemble presenta: un'energia immensa e ben esposta, senza cadere nel pesante. “Ornamental Mind” inizia con la parte growl, ma si alterna spesso al cantato pulito. In sottofondo la batteria non smette un attimo di far sentire la sua presenza, mentre si può notare anche un piccolo duetto verso metà traccia. Nonostante il filo conduttore sia lo stesso in tutte le canzoni, ognuna presenta qualche piccola sorpresa, sia nelle tastiere che nelle chitarre o batteria: per esempio, in questo brano, c'è un piccolo gioco di dita sulla tastiera dando un'aura più gentile e delicata. “Shatter the Streaks” all'inizio presenta il solito connubio batteria-chitarra, ma suonati in maniera più ritmata e profonda. Le tastiere creano un sottofondo continuativo, mentre un volteggio di chitarre e batteria, danno un effetto che pare un vortice: scelto apposta per le tematiche religiose leggermente velate. Molto piacevole è la parte pizzicata sulle tastiere, seguita a ruota dalla chitarra ritmica e dalla batteria. Con “Never Red” si arriva all'ultimo brano del disco, solenne e potente: le note di tastiera sono per lo più acute, con l’alternanza tra cantato pulito e growl, e con la testa che inizia a ciondolare avanti e indietro. Nel mezzo della canzone si trova il cuore pulsante del prog, che aiuta tanto a rilassare la mente e concentrarsi su tutto quanto fatto finora. Sembrerebbe quasi che gli Emmeleya vogliano terminare dolcemente, invece a 3 minuti dalla fine, i toni iniziano ad accendersi, aumentando il pathos e portando l'ascoltatore in uno stato di difesa, pronto per sferrare la botta death. Botta che non arriva subito, ma dopo un buon minuto e mezzo, quando già ci si era abituati alla calma. E con le chitarre portate al massimo, si chiude l’album anche se perlomeno viene affidata ad una chiusura sfumata, a differenza dell'inizio duro e diretto. Il cd, uscito a gennaio 2012, è una vera e propria perla: mai uguale, mai scontato e mai noioso. Anzi, il voler unire due generi molto diversi tra loro, li ha condotti a pubblicare un disco di tutto rispetto. Altamente consigliato per chi vuole qualcosa di nuovo e particolare. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 75

http://www.emmeleya.com/

Knightmare - In Death’s Shadow

#PER CHI AMA: Thrash Progressive, Anacrusis, Nevermore
I Knightmare confermano che l’Australia non è solo un dannato bacino di band dedite al black, al death o a qualsiasi altra forma di malato estremo genere musicale, ma che in realtà c’è un movimento interessante che si attesta anche su toni ben più rilassati. La band di Melbourne ci presenta il loro nuovo lavoro, che esce a distanza di quattro anni dal precedente EP, “Unholy”. Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, e l’act australiano ci offre oggi un dinamitardo concentrato di suoni thrash progressive, che si rifanno (solo) di primo acchito, alla proposta degli statunitensi Nevermore. Niente male, devo ammetterlo: l’apripista “Cazador de Hombres” mette in mostra da subito le elevate qualità dell’ensemble, con un sound tirato, dalle pregevoli linee di chitarra, che esaltano le doti tecniche ineccepibili dei musicisti e la loro voglia di stupire. Non solo rozzo thrash quindi, anzi di quello nemmeno l’ombra, in quanto i nostri pur graffiando con le loro 6 corde, lo fanno con somma classe, tessendo splendide melodie, break acustici e con un vocalist, finalmente dotato, di una splendida ugola d’oro. Ho letto nel web che ci sarebbe anche una importante componente power nel sound dei Knightmare e allora, o mi sono rincitrullito del tutto, col cervello crivellato dalle famigerate sonorità estreme a cui sono oramai abituato, oppure qualcuno ha preso un severo abbaglio. Fatto sta, che passando in rassegna i vari pezzi, “Granted Death”, si ricorda per una furibonda parte iniziale ed un prezioso break centrale arpeggiato ed un coinvolgimento a 360° dell’ascoltatore, con i suoni che entrano nelle nostre orecchie (lo sto ascoltando in cuffia) da ogni dove. Intrigante, nulla da eccepire e le stesse percezioni me le conferirà anche la conclusiva strumentale, lunghissima e bellissima “Judgement”, la traccia (quasi) più completa del platter (manca solo il cantato). Forse fatico ancora un po’ a mandare giù l’impronta vocale del vocalist, troppo pulito per i miei standard, ma devo ammettere che è perfetto per questo genere di musica, che ancora una volta si dimostra di assoluto valore, con cambi di tempo mozzafiato, splendidi assoli e delle orchestrazioni da urlo. “False Prophets” ha un incedere epico e un po’ troppo votato al versante rock per i miei gusti trasandati, anche se poi una specie di break orientaleggiante riesce a catalizzare del tutto la mia attenzione. Ecco forse ho trovato l’estro power in “Apocalypse”, che mi induce a skippare alla successiva canzone, la traccia omonima: sinistra nella sua intro e poi più spedita con le chitarre che si intrecciano e inseguono. “Unity Through Chaos” è un altro bell’esempio di thrash dalle tinte progressive, che mi ha ridestato alla memoria il sound degli Anacrusis, che conferma la validità di un act che ha tutte le carte in regola da giocarsi e che ha addirittura il coraggio di utilizzare un violoncello nei suoi brani. “Only the braves…” (Francesco Scarci)