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lunedì 16 luglio 2012

Kommandant - The Draconian Archetype

#PER CHI AMA: Black Industrial, Aborym, Marduk
Ecco l’album che mi sarei aspettato come seguito di “Generator” degli Aborym, ma che in realtà non ha mai visto la luce. È il lavoro dei blacksters americani che rispondono al nome di Kommandant, che approdati alla nostrana, e sempre più attenta ATMF, rilasciano questo secondo lp, intitolato “The Draconian Archetype”, che al sottoscritto è piaciuto un botto. Eh si, come non si può notare la componente industrial black tipica della band italica, traslata nel sound ferale dei nostri? “We are the Angels of Death” apre, sgorgando malvagità, da ogni suo pertugio; la ritmica è quella convulsa e serrata di Fabban e soci, un black convulso, nichilista, contrappuntato da oscure melodie. Il maligno si impossessa subito della mia anima, sbarro gli occhi privati della pupilla e dell’iride. Mi sento un androide catapultato in un futuristico mondo, quello immaginario di Ridley Scott, di “Blade Runner”. Magniloquenti le atmosfere nonostante un riffing scarno e acuminato che mi assale con ferocia, non concedendomi il benché minimo attimo di tregua, con le vocals, screaming, cibernetiche, epiche ed evocative che siano, ad affiancare il selvaggio correre della parte strumentistica. Mostruosi. Annichilenti. Magnetici. Le song spazzano via ogni cosa nel loro terrificante incedere: “Victory Through Intolerance” e la granitica quanto mai ipnotica “Downfall”, mi sconquassano con sommo piacere. “Hate is Strenght” ci avvolge con il suo sound cupo, dato dal fragore martellante di un drumming ossessivo ed enigmatico. Il ritmo si fa sempre più oltranzista con le successive tracce, a botte di blast beats e riff glaciali di scuola norvegese; forse è qui che i nostri rischiano di perdere un po’ della propria brillante verve, dimostrata sinora. Niente paura, perché con “Call of the Void”, torna l’anima più spettrale, al contempo spietata, dei Kommandant. Mi piacciono, lo ribadisco senza alcun timore. Sicuramente non condivido la decisione di affrontare tematiche che puzzano lontano un miglio di ideologie politiche estremiste, tuttavia “The Draconian Archetype” merita decisamente un vostro attento ascolto. Militareschi! (Francesco Scarci)

(ATMF)
Voto: 75

mercoledì 11 luglio 2012

Bilocate - Summoning the Bygones

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth, Death, Orphaned Land
VIII sec. A.C., nascono i primi insediamenti a Petra, antica capitale dei Nabatei, localizzata nella regione giordana dell’Edon. Città assai misteriosa, fu abbandonata in seguito alla decadenza dei commerci e ad una serie di catastrofi naturali, e, benché le antiche cavità abbiano ospitato famiglie beduine fino ad anni recenti, fu in un certo senso dimenticata fino all'epoca moderna. Da queste parti, nascono anche i Bilocate, formazione techno prog death di Amman, che dopo aver rilasciato un album con la Kolony Records, ha messo a segno un altro colpo vincente con la release del terzo lavoro, “Summoning the Bygones”, con la Code 666. La proposta fantasiosa di questo nuovo cd, arricchisce di gran lungo il già brillante predecessore, ammorbidendo leggermente i toni, in favore di una ricerca a dir poco notevole, di splendide melodie mediorientaleggianti, dando assai spazio ad una tecnica, mai fine a se stessa e sfruttando atmosfere etnico/tribali. Per certi versi accostabili alle sonorità degli Orphaned Land, per altri ai Death di “The Sounds of Perseverance”, per tecnica ai Dream Theather, per idee agli Opeth, per cattiveria agli Edge of Sanity, a cui prendono in prestito anche il vocalist, il mitico Dan Swano che in un paio di song, “Hypia” e “A Desire to Leave”, ci delizia con la sua suadente voce; e poi ancora, il progressive dei Porcupine Tree si mischia a sonorità gotiche o doom, come nell’oscura “Passage” o nella cover, peraltro suonata egregiamente, di “Dead Emotion” dei Paradise Lost. “Summoning the Bygones” è quello che si suol dire un signor album che ha l’assoluto divieto di passare inosservato, grazie all’eccezionale bravura dei suoi musicisti, nel proporre pezzi aggressivi, altri più decadenti, che magari rischiano di rifarsi alla tradizione svedese dei Draconian, come proprio la già citata “Hypia”, dove vi sembrerà di ascoltare una song dei Nightingale, abbandonando quindi gli umori molto più brutal della prima parte del disco. A chiudere l’album, una vera bomba, torno a sottolinearlo, ci pensa una lunga suite di venti minuti, suddivisa in tre capitoli, dove ancora una volta fa capolino il buon vecchio Dan a contrapporsi al velenoso growl di Ramzi e dove i nostri si dilettano con splendide linee di chitarra orientaleggianti, eccellenti melodie e tanta, tanta classe. Ottimo comeback, da avere a tutti i costi! (Francesco Scarci)

(Code 666)
Voto: 85
 

Waves of Mercury - The Letter

#PER CHI AMA: Rock Gothic
Ecco che questi due ragazzotti di Minneapolis escono con "The Letter", secondo lavoro dopo "The Great Darkness". Devo dire che sono andato ad ascoltare qualche pezzo di quest'ultimo e il cambio di genere è forte. "The Great Darkness" è puro progressive metal/rock mentre il nuovo lavoro lascia l'utilizzo delle distorsioni e si concentra sulle sonorità pulite della chitarra. Diciamo che la struttura musicale è rimasta invariata, ma in questo modo i Waves of Mercury hanno probabilmente voluto fare un album più riflessivo e magari raggiungere anche quei timpani che disdegnano la distorsione manco fosse il diavolo impersona che satura le valvole... Personalmente considero queste tredici tracce delle piccole gemme incastonate a dovere in una corona in stile gotico, semplice ma di sostanza. Il vocalist ha una timbrica personale, non brilla in fatto di estensione, ma calza a pennello in questo contesto, dando profondità alle canzoni ed evitando inutili raffinatezze. Ottimi anche i fraseggi di chitarra che sono eseguiti ad opera d'arte, giocano sull'emotività e lasciano perdere l'effettistica. In questo modo l'ascoltatore si concentra maggiormente sulle sensazioni e lo pone davanti al musicista, senza nessun filtro tra i due. Una tale Michelle ci delizia della sua voce in "Old Man and the Sea" e " Let me Fall" e alleggerisce l'album, dando luce e spazio alla musicalità solida dei Waves of Mercury. Mi sento di premiare questi ragazzotti, che piaccia oppure no il genere, loro ci mettono l' impegno, la voglia di mettersi in gioco ed evolversi, senza comunque perdere l'identità acquisita negli anni. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 70 
 

The Ocean Doesn't Want Me - As the Dust Settles

#PER CHI AMA: Post, Sludge, Alchemist, Neurosis
Caspita, mi sto avvicinando, lentamente ma sempre più, alla possibilità di avere la copia numero 1 di un cd, chissà se mai ce la farò; nel frattempo mi “accontento” di avere la 004/100, packaging limitato di lusso con i testi stampati su cartoncini con splendide foto, che assomigliano più ad un invito a nozze che al booklet di un cd. A parte questi particolari estetici, torno ad un vecchio amore che mi aveva conquistato con il proprio sound nel loro primo cd e per una band che mi aveva incuriosito parecchio anche per la propria provenienza (Pretoria – capitale del Sud Africa). In realtà il trio sud africano, proponeva un post metal di derivazione statunitense, con Neurosis e Isis, quale maggior fonte di ispirazione. Con questo secondo capitolo, le carte in tavola sembrano un po’ cambiare. La proposta dei nostri, pur rimanendo in territori post, sembra trarre ispirazione invece da una tradizione più tribaleggiante, mi verrebbe da dire quasi aborigena, anche se con l’Australia i nostri hanno ben poco da fare, se non per una questione di latitudine. I suoni si sono fatti decisamente più ostici; pur mantenendo l’ossatura di base all’insegna di post rock, psichedelia, sludge, sembra quasi che il sound si sia imbastardito e brutalizzato, anche se l’inizio di “Roots Point the Way” suona molto etereo. Ma ecco subentrare i tribalismi, con “Van Eyck”, suoni animistici mossi dalla natura, dal fragore di un tuono, dal bagliore di un fulmine o dall’infrangersi delle onde sulle coste. Non c’è linearità nella proposta dei nostri che con 7 lunghe song, sfiorano i 70 minuti. Pesanti, claustrofobici, brutali (anche le vocals sono diventate più growl, quasi a ricordarmi il vocalist degli Alchemist), “Dune Movement”, song lunghissima e splendida, mi fa immaginare l’effetto che ha il vento nel modellare le alte dune dei deserti del sud, in quella che è una mistica e vorticosa danza della sabbia. Decisamente i suoni qui contenuti non sono convenzionali e per questo molto più difficili da digerire, pertanto vi consiglio molti ascolti per riuscire ad assimilare ed apprezzare al meglio “As the Dust Settles”. Frastornanti, non c’è che dire. L’effetto che ne esce è un che di completamente disorientante, mai un punto fisso, mai una certezza nell’ascolto delle tracce qui contenute, si viaggia in territori cosi sconfinati che ben presto si rischia di perderne il filo. Non riesco ancora a capire se questo sia un bene o un male, quel che è certo è che la proposta dei TODWM ha un che di unico, malato ed estremamente originale, e forse per questo fatico più del solito ad assimilarne i contenuti. “This Castle Stands Alone” è forse il pezzo più convenzionale, per quanto poco sia possibile, dei sette, dove fa anche la sua apparizione una voce pulita, ma dove le chitarre tracciano comunque linee totalmente stralunate, senza mai eccedere in fatto di brutalità, anzi trovando il modo di esplorare territori decisamente più acustici ed intimistici. Splendida. Una specie di nenia introduce “Property Line”, abbinandosi a suoni che sembrano arrivare da Marte. Ancora una volta mi viene da associare il suono dei TODWM a quello spaziale degli Alchemist di Camberra, che maggiormente si avvicina per originalità, stravaganza e brutalità (ascoltare “Millais” per capire) a quello del nostro terzetto. Assurdi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80 
 

Blood Red Water - Tales of Addiction and Despair

#PER CHI AMA: Sludge/Doom, Electric Wizard, Eyehategod, Cathedral
Ah, io li conosco codesti personaggi! Dovevo perfino andarci a suonare il basso, solo che essendo senza il vile denaro non sono riuscito a seguirli. Nonostante questo mio quasi avvicinamento alla band, i nostri non possono sfuggire alla mia crudeltà. Vengono dalla “Laguna” e con il loro sludge/doom metal emergono dalle limpide acque di Marghera per portarci in lidi oscuri e poco rassicuranti. L'Ep “Tales Of Addiction and Despair” si apre, con la traccia da me preferita, “Ungod”, la composizione più doom ed ispirata da quel bel film che è Begotten. “Considerations/Commiserations” non si sente neanche. E' un piccolo sguardo sul lavoro dei Blood Red Water, uno scorcio del disco, una parentesi che racchiude ciò che la band propone. Con “Avoid the Relapse” passiamo a territori più vicini al groove dei Cathedral. Nonostante il simpatico ritmo, la canzone è piatta come le putride acque fuori dalla loro sala prove. Ma non preoccupatevi miei cari lettori, la seconda parte dell'Ep ospita due tracce degne. “Modern Slave Blues” è veramente ben strutturata e la ritengo la traccia più riuscita della pubblicazione. In chiusura troviamo “The Perfect Mix”, altra song valida che apprezzo e che spero sia il punto di partenza per una piccola revisione in futuro del sound dei Blood Red Water. Dopo questo veloce sguardo sul disco veniamo alle conclusioni però. Allora, non si può certo dire che questo debutto dei cari “Acqua Rosso Sangue” sia un lavoro inetto e superficiale, ma neppure un qualcosa al di sopra della media. È ancora qualcosa di embrionale ed acerbo, che ha bisogno di maturare con calma e diventare finalmente marcio. Innanzi tutto la registrazione. Le chitarre e il basso meritano una dose maggiore di “pesantume”, il sound è ottimo ma l'impatto è discreto. La batteria è fin troppo minuta e riesce a farsi notare solo nelle alte frequenze. Ed è proprio la batteria a essere la pecca principale della pubblicazione, i pattern nonostante siano originali ed apprezzabili, sono danneggiati essenzialmente da due fattori: il charleston troppo aperto e la quasi completa esclusione dei tom che porta a troppi passaggi di rullante. Le chitarre anche se leggere, di effettistica riescono comunque ad immergerci nelle più malevole e sporche sensazioni, in coppia con la voce che, riesce ad esprimere eccellentemente tutto il malessere spostandosi da un canto grezzo ed infervorato a voci più esauste. Insomma, da dirvi ho solo che dovete supportarli perché con le giuste sistematine, i cinque fanciulli provenienti dalle paludi veneziane, potrebbero conquistarvi. (Kent)

(Self)
Voto: 60
 

Zuriaake - Winter Mirage

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum
Li abbiamo scoperti un paio di mesi fa con il loro primo album “Afterimage of Autumn”; li ritroviamo oggi con un EP di 2 pezzi, che in realtà non è altro che una re-release uscita nel gennaio 2012, del bonus cd della versione limitata del primo lavoro. Eccoli i cinesi Zuriaake e il loro black di chiara matrice “burzumiana”. Apre la title track, che con i suoi sette minuti torna a riportare in auge i suoni lenti, soffocanti e al contempo gelidi di “Hvys Lyset Tar Oss” del buon vecchio Varg Vikernes. Gli stilemi del genere sono sempre gli stessi: chitarre graffianti, zanzarose e poi le classiche keyboards che rimbombano minacciose nel sound mortifero del terzetto di Ji'nan. Mistici senza dubbio, ma alla fine un po’ troppo uguali all’originale. “Valley of Loneness” ha invece una presa alquanto differente: pur mantenendo la struttura del black ambient norvegese, presenta una chitarra un po’ più robusta, suoni meno compassati, una maggiore verve in chiave sia strumentale che musicale. Parliamoci chiaro, niente di trascendentale; queste 2 tracce integrano semplicemente le altre song del precedente lavoro. Ora mi attendo decisamente qualcosa di più concreto e in grado di mostrare una certa maturazione da parte del trio cinese. (Francesco Scarci)

(Pest Productions)
Voto: 60


La band in questione arriva dalla Cina e precisamente da Ji'nan, Shandong province ed è attiva dal 1998. L'album di casa Pest Production è l'ultima delle loro fatiche che consiste in due cd e questo EP composto da due lunghi brani (il cd è datato 2012 anche se i brani sono stati registrati e mixati nell 2007 al tempo del secondo full lenght “Afterimage of Autumn") molto suggestivi ed evocativi di “black metal” caratterizzato da atmosfere cupe e molto melodiche giocate sulla falsa riga del più radicale “black svedese” ma arricchite sullo sfondo di sonorità vicine alla musica folklorica cinese. Attenzione però, non pensiate alla solita cozzaglia di brani metal e folk equamente divisi a metà con ponte floscio folk e cavalcata, niente di tutto ciò, qui troverete due brani violentissimi e dalle atmosfere profondamente “nordiche” virate da un retro gusto geniale e ben calibrato tutto dagli occhi a mandorla. Il primo brano dal titolo tradotto in inglese dal cinese in “Winter Mirage”, parte con una cadenza lenta e ferale per poi aprirsi immediatamente a sferzanti “screaming” molto ad effetto (gli screaming sono strepitosi!), l'incedere è lento e glaciale e la voce veramente bella e diabolica scivola lentamente in un baratro senza fine sorretta da accenni di tastiera che stendono un tappeto tanto “nero” e astratto quanto sulfureo. In realtà è l'effetto globale del brano che stupisce per forza d'espressione e quel clima estraneo e rarefatto, tipico delle lande cinesi è straordinario. La forza evocativa/meditativa del secondo brano intitolato “Valley of Loneness” è una pioggia di emozioni soprattutto e insisto, nelle tastiere e negli effetti d'ambiente, che portano l'ascoltatore ad entrare in un tristissimo oscuro giardino orientale. L'effetto che si prova è quello di ascoltare le bordate taglienti di Carpathian Forest e Dark Funeral unite alle atmosfere di Alcest ma con più oscura e orientale freddezza senza inutili romanticismi. Potremmo infine avanzare l'ipotesi che se i Zuriaake non fossero cinesi ma francesi, qualche band transalpina dell'ultima ora non dormirebbe sogni tranquilli. Consigliatissimi! (Bob Stoner)

(Pest Productions)
Voto:75

lunedì 9 luglio 2012

Eternal Samhain - Obscuritatis Principium

#PER CHI AMA: Black Gothic, Cradle of Filth
Vedo percolare, al lume di una nera candela, da una malsana e demoniaca stigmata, impressa su una mano di Gloria, lente, calde, rosse gocce di densa ceralacca a sigillare un occulto, dannato, oscuro, tesoro. Si fondono, piano, senza fretta alcuna. Vi vedo imprimere un pentacolare sigillo con elementi terra e fuoco puntati verso l'alto, per celebrarli e lo spirito, dannato e consacrato al male, puntare verso il basso, addirittura sorvegliato e tenuto sotto scacco, da due famelici mastini. Non so quale famelica entità si sia scatenata nel momento stesso in cui ho osato spezzare quel sigillo: quando l'ho fatto, la luce, che fino ad un istante prima mi circondava è, per un attimo, quasi venuta a mancare, sopraffatta, succube delle tenebre. Mi avventuro in questo iniziatico percorso in cinque tappe e comincio ad assaporarne, ad apprenderne, il primo dei cinque arcani segreti che con Fatima, nulla hanno a che fare. M'incammino, accompagnato da logoranti note di tastiera, sul sentiero di "Ante Lucem" che mi introduce in questo sacrilego rituale. Avverto la melodia di "Black Frame" esplodere con l'avvento di chitarre distorte e batteria. Incontro in questa mia crepuscolare incursione, un vecchio saggio. Piegato dal tempo sul suo nodoso bastone, vestito di stracci, in preda al delirium tremens, cieco, del tutto privo degli occhi, maleodorante per suppuranti ferite, mi allunga la sua rachitica mano. M'invita a seguirlo. Sarà lui la mia guida: comincia a conversare in quel suo magnifico growl cavernoso, sembra il canto di un vulcano ma è la sua voce naturale, non avverto infatti sforzo alcuno o un'autoimposta forzatura. Ottima prova quindi, quella del vocalist. Crescendi di batteria, oculati e sapienti accenti di piatto, molte gustose galoppate di doppio pedale, accompagnate da deliziosi soli di chitarra, rendono quest'opener una perla. Sono decisamente soddisfatto. Chissà cos'altro m'attende... continuo a camminare seguendo questo mio nuovo amico che già si è conquistato la mia fiducia e lui m'illustra, con la sua parlantina sempre più spigliata e veloce, le meraviglie della dannazione con "Vas Damnationis", un vero e proprio incantesimo musicale da cui resto immediatamente folgorato: un po’ come S. Paolo sulla via per Damasco, solo che qui si tratta di me sulla via della dannazione, strada che non ho mai smesso, né mai avuto intenzione di abbandonare o paura di calcare. È questa musica, quest'armonia, questo sconsacrato ambiente naturale di cui da sempre sono famelico e che assolutamente non potrò mai, mai farmi mancare. È come una sorta di perversa, erotica eccitazione: ogni volta che ne assaggio, ne vorrei sempre di più, ancora, ancora e ancora... Le melodie si fanno più selvagge, s'inviperiscono: non vedo più corde su quelle chitarre, sbiadiscono lasciando il posto a venefiche serpi che s'aggrovigliano, sibilano sempre più inacidite e ad ogni successiva plettrata, cercan di morder le dita di chi suona, senza riuscirvi mai. Troppo veloci, troppo precisi quei movimenti. Giungo nei pressi di un lago dalle calme acque. Sembrano immobili. Su di esse, si riflette maestosa la luna che su questa levigata superficie scivola, sembra disegnare. Il suo incedere sicuro, come la sfera di una biro, allunga la sua falce. S'illumina sempre più, sempre più pronta a mietere vittime. Dapprima non odo alcun suono. Poi, al suo centro, su di un levigato sperone roccioso, accarezzato dalle nebbie e che per questo scorgo solo a tratti, intravedo una figura. È una magnifica ninfa. Con la sua arpa m'introduce alle peccaminose note di "Sinful In Every Choice". È di così bell'aspetto che ne resto fin da subito ammaliato. Quali indicibili pensieri sfiorano la mia mente drogata da quelle ipnotiche, sinergiche e velocissime tastiere. Mi trascinano nel più largo, profondo e potente dei Maelstrom. Pause cadenzate valorizzano ritmiche metronomicamente perfette che scandiscono quest'armonia giocosa, guizzante che riesce pian piano a perturbare, quella calma piatta che da tempi remoti e fino ad un istante prima, regnava in quei luoghi. Il mio viaggio, purtroppo, e spero solo per ora, si conclude con la title track "Obscuritatis Principium", un ricettacolo di tutti gli ingredienti visti finora, una degna chiusura di un seppur breve ma magnifico sogno dal quale non vorrei svegliarmi mai. Sono le ultime parole di quel mio curioso compagno di ventura, a chiudere questo mio viaggio spirituale che non poteva concludersi senza una decisiva maledizione. Dopo essere stato infatti fin da subito e per tutto il tempo gentile con me, dopo essersi conquistato la mia fiducia, ed avermi fatto desiderare ardentemente quella dolce ninfa, si gira di scatto, mi guarda con quelle due sue orbite nere, profonde e... vuote. Sprofondandosi lentamente nel terreno, ricongiungendosi agli inferi dai quali era venuto al mondo, mi maledice in eterno con codeste parole: "Obscuritatis Principum Proxima Est Omnibus Damnatio Damnatio Damnatio Damnatio". (Rudi Remelli)

(Self)
Voto: 80
 

venerdì 6 luglio 2012

Devotion. - Sweet Party

#PER CHI AMA: Post-HC, Nu Metal, Deftones
Anche se non sono per niente un amante di codeste sonorità, con i Devotion mi trovo davanti un'opera dove è impossibile non riconescere la pregiata fattura del debut album della band vicentina. Il sound è moderno ed imponente, ma è la voce la vera protagonista di questa release. Potente ma allo stesso tempo delicata, riesce a catturare l'ascoltatore grazie alle sue parti pulite alternate a degli scream più vicini all'hardcore.Il primo impatto è un'ondata sonora degna di considerazione, che perfino io riesco ad apprezzare. Il disco presenta delle tracce incisive e registrate con grande cura; la formula dei nostri è chiara: un mix di suoni candidi, momenti screamo e passaggi pressochè omogenei, livellati da un'aria melodica e sdolcinata. Si nota durante tutto il disco quell'atmosfera pop/catchy che abbraccia ogni passaggio dell'album, dalle parti più post-HC a quelle più tendenti al nu metal, riuscendo nell’intento di amalgamarle perfettamente. Del resto la produzione è perfetta, eseguita da Shaun Lopez, e credo che anche a voi, al primo ascolto di quest'opera, avrete pensato "i suoni mi ricordano tanto i..." rivolgendovi a una di quelle migliaia di band della NWOAHM nate tra i '90 ed i primi '00. Purtroppo non posso neanche dilungarmi sui difetti, perchè non ce ne sono di così rilevanti, a parte il peso di aver un disco da meno di 30 minuti. (Kent)

(Bagana Records)
Voto: 75

giovedì 5 luglio 2012

Ogen - Black Metal Unbound

#PER CHI AMA: Black/Thrash, Gehenna, Dimmu Borgir, Old Man's Child
Respiro l’aria, sembra quella che imperversa le gelide foreste norvegesi; l’atmosfera palpabile è quella tipica degli act nordici, quali Ancient, Gehenna o dei primissimi Dimmu Borgir. In realtà però non ci troviamo poi cosi tanto lontani dalle mie due città, Verona e quella d’adozione, Como. Gli Ogen sono infatti originari di Brescia e propongono questo black metal controllato, a tratti epico e atmosferico, che ci riconduce alle sonorità di metà anni ’90, proponendo un riffing glaciale, ronzante, che spesso si spinge in territori thrash, un po’ sulla scia degli Old Man’s Child, mentre talvolta va alla ricerca di una ritmica più articolata, quasi di scuola svedese (mi vengono in mente gli Opeth di “Morningrise”), ad esempio ascoltando la terza “Crest of the Forgotten”, che propina questo mix di black thrash old school. Niente male, anche se la classica frase del “già sentito”, può emergere più volte nell’arco di questo EP di cinque pezzi, come capiterà inevitabilmente anche a voi, durante l’ascolto della quarta “As a Leaden Sun Shineth Upon”, la cui sezione ritmica rischia di essere un po’ troppo thrashettona e scontata. A tirare su un po’ l’andamento della song, ci pensa però l’utilizzo di clean vocals che donano un attimo di quiete, alla tempesta che infuria. La conclusiva “A Sleep Slope to Desolation” ancora una volta affascina per l’utilizzo di vocalizzi che sanno quasi di shoegaze, che si affacciano tiepidamente, nel mezzo di uno screaming maligno e una ritmica selvaggia. Torvi. (Francesco Scarci)

(Kolony Records)
Voto: 70