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lunedì 23 luglio 2012

Ordeal by Fire - Roots and the Dust

#PER CHI AMA: Gothic Rock, The Fields of the Nephilim
Per questioni d’anagrafe non sono forse la persona più adatta per valutare un lavoro come “Roots and the Dust”, che rifacendosi ad un gothic-rock vecchia scuola, necessiterebbe quanto meno di un recensore più navigato di me! Tuttavia, penso non serva maturare alcuna anzianità per riconoscere una band con dei numeri e in questo senso gli Ordeal By Fire colpiscono già dal primo ascolto per la loro grinta e la loro preparazione tecnica. Non fatevi ingannare dal nome, perché non è di musicisti in erba che stiamo parlando e se negli ultimi anni avete sfogliato qualche fanzine italiana del settore saprete meglio di me che il gruppo nasce dalle ceneri dei torinesi Burning Gates, nome di culto della scena gothic-rock nostrana, che tra il 1996 e il 2002 ha rilasciato tre album: “Risvegli”, “Aurora Borealis” e “Wounds”. Ed è proprio dallo scioglimento ufficiale dei Burning Gates che il membro fondatore Michele Piccolo ha voluto ripartire, dando il via ad un nuovo cammino sotto il nome di Ordeal By Fire, assieme a Riccardo Perugini (chitarra), Fabrizio Filippi (basso) e XXX (batterista dei Right in Sight). “Roots and the Dust” è il primo passo discografico della band, un EP di ruvido e potente gothic-rock nel quale feeling e perizia esecutiva si incontrano magicamente; quattro tracce dalle tinte forti che ci accarezzano, ci percuotono... ci fanno sentire vivi! La sintonia tra i ragazzi degli Ordeal By Fire è talmente perfetta che nessuno degli strumenti riesce a prevalere sugli altri, anche se ascoltando l’ultimo brano “New Dark Age” (cover dei The Sound) risulta davvero difficile rimanere indifferenti alla prova superlativa del chitarrista Riccardo! Il cantato sottolinea invece con vigore ogni passaggio, destreggiandosi tra timbriche basse, ruggiti alla Carl McCoy e decise sferzate dalle tonalità più alte in cui l”ugola graffiante di Michele pare trovarsi più a suo agio. Forse in “Roots and the Dust” andava rifinito ancora qualcosa nella produzione ma per il resto quello degli Ordeal By Fire è un esordio più che convincente e ora rimane solo la curiosità di saggiare dal vivo questi brani che sembrano nati proprio per essere vissuti sul palco. (Roberto Alba)

(Innermost Phobia)
Voto: 75

Graveflower - Returning to the Primary Source

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, October Tide, Paradise Lost
Già dalle prime note sono eccitato per questo album. Sinceramente non sapevo bene cosa aspettarmi, l'intro di "White Noise" è alquanto enigmatica e mi ha subito conquistato. Poco più avanti emerge nettamente la natura death/doom della band russa. Parto subito dicendo che la qualità audio è perfetta e riesce a far risaltare ogni strumento facendomi apprezzare ancor di più questo lavoro. Che la band non sia emergente (le cronache narrano di una loro formazione nel 2002) si sente subito dal songwriting che abbraccia sia lo stile decadente britannico che quello più cupo svedese. Le tracce sono originali e ben strutturate, colme di interessanti intermezzi e riff strazianti. La proposta artistica non si ferma però ai clichè del genere, in quanto riesce ad implementare parti originali come l'arpeggio mistico di "White Noise", gli armonici di "Rain in Inferno" o la cavalcata sludge della seconda parte di "Falling Leaves", traccia per questo paragonabile a "Shutter" dell'ultimo lavoro dei Forgotten Tomb. Nel loro piccolo i nostri compagni sono arguti nel non sfiancare mai l'ascoltatore. Questo full-lenght non è un susseguirsi di morte-depressione-claustrofobia-morte-romanticismo inglese, bensi presenta delle piacevoli parti in acustico dove i musicisti danno prova del loro lato più tranquillo e pacato. Anche se leggermente malinconiche queste parti contribuiscono a creare, oltre che una splendida atmosfera, uno stacco dall'aria pesante ed oscura che prevale sul disco. Insomma, si può dire senza paura che questi Graveflower sono veramente validi. Le idee non mancano, la tecnica pure, un’ottima produzione contribusce ad impreziosire il tutto. A parte l'artwork che non mi aveva convinto molto al primo approccio, direi che per il prossimo futuro mi aspetto molto da questo combo russo. (Kent)

(Solitude Productions)
Voto: 80 
 

Agruss - Morok

#PER CHI AMA: Post Black, Death, Crust, Behemoth, Dissection
Cheffigata. Vorrei liquidare così la recensione di questo "Morok" degli ucraini Agruss. Sono veramente senza parole dopo l'ascolto di questo lavoro. Felicemente sconvolto dalla loro opera mi metto a cercare le parole giuste per descriverla al meglio per poter trasmettervi quello che ho provato io all'ascolto delle prime note di questo trionfo della morte. Non è tanto la musica a far da padrone a quest'opera ma le atmosfere che essa produce. Beh comincio presentandoveli con informazioni reperite dalla rete, dato che le uniche parole del packaging sono solo la tracklist sul retro della confezione. Gli Agruss si formano nel 2009 a Rivne, e "Morok" è il primo disco di una trilogia riguardante la "vita" dopo il disastro di Cernobyl. Difatti l'opera è stata rilasciata durante il 26° anniversario della disgrazia sovietica. L'attitudine della band è orientata verso il crust, quindi due cantanti (uno specializzato in growl ed uno in scream), improvvisi cambi che portano a ritmi forsennati ed atmosfere malsane. Dai tag avrete già capito che ha qualcosa di speciale questa musica. Ma bisogna davvero ascoltare per riuscire a capire veramente ciò che vorrei raccontarvi. L'opera si apre con "Damnation", preludio colmo di un oscuro shoegaze, accompagnato da apocalittici cori che vanno a sfociare in una malvagità senza precedenti. Il primo impatto è un black/death imponente dal ritmo pestato, ma all'entrata del rullo giunge il black metal più totale, con lo screaming lacerante che poco dopo si alterna ad un growl gutturale, accompagnato da veloci fraseggi chitarristici. Con il blast beat si raggiunge l'apice della violenza di questo primo scorcio di dolore, stoppato da un breakdown che mi trasporta in un attimo di calma shoegaze per poi rifiondarmi di nuovo nella più totale brutalità crust. La traccia, alquanto prolissa e sconvolgente come introduzione di quest'opera ci lascia, scemando con un sottofondo costituito da un ribollio inquietante che apre la seguente "Morok". La title track si presenta dalle tinte lugubri per poi trasformarsi in un death metal tecnico e corposo che in alcune occasioni si maschera di depressive. La parte centrale del disco presenta più compattezza compositiva con "Punishment for All", "Fire, the Savior From Plague" e "Ashes of the Future". Tracce capaci di concentrare al massimo il tecnicismo death, i gelidi riff del black e la devastazione del crust. "When the Angels Fall" sinceramente non m'ha preso subito come le altre, la ritengo la traccia più core per via dei vari breakdown e della prevalenza del growl, tuttavia ognitanto scopre delle parentesi con notabili sfuriate crust e tremolo picking black. Ora inizia la triade di "Under the Snow". Tracce che racchiudono la parte più shoegaze, depressive ed ambient della band, con episodi che a tratti raggiungono anche un funeral doom, in primis la parte III. Non viene però accantonata la vena più malefica del combo ucraino che puntualmente riprende il predominio sulle composizioni. Gli Agruss hanno saputo fondere vari generi ed ambientazioni assai ostiche, difatti ricordano i gruppi più disparati all'ascolto: breakdown in stile Molotov Solution, passaggi alla Nile, muri sonori tipici dei Nagflar o Behemoth, rabbia rifacenti ai Iskra e Martyrdod, insieme ai riff più freddi e malefici di Craft e Ancient. Ma i gruppi che più mi sovvengono come elemento portante di tutto sono i Dissection per come riescono ad amalgamare il black più grezzo alla potenza del death e i Black Kronstadt per la struttura musicale (ad esempio le classiche intro narrate o le malsane atmosfere) e lo spaziare dalle parti più tranquille al crust più cieco e devastante. Beh, che dire, sono stato veramente sorpreso fin troppo positivamente da questo debut album. Anche se non amante delle sonorità brutal death, mi son trovato davanti ad un prodotto veramente ben congeniato che merita l'appoggio di tutti gli amanti delle sonorità estreme. (Kent)

(Code 666)
Voto: 85
 

Mind Split Effect - Introspection

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Anathema, Porcupine Tree
Mind Split Effect è un progetto solista nato nel 2011 dal francese Maxime Defrancq che partorisce questo "Introspection". Attualmente i Mind Split Effect sono composti da quattro elementi e stanno lavorando ad un nuovo cd. L' autore di "Introspection" dichiara che la sua musica trae inspirazione dalle opere di Jack Kerouac, scrittore americano e fondatore del movimento Beat. Non starò qua a dire se l'influenza si sia riversata nello stile dei Mind Split Effect e in che modo, piuttosto andiamo al sodo e vediamo cosa offrono in termini di musica. So di ripetermi, ma ho già scritto che i progetti solisti sono facilitati dalle nuove tecnologie e se uno se la cava con software vari , può sopperire al fatto di mandare avanti un progetto da solo. Alcune cose sono comunque da rivedere, come il basso sintetizzato in "My Mind Out of Reach", troppo sterile per sembrare vero e poco convincente se si volesse credere alla raffinatezza tecnica. La canzone poi comunque ha un ottimo svolgimento, con suoni freschi e la voce che aiuta a creare un ottimo amalgama. Cinque minuti con diversi stacchi, assoli e struttura ritmica coinvolgente. "Leaving my Body" inizia con un bel arpeggio di chitarra che poi vi fa pentire di averlo pensato quando entra la solista, dal suono veramente poco convincente. Il pezzo rimane lento per tutta la sua (breve) durata. Ho apprezzato anche l'uso della chitarra acustica in "...Ataraxy" e "On the Road", sempre per una continuità nella freschezza dei suoni, aiutati anche dal pianoforte incastonato in modo perfetto. Sembra quasi che la cura dei dettagli sia altalenante in questo "Introspection", il nostro Maxime sembra metterci l'anima, ma si vede che la mancanza di un gruppo alle sue spalle, non permetta il confronto interno e quindi il miglioramento di certi aspetti. Sarà per questo che ora i Mind Split Effect sono in quattro? Vedremo, attendo il prossimo lavoro. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 65 
 

mercoledì 18 luglio 2012

A Prison called Earth - Rise of the Octopus (Realistic Tale of a Sprawling City)

#PER CHI AMA: Progressive Symphonic Metal, Dol Ammad
Concept demo cd davvero interessante per questa band di Nantes, che propone un sound di non facile ed immediata catalogazione. Un lavoro suddiviso in 3 parti, la cui iniziale, “Subterranean Evolution” ha un piglio progressivo, che trova il primo vero spunto particolare, a cui realmente ho postato l’orecchio, in “The Secret Transmission”, dove le vocals di Florent, sembrano trarre qualche ispirazione dal rap; niente di scandaloso, anzi, ma qualcosa di piuttosto innovativo. “An Army of Iconoclastic Robots” invece mi è ronzata un bel po’ nella testa per le sue cibernetiche tastiere, quanto mai spettrali e molto eighties, che coniugato ad un riffing squisitamente suggestivo, mi ha rinvenuto alla memoria gli esordi dei cechi Master’s Hammer. Certo siamo lontani anni luce dalla proposta black epic del combo est europeo, ma la vena che si scorge in taluni frangenti, può essere riconducibile a “Jilemnický Okultista”. Chiaro che poi quando ascolto “Contagion of Anger”, mi accorgo che siamo molto più vicini al rock piuttosto che a sonorità estreme, complice le vocals assai pulite e rappate. Abbandonata la prima parte, ci addentriamo in “The Great Awakening” dove sembra prevalere la componente heavy metal, anche se le orchestrazioni presenti, mi fanno ipotizzare una qualche vicinanza del sound dei nostri, a quello dei greci Dol Ammad e alla loro proposta sinfonica. Tanta carne al fuoco in questa lunga sfilza di tracce (17), che portano la durata del demo a più di 50 minuti. In “Rise and Fall of Steam Babylon”, terza parte del disco, echi di Orphaned Land e Dream Theater, completano un’opera sicuramente ambiziosa, che non potrà non far gola a tutti coloro dotati di un palato un po’ più raffinato rispetto la media. Sicuramente c’è ancora molto su cui lavorare, ma “Una Prigione chiamata Terra” è sicuramente sulla giusta strada per confezionare qualcosa di realmente interessante. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

lunedì 16 luglio 2012

Rainy Days Factory - It’s Your Time

#PER CHI AMA: Post Rock, Dark, Fields of the Nephilim, The Cure, Mogway
Buffo, avevo contattato l’Ethereal Sound Work per l’album dei Vertigo Steps; lo ricevo, con questo bonus cd in omaggio e mi ritrovo a recensire per primo proprio quest’ultimo, un trio proveniente da Lisbona, chiamato Rainy Days Factory. 4 song per quasi 20 minuti di musica. Un sound che trae origine dal dark anni ’80, nella vena di The Cure e Fields of the Nephilim, che colpisce per quella sua linea di basso già dall’iniziale “All About Love”, cosi malinconica, grazie alla voce oscura di Oscar Coutinho. Il basso apre anche la seconda “See the Light”, seguita immediatamente dalla voce di Oscar e progressivamente da un’eterea chitarra e dal drumming punkeggiante di Johnny. Mi sembra di essere catapultato ai primi anni ’80, una sensazione piacevole di deja vu, che colpisce per la semplicità e la linearità dei suoi suoni. Nulla infatti di trascendentale c’è nella proposta di questi Rainy Days Factory, se non quella verve uggiosa, emotivamente instabile, che ha da sempre contraddistinto le band British che in passato hanno proposto questo genere. Ci avviamo già lentamente verso la conclusione dell’EP e “Autistic Eyes”, non fa che confermare quanto di buono abbiamo ascoltato fin qui anche se mi sembra che la band nutra qualche difficoltà nel diversificare la propria proposta, lasciando sempre ampio spazio al pulsare magnetico del basso e alla voce del buon Oscar, i protagonisti di questo “It’s Your Time”. A chiudere ci pensa “Sorry”, altro esempio di sound tipicamente dalle tinte rossastre, tipiche del tramonto, della decadenza, della stagione autunnale, della fine di un moto impetuoso che mi ha cinto gola, anima e cuore. Deprimenti. (Francesco Scarci)

(Ethereal Sound Works)
Voto: 65

Delirium X Tremens - CreHated from NO_thing

#PER CHI AMA: Death/Black, Obituary, Celtic Frost
Questo lavoro mi arriva solo adesso e con immenso piacere scopro che nel lasso di tempo successivo alla sua uscita, il combo bellunese ha sfornato un nuovo cd (già recensito su queste stesse pagine) con sbocchi folk/epici, tratti dalla musica folkloristica dolomitica che sembrano aver riscosso buonissime critiche. Il lavoro esce per l'etichetta Punishment 18 Record nel 2007 ed è un esempio di come anche in questo paese si possa, lavorando sodo, ottenere degli ottimi risultati dal nulla. L'ambiente sonoro è un death/black mischiato con pregio, è un sound carico mai votato al caos e intensamente cinematografico. Il mid tempo la fa da padrone e rende tutto molto appetibile: al secondo minuto del primo brano si entra in un ponte carico d'atmosfera che la dice lunga sul modo di concepire il metal dei nostri “tagliaboschi”, la ripartenza è violentissima. Si sentono echi di Obituary e Celtic Frost, qualcosina di Voivod nella seconda traccia e a seguito di un growl pesantissimo su chitarre macigne, i DXT introducono un passaggio d'ambiente molto ricercato e cantato in italiano dal retrogusto ”Meshugghiano”, a dir poco impressionante, poi di nuovo all'arrembaggio ma con stile, senza trascendere nel banale. La cosa che contraddistingue questa band è proprio il gusto visionario di rendere l'ascolto del metal come la visione di un film. Manca completamente la volontà di far divertire “spaccando”, e questo li rende decisamente intensi. L'uso dell'effettistica sulle vocals, su alcune parti della batteria e suoni digitali a rinforzo dei brani, li rende così astratti, industrial e filmici che potremmo definire la loro musica la colonna sonora di “Blade Runner” in metal. Il cd non fa una piega, non ha lacune: è un concept album sull'autodistruzione dell'uomo e quale migliore musica potrebbe identificarla? Ascoltate il brano “DXT Chamber” e ditemi se l'ennesimo spettacolare ponte centrale, con tanto di assolo alla maniera del buon Gary Moore e le voci di rinforzo alla “Cradle of Filth”, fusi al growl pesantissimo del cantante Ciardo, su chitarre stile Obituary non sia il massimo! L'architettura chitarristica è ben strutturata e spazia tra folate black metal e death senza mai esagerare in velocità e “ginnastica virtuosa”, ricercano sempre la melodia anche se super compresse e distorte, un sound organizzato e complesso, gli assoli sono brevi e incisivi e “sfondano” anche nelle parti più soft. Anche se la musica risulta complessa, non siamo di fronte ad alcuna forma di progressive e nemmeno abbiamo una devastazione sonica in puro stile grindcoreg, qui si parla di Death metal con la D maiuscola, intenso e significativo, con tanta energia e idee rubate all'industrial! Ascoltate l'evoluzione di “CyberHuman” dal minuto 2:50 e vi farete un'idea di come “Immolation” e “Godflesh” possano coesistere nello stesso brano. Il brano “15469” sembra un esperimento d'ambiente cinematografico mentre “New Clear Files” mostra tendenze brutal. La traccia n. 9 dal titolo “...Inside me” è un caterpillar impazzito, forse la più classica per lo stile della band, anche se l'assolo centrale è degno di particolare nota per il suono usato. “Convulsion” è un esperimento di un minuto e quarantuno e parte con rumori elettronici e voci digitalizzate per poi lasciare spazio ad una voce clone del più acido Marylin Manson. Il tripudio riparte con “Crionica” scritta da Giuliano e Nicolas dei veneziani “Ensoph” che chiude il cd con altre ben 14 tracce vuote, lasciandoci molto soddisfatti e ansiosi di ascoltare l’ultimo lavoro di questi ragazzi che, come scrivono nella loro maglietta, sono i fieri portabandiera del “Dolomitic Death Metal”! Azionate il “Death-onatore”! (Bob Stoner)

(Punishment 18 Records)
Voto: 80

http://www.deliriumxtremens.com

Derelict Earth - And So Fell the Last Leaves...

#PER CHI AMA: Death Progressive, Shoegaze, Black, Agalloch, Alcest, Opeth
Della serie one man band crescono, ecco arrivare da Toulon (Francia), l’ennesimo esempio di quanto sia verosimilmente più facile produrre un album, senza avere troppe teste con cui spartire i propri pensieri. La cosa consueta è che molto spesso le one man band sono dedite ad un black ambient di tradizione burzumiana, mentre i Derelict Earth prendono decisamente le distanze dal genere del Conte e il nostro mastermind Quentin Stainer si cimenta in un sound che suona più come una miscela tra death melodico progressive in una vena leggermente blackish. Il risultato si fa ben apprezzare per la sua eleganza sin dalla traccia in apertura, “We, Experiment of God”, che per certi versi mi ha ricordato la parte più swedish degli Elysian Fields. Bel riffing corposo, accompagnato da dei melodici riff decoratori di scuola finlandese, con le vocals roche di Quentin ad digrignare i denti. La successiva “No More Sunset” è invece più orientata allo shoegaze, con la comparsa di vocals pulite sulla scia di Alcest e Les Discrets, e atmosfere che si dipanano tra il roccioso death e momenti più eterei e acustici. L’inizio di “The Locust Culture” sembra di derivazione mediorientale con quest’arpeggiato di chitarra davvero piacevole, prima che esploda il growling di Quentin e una ritmica bella tosta e incazzata. Tutta scena però, perché i toni si smorzano ben presto, per lasciare il campo ad un sound più meditativo, che viene ripreso anche nella successiva “At the Nadir of Men”, che si rivela con ritmiche mid-tempo, ottimi vocalizzi, un bel lavoro alle chitarre che, se meglio prodotto, potrebbe davvero fare la differenza, con altre proposte. Ancora qualche parte arpeggiata, un connubio fra basso e chitarra, fughe in parti più folkish, quasi a voler ricordare le parti più autunnali degli Agalloch, prima di un incandescente finale black, in cui ancora una volta è un basso inviperito a tessere la tela. “And So Fell the Last Leaves...” continua su queste coordinate offrendo sprazzi di ottima musica progressiva, coniugata con parti atmosferiche o ad altre più tirate, di matrice black, per quello che è il sorprendente secondo lavoro dei Derelict Earth. Intriganti. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

Kommandant - The Draconian Archetype

#PER CHI AMA: Black Industrial, Aborym, Marduk
Ecco l’album che mi sarei aspettato come seguito di “Generator” degli Aborym, ma che in realtà non ha mai visto la luce. È il lavoro dei blacksters americani che rispondono al nome di Kommandant, che approdati alla nostrana, e sempre più attenta ATMF, rilasciano questo secondo lp, intitolato “The Draconian Archetype”, che al sottoscritto è piaciuto un botto. Eh si, come non si può notare la componente industrial black tipica della band italica, traslata nel sound ferale dei nostri? “We are the Angels of Death” apre, sgorgando malvagità, da ogni suo pertugio; la ritmica è quella convulsa e serrata di Fabban e soci, un black convulso, nichilista, contrappuntato da oscure melodie. Il maligno si impossessa subito della mia anima, sbarro gli occhi privati della pupilla e dell’iride. Mi sento un androide catapultato in un futuristico mondo, quello immaginario di Ridley Scott, di “Blade Runner”. Magniloquenti le atmosfere nonostante un riffing scarno e acuminato che mi assale con ferocia, non concedendomi il benché minimo attimo di tregua, con le vocals, screaming, cibernetiche, epiche ed evocative che siano, ad affiancare il selvaggio correre della parte strumentistica. Mostruosi. Annichilenti. Magnetici. Le song spazzano via ogni cosa nel loro terrificante incedere: “Victory Through Intolerance” e la granitica quanto mai ipnotica “Downfall”, mi sconquassano con sommo piacere. “Hate is Strenght” ci avvolge con il suo sound cupo, dato dal fragore martellante di un drumming ossessivo ed enigmatico. Il ritmo si fa sempre più oltranzista con le successive tracce, a botte di blast beats e riff glaciali di scuola norvegese; forse è qui che i nostri rischiano di perdere un po’ della propria brillante verve, dimostrata sinora. Niente paura, perché con “Call of the Void”, torna l’anima più spettrale, al contempo spietata, dei Kommandant. Mi piacciono, lo ribadisco senza alcun timore. Sicuramente non condivido la decisione di affrontare tematiche che puzzano lontano un miglio di ideologie politiche estremiste, tuttavia “The Draconian Archetype” merita decisamente un vostro attento ascolto. Militareschi! (Francesco Scarci)

(ATMF)
Voto: 75

mercoledì 11 luglio 2012

Bilocate - Summoning the Bygones

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth, Death, Orphaned Land
VIII sec. A.C., nascono i primi insediamenti a Petra, antica capitale dei Nabatei, localizzata nella regione giordana dell’Edon. Città assai misteriosa, fu abbandonata in seguito alla decadenza dei commerci e ad una serie di catastrofi naturali, e, benché le antiche cavità abbiano ospitato famiglie beduine fino ad anni recenti, fu in un certo senso dimenticata fino all'epoca moderna. Da queste parti, nascono anche i Bilocate, formazione techno prog death di Amman, che dopo aver rilasciato un album con la Kolony Records, ha messo a segno un altro colpo vincente con la release del terzo lavoro, “Summoning the Bygones”, con la Code 666. La proposta fantasiosa di questo nuovo cd, arricchisce di gran lungo il già brillante predecessore, ammorbidendo leggermente i toni, in favore di una ricerca a dir poco notevole, di splendide melodie mediorientaleggianti, dando assai spazio ad una tecnica, mai fine a se stessa e sfruttando atmosfere etnico/tribali. Per certi versi accostabili alle sonorità degli Orphaned Land, per altri ai Death di “The Sounds of Perseverance”, per tecnica ai Dream Theather, per idee agli Opeth, per cattiveria agli Edge of Sanity, a cui prendono in prestito anche il vocalist, il mitico Dan Swano che in un paio di song, “Hypia” e “A Desire to Leave”, ci delizia con la sua suadente voce; e poi ancora, il progressive dei Porcupine Tree si mischia a sonorità gotiche o doom, come nell’oscura “Passage” o nella cover, peraltro suonata egregiamente, di “Dead Emotion” dei Paradise Lost. “Summoning the Bygones” è quello che si suol dire un signor album che ha l’assoluto divieto di passare inosservato, grazie all’eccezionale bravura dei suoi musicisti, nel proporre pezzi aggressivi, altri più decadenti, che magari rischiano di rifarsi alla tradizione svedese dei Draconian, come proprio la già citata “Hypia”, dove vi sembrerà di ascoltare una song dei Nightingale, abbandonando quindi gli umori molto più brutal della prima parte del disco. A chiudere l’album, una vera bomba, torno a sottolinearlo, ci pensa una lunga suite di venti minuti, suddivisa in tre capitoli, dove ancora una volta fa capolino il buon vecchio Dan a contrapporsi al velenoso growl di Ramzi e dove i nostri si dilettano con splendide linee di chitarra orientaleggianti, eccellenti melodie e tanta, tanta classe. Ottimo comeback, da avere a tutti i costi! (Francesco Scarci)

(Code 666)
Voto: 85
 

Waves of Mercury - The Letter

#PER CHI AMA: Rock Gothic
Ecco che questi due ragazzotti di Minneapolis escono con "The Letter", secondo lavoro dopo "The Great Darkness". Devo dire che sono andato ad ascoltare qualche pezzo di quest'ultimo e il cambio di genere è forte. "The Great Darkness" è puro progressive metal/rock mentre il nuovo lavoro lascia l'utilizzo delle distorsioni e si concentra sulle sonorità pulite della chitarra. Diciamo che la struttura musicale è rimasta invariata, ma in questo modo i Waves of Mercury hanno probabilmente voluto fare un album più riflessivo e magari raggiungere anche quei timpani che disdegnano la distorsione manco fosse il diavolo impersona che satura le valvole... Personalmente considero queste tredici tracce delle piccole gemme incastonate a dovere in una corona in stile gotico, semplice ma di sostanza. Il vocalist ha una timbrica personale, non brilla in fatto di estensione, ma calza a pennello in questo contesto, dando profondità alle canzoni ed evitando inutili raffinatezze. Ottimi anche i fraseggi di chitarra che sono eseguiti ad opera d'arte, giocano sull'emotività e lasciano perdere l'effettistica. In questo modo l'ascoltatore si concentra maggiormente sulle sensazioni e lo pone davanti al musicista, senza nessun filtro tra i due. Una tale Michelle ci delizia della sua voce in "Old Man and the Sea" e " Let me Fall" e alleggerisce l'album, dando luce e spazio alla musicalità solida dei Waves of Mercury. Mi sento di premiare questi ragazzotti, che piaccia oppure no il genere, loro ci mettono l' impegno, la voglia di mettersi in gioco ed evolversi, senza comunque perdere l'identità acquisita negli anni. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 70 
 

The Ocean Doesn't Want Me - As the Dust Settles

#PER CHI AMA: Post, Sludge, Alchemist, Neurosis
Caspita, mi sto avvicinando, lentamente ma sempre più, alla possibilità di avere la copia numero 1 di un cd, chissà se mai ce la farò; nel frattempo mi “accontento” di avere la 004/100, packaging limitato di lusso con i testi stampati su cartoncini con splendide foto, che assomigliano più ad un invito a nozze che al booklet di un cd. A parte questi particolari estetici, torno ad un vecchio amore che mi aveva conquistato con il proprio sound nel loro primo cd e per una band che mi aveva incuriosito parecchio anche per la propria provenienza (Pretoria – capitale del Sud Africa). In realtà il trio sud africano, proponeva un post metal di derivazione statunitense, con Neurosis e Isis, quale maggior fonte di ispirazione. Con questo secondo capitolo, le carte in tavola sembrano un po’ cambiare. La proposta dei nostri, pur rimanendo in territori post, sembra trarre ispirazione invece da una tradizione più tribaleggiante, mi verrebbe da dire quasi aborigena, anche se con l’Australia i nostri hanno ben poco da fare, se non per una questione di latitudine. I suoni si sono fatti decisamente più ostici; pur mantenendo l’ossatura di base all’insegna di post rock, psichedelia, sludge, sembra quasi che il sound si sia imbastardito e brutalizzato, anche se l’inizio di “Roots Point the Way” suona molto etereo. Ma ecco subentrare i tribalismi, con “Van Eyck”, suoni animistici mossi dalla natura, dal fragore di un tuono, dal bagliore di un fulmine o dall’infrangersi delle onde sulle coste. Non c’è linearità nella proposta dei nostri che con 7 lunghe song, sfiorano i 70 minuti. Pesanti, claustrofobici, brutali (anche le vocals sono diventate più growl, quasi a ricordarmi il vocalist degli Alchemist), “Dune Movement”, song lunghissima e splendida, mi fa immaginare l’effetto che ha il vento nel modellare le alte dune dei deserti del sud, in quella che è una mistica e vorticosa danza della sabbia. Decisamente i suoni qui contenuti non sono convenzionali e per questo molto più difficili da digerire, pertanto vi consiglio molti ascolti per riuscire ad assimilare ed apprezzare al meglio “As the Dust Settles”. Frastornanti, non c’è che dire. L’effetto che ne esce è un che di completamente disorientante, mai un punto fisso, mai una certezza nell’ascolto delle tracce qui contenute, si viaggia in territori cosi sconfinati che ben presto si rischia di perderne il filo. Non riesco ancora a capire se questo sia un bene o un male, quel che è certo è che la proposta dei TODWM ha un che di unico, malato ed estremamente originale, e forse per questo fatico più del solito ad assimilarne i contenuti. “This Castle Stands Alone” è forse il pezzo più convenzionale, per quanto poco sia possibile, dei sette, dove fa anche la sua apparizione una voce pulita, ma dove le chitarre tracciano comunque linee totalmente stralunate, senza mai eccedere in fatto di brutalità, anzi trovando il modo di esplorare territori decisamente più acustici ed intimistici. Splendida. Una specie di nenia introduce “Property Line”, abbinandosi a suoni che sembrano arrivare da Marte. Ancora una volta mi viene da associare il suono dei TODWM a quello spaziale degli Alchemist di Camberra, che maggiormente si avvicina per originalità, stravaganza e brutalità (ascoltare “Millais” per capire) a quello del nostro terzetto. Assurdi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80