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mercoledì 11 luglio 2012

The Ocean Doesn't Want Me - As the Dust Settles

#PER CHI AMA: Post, Sludge, Alchemist, Neurosis
Caspita, mi sto avvicinando, lentamente ma sempre più, alla possibilità di avere la copia numero 1 di un cd, chissà se mai ce la farò; nel frattempo mi “accontento” di avere la 004/100, packaging limitato di lusso con i testi stampati su cartoncini con splendide foto, che assomigliano più ad un invito a nozze che al booklet di un cd. A parte questi particolari estetici, torno ad un vecchio amore che mi aveva conquistato con il proprio sound nel loro primo cd e per una band che mi aveva incuriosito parecchio anche per la propria provenienza (Pretoria – capitale del Sud Africa). In realtà il trio sud africano, proponeva un post metal di derivazione statunitense, con Neurosis e Isis, quale maggior fonte di ispirazione. Con questo secondo capitolo, le carte in tavola sembrano un po’ cambiare. La proposta dei nostri, pur rimanendo in territori post, sembra trarre ispirazione invece da una tradizione più tribaleggiante, mi verrebbe da dire quasi aborigena, anche se con l’Australia i nostri hanno ben poco da fare, se non per una questione di latitudine. I suoni si sono fatti decisamente più ostici; pur mantenendo l’ossatura di base all’insegna di post rock, psichedelia, sludge, sembra quasi che il sound si sia imbastardito e brutalizzato, anche se l’inizio di “Roots Point the Way” suona molto etereo. Ma ecco subentrare i tribalismi, con “Van Eyck”, suoni animistici mossi dalla natura, dal fragore di un tuono, dal bagliore di un fulmine o dall’infrangersi delle onde sulle coste. Non c’è linearità nella proposta dei nostri che con 7 lunghe song, sfiorano i 70 minuti. Pesanti, claustrofobici, brutali (anche le vocals sono diventate più growl, quasi a ricordarmi il vocalist degli Alchemist), “Dune Movement”, song lunghissima e splendida, mi fa immaginare l’effetto che ha il vento nel modellare le alte dune dei deserti del sud, in quella che è una mistica e vorticosa danza della sabbia. Decisamente i suoni qui contenuti non sono convenzionali e per questo molto più difficili da digerire, pertanto vi consiglio molti ascolti per riuscire ad assimilare ed apprezzare al meglio “As the Dust Settles”. Frastornanti, non c’è che dire. L’effetto che ne esce è un che di completamente disorientante, mai un punto fisso, mai una certezza nell’ascolto delle tracce qui contenute, si viaggia in territori cosi sconfinati che ben presto si rischia di perderne il filo. Non riesco ancora a capire se questo sia un bene o un male, quel che è certo è che la proposta dei TODWM ha un che di unico, malato ed estremamente originale, e forse per questo fatico più del solito ad assimilarne i contenuti. “This Castle Stands Alone” è forse il pezzo più convenzionale, per quanto poco sia possibile, dei sette, dove fa anche la sua apparizione una voce pulita, ma dove le chitarre tracciano comunque linee totalmente stralunate, senza mai eccedere in fatto di brutalità, anzi trovando il modo di esplorare territori decisamente più acustici ed intimistici. Splendida. Una specie di nenia introduce “Property Line”, abbinandosi a suoni che sembrano arrivare da Marte. Ancora una volta mi viene da associare il suono dei TODWM a quello spaziale degli Alchemist di Camberra, che maggiormente si avvicina per originalità, stravaganza e brutalità (ascoltare “Millais” per capire) a quello del nostro terzetto. Assurdi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80 
 

sabato 25 settembre 2010

The Ocean Doesn't Want Me - Which I Hope to Live for

#PER CHI AMA: Post metal, Sludge, Isis, Cult of Luna
Di questa band mi aveva già incuriosito il nome, potete ben immaginare quanto poi sia diventato più suggestivo procedere alla sua recensione scoprendone la provenienza: Sud Africa. Che spettacolo; chissà se là dove le onde dell’Oceano Atlantico si infrangono contro quelle del Pacifico si respiri un’aria diversa, più ispiratrice? Da quanto si carpisce dalle prime note, direi proprio di si. Ragazzi, di nuovo fuori carta e penna perché qui di carne al fuoco c’è n’è molta e non voglio che ancora una volta vi lasciate scappare un cosi ben fatto cd. Partiamo da quello che è il sound di base della compagine sud africana: un ispiratissimo post rock super dilatato sulla scia dei migliori Isis, ma non solo. Il terzetto di Pretoria è riuscito a creare un coinvolgente e avvolgente lavoro che mi fa ben sperare per il futuro prossimo, quando nel 2010 uscirà il secondo capitolo del combo Afrikaans. Se siete degli amanti delle atmosfere psichedeliche alla Isis qui c’è pane per i vostri denti: atmosfere soffuse, squarciate da vetriolici riff di chitarra e corrosive vocals. Si parte con un oscuro post rock che lascia presagire che ben presto qualcosa di interessante accadrà ed è cosi in effetti, perché dopo un avvio abbastanza rilassato, con la comparsa anche di una eterea voce femminile nella terza traccia, il lavoro diventa più aspro e duro con chiari riferimenti di matrice “swedish” (Cult of Luna su tutti, ma anche qualche giro di chitarra di Meshuggahiana memoria). Intrigante, pachidermico, misterioso, disperato, “Which I Hope to Live For” ci consegna una band davvero capace, in grado di stupirci con trovate interessanti (alcune parti tribali di batteria) e da assaporare assolutamente tutto di un fiato in cuffia in una stanza completamente buia. Emozionanti, deprimenti, desolanti, questi sono solo alcuni degli aggettivi che si possono affibbiare alla band dell’emisfero sud, neanche vivessero nella tundra scandinava. In alcuni passaggi si rivelano ancora un po’ acerbi come nella sesta “Nation of Spears”, dove il retaggio hardcore si fa sentire più che in altre parti, ma poi nella seconda parte della traccia ecco la band ritornare ad ammorbarci con le sue visioni da fine del mondo. Doom, psichedelia, post rock, rimandi ai Pink Floyd (ascoltate “You’re Yellow not Golden”), sludge, trip-hop, post-hardcore, tutto questo si ritrova all’interno del sound di questi meravigliosi The Ocean Doesn’t Want Me, vera e propria scoperta di questo autunno infuocato. Geniali… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75